Giurisprudenza Amministrativa delle Corti Supreme
A cura di Anna Laura Rum

A cura di Anna Laura Rum
Rassegna dei più rilevanti principi di diritto processuale espressi dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, nel 2024
Di Anna Laura Rum
Rassegna dei più rilevanti principi di diritto processuale espressi dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, nel 2024
Di Anna Laura Rum
Sommario: 1. Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sent. n. 4 del 2024, sulla sospensione “impropria” del processo 2. Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sent. n. 5 del 2024, sull’accesso al fascicolo digitale da parte del terzo non costituito 3. Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sent. n. 11 del 2024, in tema di ricorso straordinario 4. Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sent. n. 12 del 2024, sui riflessi della decisione processuale di inammissibilità della Corte costituzionale sul giudizio principale 5. Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sent. n. 15 del 2024, in tema di intervento adesivo-dipendente 6. Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sent. n. 16 del 2024, sull’applicabilità dell’art. 105, comma 1, c.p.a. al caso in cui la sentenza appellata abbia dichiarato inammissibile il ricorso di primo grado, errando nell’escludere la legittimazione o l’interesse del ricorrente
- Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sent. n. 4 del 2024, sulla sospensione “impropria” del processo
La Sesta Sezione del Consiglio di Stato ha formulato all’Adunanza Plenaria i seguenti quesiti:
“A) se, alla luce della richiamata giurisprudenza costituzionale sopravvenuta alla pronuncia dell’Adunanza plenaria n. 28/2014, debba confermarsi quanto ritenuto da tale Adunanza plenaria in ordine alla ammissibilità della prassi della sospensione cd. impropria nel giudizio amministrativo;
- B) ove la risposta sia affermativa, se, nel caso in cui in un giudizio amministrativo sia disposta una sospensione cd. impropria, in attesa che la Corte di giustizia UE si pronunci su un rinvio pregiudiziale ex art. 267 del TFUE sollevato su medesima questione in un altro giudizio, si abbia una sospensione in senso tecnico, con la conseguenza che la prosecuzione del giudizio è subordinata necessariamente all’impulso di parte, ovvero una situazione differente, di mero rinvio della causa, tale da non giustificare l’applicazione dell’art. 80 co. 1, c.p.a.
- C) ove si risponda nel primo senso anche al quesito sub B), così confermandosi quanto a suo tempo ritenuto dall’Adunanza plenaria 28/2014, visto il contrasto tra la pronuncia della Quarta Sezione n. 1686/2021 e la pronuncia della Sesta Sezione n. 82/2023 (art. 99, comma 1, c.p.a.), quale interpretazione occorra dare all’articolo 80 del c.p.a. secondo il quale: «In caso di sospensione del giudizio, per la sua prosecuzione deve essere presentata istanza di fissazione di udienza entro novanta giorni dalla comunicazione dell'atto che fa venir meno la causa della sospensione», in particolare se il termine previsto dalla disposizione citata abbia natura perentoria o ordinatoria”.
L’ordinanza prospetta, infine, il proprio avviso su tali questioni, osservando che: “Il Collegio è dell’avviso che la prassi giurisprudenziale della sospensione impropria possa prestarsi a delle obiezioni, per i profili sopra evidenziati, laddove assimilata in tutto e per tutto ad una sospensione propria e laddove da ciò sia fatta discendere la necessità che per la sua prosecuzione debba essere presentata istanza di fissazione di udienza in un termine ritenuto perentorio”.
L’Adunanza Plenaria premette che una Sezione del Consiglio di Stato può rimettere “un punto di diritto” all’esame dell’Adunanza Plenaria se “rileva che lo stesso ha dato luogo o possa dare luogo a contrasti giurisprudenziali” (art. 99, comma 1, c.p.a.), o se ritiene di non condividere un principio di diritto enunciato dall’Adunanza Plenaria (art. 99, comma 3, c.p.a.).
L’Adunanza Plenaria ha osservato che un presupposto implicito per tale rimessione sia la rilevanza della questione sollevata rispetto alla res controversa, nel senso che il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla sua risoluzione, sicché, qualora la questione sia meramente ipotetica e ininfluente sull’esito del giudizio, va disposta la restituzione degli atti alla Sezione.
La Plenaria rileva che l’ordinanza di rimessione muove dal presupposto che l’ordinanza della VI Sezione n. 1068/2017 (che a suo tempo ha sospeso il giudizio) avrebbe comportato una sospensione “facoltativa” e “impropria”, che, in quanto tale, non avrebbe un fondamento normativo.
Al riguardo, l’Adunanza Plenaria:
- rileva che tale sospensione facoltativa è stata definita dalla giurisprudenza anche quale sospensione “impropria in senso lato” (poiché la sospensione impropria “in senso stretto” consegue alla rimessione, nel processo, di una questione alla Corte costituzionale o alla CGUE);
- constata che l’ordinanza n. 1068/2017 ha disposto la sospensione necessaria del processo ai sensi dell’art. 295 c.p.c., sull’accordo delle parti raccolto a verbale;
- ritiene che tale statuizione non possa essere modificata o sindacata in questa sede, non essendo consentito al giudice né riqualificare né sindacare d’ufficio un provvedimento giurisdizionale in assenza di un rimedio giuridico azionato dalla parte nei termini di legge.
Malgrado l’immodificabilità dell’ordinanza n. 1068/2017, la Plenaria osserva che i quesiti sollevati con l’ordinanza di rimessione risultano comunque rilevanti, poiché vanno verificati il regime giuridico e le conseguenze processuali dell’ordinanza che ha disposto, ai sensi dell’art. 295 c.p.c., la sospensione impropria “in senso lato” (per la pendenza di un giudizio presso la Corte di Giustizia), in considerazione delle pronunce della Corte costituzionale menzionate dall’ordinanza di rimessione.
Prima dell’esame dei quesiti, la Plenaria procede ad una ricostruzione del quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento e ad un chiarimento terminologico sull’uso delle espressioni “sospensione impropria” e “sospensione propria”, contenute nell’ordinanza di rimessione: l’art. 79, comma 1, c.p.a., dispone che “la sospensione del processo è disciplinata dal codice di procedura civile, dalle altre leggi e dal diritto dell’Unione europea”. In disparte la disciplina specifica che il c.p.a. reca della sospensione del processo in caso di incidente di falso (artt. 77 e 78 c.p.a.), esso non reca una disciplina generale dei casi di sospensione del processo, ma si limita ad operare un triplice rinvio, di tipo mobile, al c.p.c., alle altre leggi, e al diritto eurounitario.
La Plenaria, quindi, ricorda, a titolo meramente esemplificativo, che il c.p.a. recepisce i seguenti casi di sospensione del processo contemplati dal c.p.c.:
- la sospensione necessaria di cui all’art. 295 c.p.c., in ragione della necessità della previa risoluzione di una “controversia dalla cui definizione dipende la decisione della causa”;
- la sospensione facoltativa di cui all’art. 296 c.p.c., “su istanza di tutte le parti, ove sussistano giustificati motivi (…) per un periodo non superiore a tre mesi” e con fissazione dell’ “udienza per la prosecuzione del processo”;
- la sospensione facoltativa di cui all’art. 337, secondo comma, c.p.c., quando in un processo è invocata l’autorità di una sentenza che è oggetto di impugnazione;
- la sospensione discrezionale di cui all’art. 367, primo comma, c.p.c., in pendenza del regolamento preventivo di giurisdizione;
- la sospensione necessaria in pendenza di un regolamento di competenza ai sensi dell’art. 48 c.p.c.
Quanto ai casi di sospensione previsti “dalle altre leggi”, la Plenaria ricorda che le leggi speciali, in ragione di emergenze che di volta in volta si presentino, dispongono temporanee sospensioni ex lege generalizzate dei processi o limitate a talune attività processuali o a talune parti del territorio nazionale (v. ad es. l’art. 6 del d.l. n. 74/2020), e a volte sospensioni ex lege o rimesse alla valutazione del giudice, in ragione di situazioni specifiche (v. l’art. 243-bis, d.lgs. n. 267/2020 in tema di sospensione dei giudizi di esecuzione in pendenza delle procedure di riequilibrio finanziario degli enti locali, nonché, prima che la giurisdizione venisse trasferita per legge dal giudice amministrativo al giudice ordinario, l’art. 14 d.lgs. 22.6.2007 n. 109).
Un rilievo specifico ha l’art. 23 della legge 11.3.1953 n. 87, sulla rimessione alla Corte costituzionale, da parte di un giudice, di una questione di legittimità costituzionale, con contestuale sospensione del giudizio a quo.
Quanto al richiamo del diritto eurounitario operato dall’art. 79, comma 1, c.p.a., la Plenaria ricorda che il par. 25 delle Raccomandazioni della Corte di giustizia dell’Unione europea ai giudici nazionali (2019/C 380/01), in connessione con il rinvio pregiudiziale alla CGUE previsto dall’art. 267 TFUE, dispone che il giudizio a quo venga sospeso.
L’Adunanza Plenaria ricorda, a questo punto, un suo precedente (sent. 13.2.2023 n. 7) al riguardo, con il quale ha chiarito che i casi di sospensione del processo sono tassativi, poiché “la sospensione (…) determina una potenziale lesione del principio di ordine costituzionale della ragionevole durata del processo (oggi sancito per il processo amministrativo dall’art. 2, comma 2, c.p.a.)”.
Quindi, il Collegio, all’esito di tale elencazione, non esaustiva, dei casi di sospensione del processo, procede a chiarire alcune espressioni terminologiche usate dalla giurisprudenza e dalla dottrina, le quali distinguono la sospensione “propria” da quella “impropria”, e, nell’ambito di quest’ultima, la sospensione impropria “in senso stretto” e la sospensione impropria “in senso lato”, ripercorrendo le statuizioni di un precedente del Consiglio di Stato (Cons. St., III, 29.11.2019 n. 8204): per sospensione “propria”, si intende il caso in cui il processo è oggetto di una sospensione necessaria ai sensi dell’art. 295 c.p.c., perché lo stesso o altro giudice devono decidere una controversia, avente carattere pregiudiziale, dalla cui definizione dipende la definizione della causa; per sospensione impropria “in senso stretto”, si intendono i casi in cui il processo è sospeso perché un incidente ad esso relativo deve essere deciso da un diverso giudice: sono i casi di sospensione per rinvio alla Corte costituzionale, per rinvio pregiudiziale alla CGUE, per regolamento di giurisdizione, per regolamento di competenza.
In questi casi, ricorda la Plenaria, a differenza che nella sospensione “propria”, il processo in realtà non è “fermo” in attesa della definizione di una diversa causa avente carattere pregiudiziale, ma “prosegue in diversa sede”, ossia presso il giudice ad quem competente a deciderne uno specifico incidente (quello di legittimità costituzionale, di compatibilità con il diritto eurounitario, l’incidente sulla giurisdizione o sulla competenza).
Per sospensione impropria “in senso lato”, prosegue la Plenaria, si intende la sospensione del processo per questione di costituzionalità o eurounitaria (Cons. St., III, 29.11.2019 n. 8204) o per rimessione all’Adunanza Plenaria (Cons. St., IV, 26.5.2020 n. 3330), sollevata da altro giudice, su questione rilevante anche nel giudizio che viene sospeso.
È questa specifica ipotesi che viene rimessa all’esame dell’Adunanza Plenaria dall’ordinanza di rimessione, anche se essa si limita alla qualificazione dell’ipotesi come sospensione impropria, in contrapposizione alla sospensione propria.
L’Adunanza Plenaria, quindi, dà conto dell’orientamento della Corte costituzionale in ordine all’istituto della sospensione del processo: già prima della pronuncia dell’Adunanza Plenaria n. 28/2014, la Corte costituzionale, con la sentenza 6.7.2004 n. 207, a fronte di una prospettazione del giudice a quo secondo cui l'art. 295 c.p.c., “pur sotto la rubrica ‘sospensione necessaria’ offre al giudice una vasta gamma di facoltà” e dunque contemplerebbe una sospensione facoltativa per ragioni di opportunità, ha osservato che “Tale presupposto interpretativo non trova, tuttavia, conforto nel diritto vivente, essendosi la giurisprudenza di legittimità, dopo talune oscillazioni iniziali, ormai consolidata, in sede di regolamento di competenza avverso i provvedimenti con i quali è disposta dal giudice la sospensione del processo (art. 42 cod. proc. civ.), nel senso che non sussiste una discrezionale, e non sindacabile, facoltà di sospensione del processo, esercitabile dal giudice fuori dei casi tassativi di sospensione necessaria”.
Per la Corte, precisa la Plenaria, va “escluso, dunque, che il giudice statuale abbia la facoltà di sospendere il giudizio per mere ragioni di opportunità”.
Dopo la pubblicazione dell’ordinanza dell’Adunanza Plenaria n. 28/2014, la Corte costituzionale:
- ha affermato che, nei giudizi incidentali di legittimità costituzionale davanti ad essa, non è ammesso l’intervento di soggetti che non siano parti dei processi a quo (ma che hanno analogo interesse, essendo parti di altri giudizi sulla medesima questione, e che hanno formato oggetto di sospensione impropria “in senso lato”);
- ha ribadito, richiamando la propria sentenza n. 207/2005, che deve escludersi la sussistenza di una discrezionale facoltà del giudice di sospendere il processo fuori dei casi tassativi di sospensione necessaria, e “per mere ragioni di opportunità”;
- ha, al contempo, stigmatizzato la prassi della cosiddetta “sospensione impropria”, “vale a dire di quella sospensione disposta, senza l’adozione di un’ordinanza di rimessione a questa Corte, in attesa della decisione sulla questione di legittimità costituzionale, avente ad oggetto le stesse norme, sollevata da altro giudice. Questa prassi, che si esprime nell’adozione di un provvedimento di sospensione ‘difforme da univoche indicazioni normative’, priva le parti interessate della possibilità di accedere al giudizio di legittimità costituzionale e riduce, nel giudizio stesso, il quadro, offerto alla Corte, delle varie posizioni soggettive in gioco. Ciò, tuttavia, non è sufficiente a legittimare la parte a intervenire davanti la Corte costituzionale, perché altrimenti risulterebbe alterata la struttura incidentale del giudizio di legittimità costituzionale” (Corte cost., 17.9.2020 n. 202; Id., 23.11.2021 n. 218).
La Plenaria, poi, si sofferma sulla prassi processuale, precisando che la giurisprudenza ha più volte affermato che la sospensione impropria “in senso lato” consente di evitare plurime rimessioni alla Corte costituzionale (v. Cons. St., Ad. Plen., ord.15.10.2014 n. 28), alla CGUE (Cons. St., V, 3.7.2023 n. 6461; Id., 17.8.2023 n. 7791), all’Adunanza Plenaria (Cons. St., Ad. Plen., 26.10.2020 n. 23; IV, 26.5.2020 n. 3330), di una identica questione sollevata in altro giudizio.
Viene ricordato, inoltre, che la stessa Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, in una vicenda in cui era stata investita di una questione esegetica relativa all’art. 42-bis del t.u. espropriazioni (d.P.R. n. 327/2001), con ordinanza 15.10.2014 n. 28, ha disposto siffatta sospensione impropria, essendo pendente davanti alla Corte costituzionale, in relazione ad un diverso giudizio, la questione di legittimità costituzionale del citato art. 42-bis.
In quell’occasione, l’Adunanza Plenaria ha ritenuto ammissibile la sospensione impropria “in senso lato” sulla base di alcuni precedenti del Consiglio di Stato e sul presupposto dell’assenza di un espresso divieto nel c.p.a. L’Adunanza Plenaria ha in particolare affermato: “nel processo amministrativo, secondo un consolidato indirizzo (cfr., fra le tante, ordinanza Sez. V, 27 settembre 2011, n. 5387; Sez. IV, 11 luglio 2002, n. 3926), trova ingresso la c.d. sospensione impropria del giudizio principale per la pendenza della questione di legittimità costituzionale di una norma, applicabile in tale procedimento, ma sollevata in una diversa causa; […] non si rinviene, infatti, nel sistema della giustizia amministrativa (arg. ex artt. 79 e 80, c.p.a.) una norma che vieti una tale ipotesi di sospensione (cfr. Cass., Sez. un., 16 aprile 2012, n. 5943), né si profila una lesione del contraddittorio allorquando (come nel caso di specie), le parti, rese edotte della pendenza della questione di legittimità costituzionale, non facciano richiesta di poter interloquire davanti al giudice delle leggi sollecitando una formale rimessione della questione; tale esegesi, inoltre, è conforme sia al principio di economia dei mezzi processuali che a quello di ragionevole durata del processo (che assumono un particolare rilievo nel processo amministrativo in cui vengono in gioco interessi pubblici), in quanto, da un lato, si evitano agli uffici, alle parti ed alla medesima Corte costituzionale dispendiosi adempimenti correlati alla rimessione della questione di costituzionalità, dall’altro, si previene il rischio di prolungare la durata del giudizio di costituzionalità (e di riflesso di quelli a quo)”.
La Plenaria n. 28/2014 ha dunque ancorato l’istituto al consenso, quanto meno tacito, delle parti: esse possono opporsi e chiedere che vi sia una specifica rimessione della loro causa alla Corte costituzionale (o alla Corte di giustizia, o all’Adunanza Plenaria), per poter interloquire davanti al giudice ad quem.
Dal verbale dell’udienza dell’Adunanza Plenaria di data 8.10.2014, in esito alla quale è stata pronunciata l’ordinanza n. 28/2014, risulta che “Il Presidente sottopone ai difensori delle parti, ai sensi dell'art. 73, co 3 c.p.a., la questione concernente la pendenza, davanti alla Corte Costituzionale, del giudizio avente ad oggetto la legittimità della norma sancita dall'art. 42 bis t.u. espr.”.
In definitiva, la Plenaria osserva che, per come l’istituto è stato ricostruito dall’ordinanza n. 28/2014, e per come viene applicato attualmente, esso può costituire un’alternativa alla sospensione impropria “in senso stretto”, ossia alla rimessione alla Corte costituzionale o alla CGUE della medesima questione sollevata già in altro giudizio, con conseguente sospensione del giudizio, ovvero alla riproposizione di una questione simile a quella già rimessa all’esame della Adunanza Plenaria.
L’utilità pratica della sospensione impropria “in senso lato”, quale alternativa alla sospensione impropria “in senso stretto” (o a una ulteriore ordinanza di rimessione all’Adunanza Plenaria), si basa sui principi di economia processuale e della ragionevole durata del processo, rilevanti avendo riguardo alla giurisdizione nel suo insieme e non circoscritta a un solo plesso giudiziario o a un singolo Collegio.
La Plenaria osserva che la sospensione di un giudizio, in attesa che venga definita una questione già sollevata innanzi alla Corte costituzionale, alla CGUE, all’Adunanza Plenaria, comporta un risparmio di tempi e costi sia per il giudice a quo che per il giudice ad quem, e per le stesse parti processuali, e quindi evita un inutile dispendio di attività processuali e accelera i tempi di definizione delle liti.
Basti pensare che la rimessione di un’identica questione in più giudizi alla CGUE comporta, per quest’ultima, un aggravio dei tempi e costi di traduzione. Basti ancora fare menzione di una vicenda riguardante la rimessione in Corte costituzionale, da parte del CGARS, di una questione di legittimità costituzionale di una legge regionale siciliana, riguardante un contenzioso seriale di circa cento affari. In quella vicenda, la rimessione in Corte costituzionale di due cause pilota, e la sospensione impropria “in senso lato”, con il consenso delle parti, disposta in ciascuna delle altre cause, hanno consentito di definire l’intero contenzioso fuori udienza, con decreti monocratici, una volta intervenuta una sola decisione della Corte costituzionale sulla questione controversa (le ordinanze di sospensione impropria adottate dal CGARS sono citate nel par. 15.7. della presente decisione).
La Plenaria, nella sentenza de qua, ha più volte affermato che la sospensione del giudizio può dirsi necessaria, ai sensi dell'art. 295 c.p.c., soltanto quando la previa definizione di “un’altra” controversia civile, penale o amministrativa pendente davanti ad altro giudice, sia imposta da un’espressa disposizione di legge, ovvero quando, per il suo carattere pregiudiziale, costituisca l'indispensabile antecedente logico-giuridico dal quale dipenda la decisione della causa pregiudicata ed il cui accertamento sia richiesto con efficacia di giudicato (Cass., VI-1, 14.12.2010 n. 25272; Cons. St., VI, 28.1.2013 n. 511) e che la sospensione per pregiudiziale costituzionale o eurounitaria non sarebbe un caso di sospensione “propria” perché manca la “alterità” della causa pregiudicante.
