ISSN 2039 - 6937  Registrata presso il Tribunale di Catania
Anno XVI - n. 09 - Settembre 2024

  Giurisprudenza Amministrativa delle Corti Supreme
  A cura di Anna Laura Rum



L’Adunanza Plenaria si esprime sulla disciplina giuridica applicabile alle opere parzialmente eseguite in virtù di un titolo edilizio decaduto e che non siano state oggetto di intervento di completamento in virtù di un nuovo titolo edilizio.

Di Anna Laura Rum
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NOTA A CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, 30 LUGLIO 2024, N. 14

 

L’Adunanza Plenaria si esprime sulla disciplina giuridica applicabile alle opere parzialmente eseguite in virtù di un titolo edilizio decaduto e che non siano state oggetto di intervento di completamento in virtù di un nuovo titolo edilizio.

 

Di Anna Laura Rum

 

Sommario: 1, I fatti di causa 2. Le argomentazioni dell’Adunanza Plenaria 3. I principi di diritto

 

1, I fatti di causa

I fatti di causa hanno ad oggetto il rilascio di un permesso di costruire per la realizzazione di un’autorimessa interrata; a seguito di un esposto, poi, è stata avviata un’indagine penale che è sfociata in una sentenza di condanna dei commissari ad acta che avevano rilasciato il permesso di costruire, del rappresentante legale della società richiedente e del proprietario dell’area; a seguire, la Corte d’Appello, nel confermare la condanna di alcuni degli imputati, ha accertato l’illegittimità del permesso a costruire per violazione del P.U.T., del P.R.G., del P.U.C. e del Regolamento comunale di attuazione per la realizzazione dei parcheggi, precisando che secondo le previsioni del P.U.T. nella zona oggetto di intervento potevano essere realizzati soltanto interventi pubblici.

Quindi, il Comune ha notificato al proprietario del fondo e all’impresa esecutrice il provvedimento di presa d’atto della decadenza del permesso di costruire suddetto, per lo spirare del termine di ultimazione dei lavori.

Il WWF Italia ha dapprima sollecitato il Comune alla definizione del procedimento repressivo ed ha poi contestato il silenzio del Comune con un ricorso proposto al TAR che, con sentenza lo ha accolto ordinando all’Amministrazione di provvedere nel termine di trenta giorni.

Nel frattempo l’originario istante ha sottoposto al Comune un nuovo progetto relativo alla realizzazione di un’attrezzatura di interesse pubblico in regime di convenzione urbanistica, da realizzarsi sull’area in questione, comprensivo di lavori di parziale ripristino dell’area; il Comune, ha tuttavia respinto l’istanza ordinando, ai sensi dell’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001, il ripristino dello stato dei luoghi per come risultante in via antecedente all’esecuzione delle opere parzialmente eseguite in forza dell’illegittimo permesso di costruire.

Il Comune, ancora, dopo aver rilevato che vi era stato l’avvio del procedimento di ripristino dello stato dei luoghi, ha ritenuto che la decadenza del permesso di costruire assorbe ogni immediata valutazione in ordine alla legittimità del permesso di costruire, precisando che tale atto non è stato emesso dagli organi Comunali competenti, ma da commissari ad acta, nominati dell’Amministrazione Provinciale.

Tale provvedimento è stato impugnato innanzi al T.A.R.

Nelle more del giudizio, il Comune ha respinto altra istanza di permesso di costruire e con ordinanza ha accertato l’inottemperanza all’ordine di riduzione in pristino e ha disposto l’acquisizione gratuita del fondo al proprio patrimonio; l’ordinanza è stata impugnata.

Il T.A.R. con sentenza ha riunito i ricorsi, ha dichiarato in parte improcedibile il ricorso, lo ha, per il resto, respinto, ed ha altresì respinto i motivi aggiunti e l’altro ricorso proposto, ritenendo che quando i lavori edilizi non sono stati ultimati, in linea di principio la decadenza del permesso di costruire riguarda per intero i suoi effetti, salvo il caso in cui sia consentito ‘ultimare’ l’edificio; l’ammettere che a seguito della decadenza possano in ogni caso restare in loco le ‘opere incompiute’ significherebbe riconoscere che il titolare del permesso di costruire avrebbe il ‘diritto di non completare l’opera’ e di lasciarla incompiuta e funzionalmente non autonoma, con ingiustificato deturpamento del contesto circostante.