Va, tuttavia, ancora osservato per il Supremo Consesso, che la “pregiudizialità” può concernere, oltre che “cause”, anche “questioni”, ove si consideri l’ampia formulazione letterale dell’art. 295 c.p.c. che fa riferimento a “una controversia, dalla cui definizione dipende la decisione della causa”. Per il Collegio, l’espressione “controversia” può ritenersi riferita non solo ad una causa autonoma pregiudiziale, ma anche a una questione pregiudiziale sorta nella causa de quo. È quanto accade nel caso di rimessione, in un dato giudizio, di una questione alla Corte costituzionale, alla CGUE, questione che, in quel giudizio, ha appunto portata “pregiudiziale”, vale a dire nel caso della sospensione impropria “in senso stretto”. Si deve dunque anzitutto ritenere che la c.d. sospensione impropria “in senso stretto” disposta nel giudizio de quo in cui viene sollevata questione di legittimità costituzionale o questione pregiudiziale eurounitaria (e prevista da fonti normative puntuali, sopra enunciate), sia da qualificare come una species della sospensione necessaria di cui all’art. 295 c.p.c. In secondo luogo, per il Collegio, si deve considerare che la portata pregiudiziale di una questione non ha, nella sospensione impropria “in senso lato”, una consistenza diversa da quella che ha nella sospensione impropria “in senso stretto”. Invero, una pronuncia della Corte costituzionale di accoglimento, o interpretativa di rigetto, e una pronuncia della CGUE che affermi il contrasto del diritto nazionale con il diritto eurounitario, hanno una portata normativa, e come tale erga omnes, sicché, una volta sollevata una data questione davanti la Corte costituzionale o la CGUE, non può negarsi la prospettica pregiudizialità della questione rispetto a tutte le cause pendenti in cui rilevi la medesima questione. Quanto ai casi di rimessione all’Adunanza Plenaria, giova anzitutto osservare, secondo il Collegio, che nel giudizio in cui viene disposta una rimessione all’Adunanza Plenaria, non viene disposta nessuna “sospensione” del processo, perché il giudice a quo (la Sezione rimettente) e il giudice ad quem (l’Adunanza Plenaria), sono il medesimo giudice (Consiglio di Stato), in diversa composizione; sicché si ha, in luogo della sospensione, un rinvio della causa, senza fissazione del termine nell’ordinanza di rimessione, e con fissazione d’ufficio della data dell’udienza dell’Adunanza Plenaria. Quanto alla rilevanza di una questione pendente davanti l’Adunanza Plenaria in un diverso giudizio dove sorge la medesima questione, va considerato che le sue pronunce, pur non avendo portata normativa secondo il modello delle decisioni della Corte costituzionale e della CGUE, hanno una valenza di “precedente” che crea un vincolo di fatto per i giudici di primo grado, e un “vincolo relativo” vero e proprio per i giudici del Consiglio di Stato. Sicché, anche la definizione di una questione pendente davanti all’Adunanza Plenaria, ha una portata pregiudiziale rispetto a un giudizio in cui viene in rilievo la medesima questione.
In tale prospettiva, ricorda la Plenaria, la sospensione impropria “in senso lato”, per come si atteggia nella prassi applicativa, non può essere considerata una sospensione facoltativa praeter o contra legem, frutto di giurisprudenza creativa, ma deve essere qualificata come una species della c.d. sospensione impropria “in senso stretto” normata espressamente dall’art. 23, l. 11.3.1953 n. 87, e dal par. 25 delle Raccomandazioni della Corte di giustizia dell’Unione europea ai giudici nazionali (2019/C 380/01). Sicché va anche essa ricondotta all’art. 295 c.p.c., al pari della sospensione impropria “in senso stretto”, fintanto che venga disposta per la rilevanza, nel giudizio de quo, della medesima questione già pendente davanti la Corte costituzionale o la CGUE.
In tal senso, ricorda il Collegio, si è già pronunciata l’Adunanza Plenaria, sia pure in via di obiter dictum, nella decisione 26.10.2020 n. 23, la quale ha qualificato la sospensione disposta in pendenza di questione rimessa all’Adunanza Plenaria in diverso giudizio come sospensione disposta “ex artt. 79 c.p.a. e 295 c.p.c.”. Inoltre, anche nel presente giudizio, osserva la Plenaria, la sospensione era stata disposta dalla VI Sezione - in pendenza di pregiudiziale eurounitaria sollevata in diverso processo - ai sensi dell’art. 295 c.p.c. Va poi evidenziato che si rinviene un considerevole numero di ordinanze di sospensione impropria “in senso lato” che richiamano espressamente l’art. 295 c.p.c.: può dirsi, quindi, diritto vivente che le ordinanze di sospensione impropria “in senso lato” vengono fondate sull’art. 295 c.p.c.
Ancora, la Plenaria osserva che l’opzione alternativa, caso per caso, tra sospensione impropria “in senso lato” e “in senso stretto”, entrambe da ricondurre all’art. 295 c.p.c., riposa sulla volontà delle parti, elemento determinante nella ricostruzione dell’ordinanza dell’Adunanza Plenaria n. 28/2014.
Secondo il Collegio, va infatti tenuto conto che:
- nel giudizio incidentale di costituzionalità, non possono proporre intervento le parti di un giudizio diverso da quello a quo in cui l’incidente di costituzionalità sia stato sollevato, neppure se si tratta di parti di un giudizio oggetto di sospensione impropria “in senso lato” (v. Corte cost. n. 202/2020 e n. 218/2021);
- per il caso di rinvio pregiudiziale alla CGUE, l’art. 129 del regolamento di procedura della Corte di giustizia UE dispone che “L’intervento può avere come oggetto soltanto l’adesione, totale o parziale, alle conclusioni di una delle parti. Esso non attribuisce gli stessi diritti processuali riconosciuti alle parti; in particolare, quello di chiedere lo svolgimento di un’udienza”;
- davanti all’Adunanza Plenaria non è sufficiente a consentire l’intervento la sola circostanza che l’interventore sia parte di un giudizio in cui venga in rilievo una quaestio iuris identica o analoga a quella oggetto del giudizio pendente innanzi all’Adunanza Plenaria (Cons. St., Ad. Plen., 4.11.2016 n. 23; Id., 3.7.2017 n. 3; Id., 30.8.2018 n. 13; Id., 27.2.2019 n. 4; Id., 2.4.2020 n. 10; Id., 26.10.2020 n. 23; Id., 13.9.2022 n. 13).
Per il Collegio, in ragione dei divieti o limiti all’intervento davanti alla Corte costituzionale, alla CGUE e all’Adunanza Plenaria, nei giudizi in cui sorge una questione già pendente davanti a tali Consessi, alle parti deve essere consentita l’opzione tra l’attesa della definizione della questione, senza poter interloquire innanzi ad essi (nel qual caso è sufficiente la sospensione impropria “in senso lato”), e l’interlocuzione davanti a detti Consessi, per la quale è strumentale una nuova ordinanza di rimessione e la sospensione impropria “in senso stretto” per la rimessione alla Corte costituzionale o alla CGUE, mentre nessuna sospensione occorre in caso di rimessione all’Adunanza Plenaria. Va solo precisato, a dire del Collegio, che se una questione, già pendente in Plenaria, viene in rilievo in un giudizio davanti a un Tar, che non può disporre una rimessione per saltum alla Plenaria, alle parti va prospettata la possibilità di una sospensione impropria “in senso lato” (o un’altra delle possibilità che si illustreranno nel par. 18), senza che le parti abbiano possibilità di fruire di una rimessione diretta alla Plenaria, in ragione del grado in cui pende la lite.
In definitiva, secondo la Plenaria, la sospensione impropria “in senso lato” assolve alla medesima finalità della sospensione impropria “in senso stretto”, vale a dire attendere la definizione di una questione che ha portata pregiudiziale anche nel giudizio de quo, sebbene sollevata in un diverso giudizio, e l’opzione tra i due istituti riposa su ragioni di economia processuale e ragionevole durata del processo, e sulle scelte difensive delle parti dei giudizi de quo.
Si osserva, poi, che la prassi seguita dalle Sezioni del Consiglio di Stato risulta essere in tal senso.
La Plenaria chiarisce che, a sostegno dell’assunto che la sospensione impropria “in senso lato” ha un fondamento normativo nell’art. 295 c.p.c. giovano i seguenti dati normativi e di sistema:
(a) il c.p.a. non disciplina in via diretta tutti i casi di sospensione del processo (menzionandone uno solo, la sospensione per querela di falso), ma fa un rinvio dinamico al c.p.c., alle altre leggi, al diritto eurounitario (art. 79, comma 1, del c.p.a.);
(b) l’art. 44, comma 1, della l. 18.6.2009 n. 69, ha indicato, tra le finalità della codificazione del processo amministrativo, l’adeguamento della legge “alla giurisprudenza della Corte costituzionale e delle giurisdizioni superiori”;
(c) in un sistema connotato da riserva di legge in materia di processo (art. 111, comma 1, Cost.), i precedenti giurisprudenziali non costituiscono autonoma fonte del diritto, e devono pertanto trovare sempre fondamento in una norma scritta di rango primario.
La Plenaria ricorda che, le sopra citate pronunce della Corte costituzionale (nn. 207/2004; 202/2020; 218/2021) hanno affermato che il “diritto vivente” non conosce la sospensione del processo per mere ragioni di opportunità. Basti ricordare, come esempio di tale diritto vivente:
- l’arresto delle Sezioni Unite della Corte di cassazione 1.10.2003 n. 14670, secondo cui nel quadro della disciplina di cui all'art. 42 c.p.c. non vi è più spazio per una discrezionale, e non sindacabile, facoltà di sospensione del processo, esercitabile dal giudice al di fuori dei casi tassativi di sospensione legale: ove ammessa, infatti, una tale facoltà - oltre che inconciliabile con il disfavore nei confronti del fenomeno sospensivo, sotteso alla riforma del citato art. 42 del codice di rito - si porrebbe in insanabile contrasto sia con il principio di eguaglianza (art. 3 Cost.) e della tutela giurisdizionale (art. 24 Cost.), sia con il canone della durata ragionevole, che la legge deve assicurare nel quadro del giusto processo ai sensi dell’art. 111 Cost.
- l’arresto della Corte di cassazione, Sez. I, 26.3.2013 n. 7580, secondo cui “appare più che dubbia la potestà del giudice di imporre autoritariamente una sospensione (arbitraria, più che facoltativa) in deroga al normale iter processuale, fuori dei casi obbligatori di pregiudizialità-dipendenza in senso stretto”. Sicché quella che viene definita sospensione impropria “in senso lato” per pendenza di questione di costituzionalità in un diverso processo, è ammissibile solo nell’ambito del paradigma della sospensione sull’accordo delle parti ai sensi dell’art. 296 c.p.c.: “Il sistema appare informato ad una dicotomia tra ipotesi tipiche ed obbligatorie di sospensione, e scelte lato sensu concordate, pur se non formalmente strutturate secondo l'archetipo dell'art. 296 c.p.c. (…) la sospensione del processo - "anomala", secondo la definizione empirica in uso in dottrina, in ragione dell'estraneità delle parti istanti al processo pregiudicante - appare, piuttosto, riconducibile nell'alveo concettuale della comune istanza delle parti; configurabile, anch'essa, come una parentesi processuale entro termini contenuti, seppur non predeterminati mediante fissazione ab initio dell'udienza di prosecuzione come formalmente richiesto dall'art. 296 c.p.c. (…)”.
Ancora, secondo il Collegio, in base al combinato disposto del sopra ricordato principio della legge delega, e dell’art. 79 comma 1, c.p.a., deve trarsi la conclusione che il c.p.a. ha inteso richiamare i casi di sospensione del processo previsti dal c.p.c., da interpretare alla luce della giurisprudenza della Corte di cassazione e della Corte costituzionale, sopra richiamata.
In definitiva, la Plenaria conclude che la sospensione impropria “in senso lato” deve ritenersi ammessa nel perimetro dei casi di sospensione già previsti dall’ordinamento: se la Cassazione ha ricondotto la fattispecie all’art. 296 c.p.c., con “adattamenti”, la Plenaria, nella sentenza in esame, ritiene che l’istituto sia ordinariamente riconducibile all’art. 295 c.p.c. Le due soluzioni differiscono più nella forma che nella sostanza, perché in entrambi i casi si richiede il consenso delle parti e non si ritiene necessario fissare il termine della nuova udienza. La stessa Corte di cassazione, con la citata pronuncia n. 7580/2013 riconduce la sospensione impropria “in senso lato” nel perimetro dell’art. 296 c.p.c., ammettendo tuttavia la possibilità che la sospensione non sia disposta per un termine prefissato non superiore a tre mesi e con fissazione della nuova udienza nell’ordinanza di sospensione del processo, come esige l’art. 296 c.p.c., bensì “entro termini contenuti, seppur non predeterminati mediante fissazione ab initio dell'udienza di prosecuzione come formalmente richiesto dall'art. 296 c.p.c.”.
Come rilevato dalla Plenaria in questa sede, vi è dunque una sostanziale convergenza, al di là dell’uso di diverse espressioni lessicali, tra la soluzione di cui alla Plenaria n. 28/2014 e quella di cui alla Cassazione n. 7580/2013. Né vi è una divergenza sostanziale tra la qualificazione della sospensione impropria “in senso lato” come sospensione ex art. 295 c.p.c. ovvero come sospensione ex art. 296 c.p.c., una volta che sia acquisito che in entrambi i casi le parti devono acconsentire e che in entrambi i casi non viene fissata (rectius, può non essere fissata) la nuova udienza.
La Plenaria, tuttavia, aggiunge che la varietà dei casi pratici che possono presentarsi sfugge ad una soluzione univoca e che entrambi gli strumenti (295 c.p.c. e 296 c.p.c. e altri che saranno indicati) possono essere utilizzati in base alle circostanze: esemplificando, se la questione già pendente in Corte costituzionale, o CGUE, o Plenaria, non è perfettamente identica a quella che si ritiene rilevante nel giudizio de quo, o se il giudice non sia convinto che sia effettivamente rilevante, lo strumento più appropriato da utilizzare potrebbe essere la sospensione su istanza e con l’accordo delle parti di cui all’art. 296 c.p.c. e non la sospensione ex art. 295 c.p.c.
Allora, la Plenaria esclude che il suo precedente n. 28/2014, nonché la successiva prassi applicativa, abbiano inteso creare un nuovo caso di sospensione del processo praeter legem o contra legem: sebbene, come evidenziato dall’ordinanza di rimessione, la Plenaria n. 28/2014 faccia riferimento ai precedenti giurisprudenziali e al silenzio del c.p.a., ciò non significa che essa abbia considerato i precedenti alla stregua di fonte del diritto processuale o ammesso la sospensione del processo fuori dai casi espressamente contemplati. Piuttosto, secondo la Plenaria, in tale suo precedente si è inteso motivare sinteticamente sull’esistenza dell’istituto (che non era in contestazione in quel giudizio), secondo il quadro normativo vigente come interpretato dalla giurisprudenza, e ha fondato la possibilità di sospensione del processo, nella sostanza, sul consenso delle parti e sull’assenza di una lesione del contraddittorio, così bilanciando le esigenze di economia processuale con quelle della tutela del contraddittorio. Tanto più che all’epoca di adozione della Plenaria n. 28/2014 era già noto l’orientamento della Corte costituzionale, espresso dalla decisione n. 207/2004.
Il Collegio, poi, ritiene necessario fare ulteriori precisazioni sul contenuto necessario di un’ordinanza di sospensione impropria “in senso lato”, al fine di assicurarne l’effettiva coerenza con le prescrizioni delle decisioni della Corte costituzionale nn. 207/2004; 202/2020; 218/2021. Si ricorda, anzitutto, che se sul piano dogmatico la soluzione preferibile è quella che qualifica la sospensione impropria “in senso lato” come sospensione ex art. 295 c.p.c., tuttavia, da un lato, ai fini pratici, si realizza un effetto equivalente anche se siffatta sospensione venga disposta ai sensi dell’art. 296 c.p.c., e dall’altro lato, ci sono casi in cui la soluzione più appropriata è quella di una ordinanza ex art. 296 c.p.c.
Quindi, nel paradigma normativo dell’art. 295 c.p.c., la sospensione impropria “in senso lato”, secondo la Plenaria, va disposta sentite le parti ai sensi dell’art. 73, comma 3, c.p.a., e solo se le parti, o anche una sola di esse, non rappresenti l’esigenza di interloquire direttamente davanti la Corte costituzionale, la CGUE, la Plenaria: nel qual caso, andrà disposta una nuova rimessione alla Corte costituzionale, alla CGUE, alla Plenaria, con sospensione impropria “in senso stretto”, nei primi due casi. L’ordinanza di sospensione impropria “in senso lato” adottata ai sensi dell’art. 295 c.p.c., non contiene la data della nuova udienza, e onera le parti di presentare un’istanza di fissazione di udienza ai sensi dell’art. 80, comma 1, c.p.a., dopo la cessazione della causa di sospensione del processo.
Invece, il paradigma normativo della sospensione ex art. 296 c.p.c. esige:
- l’istanza di tutte le parti;
- giustificati motivi per la sospensione;
- la sospensione per un periodo non superiore a tre mesi;
- la fissazione, nell’ordinanza di sospensione del processo, dell’udienza per la prosecuzione del processo medesimo.
La Plenaria aggiunge che, oltre a quanto affermato da suo precedente n. 28/2014 e a quanto dispongono, nella prassi applicativa, le ordinanze di sospensione impropria “in senso lato”, la sospensione impropria “in senso lato” deve essere espressamente qualificata come sospensione ai sensi dell’art. 295 c.p.c. (o ai sensi dell’art. 296 c.p.c.), e, per l’effetto, le parti devono essere informate, ai sensi dell’art. 73, comma 3, del c.p.a., della possibilità di siffatta sospensione quale alternativa alla diretta rimessione, nella causa de quo, della questione alla Corte costituzionale (o alla CGUE o all’Adunanza Plenaria) e devono concordare su tale alternativa. Di tale accordo dovrà darsi atto nel verbale di udienza e nell’ordinanza di sospensione. Inoltre, sulla base di una valutazione prospettica in ordine ai tempi di decisione dell’incidente in ragione del quale la causa viene sospesa, l’ordinanza dovrà già indicare il termine massimo di sospensione e fissare la nuova udienza, ovvero potrà non fissare alcun termine. In questa seconda evenienza, l’ordinanza dovrà espressamente rendere edotte le parti che esse hanno l’onere di presentare istanza di fissazione di udienza finalizzata alla prosecuzione del processo ai sensi dell’art. 80 comma 1, c.p.a.
L’Adunanza Plenaria aggiunge che l’esigenza di economia processuale sottesa all’istituto della sospensione impropria “in senso lato”, da qualificarsi come sospensione ex art. 295 c.p.c. o ex art. 296 c.p.c., può essere soddisfatta anche attraverso altri istituti, consentiti dal c.p.a., sempre a condizione che le parti non dichiarano di avere interesse a interloquire davanti al giudice ad quem. In particolare vengono in rilievo le seguenti opzioni:
(a) il rinvio della causa a data fissa, motivando nel verbale di udienza, ai sensi dell’art. 73, comma 1-bis, c.p.a., sulle ragioni del rinvio e sull’accordo delle parti ad attendere la definizione di un incidente di costituzionalità, o eurounitario, o di una rimessione all’Adunanza Plenaria, in un diverso processo; con tale soluzione, non vi è alcun onere delle parti di chiedere la fissazione dell’udienza per la prosecuzione del processo;
(b) la cancellazione della causa dal ruolo, sentite le parti e dandone atto nel verbale di udienza; la cancellazione dal ruolo onera le parti di presentare una nuova istanza di fissazione di udienza entro il termine di perenzione ordinaria del processo; tale possibilità deve però ritenersi ammessa solo nei processi soggetti a impulso di parte, perché la cancellazione della causa dal ruolo non è logicamente compatibile con i giudizi soggetti a riti processuali in cui non occorre istanza di parte per la fissazione dell’udienza (es. riti ex artt. 87, 120, 130, c.p.a.) (Cons. St., V, 1.6.2023 n. 697, decr.);
(c) in linea di principio, deve ritenersi non ammessa la possibilità di un “rinvio a data da destinare” che talora si riscontra nella prassi, perché il concetto stesso di “rinvio” implica che venga anche stabilita la nuova data di udienza; non si può tuttavia escludere che eccezionali esigenze pratiche giustifichino l’adozione di tale tipologia di rinvio, ad es. perché va disposto un rinvio a lungo termine e non è ancora disponibile il calendario delle udienze; inoltre può accadere che un siffatto tipo di rinvio sia di fatto disposto; ove ciò accada, è compito delle segreterie e dei presidenti monitorare tali rinvii, per la fissazione d’ufficio della nuova udienza, mentre non vi è alcun onere delle parti di chiedere la fissazione dell’udienza per la prosecuzione del processo.
Per il Collegio, giova infine aggiungere che sia nel caso di ordinanza ex art. 296 c.p.c. a termine, che di rinvio a data fissa, nulla preclude, ove in prossimità della nuova udienza risulti che la questione pregiudiziale sollevata in altro giudizio non sia stata ancora definita, che le parti chiedano, anche fuori udienza, un ulteriore rinvio, che può essere disposto anche con motivato decreto presidenziale fuori udienza (art. 73, comma 1-bis, c.p.a.).
La Plenaria, dunque, procede con la trattazione del secondo quesito: in particolare, l’ordinanza di rimessione chiede, per il caso in cui si ammetta la perdurante operatività della sospensione impropria “in senso lato”, se “si abbia una sospensione in senso tecnico, con la conseguenza che la prosecuzione del giudizio è subordinata necessariamente all’impulso di parte, ovvero una situazione differente, di mero rinvio della causa, tale da non giustificare l’applicazione dell’art. 80 co. 1, c.p.a.”.
Per la Plenaria, la risposta al secondo quesito deriva come naturale corollario dalla risposta già data al primo: posto che le esigenze di economia processuale e ragionevole durata del processo sottese alla sospensione impropria “in senso lato” possono essere perseguite attraverso la sospensione ex art. 295 c.p.c., quella ex art. 296 c.p.c., o mediante il rinvio della causa o la cancellazione dal ruolo, a seconda dell’istituto prescelto, diverse sono le conseguenze in ordine ai meccanismi di prosecuzione del giudizio:
(i) nei casi di sospensione ex art. 295 c.p.c., occorre un impulso di parte ai sensi dell’art. 80, comma 1, c.p.a.;
(ii) altrettanto è a dirsi per il caso di sospensione ex art. 296 c.p.c. senza fissazione di nuova udienza;
(iii) nei casi di sospensione ex art. 296 c.p.c. con previsione della data della nuova udienza, non è previsto (né necessario) alcun impulso di parte;
(iv) nel caso di rinvio a data fissa, o, eccezionalmente, a data da destinare, non è previsto (né necessario) alcun impulso di parte;
(v) nel caso di cancellazione della causa dal ruolo (quando è consentito, ossia nei riti soggetti a impulso di parte), occorre un’istanza di fissazione di udienza entro il termine di perenzione ordinaria.
Il Collegio, offrendo una risposta completa al secondo quesito, aggiunge che può patologicamente verificarsi che venga disposta una sospensione impropria “in senso lato” senza interpellare le parti o senza il loro consenso: mentre un’ordinanza disposta ex art. 296 c.p.c. con l’accordo delle parti, ma senza fissazione della nuova udienza, deve ritenersi legittima, un’ordinanza di sospensione impropria “in senso lato”, disposta senza il consenso delle parti, deve ritenersi viziata. Per la Plenaria, si tratta di ordinanza viziata, ma tuttavia non abnorme, e quindi soggetta ai rimedi che l’ordinamento prevede e, in difetto di esperimento di tali rimedi, l’ordinanza va considerata alla stregua di un’ordinanza di sospensione che non contiene il termine per la prosecuzione del processo, sicché le parti sono onerate, ai sensi sia dell’art. 297 c.p.c. che dell’art. 80, comma 1, c.p.a., di chiedere la fissazione dell’udienza, nel termine previsto dall’art. 80, comma 1, c.p.a.
Il Collegio ricorda che l’art. 297 c.p.c. dispone che, se col provvedimento di sospensione non è stata fissata l’udienza in cui il processo deve proseguire, le parti debbono chiederne la fissazione, nel termine ivi previsto. L’art. 297 c.p.c., che è collocato sistematicamente sia dopo l’art. 295 che dopo l’art. 296 c.p.c., si riferisce a tutti i casi di sospensione del processo, e a tutte le ordinanze di sospensione, sia quelle che fisiologicamente non fissano l’udienza di prosecuzione (art. 295 c.p.c.), sia quelle per le quali la mancata fissazione della data della nuova udienza costituisca una patologia che non ha trovato rimedio. A sua volta l’art. 80 c.p.a. dispone che, in caso di sospensione del processo, per la sua prosecuzione deve essere presentata istanza di fissazione, senza fare distinzione tra i diversi casi di sospensione del processo, e tra i casi di ordinanze che fisiologicamente non fissano l’udienza di prosecuzione e i casi di ordinanze che patologicamente non fissano la data della nuova udienza.
La Plenaria, inoltre, esclude che l’onere di parte di chiedere la fissazione dell’udienza, anche quando l’ordinanza di sospensione sia illegittima, possa essere supplito da un impulso d’ufficio.
A questo punto, il Collegio dà conto della previsione recata dall’art. 80, comma 3-bis, c.p.a., di ambigua formulazione, che potrebbe prestarsi alla lettura che un impulso d’ufficio sia consentito: infatti, dispone l’art. 80, comma 3-bis, c.p.a., che in tutti i casi di sospensione del giudizio (oltre che di interruzione), il presidente può disporre istruttoria per accertare la persistenza delle ragioni che la hanno determinata e “l’udienza è fissata d’ufficio trascorsi tre mesi dalla cessazione di tali ragioni”, ossia dopo che è scaduto il termine per l’impulso di parte (pari a novanta giorni nell’ipotesi dell’art. 80, comma 1, c.p.a. e a tre mesi nell’ipotesi dell’art. 80, comma 3, c.p.a.). Tale previsione, per la Plenaria, sembra, in base al suo tenore letterale, prevedere un impulso d’ufficio sia nella verifica del perdurare delle cause di sospensione che nella prosecuzione del giudizio, ma una siffatta esegesi, a dire del Collegio, contrasterebbe:
(i) con la perdurante regola secondo cui è onere della parte proseguire o riassumere il giudizio sospeso o interrotto, entro un termine imposto a pena di estinzione del processo (art. 80, commi 1, 2, 3, c.p.a.; art. 35, comma 2, lett. a), c.p.a.);
(ii) con la natura dispositiva del processo e con il principio di parità delle parti;
(iii) con l’eccezionalità della rimessione in termini di una parte per un adempimento processuale, che postula il presupposto dell’errore scusabile, interpretato in senso restrittivo dall’Adunanza Plenaria (Cons. St., Ad. Plen., 2.12.2010 n. 3; Id., 10.12.2014 n. 33, ord.; Id., 27.7.2017 n. 22);
(iv) con la stessa natura discrezionale del potere officioso presidenziale.
Il meccanismo officioso di cui all’art. 80, comma 3-bis, c.p.a., quindi, secondo la Plenaria, va interpretato nel senso che esso mira a eliminare situazioni di stallo nella verifica del perdurare delle cause di sospensione, in relazione a giudizi sospesi da lungo tempo e in cui le parti non informano l’ufficio dell’esito della vicenda pregiudiziale, attraverso un’istruttoria presidenziale. Una volta accertato che la causa di sospensione è cessata, e acclarato che sono decorsi i tre mesi che costituiscono lo spatium deliberandi per l’impulso di parte, la previsione non consente di sostituire con un’iniziativa d’ufficio l’onere di impulso di parte per la riattivazione del processo a seguito della cessazione di una causa di sospensione del processo. La fissazione di ufficio dell’udienza è finalizzata non già necessariamente alla prosecuzione del processo, ma alla verifica da parte del Collegio se la causa di sospensione sia effettivamente cessata e se l’inerzia delle parti sia o meno giustificata; ove ingiustificata, ne consegue l’estinzione del processo per mancata tempestiva prosecuzione. Invero, il citato comma 3-bis dispone che l’udienza è fissata d’ufficio “trascorsi tre mesi dalla cessazione di tali ragioni”, ossia “dopo” il decorso del termine per l’iniziativa di parte. Il che implica che l’udienza viene fissata per trarre le conseguenze processuali dell’inerzia delle parti. E sempre che non sia possibile, a fronte di situazioni di inerzia manifesta e che non danno àdito a dubbi, definire la causa con decreto monocratico di estinzione del processo preso fuori udienza. Un’esegesi diversa, nel senso della sostituzione dell’impulso di parte con quello d’ufficio, creerebbe un insanabile contrasto del comma 3-bis con i commi 1, 2, e 3 dell’art. 80 c.p.a., e farebbe porre un dubbio di legittimità costituzionale della previsione per disparità di trattamento tra i giudizi in cui non viene fatta istruttoria sul perdurare degli eventi sospensivi (nei quali rimane l’impulso di parte) e quelli in cui viene fatta istruttoria, nei quali l’impulso di parte è sostituito dall’impulso d’ufficio. Se il razionale della disposizione in commento fosse l’impulso d’ufficio in funzione acceleratoria, dice la Plenaria, non si comprenderebbe perché l’impulso d’ufficio non è attivabile fintanto che è possibile l’impulso di parte (ossia nei tre mesi decorrenti dalla cessazione della causa di sospensione), così come non si giustificherebbe un’iniziativa d’ufficio dopo che le parti, con la loro inerzia protratta tre mesi, hanno manifestato disinteresse per la causa.
Il Collegio rassicura, comunque, sul fatto che l’affermazione sopra fatta, secondo cui anche un’ordinanza di sospensione illegittima non esonera la parte dall’onere di chiedere la fissazione dell’udienza una volta cessata la causa di sospensione, non lascia la parte priva di tutela a fronte di una sospensione illegittima. L’ordinamento infatti appresta adeguati e proporzionati rimedi alla parte che si dolga, per quel che qui interessa, che un’ordinanza di sospensione impropria “in senso lato” del processo è stata adottata senza il contraddittorio delle parti, precludendo ad essa la facoltà di interloquire davanti la Corte costituzionale, la CGUE, l’Adunanza Plenaria, come sarebbe stato possibile se il giudice avesse rimesso in quel giudizio la questione pregiudiziale a uno di tali Consessi.
Quanto all’individuazione di tali rimedi, la Plenaria chiarisce che, anzitutto, qualificata l’ordinanza di sospensione impropria “in senso lato” come ordinanza riconducibile all’art. 295 c.p.c., ne discende la sua appellabilità ai sensi dell’art. 79, comma 3, c.p.a. Inoltre, il Collegio ricorda che la Corte di cassazione ha dato un’interpretazione estensiva dell’art. 42 c.p.c., che formalmente contempla il rimedio del regolamento di competenza solo per impugnare le ordinanze di sospensione del processo ai sensi dell’art. 295 c.p.c. Secondo le Sezioni unite, dall’esclusione della configurabilità di una sospensione facoltativa ope iudicis del giudizio, fuori dai casi tassativamente previsti dall’ordinamento deriva sistematicamente, come logico corollario, l’impugnabilità, ai sensi dell'art. 42 c.p.c., di ogni sospensione del processo, quale che ne sia la motivazione, e che il ricorso deve essere accolto ogni qualvolta non si sia in presenza di un caso di sospensione ex lege (Cass., Sez. Un., 1.10.2003 n. 14670). Più in generale, ricorda la Plenaria, il rimedio dell’art. 42 c.p.c. è stato ritenuto estensibile a casi di ingiustificata quiescenza del processo in ragione di sospensioni non consentite ab origine o il cui mantenimento non si giustifica (Cass., Sez. Un., 29.7.2021 n. 21763; Id., VI – 2, 1.4.2021 n. 9057).
Il Collegio ritiene che siffatto ragionamento della Corte di cassazione possa essere seguito nell’esegesi dell’art. 79 comma 3, c.p.a., a tenore del quale le ordinanze di sospensione del processo emesse ai sensi dell’art. 295 c.p.c. sono appellabili. Ad avviso del Collegio il rimedio dell’appello va esteso alle ordinanze di sospensione del processo diverse da quelle adottate ai sensi dell’art. 295 c.p.c., quando si intenda contestare che la sospensione del processo sia stata disposta al di fuori dei relativi presupposti processuali (arg. da CGARS, 25.2.2021 n. 144), ferma la preclusione del rimedio per contestare il merito di un’ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale o alla CGUE (Cass., Sez. Un., 31.5.1984 n. 3317; Id., 11.12.2007 n. 25837; Cons. St., III, 29.11.2019 n. 8204; CGARS, 25.2.2021 n. 144; Cons. St., V, 19.7.2023 n. 7076).
Ancora, viene ricordato che, in relazione ad ordinanze di sospensione adottate dal giudice di primo grado al di fuori dei parametri normativi, oltre al suddetto rimedio dell’appello, alle parti è aperta la possibilità di sollecitare il potere presidenziale di cui all’art. 80, comma 3-bis, c.p.a. di fissazione dell’udienza, negli stretti limiti in cui l’esercizio di tale potere è consentito, come sopra indicati.
Il Collegio ricorda che il rimedio dell’appello, ex art. 79 comma 3, del c.p.a., riguarda le ordinanze di sospensione del processo rese nei giudizi davanti al Tar, e non si estende alle ordinanze di sospensione del processo rese dal Consiglio di Stato-CGARS. In tal caso, avverso le ordinanze di sospensione disposte in grado di appello, soccorrono:
- il rimedio in senso lato, attivabile d’ufficio, se del caso su sollecitazione delle parti, di cui all’art. 80 comma 3-bis, c.p.a., nei limiti sopra visti;
- la possibilità di chiedere la revoca dell’ordinanza di sospensione impropria, come ammesso dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato (v. Cons. St., V, 12.2.2017 n. 457; Id., V, 11.11.2016 n. 4687, ordd.).
Proseguendo con l’iter argomentativo, l’Adunanza Plenaria passa ad analizzare il secondo quesito, con il quale si chiede se il termine per la prosecuzione del processo previsto dall’art. 80, comma 1, c.p.a., abbia natura perentoria o ordinatoria.
Alla luce delle risposte date al primo e al secondo quesito, la Plenaria ritiene che la questione della natura - perentoria o ordinatoria- del termine di cui all’art. 80, comma 1, c.p.a., debba avere una soluzione identica per ogni ipotesi di sospensione del processo, e anche quando una sospensione del processo sia disposta al di fuori dei relativi presupposti normativi e non sia stata contestata con i rimedi che l’ordinamento appresta.
Ciò posto, il Collegio ritiene che il termine per l’istanza di fissazione di udienza finalizzata alla prosecuzione del giudizio, previsto dal citato art. 80, comma 1, c.p.a., sia un termine perentorio: sebbene, infatti, l’art. 80, comma 1, c.p.a., non rechi una qualificazione espressa del termine ivi previsto come perentorio, a differenza di quanto fa il comma 3 del medesimo articolo in relazione al termine per la riassunzione del processo a seguito di interruzione, tale dato letterale non è affatto decisivo per trarne la conclusione che il termine sia ordinatorio.
Già la formulazione letterale dell’art. 80, comma 1, c.p.a., secondo la Plenaria, depone nel senso della natura perentoria del termine posto che vi si afferma che l’istanza di fissazione dell’udienza “deve” essere presentata entro il detto termine. A tale risultato ermeneutico conduce anche il canone dell’interpretazione sistematica. Come già ricordato, l’art. 79, comma 1, c.p.a., richiama, per la sospensione del processo, la disciplina contenuta nel c.p.c. Sicché ogni lacuna o dubbio esegetico inerente le norme sulla sospensione del processo, contenute nel c.p.a., va colmato mediante ricorso alla disciplina recata dal c.p.c. Orbene, l’art. 297 comma 1, c.p.c., che costituisce norma speculare dell’art. 80, comma 1, c.p.a., dispone che, se col provvedimento di sospensione non è stata fissata l’udienza in cui il processo deve proseguire, le parti debbono chiederne la fissazione entro un termine espressamente qualificato come “perentorio”. Le due previsioni contengono una minima differenza sulla durata del termine, quantificato in “tre mesi” dall’art. 297 comma 1, c.p.c. e in “novanta giorni” dall’art. 80, comma 1, c.p.a. Per ragioni di coerenza dell’ordinamento normativo nel suo complesso, ricorda la Plenaria, non può che ritenersi che il termine per l’istanza di fissazione di udienza finalizzata alla prosecuzione del processo a seguito di sua sospensione, abbia la stessa natura nel processo civile e nel processo amministrativo, e dunque sia perentorio anche nel processo amministrativo, essendo tale nel processo civile. In entrambi i casi il principio di ragionevole durata del processo e quello di leale collaborazione delle parti, in una con il divieto di abuso del processo, esigono che il processo non subisca stasi irragionevoli e che gli adempimenti delle parti siano tempestivi.
Inoltre, il Collegio afferma che esigenze di coerenza normativa si impongono anche nell’esegesi congiunta dell’art. 80, comma 1 e dell’art. 80, commi 2 e 3, c.p.a. Invero, i commi 2 e 3 dell’art. 80 prevedono, a seguito di interruzione, sia la possibilità di prosecuzione che di riassunzione del giudizio: la giurisprudenza ha ritenuto che il termine per la prosecuzione del giudizio a seguito di interruzione, previsto dal comma 2, è perentorio come il termine di riassunzione del comma 3, e tanto sebbene l’art. 80, comma 2 non contempli alcun termine né lo qualifichi. Tanto, in applicazione dell’art. 305 c.p.c. (Cons. St., VI, 29.1.2015 n. 405; Id., IV, 8.8.2016 n. 3534; Id., IV, 3.10.2017 n. 4587; Id., IV, 20.1.2020 n. 447; CGARS 22.9.2022 n. 964).
Ancora, la Plenaria aggiunge che, ai sensi dell’art. 35, comma 2, lett. a), c.p.a., il giudice dichiara estinto il giudizio se, nei casi previsti dal c.p.a., “non viene proseguito o riassunto nel termine perentorio fissato dalla legge o assegnato dal giudice”. Il riferimento alla prosecuzione del giudizio deve ritenersi fatto anche al caso dell’onere di prosecuzione a seguito di sospensione del giudizio.
Non convince il Collegio il fatto che l’affidamento che la decisione della IV Sezione n. 1686/2021 fa sull’art. 152, comma 2 c.p.c. a tenore del quale i termini stabiliti dalla legge sono ordinatori, tranne che la legge stessa li dichiari espressamente perentori, per inferirne che il silenzio dell’art. 80, comma 1, c.p.a. sulla natura del termine comporti che si tratta di un termine ordinatorio. Tale esegesi non dimostra perché l’art. 152, comma 2 c.p.c. deve ritenersi applicabile alla sospensione del giudizio nel processo amministrativo. Invero, l’art. 39, comma 1, c.p.a. dispone che, per quanto non disciplinato dal c.p.a., “si applicano le disposizioni del codice di procedura civile in quanto compatibili o espressione di principi generali”. L’applicazione dell’art. 152, comma 2, c.p.c. nel processo amministrativo presuppone dunque, la doppia verifica che ci sia una lacuna nel c.p.a., e che l’art. 152, comma 2, c.p.c. sia espressione di un principio generale o sia compatibile con il c.p.a.
Ora, non risulta dimostrata l’esistenza di una lacuna nella disciplina della sospensione del processo da colmare con l’art. 152, comma 2, c.p.c., perché in materia di sospensione del processo si applicano le norme del c.p.c. oggetto di richiamo puntuale, e in particolare il citato art. 297, comma 1 c.p.c., che qualifica come perentorio il termine per la prosecuzione del giudizio a seguito di sospensione. Manca perciò in radice il presupposto per applicare l’art. 152, comma 2, c.p.c., ossia l’assenza di qualificazione normativa del termine come perentorio, perché la qualificazione normativa espressa esiste, essendo contenuta nell’art. 297 c.p.c., che trova applicazione nel processo amministrativo in via immediata e diretta, per via di richiamo espresso e puntuale. Sicché, nemmeno occorre verificare se l’art. 152, comma 2 c.p.c. sia espressione di un principio generale o sia compatibile con il processo amministrativo, perché nel caso di specie difetta in radice il primo dei presupposti che consentono l’integrazione del processo amministrativo con il c.p.c.
Ancora, ritiene la Plenaria che non sarebbe coerente con un sistema processuale governato dal principio della ragionevole durata del processo (art. 111, comma 2, Cost., e art. 2, comma 2, c.p.a.) rimettere alla mera volontà delle parti la ripresa della trattazione, con il rischio di provocare una quiescenza del giudizio sine die o perlomeno una quiescenza coincidente con il ben più lungo termine di perenzione. Infine, il canone dell’interpretazione storica, secondo la Plenaria, conforta la soluzione della natura perentoria del termine. Invero, prima dell’entrata in vigore del c.p.a., si delineava un contrasto interpretativo tra la tesi secondo cui per la prosecuzione del giudizio sospeso occorreva un’istanza di fissazione di udienza, da presentarsi nel termine di perenzione (che prima del c.p.a. era biennale). La Plenaria ricorda che, il c.p.a., avendo consapevolmente optato per una delle due tesi previgenti e svincolato l’istituto della sospensione del giudizio da quello della perenzione, e avendolo ancorato al c.p.c., ha anche optato per la soluzione dell’onere di prosecuzione del giudizio a cura delle parti entro un termine perentorio, e non entro il termine di perenzione del giudizio, in coerenza, peraltro, con il principio di delega secondo cui il processo amministrativo deve assicurare la ragionevole durata del processo.
Viene ricordato, inoltre, che nel senso della perentorietà del termine di cui all’art. 80, comma 1, c.p.a., è la pressoché univoca giurisprudenza del Consiglio di Stato (oltre al precedente della VI Sezione richiamato dall’ordinanza di rimessione - ossia Cons. St., VI, 3.1.2023 n. 82 - ex multis, Cons. St., III, 2.8.2023 n. 7489; Id., III, 7.6.2023 n. 5603; Id., V, 24.11.2022 n. 10364) Vanno inoltre ricordati, per il Collegio, i numerosi decreti monocratici decisori, che hanno dichiarato l’estinzione del processo per mancata prosecuzione ai sensi dell’art. 80, comma 1, c.p.a., che esplicitamente o implicitamente hanno ritenuto tale termine perentorio, diversamente non potendo ricollegare all’inattività delle parti l’effetto giuridico dell’estinzione del giudizio (ex multis, Cons. St., IV: 6.2.2014 n. 122; 10.3.2014 n. 205; 18.4.2016, nn. 463-466; 9.9.2016 n. 1188).
Secondo la Plenaria, alla conclusione che il termine in questione ha natura perentoria non osta la circostanza, addotta dall’ordinanza di rimessione, che occorrerebbe assicurare un’applicazione effettiva delle pronunce della CGUE, dato anche il loro carattere “normativo”, laddove gli effetti di una pronuncia della CGUE sarebbero “attenuati se non addirittura vanificati se non fosse assicurato alla parte che ha interesse a valersene in giudizio e ai giudici nazionali di tenerne conto in quanto componente del diritto UE, tanto più se l’impedimento fosse legato all’esistenza di una prassi processuale di creazione giurisprudenziale - la sospensione impropria - e di una regola processuale ad esso applicabile non codificata ma derivante dall’applicazione in via analogica o estensiva di quanto stabilito per la sospensione propria, ove l’art. 80, comma 1, fosse letto nel senso della perentorietà del termine” (così, testualmente, l’ordinanza di rimessione).