Nel caso in questione, il T.A.R. ha rilevato come le opere realizzate in esecuzione del permesso poi decaduto risultino sicuramente incompatibili con la disciplina giuridica dell’area e comunque neppure siano conformi a quelle formalmente assentite; il T.A.R. ha quindi concluso per la legittimità dell’ordinanza di ripristino dell’originario stato dei luoghi, mediante eliminazione degli sbancamenti di terra, dei pali – ivi collocati – “di fondazione trivellati completi anche del getto di conglomerato cementizio”, dello sterro dell’impianto vegetale del fondo e di quant’altro posto in essere in via prodromica all’edificazione, rimasti ormai privi di finalizzazione.

Avverso tale sentenza sono stati proposti separati appelli.

Con la sentenza non definitiva del 7 marzo 2024, la Sezione Seconda:

(i) ha riunito i due appelli ai sensi dell’art. 96, comma 1, c.p.a.;

(ii) ha dichiarato inammissibile il primo motivo di appello proposto dal proprietario, con riferimento all’ordine di ripristino, perché tale atto non è stato impugnato in primo grado;

(iii) ha ritenuto irrilevanti le questioni relative alla legittimità del permesso di costruire, tenuto conto che l’ordine di ripristino era stato adottato in conseguenza della decadenza del titolo abilitativo;

(iv) quanto all’appello della società, ha respinto l’impugnazione avverso la declaratoria di improcedibilità del ricorso avverso il diniego di rinvio della conferenza di servizi; quanto alle questioni relative al permesso di costruire, ha ribadito che l’ordine di ripristino era stato adottato in conseguenza della decadenza disposta con atto del 22 novembre 2016, non impugnato;

(v) ha quindi posto all’esame dell’Adunanza Plenaria il seguente quesito: “quale sia la disciplina giuridica applicabile alle opere parzialmente eseguite in virtù di un titolo edilizio decaduto e che non siano state oggetto di intervento di completamento in virtù di un nuovo titolo edilizio”.

 

2. Le argomentazioni dell’Adunanza Plenaria

L’Adunanza Plenaria, preliminarmente, rileva come la fattispecie in questione sia del tutto peculiare, così ripercorrendola:

- il Comune ha rilasciato il permesso di costruire per la realizzazione di una autorimessa interrata;

- i lavori hanno avuto inizio, ma sono stati poco dopo sospesi in seguito alle indagini penali seguite dalla sentenza penale ormai irrevocabile;

- con provvedimento, il Comune non ha annullato l’originario permesso di costruire, ma ne ha dichiarato la decadenza per mancata ultimazione dei lavori, rilevando inoltre come la sentenza penale abbia accertato che le opere erano state assentite in contrasto con la normativa urbanistica e quella paesaggistica;

- le parti interessate hanno presentato due diversi progetti, che sono stati seguiti da dinieghi, poiché nella zona sono ammessi solo interventi edificatori di iniziativa pubblica;

- con nuovo provvedimento, il Comune ha ordinato in base all’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001 “il ripristino dello stato dei luoghi per come risultante in via antecedente all’esecuzione delle opere parzialmente eseguite in forza del permesso di costruire illegittimo”;

- a tale atto ha fatto seguito ordinanza di acquisizione dell’intera particella al patrimonio comunale.

Il TAR ha ritenuto legittime l’ordinanza ex art. 31 d.P.R. n. 380 del 2001 e la successiva ordinanza di acquisizione dell’intera particella.

La Seconda Sezione, dovendo pronunciarsi su questo specifico aspetto, ha richiamato i principi desumibili dalla giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, richiamati dalle due parti appellanti ed in precedenza indicati, secondo cui le opere eseguite sulla base di un efficace titolo edilizio non possono essere oggetto di ordine di demolizione ex art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001, che riguarda le opere eseguite abusivamente, sicché - data la tassatività delle norme sanzionatorie - tale previsione non potrebbe essere estesa a fattispecie non espressamente contemplate.