Per il Collegio, quindi, va ribadito, in linea di principio, quanto già affermato dalla stessa Adunanza Plenaria, secondo cui “le sentenze pregiudiziali interpretative della Corte di Giustizia hanno la stessa efficacia vincolante delle disposizioni interpretate: la decisione della Corte resa in sede di rinvio pregiudiziale, dunque, oltre a vincolare il giudice che ha sollevato la questione, spiega i propri effetti anche rispetto a qualsiasi altro caso che debba essere deciso in applicazione della medesima disposizione di diritto (in tal senso è costante la giurisprudenza comunitaria […]” (Cons. St., Ad. Plen., 9.6.2016 n. 11).
Tuttavia, viene affermato nella sentenza in esame che, per principio generale dell’ordinamento, fuori dal campo dei giudizi permeati dall’impulso d’ufficio in connessione con l’esigenza di un’applicazione officiosa e imperativa del diritto (es. processo penale), la corretta applicazione del diritto obiettivo nel caso concreto, in presenza di contrasto tra le parti, postula la via processuale, che è onere della parte interessata diligentemente perseguire e coltivare. Il principio dispositivo permea sia la tutela dei diritti che quella degli interessi legittimi, come si evince dall’art. 24 Cost., secondo cui tutti “possono” agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi, mentre non esiste un principio costituzionale di sostituzione dell’iniziativa di parte con l’impulso d’ufficio, fuori dal processo penale. Inoltre, nel processo amministrativo, la rimessione in termini di una parte che sia decaduta dall’osservanza di un termine perentorio, passa per gli stretti presupposti, già ricordati, della scusabilità dell’errore, a garanzia non solo della certezza del diritto, ma anche del principio di parità delle armi e di non discriminazione in favore di una parte processuale e a detrimento dell’altra.
A tali generalissimi e basilari principii, ricorda la Plenaria, non fa eccezione la corretta applicazione del diritto eurounitario, ivi comprese le pronunce della CGUE: la Corte europea, infatti, riconosce il principio dell’autonomia processuale degli Stati membri, ribadendo l’importanza che riveste, sia nell’ordinamento giuridico dell’Unione che negli ordinamenti giuridici nazionali, il principio di stabilità del diritto e dei rapporti giuridici e una buona amministrazione della giustizia, purché l’autonomia procedurale degli Stati membri rispetti i principi di equivalenza e di effettività (CGUE, 10.7.2014 C-213/13), vale a dire purché il processo davanti ai giudici nazionali non renda impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio di diritti di derivazione eurounitaria, attraverso l’imposizione di oneri inutili o sproporzionati (CGUE, 14.9.2017 C-184/16, §§ 58-60; Id., 13.3.2014 C-29/13 e C-30/13, § 33).
Secondo la CGUE, nell’ambito di tale autonomia procedurale, la fissazione di termini di ricorso a pena di decadenza, purché ragionevoli nell’interesse della certezza del diritto, a tutela sia del singolo sia dell’amministrazione, è compatibile con il diritto dell’Unione (CGUE, 14.9.2017 C-184/16, § 60; Id., 17.11.2016 C-348/14, § 41; Id., 16.1.2014 C-429/12, § 29; Id., 18.10.2012 C-603/10, § 23; Id., 15.4.2010 C-542/08, § 28; Id., 6.10.2009 C-40/08, §§ 41-43 che ha ritenuto ragionevole un termine processuale di 60 giorni).
Da numerosi arresti della CGUE la Plenaria afferma potersi desumere il principio generale secondo cui i processi davanti ai giudici nazionali non devono imporre oneri manifestamente sproporzionati che rendono impossibile o estremamente difficile l’esercizio di diritti di derivazione eurounitaria, ma anche il corollario di tale principio, vale a dire che la certezza del diritto giustifica la decadenza o prescrizione di siffatti diritti di derivazione eurounitaria, se non coltivati entro i termini processuali previsti dalle leggi nazionali, purché si tratti di termini ragionevoli. In aggiunta, la Corte di giustizia ha affermato, persino in un settore connotato da relazioni asimmetriche, quale è quello della tutela dei consumatori, che il rispetto del principio di effettività non può giungere al punto di esigere che un giudice nazionale debba compensare un’omissione procedurale di una parte o supplire integralmente alla completa passività della parte interessata (CGUE, 6.10.2009 C-40/08, § 47) e che il rispetto del principio di effettività non può supplire integralmente alla completa passività del consumatore interessato (CGUE, 1.10.2015 C-32/14, § 62; Id., 17.5.2022 C-693/19 e C-831/19, § 58). In maniera ancora più pertinente al caso oggetto del presente giudizio, la CGUE ha affermato che, purché siano rispettati i suddetti principi di equivalenza ed effettività, non contrasta con il diritto eurounitario “il principio di diritto nazionale secondo il quale in un procedimento civile il potere o dovere del giudice di sollevare motivi d'ufficio è limitato dall'obbligo per lo stesso di attenersi all'oggetto della lite e di basare la sua pronuncia sui fatti che gli sono stati presentati”. Secondo la CGUE, “tale limitazione è giustificata dal principio secondo il quale l'iniziativa di un processo spetta alle parti, e il giudice può agire d'ufficio solo in casi eccezionali in cui il pubblico interesse esige il suo impulso. Questo principio attua concezioni condivise dalla maggior parte degli Stati membri quanto ai rapporti fra lo Stato e il singolo, tutela i diritti della difesa e garantisce il regolare svolgimento del procedimento, in particolare preservandolo dai ritardi dovuti alla valutazione dei motivi nuovi” (CGUE 14.12.1995 C-420/93 e C-431/93, §§ 20 e 21).
In definitiva, dice la Plenaria, anche se lo spirare dei termini processuali previsti dalle leggi processuali nazionali impedisce, di fatto, l’esercizio dei diritti riconosciuti dal diritto dell’UE, ciò non si traduce in una violazione del diritto dell’UE, purché i termini siano ragionevoli, proporzionati e non discriminatori, sicché ne risultino rispettati i principi di effettività e di equivalenza (CGUE, 17.7.1997 C-90/94, § 48). E pertanto, se ne può concludere che il diritto UE, ivi comprese le pronunce della CGUE a portata “normativa”, non deve trovare applicazione d’ufficio, e non giustifica un soccorso istruttorio in favore della parte inerte nell’attivazione dei propri diritti fintanto che i termini siano chiari, proporzionati, non discriminatori.
Secondo la Plenaria, è questa la mediazione tra il “primato” del diritto eurounitario, che ne impone un’applicazione “effettiva”, e i principi di certezza del diritto e parità delle parti del processo, raggiunta attraverso il principio eurounitario di proporzionalità, che non differisce, in tale applicazione, dal principio costituzionale di ragionevolezza.
E tale ragionamento, riferito dalla CGUE ai termini di ricorso, deve ritenersi estensibile ai termini infraprocessuali per adempimenti all’interno del processo, per identità di ratio e di esigenza di assicurare la certezza del diritto. Soccorrono in tal senso taluni precedenti della CGUE riferiti a preclusioni processuali di diritto nazionale che, secondo la CGUE, possono legittimamente precludere la piena applicazione del diritto eurounitario (CGUE, 6.10.2021 C-561/19, §§ 61--65; CGUE, 15.3.2017 C-3/16, § 56; CGUE 17.3.2016 C-161/15, §§ 24-31; CGARS, 26.4.2021 n. 371; Id., 28.10.2021 n. 972; Cons. St., IV, 9.7.2020 n. 4403).
Con riferimento all’istituto della sospensione impropria “in senso lato”, la Plenaria afferma non ricorrere alcuna violazione dei suddetti principi processuali affermati dalla CGUE, alla luce delle considerazioni che seguono.
(i) Per il caso della sospensione impropria “in senso lato”, il termine perentorio di prosecuzione non è di creazione giurisprudenziale, posto che la sospensione impropria “in senso lato” va qualificata come sospensione ai sensi dell’art. 295 c.p.c. (o, con effetto equivalente, ai sensi dell’art. 296 c.p.c.); non viene imposto alle parti alcun onere incerto, oscuro, o sproporzionato.
(ii) Il termine per presentare istanza di fissazione di udienza finalizzata alla prosecuzione del processo, pari a novanta giorni, è coerente con la giurisprudenza eurounitaria che ha ritenuto congrui e ragionevoli anche termini processuali ben inferiori (CGUE, 6.10.2009 C-40/08, §§ 41-43; Id., 27.2.2003 C327/00, §§ 52-56; CGCE, 12.12.2002 C-470/99, §§ 17 e 76).
(iii) Non ricorre nemmeno una situazione di cambiamento normativo in peius quanto al termine processuale, senza adeguato periodo transitorio (CGUE, 24.9.2002 C-255/00, § 42), perché la vicenda de quo si è svolta molti anni dopo l’entrata in vigore del c.p.a. che, come ricordato, tra la tesi della prosecuzione del ricorso entro il termine di perenzione e quella di prosecuzione entro il termine perentorio di novanta giorni/tre mesi, ha optato per quest’ultima.
(iv) Infine, non ricorre una situazione di “comportamento mutevole” di una pubblica autorità (CGUE, 27.2.2003 C-327/00, §§ 58-61) per il fatto che l’art. 80 c.p.a., da un lato prevede, al comma 1, l’iniziativa di parte per la prosecuzione del processo e dall’altro lato prevede, al comma 3-bis, la fissazione d’ufficio dell’udienza, perché, come già affermato, la fissazione d’ufficio dell’udienza ai sensi e per gli effetti dell’art. 80, comma 3-bis, c.p.a., dopo che è scaduto il termine per l’impulso di parte, è finalizzata alla verifica delle conseguenze dell’inerzia delle parti, non è un inammissibile soccorso in favore di una parte inerte e a detrimento dell’altra, che in quell’inerzia ha confidato, e non è pertanto finalizzata a sostituire l’iniziativa di parte con un’iniziativa d’ufficio.
A tale conclusione il Collegio perviene avendo tenuto conto del ruolo dell’art. 80 c.p.a. “nell’insieme del procedimento, del suo svolgimento e delle sue peculiarità, nonché dei principi che sono alla base del sistema giurisdizionale italiano, e segnatamente la tutela dei diritti della difesa, il principio della certezza del diritto e il regolare svolgimento del procedimento” (CGUE, 17.5.2022 C-693/19 e C-831/19, § 60; Id., 22.4.2021 C-485/19, § 53; Id., 15.3.2017 C-3/16, § 53; Id., 14.12.1995 C-430/93 e C-431/93, § 19).
In conclusione, al primo quesito sottoposto dall’ordinanza di rimessione, la Plenaria risponde che:
“(a) nel processo amministrativo la sospensione del processo è disciplinata - ai sensi dell’art. 79, comma 1, c.p.a. - dal codice di procedura civile, dalle altre leggi e dal diritto dell’Unione europea; a sua volta il c.p.c., come interpretato dal diritto vivente della Corte di cassazione, nella lettura datane dalla Corte costituzionale, non contempla la sospensione del processo per ragioni di opportunità;
(b) la c.d. sospensione impropria “in senso lato” del processo, ossia disposta, in un dato giudizio, nelle more della soluzione, in un diverso giudizio, di un incidente di costituzionalità, o di una pregiudiziale eurounitaria, o di una rimessione all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato avente carattere pregiudiziale anche nel giudizio de quo, costituisce, al pari della c.d. sospensione impropria “in senso stretto” (ossia disposta nel giudizio in cui viene sollevata questione di costituzionalità o questione pregiudiziale eurounitaria) una sospensione necessaria ai sensi dell’art. 295 c.p.c., per la definizione di una questione avente carattere “pregiudiziale”, avuto riguardo alla portata “normativa” delle decisioni della Corte costituzionale e della CGUE, e al valore di precedente parzialmente vincolante delle pronunce dell’Adunanza Plenaria;
(c) la sospensione impropria “in senso lato” va adottata previo contraddittorio ai sensi dell’art. 73, comma 3, c.p.a. e solo se le parti o almeno una di esse non chiedano di poter interloquire davanti la Corte costituzionale, la CGUE, la Plenaria, nel qual caso va disposta una nuova rimessione (con conseguente sospensione impropria “in senso stretto” nelle prime due ipotesi);
(d) un effetto equivalente a quello sub (c) può essere conseguito mediante una sospensione sull’accordo delle parti ex art. 296 c.p.c.; una sospensione ai sensi dell’art. 296 c.p.c. è inoltre adottabile allorché la questione rilevante nel giudizio de quo sia analoga, ma non identica, a quella già pendente davanti la Corte costituzionale, la CGUE, la Plenaria; in ogni caso, la sospensione ex art. 296 c.p.c. va disposta nel rispetto dei relativi presupposti normativi, tenendo conto che il termine massimo di durata della sospensione, ivi previsto, non è né perentorio né elemento indefettibile della fattispecie, e va modulato caso per caso sulla scorta di una valutazione prognostica circa il tempo necessario per la definizione della questione pregiudiziale pendente in diverso giudizio;
(e) le esigenze di economia processuale e di ragionevole durata del processo, sottese alla c.d. sospensione impropria “in senso lato” possono essere soddisfatte, oltre che con la sospensione ex art. 295 c.p.c. (o 296 c.p.c.), anche a mezzo del rinvio dell’udienza a data fissa (o eccezionalmente a data da destinarsi) o della cancellazione della causa dal ruolo, nel rigoroso rispetto dei relativi presupposti normativi”.
Al secondo quesito sottoposto dall’ordinanza di rimessione, l’Adunanza Plenaria risponde che:
“(a) nella fisiologica applicazione delle vigenti norme processuali, se il processo subisce una stasi per attendere la definizione di una questione di costituzionalità, di una pregiudiziale eurounitaria, o di una rimessione all’Adunanza Plenaria pendente in un diverso giudizio, attraverso, alternativamente, gli istituti (1) della sospensione ex art. 295 c.p.c., (2) della sospensione ex art. 296 c.p.c. senza indicazione della data della nuova udienza, (3) della sospensione ex art. 296 c.p.c. con indicazione della data della nuova udienza, (4) del rinvio dell’udienza a data fissa o, eccezionalmente, a data da destinare, (5) della cancellazione della causa dal ruolo: (i) nella prima e seconda ipotesi le parti hanno l’onere di presentare istanza di fissazione di udienza al fine della prosecuzione del processo ai sensi dell’art. 80, comma 1, c.p.a.; (ii) nella terza e quarta ipotesi il processo prosegue, senza impulso di parte, all’udienza indicata nell’ordinanza di sospensione o nel verbale di udienza che dispone il rinvio o comunque fissata d’ufficio; (iii) nella quinta ipotesi il processo prosegue se la parte presenta istanza di fissazione di udienza entro il termine di perenzione ordinaria;
(b) ove venga adottata un’ordinanza di sospensione impropria “in senso lato” senza l’audizione e/o il consenso delle parti, tale ordinanza, se non contestata con i rimedi che l’ordinamento appresta, onera le parti di presentare istanza di fissazione di udienza al fine della prosecuzione del processo ai sensi dell’art. 80, comma 1, c.p.a.”.
Al terzo quesito sottoposto dall’ordinanza di rimessione, l’Adunanza Plenaria risponde che:
“(a) ove l’ordinanza di sospensione del processo non fissi già la data dell’udienza di prosecuzione, il termine di cui all’art. 80, comma 1, c.p.a., entro cui le parti devono presentare istanza di fissazione di udienza al fine della prosecuzione del processo, a seguito di qualsivoglia ipotesi di sua sospensione senza indicazione della nuova data di udienza, ha natura di termine perentorio;
(b) la perentorietà di tale termine va ribadita anche ove si traduca, nell’inerzia delle parti, in un ostacolo di fatto all’applicazione del diritto eurounitario, perché (i) il diritto eurounitario riconosce l’autonomia processuale degli Stati membri a condizione del rispetto dei principi di equivalenza ed effettività, (ii) il diritto eurounitario non impedisce la previsione di termini processuali perentori, purché proporzionati e non discriminatori, e (iii) il termine di cui all’art. 80, comma 1, c.p.a., alla luce della giurisprudenza eurounitaria, è proporzionato, non discriminatorio, e la complessiva disciplina contenuta nell’art. 80 c.p.a. non è ambigua”.
- Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sent. n. 5 del 2024, sull’accesso al fascicolo digitale da parte del terzo non costituito
L’Adunanza Plenaria, preliminarmente, ricorda che l’accesso al fascicolo informatico ‒ come attualmente disciplinato dall’art. 17 del decreto del Presidente del Consiglio di Stato in data 28 luglio 2021, recante le «regole tecniche-operative del processo amministrativo telematico» ‒ è consentito:
- i) senza formalità (de plano): «al presidente o al magistrato delegato per i provvedimenti monocratici, a ciascun componente il collegio giudicante» (comma 1); «ai difensori muniti di procura, agli avvocati domiciliatari, alle parti personalmente» (comma 3, primo periodo); agli Avvocati e ai Procuratori dello Stato rispetto ai «fascicoli dei procedimenti nei quali è parte un soggetto che si avvale o può avvalersi del patrocinio dell'Avvocatura dello Stato» (comma 6);
- ii) subordinatamente all’autorizzazione del «giudice», per quanto riguarda invece: gli ausiliari del giudice stesso (comma 2); nonché «coloro che intendano intervenire volontariamente nel giudizio» (comma 3, ultimo periodo).
L’ipotesi normativa da ultimo citata ‒ segnatamente l’accesso di terzi al fascicolo informatico del processo inter alios ‒ pone alcune rilevanti questioni interpretative.
La Plenaria, quindi, rileva che il primo profilo di indagine attiene alla conformità a legge della disposizione in commento. In particolare, si ricorda che la Sesta Sezione del Consiglio di Stato, con ordinanza 23 ottobre 2019, n. 7202, ha ritenuto, infatti, che l’analoga previsione contenuta nel previgente art. 17, comma 3, del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 16 febbraio 2016, n. 40 (recante le regole tecnico-operative per l’attuazione del processo amministrativo telematico), si ponesse in contrasto con le norme processuali primarie in materie coperte da riserva di legge (quali, in particolare, il processo e la protezione dei dai personali), oltre che essere «priva di copertura nella delega di cui all’art. 13 delle disposizioni di attuazione del codice del processo amministrativo.
Su queste basi, l’ordinanza della Sesta Sezione ha disposto la disapplicazione della disposizione regolamentare, precisando che il «terzo estraneo al processo può avere accesso agli atti processuali attraverso strumenti alternativi, quali: i) l’intervento nel processo (con la precisazione che, ove si tratti di ‘intervento al buio’ non contenente domande nuove, lo stesso non comporta il pagamento del contributo unificato); ii) l’ordine di esibizione del giudice conseguito a seguito di ricorso giurisdizionale in cui si deduca (e si dimostri) in giudizio uno specifico interesse ad acquisire o conoscere determinati atti o documenti di un giudizio pendente inter alios; iii) il previo consenso all’accesso di tutte le parti del processo ai cui atti il terzo intende accedere» (analoghe considerazioni sono state svolte nel decreto presidenziale 19 ottobre 2018, n. 150, del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana).
L’Adunanza Plenaria, nell’ordinanza in esame, ritiene che i rilievi appena menzionati siano superabili.
Infatti, secondo il Collegio, la riserva di legge in materia processuale trova il suo fondamento positivo nell’art. 111, primo comma, della Costituzione, secondo cui «[l]a giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge» (nella formulazione introdotta dalla legge costituzionale n. 2 del 23 novembre 1999). Quando la Costituzione prevede casi di riserva di legge, la legge non può trasferire liberamente le competenze normative del Parlamento ad una fonte di rango inferiore.
All’assolutezza del principio di legalità viene apposto un limite interno, perché la legge non può limitarsi semplicemente a consentire l’attività normativa secondaria, ma deve dettare quantomeno i principi informatori della materia.
Quindi, la Plenaria evidenzia che la disciplina processuale dell’attività giurisdizionale è riservata alla legge in termini «assoluti» e non «relativi». La distinzione concerne, come è noto, la maggiore vincolatività della riserva assoluta nei confronti dell’attività normativa secondaria dell’esecutivo.
Tuttavia, anche negli ambiti coperti da riserva «assoluta», non è necessario che il legislatore disciplini «integralmente» la materia in questione.
Come ricordato dalla Plenaria, la giurisprudenza costituzionale ‒ in numerosi precedenti riguardanti la riserva di legge in materia penale (cfr., ex plurimis, le sentenze n. 36 del 1964; n. 96 del 1964; n. 26 del 1966; n. 61 del 1969; n. 168 del 1971; n. 113 del 1972; n. 21 del 1973; n. 58 del 1975; n. 108 del 1982; n. 282 del 1990; n. 333 del 1991) ‒ ammette che la legge demandi alla fonte secondaria le scelte connotate da una discrezionalità soltanto «tecnica». Tale principio rileva anche nella materia, riservata alla legge, del diritto processuale.
Dunque, la Plenaria afferma che, escluso che, negli ambiti coperti da riserva di legge, la disciplina della materia debba essere dettata esclusivamente da fonti primarie e che qualunque atto normativo secondario sia per ciò stesso invalido (come invece ipotizzato nel citato precedente della Sesta Sezione), occorre verificare il rispetto, nel caso concreto, del duplice limite che la riserva di legge pone, rispettivamente, al potere legislativo (sindacabile in sede di controllo di costituzionalità) e alla potestà normativa dell’esecutivo (e degli altri organi non governativi, pure investiti di poteri regolamentari).