La Plenaria, quindi, riprende le ulteriori riflessioni svolte dalla Seconda Sezione nella sentenza non definitiva, ovvero che:

- l’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001 ha previsto per gli “interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire” l’ingiunzione alla rimozione o alla demolizione; l’art. 38 dello stesso testo unico ha previsto, nel caso di “interventi eseguiti in base a permesso di costruire, poi annullato”, la possibilità che in luogo dell’ingiunzione a demolire possa essere applicata dall’Amministrazione una sanzione pecuniaria che quindi lasci salve le opere;

- il Consiglio di Stato (cfr. ad es. sent. n. 6753/2018 della Sez. VI) ha evidenziato che l’art. 38 del d.P.R. n. 380 del 2001 si ispira ad un principio di tutela degli interessi del privato, mirando ad introdurre un regime sanzionatorio più mite proprio per le opere edilizie conformi ad un titolo abilitativo successivamente rimosso, rispetto ad altri interventi abusivi eseguiti sin dall’origine in assenza di titolo, sì da ottenere la conservazione del bene (cfr. ex multis Consiglio di Stato Sez. VI, sent. n. 2155/2018).

Ancora, la Plenaria evidenzia che la Sezione Seconda ha ritenuto che “striderebbe con i principi ritraibili dall’esame comparativo di tali norme un’applicazione estensiva della più grave sanzione demolitoria ex art.31 del T.U. prima citato, in una fattispecie di opere eseguite in conformità ad un titolo (nemmeno rimosso ma semplicemente) decaduto”.

Inoltre, il Collegio nota che la Sezione remittente – pur rilevando come l’orientamento del TAR sia ragionevole - si è posta la questione se la disciplina vigente consenta all’Amministrazione di ordinare la demolizione delle opere parzialmente eseguite, non completate per l’assenza di un nuovo titolo (come nel caso in questione, in cui l’impresa promissaria acquirente si è vista respingere per due volte l’istanza di completamento, con atti cui ha prestato acquiescenza). La Seconda Sezione ha, infatti, rilevato che le opere parzialmente realizzate potrebbero essere qualificate come un ‘manufatto difforme’ da quanto autorizzato, e pertanto se ne potrebbe ordinare la demolizione.

Ripercorso sommariamente l’iter argomentativo della Seconda Sezione, l’Adunanza Plenaria illustra, in primo luogo, la disciplina normativa relativa alla questione.

L’art. 15 del testo unico approvato con il d.P.R. n. 380 del 2001, dispone che “1.    Nel permesso di costruire sono indicati i termini di inizio e di ultimazione dei lavori. 2.    Salvo quanto previsto dal quarto periodo, il termine per l'inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno dal rilascio del titolo; quello di ultimazione, entro il quale l'opera deve essere completata, non può superare tre anni dall'inizio dei lavori. Decorsi tali termini il permesso decade di diritto per la parte non eseguita, tranne che, anteriormente alla scadenza, venga richiesta una proroga. La proroga può essere accordata, con provvedimento motivato, per fatti sopravvenuti, estranei alla volontà del titolare del permesso, oppure in considerazione della mole dell'opera da realizzare, delle sue particolari caratteristiche tecnico-costruttive, o di difficoltà tecnico-esecutive emerse successivamente all'inizio dei lavori, ovvero quando si tratti di opere pubbliche il cui finanziamento sia previsto in più esercizi finanziari. Per gli interventi realizzati in forza di un titolo abilitativo rilasciato ai sensi dell'articolo 12 del decreto legislativo 29 dicembre 2003, n. 387, il termine per l'inizio dei lavori è fissato in tre anni dal rilascio del titolo. 3.    La realizzazione della parte dell'intervento non ultimata nel termine stabilito è subordinata al rilascio di nuovo permesso per le opere ancora da eseguire, salvo che le stesse non rientrino tra quelle realizzabili mediante segnalazione certificata di inizio attività ai sensi dell'articolo 22. Si procede altresì, ove necessario, al ricalcolo del contributo di costruzione”.

Quindi, la Plenaria conclude che l’art. 15 prevede l’efficacia temporale del titolo e la sua decadenza qualora le opere non siano state ultimate entro il termine ivi previsto (3 anni) e osserva che l’indicazione dei termini nel titolo abilitativo trova la sua ragione nella necessità di avere una certezza temporale riguardo le attività di trasformazione urbanistico edilizia del territorio, che per propria natura è frazionata nel tempo, al fine di impedire che l’eventuale modifica delle previsioni pianificatorie possa essere condizionata senza limiti temporali da antecedenti permessi di costruire.