Sotto il primo profilo, la disposizione primaria non viola la riserva di legge sancita dall’articolo 111 Cost. (nel senso che la questione di legittimità costituzionale si presenta manifestamente infondata).
L’art. 13, comma 1, dell’allegato 2 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (recante il codice del processo amministrativo), infatti, rimette al «decreto del Presidente del Consiglio di Stato» soltanto l’adozione di regole tecnico-operative del processo amministrativo telematico, con salvezza integrale dei poteri del Collegio, anche di quelli concernenti la declaratoria di ammissibilità o meno degli interventi nel giudizio.
Non sono stati quindi attribuiti poteri normativi interferenti sulla disciplina del processo dettata dalla fonte primaria.
Venendo al secondo profilo, il Collegio afferma che il contenuto dell’art. 17 del D.P.C.S. trovi il suo fondamento del citato art. 13, comma 1, anche nella parte in cui consente l’accesso al fascicolo telematico a «coloro che intendano intervenire volontariamente nel giudizio», subordinatamente all’autorizzazione del «giudice». La disposizione, in particolare, si limita a procedimentalizzare quell’attività di consultazione dei fascicoli di causa che, prima dell’entrata in vigore delle regole del processo telematico, si svolgeva informalmente all’interno delle Segreterie, ma che, a seguito della digitalizzazione, richiede necessariamente di essere mediata da un atto abilitativo che consenta al terzo di accreditarsi nel sistema informatico. La previsione non altera i presupposti e le condizioni dell’istituto processuale dell’intervento, i quali restano disciplinati dagli articoli 28, 50, 51, 97, 102, secondo comma, 109, secondo comma, del Codice del processo amministrativo.
Sotto altro profilo, rileva la Plenaria, l’art. 17 del d.P.C.S. non ha introdotto ex novo una pretesa ‒ quella del terzo che voglia accedere al fascicolo di una causa pendente inter alios ‒ prima non contemplata o addirittura disconosciuta dalla fonte primaria; si tratta, invece, di una prerogativa insita nella situazione giuridica sostanziale ed espressiva del diritto di difesa.
La Plenaria ricorda che, nel sistema di giustizia amministrativa, la funzione dell’intervento è duplice: da un lato, quella di tutelare preventivamente il terzo contro gli effetti indiretti o riflessi che possa subire dalla sentenza inter alios acta; dall’altro, quella di dare rilevanza processuale alla situazioni giuridiche soggettive, di varie tipologia e contenuto, che si muovono interrelate nel contesto dell’azione amministrativa, consentendo al giudice di cogliere la portata della controversia nella sua globale e sostanziale complessità.
La rilevanza giuridica dell’interesse del terzo ad inserirsi in un processo già pendente ‒ sia esso una parte necessaria pretermessa; un controinteressato sostanziale (titolare cioè di una posizione giuridica autonoma, uguale e contraria a quello del ricorrente, ma non «individuato» nell’atto impugnato); chi si trovi nelle situazioni previste dall’art. 28 comma 2, c.p.a.; oppure colui che subisce gli effetti dell’atto impugnato soltanto in via indiretta in quanto titolare di un interesse dipendente ‒ comporta il riconoscimento della facoltà prodromica di accedere al fascicolo della causa inter alios, al fine di potere previamente verificare i termini specifici della res litigiosa astrattamente suscettibile di interferire con la propria sfera giuridica.
Quindi, secondo il Collegio, consentire in tali casi unicamente la possibilità di intervenire «al buio» ‒ oltre che non rispondere a canoni deflattivi e di ordinato svolgimento del contenzioso ‒ si tradurrebbe in una ingiustificata ed eccessiva restrizione del diritto di difesa di chi aspira a conoscere gli atti di un processo in cui non è stato evocato. Ovviamente, rileva la Plenaria, l’eventuale accoglimento dell’istanza di accesso, ai sensi del citato art. 17, comma 1, non ha di per sé alcuna incidenza sulle determinazioni spettanti al giudice amministrativo, qualora sia poi formalizzato l’intervento.
Ancora, la Plenaria afferma che l’art. 17 del D.P.C.S. non si pone in contrasto con la disciplina in materia di protezione dei dati personali (come pure affermato nel precedente della Sesta Sezione). Infatti, la base giuridica del trattamento di dati personali effettuati per «ragioni di giustizia» (correlati alla trattazione giudiziaria di affari e di controversie), è fornita: per i dati personali non sensibili, dall’art. 6, paragrafo 1, lettera e), del Regolamento UE 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, relativo all’esecuzione «di un compito di interesse pubblico o connesso all’esercizio di pubblici poteri di cui è investito il titolare del trattamento»; per i dati personali sensibili, dall’art 9, paragrafo 2, lettera f), dello stesso Regolamento, secondo cui il divieto di trattamento non opera se «è necessario per accertare, esercitare o difendere un diritto in sede giudiziaria o ogniqualvolta le autorità giurisdizionali esercitino le loro funzioni giurisdizionali».
L’art. 2-duodecies del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali), sempre in relazione ai trattamenti di dati personali effettuati per ragioni di giustizia, stabilisce che i diritti dell’interessato e gli obblighi del titolare del trattamento (di cui agli articoli da 12 a 22 del Regolamento) «sono disciplinati nei limiti e con le modalità previste dalle disposizioni di legge» che regolano i procedimenti giurisdizionali, e che tali diritti e obblighi possono essere limitati per «la salvaguardia dell’indipendenza della magistratura e dei procedimenti giudiziari».
Per completezza, la Plenaria precisa che non vi è alcuna sovrapposizione neppure con la disciplina sul diritto di accesso procedimentale, la quale si applica ai soli «documenti amministrativi» e non agli atti del processo (art. 22 della legge 7 agosto 1990, n. 241).
Fugati i dubbi sulla legittimità dell’art. 17 del D.P.C.S., il Collegio prosegue a trattare alcune questioni interpretative concernenti la competenza, i presupposti ed il regime giuridico dell’accesso al fascicolo informatico.
Quanto alla competenza, l’accesso di «coloro che intendano intervenire volontariamente nel giudizio» deve essere autorizzato dal «giudice»: deve escludersi che il riferimento al giudice coincida necessariamente con l’organo giudiziario in composizione collegiale, anche perché l’istanza potrebbe essere presentata in un momento antecedente alla trattazione della causa e alla designazione del Collegio. È dunque possibile che decida il Presidente della Sezione in cui è incardinato il fascicolo, in coerenza con il principio per il quale il Presidente è titolare delle principali funzioni ‘ordinatorie’ del processo (cfr. gli articoli del c.p.a.: 41, comma 4; 47, comma 2; 49, comma 1; 52, comma 2; 53, comma 1; 65 commi 1 e 3; 67, comma 3, lettera b; 68, comma 1; 71, commi 3 e 6; 72, comma 1; art. 72-bis, comma 1; 79, comma 2; art. 80 comma 3-bis; 87, comma 1; 93, comma 2; 99, comma 2; 130, comma 2; 131, comma 2; 136, comma 2; nonché gli articoli 5, comma 5, 6 comma 4, 8, comma 2, e 9 delle norme di attuazione).
Tuttavia, ricorda la Plenaria, il Presidente ben può disporre che l’istanza sia esaminata dal Collegio, in coerenza con l’altro principio, che è alla base dell’intero sistema del Codice, per il quale il Collegio valuta tutte le questioni che non siano state previamente definite dal Presidente.
Sul piano del contenuto, il Collegio precisa che l’autorizzazione in questione consiste in una delibazione di astratta pertinenza (tra la causa pendente e la sfera giuridica del terzo istante) e di non manifesta pretestuosità o intento emulativo dell’istante. La decisione sull’ammissibilità dell’intervento, invece, spetta esclusivamente al Collegio in sede di decisione della causa.
Gli atti processuali di parte possono talvolta contenere dati sensibili o comunque afferenti alla vita privata o a segreti commerciali o industriali. In questi casi, il giudice ‒ in ossequio ai principi generali di adeguatezza, pertinenza e proporzionalità del trattamento (di cui all’art. 5 del Regolamento) ‒ potrà, se del caso, disporre misure di «minimizzazione» dei dati superflui, garantendo così, fino a quando il terzo non spieghi effettivamente l’intervento, un equo bilanciamento tra diritto di difesa e tutela della riservatezza. Resta salva la possibilità per il giudice, nei casi dubbi o complessi, di sentire le parti costituite.
La Plenaria, dunque, afferma che l’istanza del terzo di accesso al fascicolo telematico non dà luogo ad un incidente processuale. Ne consegue che il provvedimento che decide su di essa non è suscettibile di rimedi o mezzi di impugnazione (cfr. in tal senso, Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, sentenza n. 963 del 22 settembre 2022). A fronte del diniego di visualizzazione, il terzo potrà comunque effettuare l’intervento, sia pure questa volta «al buio», la cui valutazione sulla ammissibilità spetterà poi al Collegio giudicante decidere.
- Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sent. n. 11 del 2024, in tema di ricorso straordinario
La Sezione Sesta del Consiglio di Stato osserva come la controversia ponga la questione inedita del rapporto esistente fra la decisione resa su un ricorso straordinario, nonostante il giudizio fosse stato ritualmente trasposto, e la sentenza adottata in sede giurisdizionale, nel caso in cui le due pronunce abbiamo avuto esiti contrastanti.
Rilevando che sussistono ancora profili di incertezza circa la natura del ricorso straordinario e la portata del principio di alternatività enunciato all’art. 8 del d.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199, la Sezione Sesta ha quindi rimesso all’esame dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, ai sensi dell’art. 99, comma 1, c.p.a., il quesito volto a chiarire quale sia «il regime giuridico del decreto decisorio del Presidente della Repubblica reso erroneamente su ricorso straordinario ormai trasposto, ossia: se ad esso sia o non sia riferibile l’insegnamento consolidatosi che considera la decisione di un ricorso straordinario non trasposto avente valore di cosa giudicata e, nel caso in cui tale decreto decisorio del Presidente della Repubblica non abbia valore di cosa giudicata, se debba essere considerato nullo ai sensi dell’art. 21-septies della legge n. 241 del 1990 perché reso in astratta e totale carenza di potere per violazione del principio di alternatività dei rimedi».
La Sezione Sesta – richiamato il dibattito sulla qualificazione del ricorso straordinario alla luce delle recenti emergenze normative e giurisprudenziali – afferma di propendere per la tesi della nullità, sul rilievo della natura soggettivamente amministrativa della decisione che definisce il ricorso straordinario, con conseguente applicabilità delle norme che regolano le invalidità del provvedimento amministrativo. La Sezione rimettente aggiunge che la questione è rilevante anche se, in ordine alla medesima fattispecie, è intervenuta un’identica misura demolitoria la cui legittimità è stata confermata con sentenza passata in giudicato, in quanto tale circostanza «potrebbe essere influente sul ricorso in esame solo nel caso in cui l’Adunanza Plenaria non condivida la tesi della nullità».
L’Adunanza Plenaria, preliminarmente, rileva che, nella vicenda in esame, il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica proposto avverso un ordine di demolizione è stato deciso e accolto, nonostante fosse stato ritualmente trasposto in sede giurisdizionale, dove invece il Tribunale Amministrativo Regionale – con sentenza successiva alla definizione del ricorso straordinario – ha rigettato la medesima domanda di annullamento.
L’individuazione della regola atta a dirimere il contrasto pratico tra le due statuizioni, per la Plenaria, dipende dalla qualificazione del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica e dal regime giuridico conseguentemente applicabile al decreto decisorio.
Secondo l’impostazione tradizionale che vede nel ricorso straordinario un rimedio di natura amministrativa, la fattispecie andrebbe sussunta sotto le norme che disciplinano l’invalidità dell’atto amministrativo (segnatamente, la nullità per difetto di attribuzione), che in quanto tale sarebbe privo della forza e del valore giuridico per imporsi o condizionare l’accertamento giurisdizionale.
La tesi che invece configura il ricorso straordinario come rimedio «sostanzialmente giurisdizionale» dovrebbe a rigore comportare ‒ traendo le debite conseguenze di tale impostazione ‒ una soluzione del tutto opposta. La pronuncia sul ricorso straordinario sarebbe infatti idonea a passare in giudicato (in maniera non dissimile alla sentenza assunta dal giudice amministrativo), soggiacendo al relativo regime processuale, con il risultato che:
- i) la violazione della norma sull’alternatività tra sede straordinaria e giurisdizionale (articoli 8 e 10 del d.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199) si tradurrebbe in un vizio del decreto che, in applicazione del principio generale della conversione dei motivi di nullità in motivi d’impugnazione, andrebbe fatto valere tramite il mezzo di impugnazione previsto dalla legge (nella specie, quello «per vizi di forma o di procedimento» di cui all’art. 10, comma 3, del d.P.R. n. 1199 del 1971), vizio che invece risulterebbe sanato ove non dedotto attraverso tale impugnazione (ovvero quando, come è avvenuto nel caso di specie, il gravame sia andato perento);
- ii) il mezzo attraverso il quale dovrebbe essere rilevata l’esistenza di un precedente decreto decisorio (equiparato alla sentenza) oramai «stabile», sarebbe l’eccezione di cosa giudicata, la quale, se fondata, dovrebbe precludere al giudice di giudicare nuovamente la lite già decisa;
iii) soltanto qualora non fosse rilevata l’eccezione di cosa giudicata, né proposta revocazione avverso la seconda sentenza (ai sensi dell’art. art. 395, n. 5, del c.p.c.), si determinerebbe (in caso di difformità tra le due pronunce) un contrasto tra i giudicati, in cui (secondo la giurisprudenza e la dottrina dominanti) sarebbe l’ultimo giudicato a prevalere su quello precedente (trattandosi della successione temporale di atti giuridici entrambi validi e muniti di pari efficacia).
La Plenaria ritiene necessario, ai fini del decidere, ripercorrere rapidamente e in modo schematico i termini del recente dibattito sulla natura del ricorso straordinario.
Sino al 2009, l’orientamento assolutamente prevalente nella giurisprudenza amministrativa intendeva il ricorso straordinario come un rimedio contenzioso di natura amministrativa. In tal senso, si erano espressi, a più riprese, sia la Corte costituzionale, sia le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, per escludere l’ottemperabilità delle decisioni rese su ricorso straordinario e la loro ricorribilità per motivi di giurisdizione.
A seguire, successivi interventi legislativi hanno rivitalizzato la discussione. L’art. 69 della legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la competitività nonché in materia di processo civile), ha modificato: l’art. 13 del d.P.R. n. 1199 del 1971, prevedendo che la Sezione consultiva «se ritiene che il ricorso non possa essere deciso indipendentemente dalla risoluzione di una questione di legittimità costituzionale che non risulti manifestamente infondata, sospende l’espressione del parere e, riferendo i termini e i motivi della questione, ordina alla segreteria l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale» (comma 1); nonché l’art. 14 del d.P.R. n. 1199 del 1971, eliminando la potestà del Governo di deliberare in senso difforme rispetto al parere espresso dal Consiglio di Stato (comma 2).
Ulteriori innovazioni sono state introdotte dal nuovo Codice del processo amministrativo, di cui al d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, il quale: ha stabilito che il ricorso straordinario è ammissibile unicamente per le controversie devolute alla giurisdizione amministrativa (art. 7, comma 8); ha (sia pure non espressamente) definitivamente riconosciuto la possibilità di azionare il giudizio di ottemperanza per l’esecuzione del decreto presidenziale (art. 112); ha generalizzato la facoltà di opposizione di cui all’art. 10 del d.P.R. n. 1199 del 1971 in favore di tutte le parti nei cui confronti sia stato proposto il ricorso straordinario (art. 48, comma 1); ha previsto che, qualora «l’opposizione sia inammissibile, il Tribunale amministrativo regionale dispone la restituzione del fascicolo per la prosecuzione del giudizio in sede straordinaria», delineando (secondo alcuni) una particolare ipotesi di translatio iudicii (art. 48, comma 3, c.p.a.).
La Plenaria, quindi, rileva che, sulle predette disposizioni, si sono registrati significativi mutamenti di indirizzo. La Corte di cassazione ha riconosciuto l’ammissibilità dell’azione di ottemperanza per l’esecuzione dei decreti resi su ricorsi straordinari (Corte di Cassazione, Sezioni Unite, n. 2065 del 2011), nonché la loro impugnabilità per motivi inerenti alla giurisdizione (Corte di Cassazione, Sezioni Unite, n. 23464 del 2012, n. 20569 del 2013, n. 10414 del 2014). Alla base del nuovo orientamento, le Sezioni Unite assumono che l’intervenuta eliminazione del potere di discostarsi dal parere del Consiglio di Stato «conferma che il provvedimento finale, che conclude il procedimento, è meramente dichiarativo di un giudizio: che questo sia vincolante, se non trasforma il decreto presidenziale in un atto giurisdizionale (in ragione, essenzialmente, della natura dell’organo emittente e della forma dell’atto), lo assimila a questo nei contenuti, e tale assimilazione si riflette sull’individuazione degli strumenti di tutela, sotto il profilo della effettività […]» (sentenza n. 2065 del 2011).
Anche la stessa Adunanza Plenaria, nel solco tracciato dalle Sezioni Unite, ha tratto dalle medesime modifiche normative il duplice corollario dell’ammissibilità del ricorso per ottemperanza al fine di assicurare l’esecuzione del decreto presidenziale e del radicamento della competenza in unico grado del Consiglio di Stato alla stregua del combinato disposto degli artt. 112, comma 2, lettera b), e 113, comma 1, del codice del processo amministrativo (sentenze n. 18 del 2012; n. 9 e n. 10 del 2013). Secondo tali arresti, osserva la Plenaria, nella sentenza in esame, il decreto presidenziale che recepisce il parere, pur non essendo, in ragione della natura dell’organo e della forma dell’atto, un atto formalmente e soggettivamente giurisdizionale, è comunque «estrinsecazione sostanziale di funzione giurisdizionale» che culmina in una decisione caratterizzata dal crisma dell’intangibilità, propria del giudicato, all’esito di una procedura in unico grado incardinata sulla base del consenso delle parti (la sentenza n. 7 del 2015 della stessa Adunanza Plenaria ha poi affermato la portata innovativa e non meramente interpretativa delle predette modifiche normative, come tali inidonee «ad incidere sulla natura giuridica» di decreti presidenziali adottati prima della loro entrata in vigore).
La Plenaria, osserva, poi, che è diverso il tenore delle pronunce della Corte costituzionale, secondo cui le innovazioni intervenute con la citata legge n. 69 del 2009, pur avendo determinato l’ampliamento delle garanzie e degli strumenti di tutela a disposizione di chi si avvale di tale rimedio, non hanno comportato alcuna ‘giurisdizionalizzazione’ dell’istituto, al quale va riconosciuta una natura “giustiziale”, che differisce da quella giurisdizionale (sentenze n. 63 del 2023, n. 24 del 2018 e n. 73 del 2014), per quanto ad esso assimilabile ai fini della legittimazione a sollevare questione di costituzionalità.
Recentemente, il Consiglio di Stato, in sede consultiva, (Sezione Prima, n. 2848 del 12 novembre 2019, n. 2935 del 22 novembre 2019), pur riconoscendo che il ricorso straordinario «ha perso la sua connotazione, tipicamente ed esclusivamente, di rimedio amministrativo», ha concluso che «non vi è coincidenza tout court con gli altri rimedi giurisdizionali sul piano dei principi applicabili» e che l’atto conclusivo della procedura va qualificato come provvedimento amministrativo, «solo per certi aspetti equiparato» ad una sentenza (su queste basi, è stata giustificata la non perfetta operatività delle garanzie della pubblicità e della oralità).
Completata la ricostruzione interpretativa, l’Adunanza Plenaria prosegue il suo iter argomentativo osservando che il punto di partenza è la nozione di «giurisdizione», il cui termine viene utilizzato nelle fonti, non come rappresentazione astratta o ideale della funzione di rendere giustizia (la Costituzione, all’art. 101, comma primo, preferisce, in questo caso, parlare di «giustizia»), bensì come attributo di una specifica e concreta attività statale da disciplinare.
L’«attività giurisdizionale» (art. 2907 c.c.) ‒ cioè, quella classe di procedimenti a cui soltanto si applica la disciplina del processo ‒ si distingue dalle altre funzioni dello Stato sulla base di criteri di imputazione formale e non sostanziali.
Infatti, l’attuazione del diritto, nel caso concreto, può spettare anche all’Amministrazione (si pensi, alle funzioni giustiziali e all’accertamento delle sanzioni amministrative c.d. ‘punitive’); la gestione di interessi viene affidata anche ai giudici (si pensi alla volontaria giurisdizione deputata al controllo di legittimità di alcuni atti o all’autorizzazione di attività negoziali); la funzione di dirimere controversie può essere esercitata anche dai privati (si pensi all’arbitrato rituale). Insomma, la tripartizione delle funzioni e la separazione dei poteri esprime un principio politico che, nell’ordinamento vigente, non si realizza come divisione rigida, ma nei termini più attenuati di equilibrio tra i poteri stessi, avente carattere dinamico e non statico.