Il Collegio, ancora, osserva che il legislatore ha previsto la possibilità per l’interessato di richiedere e di ottenere la proroga del termine prima della scadenza del permesso di costruire, così evitando la decadenza, ed ha anche stabilito che, in caso di decadenza, l’interessato possa richiedere un nuovo permesso di costruire per il completamento delle opere, sempreché quelle mancanti non possano realizzarsi ai sensi dell’art. 22 dello stesso testo unico (in quanto soggette a s.c.i.a.).

La Plenaria osserva che, in base al principio del tempus regit actum, il nuovo permesso di costruire presuppone la compatibilità delle opere da realizzare con la disciplina urbanistica vigente al momento del suo rilascio: riprendendo il precedente della Sezione Quarta (Cons. Stato, Sez. IV, n. 3283/2017), ricorda che l’efficacia del permesso di costruire decade, infatti, con l’entrata in vigore di contrastanti previsioni urbanistiche; nondimeno, il comma 4 dell’art. 15 ha introdotto una deroga al principio di decadenza, nel caso dei lavori assentiti dal permesso di costruire, già cominciati e completati entro il termine di tre anni dalla data del loro inizio.

La Plenaria osserva come il legislatore abbia operato un bilanciamento tra la tutela dell’affidamento del privato al completamento dell’opera in fase di realizzazione sulla base di un permesso di costruire, il principio di conservazione e quello di proporzionalità, al fine di evitare la distruzione di ricchezza conseguente all’abbandono di progetti in avanzato stato di attuazione, conservando, comunque, la vigilanza sull’attività di edificazione attraverso la previsione del limite temporale triennale, pari a quello di durata dell’efficacia del permesso di costruire.

Ai principi di conservazione e di affidamento, prosegue la Plenaria, si ispirano anche gli artt. 36 e 38 del testo unico, il primo dei quali (sull’accertamento di conformità) prevede la possibilità – nei limiti ivi contemplati – di sanare gli abusi purché “l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda”; il secondo invece consente, in taluni casi, la conservazione dell’immobile realizzato sulla base di un titolo edilizio successivamente annullato, prevedendo in luogo della demolizione la sanzione pecuniaria.

In particolare, il regime più favorevole stabilito dal legislatore nell’art. 38 cit. (relativo all’annullamento del permesso di costruire che produce effetti ex tunc e, dunque, rende illecite le opere realizzate) rispetto alla decadenza del permesso di costruire (che ha efficacia ex nunc) ha fatto sorgere dubbi alla Sezione remittente circa l’applicabilità dell’art. 31 alle opere realizzate sulla base di un permesso di costruire dichiarato decaduto.

Quindi, la Plenaria afferma che non può essere condivisa la tesi della Sezione remittente, secondo la quale tali opere, eseguite sulla base di un titolo edificatorio legittimo, non potrebbero ritenersi abusive, e dunque non sarebbero passibili di demolizione e di restituzione in pristino. Infatti, l’art. 31 del testo unico si riferisce agli “interventi eseguiti in assenza del permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali” e, al comma 1, dispone che “Sono interventi eseguiti in totale difformità dal permesso di costruire quelli che comportano la realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche plano-volumetriche o di utilizzazione da quello oggetto del permesso stesso”.

La Plenaria osserva che il permesso di costruire è qualificato, in base all’art. 10 del testo unico, come il provvedimento che legittima le trasformazioni urbanistiche ed edilizie ivi individuate (nuove costruzioni, ristrutturazioni urbanistiche ed edilizie nei limiti indicati nella disposizione): la sottoposizione del potere di edificazione al previo rilascio del permesso di costruire assolve alla funzione di consentire che gli interventi edilizi siano realizzati in conformità con la disciplina pianificatoria, contemperando l’interesse privato allo sfruttamento della proprietà con l’interesse pubblico alla regolare trasformazione edilizia ed urbanistica del territorio e, quindi, in definitiva assolve alla funzione di garantire il corretto inserimento del manufatto sul territorio.

Il Collegio, in particolare, specifica che il permesso di costruire non abilita, infatti, il titolare a realizzare qualunque manufatto, ma gli consente l’edificazione di quello specifico fabbricato descritto nel progetto (quanto all’area di sedime, al perimetro, alla sagoma, ai volumi, alle altezze, ecc.); qualunque realizzazione dell’edificio difforme dal progetto, anche se sia ridotta la volumetria o ne siano modificati il perimetro, le sagome e le altezze, comporta una ‘divergenza tra consentito e realizzato’ che in quanto tale – affinché vi sia la ‘regolarità urbanistica’ – o deve essere previamente autorizzata dal Comune o necessita di un atto di ‘accertamento di conformità’, qualora questo sia consentito dall’ordinamento.

Secondo la Plenaria, allora, l’edificazione deve avvenire nel rigoroso rispetto del principio di conformità tra l’opera risultante dal progetto assentito con il permesso di costruire e quella concretamente realizzata: l’art. 31 del testo unico sanziona allo stesso modo le ipotesi di edificazione in assenza del permesso di costruire con le ipotesi dell’edificazione in totale difformità o con variazioni essenziali, provvedendo a disciplinare le singole fattispecie, equiparando la carenza del titolo edificatorio con la totale difformità del bene edificato con quello autorizzato.

La ‘totale difformità’ si verifica non solo in caso di ampliamento non autorizzato, ma anche nel caso di mancato completamento della costruzione e vi sia un aliud pro alio.

Il permesso di costruire consente di realizzare solo l’opera descritta nel progetto e avente caratteristiche fisiche e funzionali ben determinate: l’abuso per totale difformità sussiste nel caso di realizzazione di “un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche e planivolumetriche”.

Ciò è ravvisabile quando il manufatto sia stato parzialmente edificato con il cd. ‘scheletro’ e anche quando sia oggettivamente diverso rispetto a quello progettato, dovendosi un'opera qualificare abusiva per totale difformità ogni qual volta il risultato finale consista in una struttura che non è riferibile a quella assentita.

Nei casi di ‘divergenza tra consentito e realizzato’ rientra il “non finito architettonico”, il quale è ravvisabile quando le opere realizzate sono incomplete strutturalmente e funzionalmente, tanto da far individuare un manufatto diverso da quello autorizzato, oppure quando vi è stata la modifica dello stato dei luoghi con la realizzazione di un quid che neppure consenta di ravvisare un ‘volume’.

Secondo la Plenaria, ne consegue che, contrariamente a quanto dedotto dalle parti appellanti, sussiste il fondamento normativo per disporre la restituzione in pristino - in caso di decadenza del permesso di costruire - qualora siano state eseguite solo opere parziali, non riconducibili al progetto approvato sotto il profilo strutturale e funzionale.

Il Collegio afferma con chiarezza che, se non sono completate, e neppure possono esserle, in quanto non può essere rilasciato un nuovo permesso di costruire, il mancato completamento – e cioè la c.d. opera incompiuta – comporta di per sé un degrado ambientale e paesaggistico: in altri termini, rileva un principio di simmetria, per il quale, così come l’Amministrazione non può di certo rilasciare un permesso per realizzare uno ‘scheletro’ o parte di esso (titolo che di certo non è consentito dalla legislazione vigente) o una struttura di per sé non abitabile per assenza di solai o tamponature, scale o tetto o di elementi portanti, corrispondentemente l’Amministrazione deve ordinare la rimozione dello ‘scheletro’, che risulti esistente in conseguenza della decadenza del permesso di costruire.

Non tutto quanto è stato lecitamente realizzato può dunque essere mantenuto in loco: va rimosso quanto è stato realizzato, in difformità (anche in minus) da quanto è stato assentito.

Prima di delineare più nel dettaglio quando l’incompletezza dell’intervento edificatorio possa integrare la totale difformità ai sensi dell’art. 31 del d.P.R. 380/2001, l’Adunanza Plenaria chiarisce cosa debba intendersi per ‘costruzione’: riprendendo la definizione data dalla giurisprudenza consolidata e ripresa recentemente dalla Sezione Sesta del Consiglio di Stato (Cons. Stato, Sez. VI, 03/04/2024, n. 3031), una ‘costruzione’ è ravvisabile ogni qualvolta “l'intervento edilizio produca un effettivo e rilevante impatto sul territorio e, dunque, in relazione alle opere di qualsiasi genere con cui si operi nel suolo e sul suolo, se idonee a modificare lo stato dei luoghi determinandone una significativa trasformazione” .