In definitiva, la Plenaria osserva che l’unica definizione attendibile di «attività giurisdizionale» non è di tipo ontologico o «a priori», bensì di tipo soggettivo. La giurisdizione è l’attività di accertamento e decisoria che l’ordinamento imputa ai «giudici», come individuati dalle norme costituzionali sulla competenza (art. 101, 102, 103). A questa stregua, gli organi statali qualificabili formalmente come giurisdizionali sono dunque l’autorità giudiziaria ordinaria, istituita e regolata «dalle norme sull’ordinamento giudiziario», le «sezioni specializzate per determinate materie» da istituirsi «presso gli organi giudiziari ordinari» e gli altri organi di giurisdizione contemplati nella Costituzione, tra cui i Tribunali amministrativi regionali ed il Consiglio di Stato. Si tratta di un numero chiuso, in quanto l’art. 102 vieta di istituire giudici straordinari o giudici speciali, mentre la sesta disposizione transitoria imponeva (e consentiva) la sola revisione degli organi speciali di giurisdizione già esistenti al tempo dell’entrata in vigore della Costituzione.
I caratteri che devono accompagnare l’organizzazione della giurisdizione (in termini di indipendenza, imparzialità e terzietà) e la sua azione (il c.d. giusto processo) sono predicati costituzionalmente necessari della qualificazione formale di «giudice».
La Plenaria, allora, indaga sulla qualificazione normativa dell’istituto.
Il d.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199 (concomitante alla creazione dei Tribunali amministrativi regionali, con legge 6 dicembre 1971, n. 1034), configura espressamente il ricorso al Presidente della Repubblica come un rimedio amministrativo.
In ordine al procedimento che conduce alla decisione, il legislatore prevede che: il ricorso venga notificato all’organo che ha emanato l’atto o al Ministero competente, il quale ordina, se del caso, l’integrazione del procedimento (art. 9); l’Amministrazione competente per materia, svolge l’istruttoria (art. 11); l’affare già istruito viene trasmesso alle Sezioni Consultive del Consiglio di Stato (art. 12) per l’adozione del parere vincolante (art. 13).
Oltre al modello istruttorio basato sull’affidamento dell’indagine alle strutture ministeriali, una specifica connotazione del parere è illuminata dall’art. 49, comma 1, del regio-decreto 21 aprile 1942, n. 444 (Regolamento per l'esecuzione della legge sul Consiglio di Stato), secondo cui «gli affari sui quali è chiesto parere non possono essere discussi con l’intervento degli interessati o dei loro rappresentanti o consulenti». Il parere, dunque, è espresso in una seduta non pubblica e non è ammessa la discussione orale, né occorre dare avviso alle parti della data della seduta e dei nomi dei componenti dell’adunanza (cfr., ex plurimis, Consiglio Stato, sez. I, 26 ottobre 2005, n. 1407; sez. III, 9 gennaio 2003, n. 3600).
La decisione sul ricorso straordinario «è adottata con decreto del Presidente della Repubblica su proposta del Ministero competente, conforme al parere del Consiglio di Stato» (art 14). Il decreto del Capo dello Stato è «atto ministeriale, non di prerogativa, di cui il Ministro proponente, o il Presidente del Consiglio, assume con la controfirma la responsabilità politica e giuridica» (Corte costituzionale, sentenza n. 31 del 1975).
Sul piano della struttura giuridica, il parere del Consiglio di Stato è atto distinto dalla decisione, connotandosi come atto endoprocedimentale, vincolante solo «all’interno» del procedimento, nei confronti del Ministro competente all’istruttoria e del Presidente della Repubblica. Il parere, per spiegare i suoi effetti, necessita del decreto presidenziale. La decisione è dunque imputata allo Stato come persona giuridica, e non ‒ come avviene per gli organi giurisdizionali ‒ con effetti imputabili all’ordinamento nella sua oggettività.
L’autonomia strutturale della decisione rispetto al parere è confermata dal fatto che eventuali vizi propri del segmento successivo al parere possono essere fatti valere con l’impugnazione di cui all’art. 10, comma 3, del d.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199.
Anche l’affermazione secondo cui la decisione finale sarebbe meramente dichiarativa di un giudizio formulato da un organo giurisdizionale in modo compiuto e definitivo (il parere avrebbe assunto carattere «pienamente decisorio») – secondo la Plenaria – non appare persuasiva: per quanto il Capo dello Stato debba rimettersi a quanto deciso dal Consiglio di Stato, non può ritenersi esclusa ‒ al pari di tutti gli atti formalmente presidenziali ma sostanzialmente governativi ‒ una facoltà, rimessa al Presidente della Repubblica, di richiedere il riesame del parere per motivi di legittimità, restituendo il decreto al Ministero competente.
Secondo la Plenaria, la creazione pretoria di una nuova categoria di atti formalmente presidenziali ma sostanzialmente giurisdizionali contrasta anche con la qualificazione scolpita nella legge 12 gennaio 1991, n. 13 (Determinazione degli atti amministrativi da adottarsi nella forma del decreto del Presidente della Repubblica) che, nel tipizzare gli «atti amministrativi» (non previsti espressamente dalla Costituzione o da norme costituzionali) da adottarsi nella forma del decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del consiglio o del ministro competente, all’art. 1, comma 1, lettera bb), vi include espressamente la «[…] decisione dei ricorsi straordinari al Presidente della Repubblica» (lettera bb).
La Plenaria rileva che la qualifica amministrativa del rimedio è ribadita, con riguardo all’omologo ricorso straordinario al Presidente della Regione Siciliana, nell’art. 23 del regio decreto legislativo del 15 maggio 1946 n. 455, recante lo Statuto della Regione Siciliana, avente rango costituzionale perché convertito dalla legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 2 (ove si legge che «[i] ricorsi amministrativi, avanzati in linea straordinaria contro atti amministrativi regionali, saranno decisi dal Presidente della Regione sentite le Sezioni regionali del Consiglio di Stato»), e nell’art. 9 del d.lgs. n. 373 del 24 dicembre 2003, che riconduce espressamente il ricorso straordinario alle funzioni del Consiglio di giustizia amministrativa «nella sua composizione consultiva».
È ancora significativo osservare che il «ricorso straordinario» viene espressamente tratteggiato come alternativo rispetto al «ricorso giurisdizionale» (l’art. 8 del d.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199, subordina l’ammissibilità del ricorso straordinario alla condizione che lo «stesso interessato» non abbia impugnato il medesimo atto con ricorso giurisdizionale). Il ricorso straordinario diviene improcedibile qualora l’amministrazione o il controinteressato abbiano trasposto il giudizio «in sede giurisdizionale» (art. 10 del d.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199).
La Plenaria osserva, ancora, che lo stesso Codice del processo amministrativo prende in considerazione il ricorso straordinario solo per disciplinare gli effetti processuali della predetta trasposizione. La generalizzazione della facoltà di opposizione estesa a tutte le parti (art. 48, comma 1, c.p.a.) si spiega per salvaguardarne il diritto di azione in sede giurisdizionale. La locuzione contenuta nell’art. 48, comma 3 ‒ secondo cui, se l’opposizione è dichiarata inammissibile, il tribunale amministrativo dispone la restituzione del fascicolo «per la prosecuzione del giudizio in sede straordinaria» ‒ è semplicemente un meccanismo di raccordo con il rimedio amministrativo conseguente all’accertata inidoneità dell’opposizione a provocare la trasposizione.
In definitiva, la ratio dell’«opposizione» dei controinteressati e delle parti resistenti è quella di garantire loro la piena libertà di adire la tutela giurisdizionale, non quella di scegliere tra due rimedi entrambi giurisdizionali, l’uno ‘ordinario’ e l’altro ‘meno garantito’, come se il termine «opposizione» (in contrasto anche con la sua portata semantica) equivalesse ad una sorta di rinuncia ad usufruire delle garanzie assicurate in via ordinaria. La trasposizione esprime piuttosto un rapporto di complementarità tra il mezzo giustiziale e quello giurisdizionale, entrambi parti di un sistema comunicante e integrato di tutela. Tale rapporto di complementarità spiega anche perché, ai sensi dell’art. 7, comma 8, «[i]l ricorso straordinario è ammesso unicamente per le controversie devolute alla giurisdizione amministrativa».
Da ultimo, va rimarcato che lo stesso art. 69 della legge 18 giugno 2009, n. 69, è rubricato «Rimedi giustiziali contro la pubblica amministrazione», e ciò sottolinea l’intenzione del legislatore di incrementare le garanzie di un rimedio giustiziale e non di trasformarlo in un mezzo di impugnazione giurisdizionale.
La Plenaria, dunque, afferma che il diritto positivo contiene riferimenti precisi, che non è possibile disattendere: poiché le norme processuali rinviano ad una nozione formale di giurisdizione, le relative disposizioni non possono estendersi ad attività che, pur contenutisticamente affini, siano poste in essere da soggetti diversi dai «giudici».
La Plenaria aggiunge che la nozione di «giurisdizione dello Stato membro» utilizzata in ambito europeo ‒ basata su indici sostanziali atti a ricomprendere la diversità delle culture giuridiche degli Stati membri, quali l’origine legale dell’organo, il suo carattere permanente, l’obbligatorietà della sua giurisdizione, la natura contraddittoria del procedimento, il fatto che l’organo applichi norme giuridiche e che sia indipendente ‒ è funzionale a permettere che il rinvio pregiudiziale garantisca l’«effettività» del diritto europeo. Con questa finalità, essa abbraccia ogni attività di decisione dei conflitti posta in essere da soggetti dell’ordinamento e può ricomprendere, in taluni casi, anche l’attuazione oggettiva delle norme di diritto assegnata a corpi amministrativi.
Non a caso, la Corte di giustizia dell’Unione Europea, sin dal 1997 (sentenza 16 ottobre 1997, in cause riunite da C-69/96 a 79/96, Garofalo e altri), ben prima della novella del 2009 (e, dunque, quando era possibile una decisione difforme dal parere), aveva affermato la legittimazione del Consiglio di Stato in sede di ricorso straordinario a sollevare questione pregiudiziale, reputando sussistenti i caratteri necessari per qualificarlo, «agli specifici fini del rinvio pregiudiziale», come «giurisdizione nazionale».
La Plenaria aggiunge, ancora, che anche la Corte di Strasburgo ha più volte affermato che, ai fini dell’articolo 6 § 1 della CEDU, un «tribunale» non deve essere necessariamente un organo giudiziario inserito nell’ordinario apparato giudiziario del Paese interessato. Tra gli organi ai quali è stata riconosciuta la qualità di «tribunale», ad esempio, vanno citate: un’autorità regionale per le operazioni immobiliari (Sramek c. Austria, 1984, § 36); una Commissione per il risarcimento delle vittime di reati (Rolf Gustafson c. Svezia, 1997, § 48); un Comitato per la risoluzione di controversie forestali (Argyrou e altri c. Grecia, 2009, § 27); il Tribunale arbitrale dello sport (Mutu e Pechstein c. Svizzera, 2018, § 149), e una Commissione arbitrale in materia calcistica (Ali Rıza e altri c. Turchia, 2020, §§ 202-204); organi istituiti per compiere un’ulteriore valutazione dell’abilità dei giudici e dei pubblici ministeri del Paese di svolgere le loro funzioni (Xhoxhaj c. Albania, 2021, §§ 283 e ss., Loquifer c. Belgio, 2021, § 55).
Nelle decisioni 28 settembre 1999 (Nardella contro Italia) e 31 marzo 2005 (Nasalli Rocca contro Italia), la Corte EDU aveva ricostruito la disciplina dell’istituto del ricorso straordinario come rimedio speciale ed escluso che esso ricadesse nell’ambito dell’art. 6 della Convenzione (sulla medesima linea anche la sentenza 2 aprile 2013, Tarantino e altri contro Italia). A rilevare, secondo questa prima impostazione, era il fatto che il Governo potesse anche discostarsi dal parere espresso dal Consiglio di Stato, disattendendo, così, i principi di terzietà e di imparzialità che connotano l’attività giurisdizionale.
Il mutamento di giurisprudenza è intervenuto con una recente decisione (8 settembre 2020, Mediani contro Italia), nella quale la Corte EDU, preso atto delle modifiche normative che hanno reso vincolante il parere, ha affermato che nella sua configurazione attuale il rimedio è un procedimento contenzioso del tipo descritto all'articolo 6 della Convenzione.
Ebbene, la Convenzione impone che i procedimenti svolti da un «tribunale» (intesi nell’ampia nozione convenzionale sopra ricordata) debbano soddisfare alcune esigenze (indipendenza, imparzialità, durata del mandato dei suoi componenti, garanzie offerte dalla sua procedura), ma non impone di riorganizzare il sistema giuridico nazionale, inglobando un rimedio amministrativo nel sistema giurisdizionale (così come l’estensione delle garanzie ‘penali’ alle sanzioni amministrative ‘punitive’ non ha imposto agli Stati membri di procedere alla ‘criminalizzazione’ delle condotte che ne costituiscono oggetto).
La Plenaria osserva che anche la nozione di «giudizio» e di «giudice», ai fini dell’applicazione dell’art. 1 della legge costituzionale n. 1 del 1948 e dell’art. 23 della legge n. 87 del 1953, è più ampia di quella di «giurisdizione». La relatività delle definizioni si spiega qui per la necessità di mediare la struttura incidentale del giudizio costituzionale ‒ che, per quanto finalizzato all’oggettiva espunzione delle norme incostituzionali, può essere avviato solo per la tutela di posizioni soggettive individuali ‒ con la copertura più larga possibile del controllo di costituzionalità.
Sul piano oggettivo, la legittimazione è stata estesa a procedimenti non contenziosi ma svolti sotto l’ufficio giurisdizionale (e segnatamente: alla volontaria giurisdizione, sentenza n. 129 del 1957; al giudice dell’esecuzione immobiliare esattoriale, sentenza n. 62 del 1966; al giudice dell’esecuzione penale, sentenza n. 53 del 1968; al giudice di sorveglianza, sentenze n. 110 e n. 204 del 1974).
Sul piano soggettivo, la legittimazione è stata estesa anche ad organi estranei all’organizzazione della giurisdizione, ma che pur sempre adottano pronunce su posizioni soggettive idonee alla irretrattabilità (si pensi: alla sezione disciplinare del CSM, sentenza n. 12 del 1971; ai Commissari regionali per la liquidazione degli usi civici e agli Intendenti di finanza; alla Corte dei conti nel corso del giudizio di parificazione, sentenze n. 213 del 2008, n. 89 del 2017; alla Corte dei conti in sede di controllo preventivo di legittimità, sentenza 226 del 1976; agli organi di autodichia, sentenza n. 213 del 2017; agli arbitri rituali, sentenza n. 376 del 2001). Ai fini del controllo di costituzionalità, nella categoria concettuale dell’esecuzione della legge rientra, quindi, non solo la giurisdizione contenziosa, ma in alcune ipotesi anche l’attività di organi amministrativi che agiscono in posizione di indipendenza per l’applicazione del diritto obiettivo.
La Plenaria, quindi, prosegue le sue argomentazioni, affermando che il ricorso straordinario è un rimedio «giustiziale», alternativo a quello giurisdizionale, di cui condivide solo alcuni tratti strutturali e funzionali. Il decreto presidenziale è atto della Amministrazione ‒ in quanto formalmente imputato alla responsabilità dell’organo ministeriale ‒ ma non di amministrazione attiva, trattandosi di una «decisione» che definisce una controversia nell’ambito di un procedimento contenzioso in contradditorio con le parti e avente carattere vincolato in ragione della sua funzione dichiarativa (essendo cioè espressione della volontà del diritto nel caso concreto).
La natura puramente contenziosa del ricorso straordinario lo distingue dai ricorsi amministrativi che consentono all’amministrazione di rivedere, nel proprio interesse, le precedenti determinazioni.
L’intervento legislativo del 2009 si è mosso nella direzione di delineare compiutamente la fisionomia giuridica dell’istituto, depurandolo dai profili spuri e incoerenti rispetto alla sua struttura e funzione contenziosa. La possibilità, per il Ministro, di discostarsi dal parere sulla base di valutazioni discrezionali, per quanto ipotetica, metteva in dubbio il requisito della terzietà del decidente.
L’esistenza di una comune finalità di giustizia tra strumenti giurisdizionali e strumenti giustiziali giustifica la condivisione di alcune forme e garanzie. Anche l’amministrazione contenziosa esige un modello organizzativo che valorizzi l’indipendenza, l’imparzialità e l’autorevolezza del soggetto decidente ed una specifica struttura del procedimento, in grado di giustificare la sua capacità di essere alternativa alla giurisdizione (in tal senso deve leggersi anche la possibilità di revocazione delle decisioni adottate con decreto presidenziale per i casi previsti dall’art. 395 c.p.c., da proporsi nelle stesse forme prescritte per il ricorso al Presidente della Repubblica, come previsto dall’art. 15 del d.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199).
L’incremento delle garanzie del ricorso straordinario (il parere vincolante, la possibilità di sollevare questione di legittimità costituzionale, l’esperibilità del ricorso per l’ottemperanza), tuttavia, non ne comporta alcuna necessità di «assimilazione» alla giurisdizione.
Fermo restando la garanzia di accesso alla tutela giurisdizionale, nulla impedisce al legislatore di delineare un rimedio di giustizia ‒ preordinato a risolvere conflitti ‒ posto fuori dalla giurisdizione, perché attribuito a organi decidenti diversi dalla giurisdizione statale.
Secondo la Plenaria, anche nel caso dell’amministrazione giustiziale, ragioni di opportunità pratica e di utilità sociale inducono ad introdurre un limite alla discutibilità di ciò che è stato statuito: il decreto presidenziale, per questi motivi, è assistito dai caratteri della irretrattabilità (salva l’impugnazione straordinaria) e della incontestabilità esterna.
La stabilità garantita dal legislatore alla decisione amministrativa non impone l’applicazione di tutte le specifiche norme processuali che riguardano il giudicato, né l’esperibilità del giudizio di ottemperanza ha il significato della sua «giurisdizionalizzazione».
In primo luogo, l’ottemperanza è strutturata come garanzia ampia dell’adempimento dell’obbligo dell’amministrazione di conformarsi a decisioni immodificabili, anche non giurisdizionali (l’art. 112, comma 2, lettera e, estende il ricorso all’esecuzione dei lodi arbitrali divenuti inoppugnabili).
Come poi è stato osservato dall’Adunanza Plenaria n. 7 del 2015, l’ottemperabilità di una decisione è «una qualitas non sovrapponibile a quella diversa della sussistenza di un giudicato resistente al potere della legge».
Inoltre, secondo la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, il diritto all’esecuzione delle decisioni definitive e vincolante che le ha pronunciate, è parte integrante del «diritto a un tribunale» (Scordino c. Italia, GC, 2006, § 196; Hornsby c. Grecia, 1997, § 40; Burdov c. Russia, 2002, §§ 34 e 37), nell’ampia accezione convenzionale sopra ricordata (inclusiva cioè anche di organi non inseriti nell’apparato giudiziario).
La Plenaria rileva che il fatto che la decisione resa su ricorso straordinario non configuri un giudicato in senso tecnico non comporta, tuttavia, alcuna modifica dell’orientamento espresso dalla stessa Adunanza Plenaria, nelle sentenze n. 9 e 10 del 2013, secondo cui il ricorso per l’ottemperanza deve essere proposto dinanzi allo stesso Consiglio di Stato, nel quale si identifica «il giudice che ha emesso il provvedimento della cui ottemperanza si tratta». Nei predetti precedenti, l’assunto è stato corroborato, sul piano teleologico, dal rilievo che la disciplina della competenza territoriale fissata dall’art. 113, comma 1, del codice del processo amministrativo si connota per l’attribuzione al Tribunale amministrativo regionale della competenza a conoscere dell’attuazione delle proprie sentenze integralmente confermate, anche sul piano motivazionale, in appello e per la speculare assegnazione al Consiglio di Stato della cognizione delle domande finalizzate all’esecuzione delle proprie decisioni che modifichino il contenuto dispositivo o conformativo della sentenza gravata. Il criterio di regolazione della competenza è così ispirato al principio secondo cui il giudice che ha emesso la sentenza è naturaliter il più idoneo ad assicurare l’interpretazione della portata effettiva e la conseguente esecuzione satisfattoria del decisum. La ratio materiale così individuata, incentrata sulla paternità ideologica della decisione, consente, ai limitati fini della soluzione del problema di competenza, di estendere in via analogica al ricorso straordinario la previsione dettata per gli «altri provvedimenti esecutivi del giudice amministrativo» (contenuta nell’art. 112, comma 2, lettera b, del c.p.a.).
Dunque. Secondo la Plenaria, l’impostazione suggerita si inserisce in modo armonico nel quadro delle attribuzioni costituzionali del Consiglio di Stato.
L’art. 100 della Costituzione ‒ confermando le funzioni ausiliarie originarie del Consiglio di Stato, poste a garanzia imparziale e oggettiva dell’ordinamento giuridico ‒ distingue la «tutela della giustizia nell’amministrazione», non solo dalla «consulenza giuridico-amministrativa» (riordinata dall’art. 17 della legge 15 maggio 1997, n. 127), ma anche dalla funzione giurisdizionale di cui agli artt. 103 e 113 Cost., come è possibile argomentare alla luce della sua collocazione sistematica e sulla base dei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente.
La Plenaria rileva che la «tutela della giustizia nell’amministrazione», secondo l’opinione più condivisibile, fa riferimento proprio alla competenza giustiziale del Consiglio di Stato in materia di ricorso straordinario al Capo dello Stato. Su queste basi, la novella del 2009 ha inteso precisare che il Consiglio di Stato, nella definizione del ricorso straordinario, non opera come mero organo consultivo dell’Amministrazione, ma come organo composto di magistrati investito di una funzione giustiziale in posizione di autonomia e indipendenza.