La Plenaria ricorda anche che la giurisprudenza - che si è ispirata alle argomentazioni poste a base della sentenza della stessa Adunanza Plenaria, 10 marzo 1982, n. 3 – ha chiarito che anche la realizzazione di muri di cinta o di contenimento di ragguardevoli dimensioni - così come anche l’attività di movimento di terra che modifichi la conformazione dei luoghi - è soggetta al rilascio del permesso di costruire.

Occorre il rilascio del permesso per le opere di qualsiasi genere che modifichino il suolo e lo stato dei luoghi, determinandone una significativa trasformazione (Cons. Stato, Sez. II, 29 novembre 2023, n. 10291; Cons. Stato, Sez. VI, 20 ottobre 2023), pur quando si tratti di movimento terra, in assenza di volumi e per realizzare una strada (Cons. Stato, Sez. II, 24 marzo 2020, n. 2050).

La Plenaria osserva, altresì, che a tali principi si ispira anche la giurisprudenza penale, per la quale si configura il reato di costruzione senza permesso di costruire in seguito a lavori di sbancamento (Cassazione penale, Sez. III, 2 dicembre 2008, n. 8064; Sez. III, 5 marzo 2008, n. 4243; Sez. III, 29 gennaio 2014, n. 19845).

Allora, conclude la Plenaria, la ‘divergenza tra consentito e realizzato’ sussiste, dunque, non solo quando ‘si costruisce in più del consentito’, ma anche quando vi è il cd “incompleto architettonico”, configurabile sotto il profilo temporale qualora vi sia stata la decadenza del permesso di costruire, secondo le regole generali, e non sia possibile ottenere un nuovo titolo abilitativo, ovvero l’interessato non lo richieda. Tale divergenza, in particolare, per la Plenaria, è configurabile quando vi è la realizzazione parziale di un complesso intervento edificatorio autorizzato (ad es. una sola costruzione autonoma e scindibile al posto di plurime costruzioni), quando i lavori si siano fermati prima dell’ultimazione del manufatto, durante la fase degli scavi o dopo la realizzazione anche parziale del solo “scheletro”, senza la copertura, le scale, i solai, il tetto o la tamponatura esterna.

Un caso particolare – in cui verosimilmente è consentito l’accoglimento di una istanza di accertamento di conformità, salve regole speciali – ricorda la Plenaria, si ha quando vi è l’edificazione solo parziale dell’unica costruzione autorizzata (ad es. solo il primo piano, sia pure con la predisposizione dei pilastri per realizzare il secondo piano) o quando sia stato realizzato un edificio dal perimetro più contenuto e dunque inferiore rispetto a quello assentito.

La Plenaria ricorda che, comunque, la casistica può essere molto varia e fornisce alcuni elementi interpretativi. Innanzitutto, dopo la decadenza del permesso di costruire spetta al Comune constatare che vi è stata una ‘divergenza tra consentito e realizzato’ ed adottare la determinazione conseguente, che può essere – a seconda dei casi - quella della demolizione ex art. 31 cit, ovvero la sanzione prevista dall’art. 34 del testo unico. La parte interessata potrebbe anche chiedere, se ne sussistono i presupposti, l’accertamento di conformità previsto dall’art. 36 dello stesso testo unico.

Gli esiti, quindi, ricorda la Plenaria, possono essere vari a seconda della tipologia di incompletezza dell’opera.

Ancora, il Collegio rileva come l’art. 31 si applichi quando le opere incomplete non sono autonome, scindibili e funzionali. Quando l’opera incompleta non ha tali caratteristiche e si riduce, ad esempio, alla realizzazione dei soli pali di fondazione, allo scavo del terreno, alla costruzione di pilastri o della struttura in cemento armato senza la tamponatura (c.d. scheletro), si tratta di un’opera riconducibile alla totale difformità dal permesso di costruire, in quanto di certo non può essere rilasciato il titolo abilitativo per la realizzazione di un manufatto privo di una autonoma finalità.

Tale manufatto, per le proprie caratteristiche di grave incompletezza non superabile mediante il rilascio di un ulteriore permesso di costruire se richiesto, costituisce anche causa di degrado dell’ambiente circostante.