Tale considerazione induce a ritenere che soluzione proposta sia anche quella conforme al divieto di istituzione di nuovi giudici speciali sancito dall’articolo 102, comma 2, Cost.: la tesi, infatti, che ammette un tardivo intervento di revisione, similmente a quanto avvenuto per le Commissioni tributarie, si scontra con l’evidenza storica per cui, a differenza delle prime, il ricorso straordinario non ha mai goduto della qualificazione giurisdizionale, ma solo di quella giustiziale.
La Plenaria, ancora, rileva che, le conclusioni cui si è pervenuti non ostacolano l’eventuale percorso giurisprudenziale di ulteriore affinamento dell’istituto (ad esempio con riferimento alle azioni esperibili, alle forme di esplicazione del contraddittorio, al novero dei mezzi istruttori). Con la consapevolezza, tuttavia, che ‒ al di là di quanto imposto dal diritto convenzionale ‒ il legislatore ben può preservare i profili di specialità dei rimedi alternativi alla giurisdizione, volti ad assicurare una tutela, ove possibile, più semplice e rapida.
Il Supremo Consesso aggiunge che a titolo di leale collaborazione istituzionale e nel pieno rispetto per le prerogative delle Sezioni Unite, l’Adunanza Plenaria non può non rilevare come strida con la ricostruzione sopra fornita l’ammissibilità del ricorso per cassazione contro le decisioni adottate in sede straordinaria ai sensi dell’art. 362 c.p.c. (quindi, per i soli motivi attinenti alla giurisdizione).
Quindi, emergono le ragioni per le quali la decisione amministrativa giustiziale non può essere qualificata come cosa giudicata in senso tecnico, anche perché – sul piano della struttura formale – ad essere impugnabile sarebbe il decreto presidenziale e non il parere del Consiglio di Stato avente effetti endoprocedimentali.
L’orientamento favorevole al ricorso di cui all’art. 362 c.p.c. – secondo la Plenaria – appare poi collidere con il seguente dato positivo: il legislatore prevede, all’art. 10, comma 3, del d.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199, la possibilità di impugnare la decisione resa su ricorso straordinario davanti al giudice amministrativo, per le parti del giudizio, unicamente per vizi di forma o di procedimento, per il soggetto pregiudicato dalla decisione straordinaria, ma non evocato in sede straordinaria, anche per tutti altri possibili errori di giudizio della decisione (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 27 giugno 2006, n. 9).
Sicché, secondo il Collegio, appare quantomeno asistematico fare discendere dalla (asserita) ambivalenza del ricorso straordinario finanche una divaricazione del regime delle impugnazioni: il giudizio amministrativo di legittimità con riguardo alla «forma amministrativa»; il ricorso per cassazione in ragione della «sostanza giurisdizionale». Impugnazioni che, per giunta, sarebbero concorrenti tra di loro, mancando una qualsivoglia norma di coordinamento.
Appare, quindi, preferibile, secondo la Plenaria, ritenere che l’art. 7, comma 8, del c.p.a. – il quale ammette il ricorso straordinario «unicamente per le controversie devolute alla giurisdizione amministrativa» – contenga una norma che delimita l’ambito di applicazione del ricorso giustiziale, la cui violazione è censurabile in sede giurisdizionale (e nei vari gradi di giudizio) tramite l’impugnazione di cui al predetto art. 10, comma 3, del d.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199.
Il regime della decisione resa su ricorso straordinario, per tutto quanto non previsto dal d.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199, e dalle pertinenti norme del codice del processo amministrativo, ricorda ancora la Plenaria, è dettato dalle disposizioni in materia di procedimento amministrativo.
Il caso sottoposto dalla Sesta Sezione ‒ della decisione resa su ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, nonostante il giudizio fosse stato ritualmente trasposto in sede giurisdizionale ‒ va dunque ricondotto, a dire della Plenaria, alle norme sull’invalidità amministrativa.
A questa statuizione, la Plenaria aggiunge che l’art. 21-septies della legge 7 agosto 1990, n. 241 ‒ secondo cui «[è] nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali, che è viziato da difetto assoluto di attribuzione, che è stato adottato in violazione o elusione del giudicato, nonché negli altri casi espressamente previsti dalla legge» ‒ ha confermato le precedenti acquisizioni giurisprudenziali circa l’inserimento a pieno titolo della nullità nell’ambito dell’invalidità del provvedimento amministrativo, che diviene così una categoria composita e idonea a ricomprendere i diversi stati vizianti entro una cornice sistematica unitaria (cfr. Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, nn. 1, 2, 5, 6 e 10 del 1992, con le quali veniva a mutare l’orientamento precedente che riconduceva all’annullabilità le pur rare ipotesi configurate dal legislatore come fattispecie nulle; nonché, Sez. V, n. 166 del 1998 e n. 1190 del 1996).
Tra i vizi che determinano la nullità, la Plenaria rileva che la norma contempla il difetto assoluto di attribuzione, il quale è il portato del principio di tipicità del potere amministrativo, a sua volta corollario del principio di legalità cui è soggetta l’attività amministrativa di diritto pubblico.
Il difetto assoluto di attribuzione è ravvisabile nell’ipotesi in cui venga esercitato un potere non previsto né attribuito dall’ordinamento (c.d. carenza di potere in astratto), nonché come conseguenza del divieto, da parte di un’Amministrazione, di esercitare un potere che, ancorché definito dall’ordinamento, sia attribuito ad una diversa Amministrazione (incompetenza assoluta) ovvero per il quale sussista un impedimento legale assoluto al suo esercizio (la categoria pretoria della carenza di potere in concreto, invece, rientra oramai nell’area dell’annullabilità: cfr., ex plurimis, Consiglio di Stato, sez. IV, n. 5228 del 2015; Corte di Cassazione, Sezioni Unite, n. 5097 del 2018).
La Plenaria afferma che la fattispecie in esame ricade, senza dubbio, nell’ipotesi del difetto assoluto di attribuzione.
L’intervenuta opposizione e la rituale riassunzione del giudizio in sede giurisdizionale spogliano, infatti, l’amministrazione del potere di definire la controversia (l’art. 10 del d.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199, inibisce qualsiasi pronuncia, nel rito e nel merito, sul ricorso straordinario che sia stato trasposto in sede giurisdizionale). Se ne desume che l’istruzione dell’affare da parte del Ministero competente, il parere del Consiglio di Stato ed il decreto stesso di definizione del ricorso, sono assolutamente preclusi dall’atto con il quale si opera la trasposizione del ricorso dalla sede straordinaria a quella giurisdizionale (salva l’ipotesi dettata dall’art. 10, comma 2, del d.P.R. 24 novembre1971, n. 1199).
Venendo al regime della nullità, la Plenaria rileva, innanzi tutto, che, nell’assetto anteriore all’entrata in vigore del Codice del processo amministrativo, annullabilità e nullità rappresentavano il precipitato di tecniche normative marcatamente diverse. L’atto nullo (nel solco della teoria generale del negozio giuridico) veniva considerato giuridicamente rilevante (in quanto sussumibile in una fattispecie normativa, in primis quella che contempla le diverse ipotesi di nullità), ma improduttivo di effetti.
Il regime dell’annullabilità, rispondendo all’esigenze di certezza e stabilità dei rapporti giuridici, consentiva, a differenza della nullità, che il provvedimento illegittimo si consolidasse rapidamente in caso di mancata impugnazione e comunque producesse i suoi effetti fino all’eventuale caducazione.
Sennonché, rileva la Plenaria, il Codice del processo amministrativo ha dettato una disciplina dell’azione di nullità del tutto difforme rispetto alla tradizione civilistica.
Ai sensi dell’art. 31, comma 4, del c.p.a. «la domanda volta all’accertamento delle nullità previste dalla legge si propone entro il termine di decadenza di centottanta giorni».
L’azione di nullità, dunque, non può essere fatta valere da «chiunque vi abbia interesse» (art. 1421 c.c.) e «senza essere soggetta a prescrizione» (art. 1422 c.c.), ma solo da coloro che sono legittimati a far valere ogni altra illegittimità del provvedimento ed entro un breve termine di decadenza (sia pure più lungo di quello previsto per l’azione di annullamento).
Essendo configurata come vizio la cui contestazione è soggetta a termine decadenziale, la nullità si atteggia in termini di illegittimità forte, suscettibile anch’essa di consolidamento per coloro che ne subiscono gli effetti pregiudizievoli.
Le principali differenze – ricorda la Plenaria – riguardano le tecniche di sindacato: il giudizio sulla nullità si misura in termini parametrici di difformità dell’atto rispetto allo schema legale; l’annullabilità consente di sanzionare anche la devianza funzionale dell’atto rispetto al perseguimento dell’interesse pubblico assegnato alla cura dell’Amministrazione, ovvero di controllarne la ragionevolezza e proporzionalità (sia pure con il divieto di procedere a valutazioni sostitutive di merito).
L’inesistenza si configura, invece, quando il fatto non trova corrispondenza in alcuna fattispecie astratta, quando cioè non è nemmeno possibile procedere ad un giudizio di rilevanza sull’evento materiale (si tratta, dunque, di una categoria residuale che sanziona fattispecie del tutto abnormi).
La Plenaria procede anche ad alcune precisazioni sul rilievo ufficioso: il potere del giudice di rilevare in via officiosa l’esistenza di una causa di nullità di un contratto va contemperato e coordinato con il principio dispositivo della domanda e con la struttura impugnatoria del giudizio amministrativo.
Il rilievo d’ufficio della nullità – possibile solo ex actis, sulla base, cioè dei fatti ritualmente introdotti o comunque acquisiti in causa – non trova ostacoli se volto a paralizzare la domanda di annullamento del ricorrente (questa è l’ipotesi oggetto dell’ordinanza di rimessione).
Il rilievo della nullità da parte del giudice non può invece sopperire alla carenza di allegazioni del ricorrente, introducendo un tema decisorio che non era stato dedotto nell’atto di impugnazione: l’esercizio del potere officioso, in tale caso, renderebbe vana la previsione stessa del termine decadenziale per la deduzione del vizio da parte del ricorrente (così come già osservato dalla sentenza del Consiglio di Stato, Sez. III, n. 4566 del 2019).
Sussistendone i presupposti e in ossequio al principio di legalità e di parità delle armi, non può riconoscersi alcuna discrezionalità al giudice nel rilevare la nullità.
Alla luce delle considerazioni svolte, l’Adunanza Plenaria enuncia i seguenti principi di diritto:
«1. Il ricorso straordinario è un rimedio giustiziale alternativo a quello giurisdizionale, di cui condivide soltanto alcuni profili strutturali e funzionali.
- La decisione resa su ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, sebbene il giudizio fosse stato ritualmente trasposto in sede giurisdizionale, è nulla ai sensi dell’art. 21-septies L. 241/1990, in quanto emanata in difetto assoluto di attribuzione».
- Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sent. n. 12 del 2024, sui riflessi della decisione processuale di inammissibilità della Corte costituzionale sul giudizio principale
L’Adunanza Plenaria rileva che i ricorrenti hanno proposto due giudizi: i) uno di cognizione, avente ad oggetto la domanda di annullamento della nota emessa il 3 febbraio 2003 dalla Presidenza del Consiglio dei ministri; ii) uno di ottemperanza dei decreti decisori dei ricorsi straordinari del 1999.
Le due cause, dunque, vengono riunite, per connessione soggettiva e oggettiva, avendo entrambe ad oggetto la pretesa dei ricorrenti alla corresponsione del trattamento economico, migliorativo di quello tabellare, dovuto ai Consiglieri di Stato vincitori di concorso, in applicazione del meccanismo del c.d. «allineamento stipendiale»: in sintesi, i ricorrenti assumono che l’Amministrazione, in modo illegittimo, avrebbe tenuto conto della sola anzianità «in astratto» dei colleghi che li seguivano in ruolo, senza considerare ‒ come invece avrebbero imposto i decreti decisori del Capo dello Stato ‒ gli stipendi a questi ultimi spettanti (ed effettivamente corrisposti), calcolati in classi e scatti, sulla base dell’intera carriera, anche in qualifiche precedenti a quella di Consigliere di Stato.
Preliminarmente, viene scrutinata la domanda di annullamento. Il diniego opposto dall’Amministrazione alle rivendicazioni patrimoniali degli istanti si basa sull’effetto impeditivo sancito dall’art. 50, comma 4, penultimo e ultimo periodo, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato, legge finanziaria 2001). Tale disposizione disciplina la portata e la decorrenza dell’abrogazione del nono comma dell’art. 4 della legge 6 agosto 1984, n. 425, norma, quest’ultima, ai sensi della quale per il personale che avesse conseguito la nomina a magistrato di corte d’appello o a magistrato di corte di cassazione a seguito del concorso per esami previsto dalla legge 4 gennaio 1963, n. 1, l’anzianità veniva determinata in misura pari a quella riconosciuta al magistrato di pari qualifica con maggiore anzianità effettiva che lo seguiva nel ruolo.
L’art. 50, comma 4, della legge n. 388 del 2000 precisa, in primo luogo, che il nono comma dell’art. 4 «si intende abrogato» dalla data di entrata in vigore del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, il quale, con l’art. 2, comma 4, aveva soppresso l’istituto dell’allineamento stipendiale.
Lo stesso art. 50 prevede poi che, per effetto di detta abrogazione e con effetto retroattivo, «perdono ogni efficacia i provvedimenti e le decisioni di autorità giurisdizionali comunque adottati» ‒ dopo la data di entrata in vigore del predetto decreto-legge n. 333 del 1992 ‒ in modo difforme dalla predetta interpretazione, aggiungendo che «in ogni caso non sono dovuti e non possono essere eseguiti pagamenti sulla base di tali decisioni o provvedimenti».
L’Adunanza Plenaria, quindi, osserva che:
- i) in primo luogo, va definito il perimetro applicativo della legge di interpretazione autentica, onde verificare se l’effetto impeditivo ivi previsto coinvolga anche le decisioni rese su ricorso straordinario (motivi primo e secondo del ricorso di primo grado; primi tre motivi del ricorso di appello);
- ii) in via gradata, ove si interpreti la norma nel senso di disporre la perdita degli effetti delle decisioni (ancorché divenute stabili) rese dal Presidente della Repubblica adito con ricorso straordinario, si pone l’indagine sulla «validità» della norma stessa (terzo motivo del ricorso di primo grado; quarto e quinto motivo del gravame);
iii) da ultimo, in caso di rigetto della domanda di annullamento, va esaminata la domanda subordinata di risarcimento del danno (formulata con il sesto, il settimo e l’ottavo motivo dell’appello, nonché con il ricorso per l’esecuzione dei decreti presidenziali).
Per il Collegio, il primo punto ‒ relativo alla portata applicativa dell’art. 50, comma 4, della legge n. 388 del 2000 ‒ è segnato dalle risultanze dell’incidente di costituzionalità, oltre che ‘coperto’ da precedenti statuizioni della Adunanza Plenaria. La Corte Costituzionale, infatti, con sentenza n. 282 del 2005 (nel giudizio instaurato con ordinanza di rimessione del giudice di primo grado), ha qualificato la norma censurata come legge retroattiva di interpretazione autentica.
Con essa, il Parlamento ha inteso rimuovere un’imperfezione tecnica, chiarendo che il venir meno, a partire dalla data di entrata in vigore del decreto-legge n. 333 del 1992, dell’istituto del riallineamento stipendiale non poteva che riguardare anche quella particolare forma di allineamento stipendiale dettata dall’art. 4, nono comma, della legge n. 425 del 1984, per i magistrati (di appello e) di cassazione vincitori di concorso per esami.
L’Adunanza Plenaria osserva che il significato individuato dalla legge di interpretazione non si è inserito nel quadro normativo in termini arbitrari e imprevedibili, tenuto conto dell’evidente aporia sistematica venutasi a realizzare nell’ordinamento giuridico e quindi della necessità di ovviare ad una situazione di grave incertezza normativa. Già l’art. 7, comma 7, del decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384, convertito con modificazioni dalla legge 14 novembre 1992, n. 438, aveva disposto in questi termini: «[l]’articolo 2, comma 4, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, va interpretato nel senso che dalla data di entrata in vigore del predetto decreto-legge non possono essere più adottati provvedimenti di allineamento stipendiale, ancorché aventi effetti anteriori all’11 luglio 1992».
La Plenaria rileva, ancora, che, su queste basi, la stessa Corte costituzionale ha statuito che l’efficacia retroattiva dell’art. 50, comma 4, è limitata soltanto dalle sentenze passate in giudicato e non dalle decisioni rese su ricorso straordinario, segnatamente affermando che: la «salvezza del giudicato formatosi anteriormente alla data di entrata in vigore della legge di interpretazione autentica non è anche la salvezza delle decisioni adottate, nel regime dell’alternatività, con decreto del Presidente della Repubblica in sede di ricorso straordinario. Essendo il ricorso straordinario al Capo dello Stato un rimedio per assicurare la risoluzione non giurisdizionale di una controversia in sede amministrativa, deve escludersi che la decisione che conclude questo procedimento amministrativo di secondo grado abbia la natura o gli effetti degli atti di tipo giurisdizionale». Inoltre, la successiva sentenza della Corte costituzionale n. 24 del 2018 (resa questa volta su ordinanza di rimessione in sede di appello) ha disatteso nuovamente l’assunto secondo il quale la norma censurata dovrebbe essere interpretata nel senso di far salve, oltre alle sentenze passate in giudicato, anche le decisioni rese anteriormente alla sua entrata in vigore sui ricorsi straordinari al Presidente della Repubblica.
Tale ultima sentenza, peraltro, dopo avere richiamato la giurisprudenza costituzionale che, nel regime anteriore alla legge n. 69 del 2009, ha costantemente ritenuto il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica un rimedio di natura amministrativa, escludendone natura o effetti giurisdizionali (ex plurimis, sentenze n. 73 del 2014, n. 282 del 2005, n. 254 del 2004 e n. 298 del 1986, ordinanze n. 357 del 2004, n. 301 e n. 56 del 2001), ha aggiunto che neppure le modifiche introdotte dalla legge n. 69 del 2009 (che hanno reso vincolante il parere del Consiglio di Stato e hanno consentito che in quella sede vengano sollevate questioni di legittimità costituzionale) costituiscono una ragione sufficiente per discostarsi dalle conclusioni sulla natura amministrativa delle decisioni rese sui ricorsi amministrativi, avendo avuto piuttosto l’effetto di trasformare il ricorso straordinario da antico ricorso amministrativo «in un rimedio giustiziale», assimilabile ad un ‘giudizio’ ai fini della instaurazione del giudizio costituzionale.
La Plenaria ricorda che la natura ‘giustiziale’, e non giurisdizionale, del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica è stata ribadita dalla Corte costituzionale anche con la successiva sentenza n. 63 del 2023 (alle medesime conclusioni sistematiche è giunta anche la recente pronuncia dell’Adunanza Plenaria 7 maggio 2024, n. 11).
Anche l’ordinanza di rimessione n. 7 del 2015 dell’Adunanza Plenaria ha escluso ‒ con statuizione decisoria avente, sul punto, natura di sentenza parziale e che comunque il Collegio intende confermare ‒ «che si possa accedere alla tesi, sostenuta in via poziore dagli appellanti, secondo cui anche le decisioni su ricorsi straordinari rese prima della riforma del 2009 esibirebbero carattere giurisdizionale e, quindi, sarebbero dotate di una forza resistente all’intervento caducatorio del legislatore». La «portata sostanziale» delle novelle del 2009 impedisce di ritenere che «anche alle decisioni rese in precedenza possa essere riconosciuta una valenza giurisdizionale e, quindi, l’intangibilità propria della res iudicata».
La Plenaria, pertanto, alla luce di quanto sin qui esposto, respinge le ampie difese dei ricorrenti incentrate sulla c.d. «giurisdizionalizzazione» e «revisione» retroattiva (o meglio, retrospettiva) del ricorso straordinario.
Proseguendo l’iter argomentativo, la Plenaria osserva che l’art. 50, comma 4, della legge finanziaria per il 2001 ‒ secondo l’interpretazione datane dalla Corte costituzionale e dalla stessa Adunanza Plenaria ‒ preclude l’esecuzione dei decreti decisori adottati in contrasto con la norma di interpretazione autentica. I problemi giuridici posti dall’interpretazione autentica stanno essenzialmente nella sua retroattività. La disposizione interpretativa incide sì sui ‘significati’ della norma interpretata preesistente, chiarendone il senso, al fine di risolvere un’incertezza ermeneutica ancora irrisolta, ma non è un semplice atto di ‘conoscenza’ della precedente manifestazione di volontà legislativa, trattandosi pur sempre di una ‘decisione’ che impone retroattivamente una data interpretazione del testo e richiede quindi un valido presupposto giustificativo.
Il Collegio rileva che, come ripetutamente affermato dal giudice delle leggi, ancorché non sia vietato al legislatore (salva la tutela privilegiata riservata alla materia penale dall’art. 25, secondo comma, Cost.) emanare norme retroattive – siano esse di interpretazione autentica oppure innovative con efficacia retroattiva – esistono comunque limiti costituzionali alla retroattività legislativa. Tali limiti vengono individuati nel principio generale di ragionevolezza e di eguaglianza, nella tutela dell’affidamento, nonché nel rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario; limiti corrispondenti ai principi dettati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale valorizza alcuni elementi ritenuti sintomatici dell’uso distorto della funzione legislativa (cfr., ex plurimis, le sentenze n. 12 del 2018, n. 191 del 2014, n. 85 del 2013, n. 94 del 2009, n. 374 del 2000).