Sotto questo profilo, afferma la Plenaria, la riduzione in pristino dell’area deturpata dall’intervento edilizio cominciato, che non può essere terminato, è necessaria per ripristinare lo stato dei luoghi: se il proprietario decide di abbandonare i lavori, e comunque quando i lavori rimangono incompiuti, l’ordinamento non consente che vi sia il nocumento alle finalità perseguite in sede di pianificazione territoriale ed esige il rispetto della pianificazione urbanistica e, dunque, del principio per il quale le modifiche dello stato dei luoghi risultano lecite solo se vi è la coincidenza tra quanto è stato assentito e quanto è stato realizzato.

La Plenaria ricorda, ancora, che più variegate possono essere le misure adottabili dal Comune in caso di opere parziali che siano invece autonome, scindibili e funzionali. Possono valere in questi casi – in sede interpretativa da parte dell’Amministrazione comunale competente – i principi di proporzionalità e di conservazione, che in più occasioni ha utilizzato il legislatore per disciplinare situazioni similari, come ricordato in precedenza.

Deve ritenersi, ad esempio, “frazionabile” il permesso di costruire che riguardava un complesso di edifici, dei quali solo uno o solo alcuni sono stati in concreto realizzati (salve le misure da adottare, quando le opere di urbanizzazione siano state realizzate in modo diverso da quanto progettato).

Possono risultare conformi al titolo edificatorio originario i manufatti autonomi funzionalmente anche se non sono propriamente completi, qualora vi siano tutti gli elementi costitutivi ed essenziali del manufatto e manchino soltanto opere marginali che non richiedono il rilascio del permesso di costruire (art. 15, comma 3).

Nel caso di opere parzialmente edificate, autonome funzionalmente, che però presentino variazioni rispetto al titolo abilitativo, secondo la Plenaria spetta al Comune stabilire, nell’esercizio del proprio potere di gestione del territorio, se esse risultino realizzate in conformità con il permesso di costruzione, ovvero se ricadano nella fattispecie ex art. 34, ovvero se possano essere sanate in base all’art. 36.

Infine, per completezza espositiva la Plenaria sottolinea che non sono fondati i dubbi di proporzionalità evocati dalla Sezione remittente tra la disciplina recata dall’art. 38 e quella dell’art. 31 del testo unico: l’abuso, sanzionato con la demolizione, infatti, deriva dalla accertata “divergenza tra consentito e realizzato” che non sussiste nell’ipotesi dell’art. 38 cit., in quanto in quel caso il legislatore ha ritenuto di disciplinare una fattispecie peculiare, caratterizzata dall’annullamento del permesso di costruire e dalla conformità delle opere al titolo ormai annullato.

 

3. I principi di diritto

L’Adunanza Plenaria, in conclusione, enuncia i seguenti principi di diritto:

“- in caso di realizzazione, prima della decadenza del permesso di costruire, di opere non completate, occorre distinguere a seconda se le opere incomplete siano autonome e funzionali oppure no;

- nel caso di costruzioni prive dei suddetti requisiti di autonomia e funzionalità, il Comune deve disporne la demolizione e la riduzione in pristino ai sensi dell’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001, in quanto eseguite in totale difformità rispetto al permesso di costruire;

- qualora il permesso di costruire abbia previsto la realizzazione di una pluralità di costruzioni funzionalmente autonome (ad esempio villette) che siano rispondenti al permesso di costruire considerando il titolo edificatorio in modo frazionato, gli immobili edificati – ferma restando l’esigenza di verificare se siano state realizzate le opere di urbanizzazione e ferma restando la necessità che esse siano comunque realizzate - devono intendersi supportati da un titolo idoneo, anche se i manufatti realizzati non siano totalmente completati, ma – in quanto caratterizzati da tutti gli elementi costitutivi ed essenziali - necessitino solo di opere minori che non richiedono il rilascio di un nuovo permesso di costruire;

- qualora invece, le opere incomplete, ma funzionalmente autonome, presentino difformità non qualificabili come gravi, l’Amministrazione potrà adottare la sanzione recata dall’art. 34 del T.U.;

- è fatta salva la possibilità per la parte interessata, ove ne sussistano tutti i presupposti, di ottenere un titolo che consenta di conservare l’esistente e di chiedere l’accertamento di conformità ex art. 36 del T.U. nel caso di opere “minori” (quanto a perimetro, volumi, altezze) rispetto a quelle assentite, in modo da dotare il manufatto – di per sé funzionale e fruibile - di un titolo idoneo, quanto alla sua regolarità urbanistica”.