Osserva ancora la Plenaria che, nella vicenda in esame, la Corte costituzionale ‒ interpellata per ben due volte, sia dal giudice di primo grado, sia dal giudice di appello ‒ ha statuito che la disposta perdita di efficacia dei provvedimenti (e quindi anche di decreti del Presidente della Repubblica con cui vengono decisi i ricorsi straordinari) adottati difformemente dalla interpretazione che vuole abrogato l’allineamento stipendiale sin dal 1992, non lede nessuno degli svariati parametri costituzionali evocati. In particolare, la Consulta, con sentenza n. 282 del 2005, ha affermato che:
“- non risultano vulnerati gli articoli 24 e 113 della Costituzione, sotto il profilo della effettività del rimedio giustiziale, perché la garanzia costituzionale da essi prevista si riferisce al diritto di agire nella sede giurisdizionale e non nella sede amministrativa del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica;
- è esclusa una menomazione della funzione costituzionale del Consiglio di Stato di assicurare la «tutela della giustizia nell’amministrazione» (art. 100 della Costituzione), essendo il parere del Consiglio di Stato espressione di una funzione consultiva su cui peraltro la norma non incide;
- non è pertinente il richiamo all’art. 103 della Costituzione, giacché non vengono in considerazione profili concernenti l’attività giurisdizionale affidata al Consiglio di Stato;
- non è violato l’affidamento nella sicurezza giuridica (art. 3 della Costituzione), perché il legislatore, in sede di interpretazione autentica, «può modificare sfavorevolmente, in vista del raggiungimento di finalità perequative, la disciplina di determinati trattamenti economici con esiti privilegiati (sentenza n. 6 del 1994)”.
Ancora, il Collegio ricorda che la Corte costituzionale, con la successiva sentenza n. 24 del 2018, ha respinto anche le ulteriori questioni – sollevate dalla stessa Adunanza Plenaria, sul presupposto che quella che nel diritto interno resta una decisione amministrativa potrebbe comunque rivestire i caratteri di una decisione «intangibile» da parte di leggi retroattive o da manifestazione di jus singolare in assenza di idonee ragioni di interesse generale – nei termini così riassumibili:
- quanto alla violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 6 e 13 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, la Corte, dopo avere ritenuto non pertinenti le sentenze evocate nell’ordinanza di rimessione (in quanto non riguardanti ipotesi di decisioni amministrative ‘equiparate’ a pronunce giurisdizionali), ha richiamato la giurisprudenza della stessa Corte di Strasburgo che ‒ con riguardo alle decisioni rese su ricorso straordinario anteriori al 2009 ‒ aveva ripetutamente escluso che la decisione del ricorso straordinario avesse natura di procedimento contenzioso riconducibile alla sfera di applicazione della tutela convenzionale di cui all’art. 6 (in particolare, le decisioni 28 settembre 1999, Nardella contro Italia; 31 marzo 2005, Nasalli Rocca contro Italia; 2 aprile 2013, Tarantino e altri contro Italia; il successivo mutamento di giurisprudenza intervenuto con la decisione 8 settembre 2020, Mediani contro Italia, riguarda invece unicamente i decreti adottati nel vigore delle modifiche normative del 2009 che hanno reso vincolante il parere del Consiglio di Stato);
- quanto al contrasto con gli artt. 3 e 97 Cost., la Corte ha escluso la natura di legge-provvedimento della norma impugnata e con essa la necessità del vaglio di costituzionalità riservato a questa tipologia di atti, in considerazione del fatto che i destinatari della disposizione appena citata non sono affatto «determinati o di numero limitato» e che l’impugnata disposizione non presenta contenuto particolare e concreto, ma detta, al contrario, una regola di carattere astratto, destinata a risolvere in via generale l’antinomia tra corpi disciplinari succedutesi nel tempo.
L’Adunanza Plenaria, in conclusione, sostiene che l’accertamento da parte della Corte costituzionale dell’insussistenza di un contrasto tra la norma impugnata e il profilo di costituzionalità esaminato è incontestabile nell’ambito del processo a quo, nel senso di precludere al giudice comune di riproporre la medesima questione nell’ambito dello stesso giudizio, in quanto una simile iniziativa si porrebbe in contrasto con il disposto dell’ultimo comma dell’art. 137 Cost., secondo cui «contro le decisioni della Corte costituzionale non è ammessa alcuna impugnazione».
In particolare, il giudicato costituzionale che ha accertato l’inesistenza dei vizi dedotti impone l’applicabilità nel presente giudizio della norma censurata. Conseguentemente, la perdurante vigenza dell’effetto impeditivo dettato dall’art. 50 della legge finanziaria per il 2001 ‒ per cui «perdono ogni efficacia i provvedimenti e le decisioni di autorità giurisdizionali comunque adottati», dopo la data entrata in vigore del decreto-legge n. 333 del 1992, e in ogni caso «non sono dovuti e non possono essere eseguiti pagamenti sulla base di tali decisioni o provvedimenti» ‒ comporta il rigetto della domanda di annullamento, essendosi la Presidenza del Consiglio dei Ministri limitata ad eseguire la predetta disposizione.
Venendo al giudizio di ottemperanza promosso dagli stessi ricorrenti per ottenere l’esecuzione dei coevi decreti presidenziali del 27 settembre 1999, la Plenaria osserva che la Corte costituzionale, con la citata sentenza n. 24 del 2018, ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 50, comma 4, della legge n. 388 del 2000, sollevate dalla Quarta Sezione del Consiglio di Stato, in riferimento agli artt. 3, 24, 97, 111 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6 e 13 della CEDU. La Corte ha preliminarmente rilevato che: «[…] i ricorrenti nel giudizio a quo avevano in precedenza già presentato ricorso in ottemperanza al Consiglio di Stato per l’esecuzione delle stesse decisioni del Presidente della Repubblica, ottenendo a suo tempo una sentenza favorevole, e che tale sentenza è stata poi annullata dalle sezioni unite della Corte di cassazione per difetto di giurisdizione». Su queste basi, ha statuito che «la riproposizione in un nuovo giudizio, da parte dei medesimi ricorrenti, della stessa azione di ottemperanza trova un ostacolo insormontabile nella preclusione da giudicato, che il Presidente del Consiglio dei ministri afferma di avere eccepito nel giudizio a quo e che sarebbe comunque rilevabile d’ufficio. L’evidenza di tale preclusione esclude la rilevanza delle questioni. Deve essere dunque dichiarata la loro inammissibilità per difetto di rilevanza».
La Plenaria osserva che, sulla citata statuizione di inammissibilità si appuntano i quesiti rimessi all’Adunanza plenaria dalla Quarta Sezione, con l’ordinanza n. 10342 del 2022.
In particolare, con il primo si chiede «se sia vincolante per il Giudice amministrativo che abbia sollevato una questione di legittimità costituzionale la pronuncia della Corte costituzionale che assuma un difetto di rilevanza della questione, conseguente all’assunta inammissibilità del giudizio a quo sulla scorta di profili, tuttavia, non enucleati nell’ordinanza di rimessione».
Per l’Adunanza Plenaria, il dubbio della sezione rimettente, in estrema sintesi, si basa sulla considerazione che la Corte avrebbe fondato l’irrilevanza della questione di legittimità costituzionale su un profilo di rito del giudizio principale non ancora delibato, né espressamente affrontato, dal giudice rimettente, sebbene questi sia il giudice naturale del rapporto controverso e delle relative pregiudiziali questioni processuali.
L’Adunanza Plenaria afferma che il punto di diritto deve trovare soluzione nei termini che seguono.
Innanzi tutto, giudizio principale e giudizio di costituzionalità, pur avvinti da un rapporto di pregiudizialità, sono distinti nella funzione e nell’oggetto: nel giudizio a quo si fanno valere posizioni soggettive, la cui tutela è dipesa dalla verifica di costituzionalità della legge da applicare; nel giudizio costituzionale, l’interesse perseguito dall’ordinamento è quello di ripristinare la legalità costituzionale.
I due giudizi, strutturalmente autonomi, sono coordinati attraverso il dispositivo tecnico della «rilevanza», previsto dall’art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (esplicitando quanto contenuto nell’art. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1), secondo cui il giudice ha l’obbligo di sollevare questione di costituzionalità «qualora il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale». Tale requisito esprime il nesso di necessaria strumentalità e diretta incidenza che deve intercorrere tra la questione di legittimità costituzionale e la risoluzione della causa principale.
Pur essendo il giudice del giudizio principale ‒ nella sua veste istituzionale di ‘intermediario’ tra legge e Costituzione ‒ a dover valutare la rilevanza della questione in relazione ad una norma e la necessità della applicazione per decidere, spetta alla Corte costituzionale non solo stabilire in cosa consista effettivamente la «rilevanza» (se elemento da riferire geneticamente allo stato degli atti, oppure da considerarsi nella sua evoluzione temporale; se da considerarsi come mera applicabilità della norma, della cui conformità a Costituzione si dubita, nel processo principale, o come mera influenza della decisione della Corte sul giudizio a quo: se operante soltanto nei confronti del giudice a quo ai fini della prospettabilità della questione, ma non anche nei confronti della Corte ad quem) ma anche presidiare il rispetto delle condizioni di proponibilità delle questioni incidentali.
Proprio in ragione dell’autonomia del giudizio incidentale di costituzionalità rispetto a quello principale, afferma l’Adunanza Plenaria, la verifica della Corte su presupposti e condizioni del giudizio a quo (giurisdizione, interesse a ricorrere e altri aspetti comunque concernenti la legittima instaurazione del giudizio) consiste in un sindacato «esterno», esaurendosi nella verifica che gli stessi «non risultino manifestamente e incontrovertibilmente carenti», e fermo restando che la relativa indagine deve arrestarsi laddove il rimettente abbia espressamente motivato sul punto in «maniera non implausibile».
L’Adunanza Plenaria prosegue l’iter argomentativo affermando che, su queste basi, la decisione processuale di inammissibilità, impiegata dalla Corte per rilevare l’assenza delle condizioni previste dalla legge per la legittima instaurazione del giudizio in via incidentale non spiega una rilevanza ‘diretta’ sul giudizio principale ‒ come invece la pronuncia di accoglimento o di rigetto, vertente «sulla questione di costituzionalità» ‒ e, pertanto, non preclude al giudice rimettente, che non condivida l’assunto della Corte, di decidere comunque nel merito la causa principale. Nel modello di giudizio in via incidentale, la Corte costituzionale è il giudice della legge, non del giudizio a quo.
Sennonché, afferma il Collegio, il quesito dirimente è un altro e, in particolare, occorre chiedersi se le decisioni processuali della Corte siano comunque suscettibili di determinare un effetto preclusivo analogo a quello delle decisioni di rigetto, nel senso di impedire al giudice a quo di sollevare nuovamente la questione di legittimità costituzionale, qualora questi, di fronte ad una decisione di inammissibilità, continuasse tuttavia a dubitare dell’incostituzionalità della legge di cui deve fare applicazione, adducendo motivazioni atte a superare gli argomenti forniti dalla Corte.
Infatti ‒ essendo escluso che il giudice sia abilitato a disapplicare la norma, sia pure con effetti limitati al processo in corso dinanzi a lui ‒ anche qualora il giudizio di ottemperanza fosse ritenuto ammissibile, resterebbe ferma l’applicazione dell’art. 50, comma 4, della legge finanziaria per il 2001 a precludere (nel merito) l’esecuzione delle decisioni presidenziali.
La Plenaria osserva che, alla luce della giurisprudenza della Corte, le decisioni processuali possono avere una portata duplice, da valutarsi sulla base delle ragioni per le quali esse sono state adottate.
Si distingue, all’interno delle decisioni di inammissibilità, fra quelle dotate di un effetto preclusivo nei confronti del giudice a quo ‒ in quanto aventi natura «decisoria» ‒ e quelle prive di tale effetto. L’elemento scriminante è la redimibilità del vizio.
Qualora il vizio che viene riscontrato e che costituisce la ragione dell’inammissibilità è tale da non essere sanabile da parte del giudice a quo, allora non è consentito al remittente riproporre nel medesimo giudizio la stessa questione, perché ciò si concreterebbe nell’impugnazione della precedente decisione della Corte, inammissibile ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 137 Cost.
Di contro, il giudice a quo è abilitato a sollevare una seconda volta la medesima questione nello stesso giudizio, quando la pronuncia di inammissibilità sia fondata su motivi rimovibili dal rimettente, sempreché il giudice a quo abbia rimosso il vizio che aveva impedito l’esame di merito della questione. Il ‘titolo’ dell’inammissibilità consente, ad esempio, la riproposizione della questione, in caso di rilevata «carenza di motivazione» sulla rilevanza o non manifesta infondatezza.
Nel caso in esame, sostiene la Plenaria, la statuizione della Corte, ancorché di inammissibilità, ha carattere incontestabilmente decisorio, in quanto incentrata sulla preclusione da giudicato: gli odierni appellanti avevano proposto ricorsi per l’esecuzione delle decisioni presidenziali, accolti dal Consiglio di Stato ma con sentenza annullata dalla Corte di Cassazione per difetto di giurisdizione.
Secondo il Collegio, il vizio non è superabile, nella prospettiva rilevata dal giudice delle leggi: essendo la potestas iudicandi del giudice adito esclusa da un giudicato a efficacia esterna, pena la violazione del ‘ne bis in idem’, viene meno la necessità di applicare nello stesso processo la norma censurata. E non vale l’argomento dei ricorrenti, facente leva sulla natura processuale delle sentenze sul difetto di giurisdizione e sul loro «superamento» ad opera dell’art. 112 c.p.a., che avrebbe ammesso l’azione esecutiva prima non prevista, consentendo così la proposizione del giudizio di ottemperanza delle decisioni rese su ricorso straordinario. E neppure appare risolutivo quanto sottolineato dalla Sezione Quarta in ordine al fatto che le sentenze della Corte di cassazione si sarebbero limitate a ritenere inattingibile il rimedio giurisdizionale dell’ottemperanza a motivo della natura amministrativa del decreto decisorio di ricorso straordinario, natura, tuttavia, non più predicabile in base alla vigente legislazione.
La Plenaria aggiunge anche che, in senso contrario, sono dirimenti le seguenti considerazioni.
Le sentenze della Corte di Cassazione in tema di giurisdizione vincolano i futuri giudici in caso di riproposizione della medesima domanda. Gli effetti c.d. ‘panprocessuali’ ricollegati alle sentenze in esame si differenziano dal ‘giudicato sostanziale’ (art. 2909 c.c.), in quanto solo quest’ultimo incide sulla sfera sostanziale, imponendosi alle parti come regolamento autoritativo del rapporto giuridico.
L’incontestabilità delle pronunce sulla giurisdizione ‒ in cui non viene dichiarata una concreta volontà di legge sostanziale ‒ è, da un lato, condizionata dall’identità oggettiva e soggettiva delle successive azioni proposte; dall’altro lato, non può opporsi alla legge sopravvenuta che, interpretando retroattivamente la normativa vigente oppure innovando ex nunc rispetto a questa, detti regole diverse per la soluzione delle questioni già decise, fintantoché i rapporti controversi non si siano esauriti. Il vincolo del giudicato panprocessuale resta invece insensibile ai meri mutamenti di indirizzo della giurisprudenza successiva.
Su queste basi, per l’Adunanza Plenaria, deve ritenersi che, nell’impostazione seguita dalla pronuncia della Corte n. 24 del 2018 (che, per le ragioni anzidette, non spetta al giudice a quo sindacare), le norme del processo amministrativo del 2010, che hanno definitivamente ammesso l’ottemperanza delle decisioni rese su ricorso straordinario, sono norme sopravvenute che non si applicano retroattivamente alle decisioni del 1999 e, dunque, non possono essere invocate per superare la preclusione da giudicato.
Alla conclusione che la statuizione di inammissibilità ha natura decisoria e preclude la riproposizione delle questioni sollevate in sede di ottemperanza ‒ la Plenaria ritiene opportuno aggiungere, per completezza espositiva – che l’eccezione di giudicato interno sollevata dai ricorrenti (sull’ammissibilità del ricorso in ottemperanza) non è fondata.
Infatti, sostiene il Collegio, l’ordinanza di rimessione del 2017 riportava che gli interessati avevano già presentato al Consiglio di Stato ricorso per l’esecuzione delle decisioni del Presidente della Repubblica, ottenendo una sentenza favorevole, e che tale sentenza era stata annullata dalle Sezioni unite della Corte di cassazione, per difetto di giurisdizione.
Cionondimeno, afferma la Plenaria, il giudice a quo non ha statuito sulla specifica questione preliminare (peraltro eccepita dalla controparte) secondo cui la pronuncia della Cassazione avrebbe avuto autorità di giudicato tra le parti, sicché la (riproposta) azione di ottemperanza sarebbe stata preclusa. L’ordinanza si soffermava sull’ammissibilità dell’azione di ottemperanza sulla decisione del ricorso straordinario, ma con argomenti volti non a negare la sussistenza della preclusione da giudicato, di cui l’ordinanza non si occupa, bensì per affermare di condividere l’indirizzo giurisprudenziale amministrativo che ritiene ammissibile il rimedio di cui all’art. 112 c.p.a. anche per le decisioni rese su ricorso straordinario prima della riforma introdotta dalla legge n. 69 del 2009.
Conclusione questa ritenuta dalla Plenaria come non coprente l’autonoma causa di inammissibilità per violazione del divieto di ‘ne bis in idem’.
Quindi, afferma la Plenaria, sono evidenti anche le ragioni che rendono non rilevante ai fini del decidere il secondo quesito.
La Plenaria aggiunge, poi, che, anche se, in ipotesi, la Quarta Sezione non concordasse con la Corte, e ritenesse il ricorso in ottemperanza ammissibile, il soddisfacimento della pretesa dell’odierna parte ricorrente troverebbe comunque ostacolo nella permanente vigenza degli ultimi due periodi del comma 4 dell’art. 50 della legge n. 388 del 2000 (secondo cui, vale ancora la pena ricordare, «perdono ogni efficacia i provvedimenti e le decisioni di autorità giurisdizionali comunque adottati», dopo la data di entrata in vigore del decreto-legge n. 333 del 1992, difformemente dalla predetta interpretazione, e in ogni caso «non sono dovuti e non possono essere eseguiti pagamenti sulla base di tali decisioni o provvedimenti»).
In definitiva, il Collegio ritiene che i decreti presidenziali del 2009, in quanto adottati in contrasto con la norma di interpretazione autentica, non possono essere eseguiti.
Passando al terzo quesito, esso, per la Plenaria, richiede una risposta più articolata. Infatti, non fu pronunciata un’unica sentenza del Consiglio di Stato in sede di ottemperanza, poi annullata dalle Sezioni unite per difetto di giurisdizione, ma si ebbero nove sentenze di analogo tenore, rese su separate domande degli interessati, delle quali solo otto furono annullate dalle Sezioni unite, con distinte sentenze pronunciate nel 2001-2002, mentre il nono processo si è estinto nel 2010 per rinuncia delle amministrazioni ricorrenti agli atti del giudizio, in considerazione della contestuale rinuncia, da parte del resistente, ad avvalersi degli effetti favorevoli della decisione impugnata.
La Plenaria osserva che la preclusione da giudicato, posta dalla Corte a fondamento della statuizione di inammissibilità, a ben vedere non dovrebbe valere per uno dei ricorrenti. Di regola, l’estinzione del giudizio non estingue l’azione, né, tanto meno, il sottostante diritto (cfr. art. 310 c.p.c.) e ciò dovrebbe condurre a ritenere ammissibile l’iniziativa giurisdizionale del ricorrente.
Si dovrebbe inoltre ritenere, per la Plenaria, che, qualora la decisione di inammissibilità, anche se di tipo decisorio, si fondi su un errore di fatto desumibile dagli atti del procedimento, influenti sulla determinazione della Corte costituzionale, la questione di costituzionalità sia riproponibile. In questo caso, il giudice a quo dovrebbe potere ottenere una pronuncia del giudice delle leggi emendata dalla falsa rappresentazione della realtà processuale.
Sennonché, la Plenaria sostiene che tale tentativo non vada sperimentato. Infatti, l’unica questione residua ‒ tra quelle sollevate dalla Quarta Sezione e non delibate dalla Corte, perché assorbite dalla statuizione di inammissibilità ‒ può essere così sintetizzata: se l’art. 50, comma 4, della legge n. 388 del 2000, vìoli gli artt. 3, 24 e 111 Cost., nella misura in cui avrebbe inciso, in assenza di motivi imperativi di interesse generale, sulle controversie pendenti che erano state intraprese per ottenere l’esecuzione delle suddette decisioni definitive, con conseguente lesione del diritto di difesa e del principio di parità delle parti (le altre questioni di costituzionalità richiamavano per relationem le considerazioni già espresse nell’ordinanza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, su cui è già intervenuto il giudicato di rigetto).
Il Collegio, in altre parole, osserva che il dubbio di legittimità ‒ non scrutinato dalla Corte ‒ riguardava l’incidenza della norma di interpretazione autentica sul (primo) giudizio di ottemperanza (pendente al momento di entrata in vigore della norma), in violazione del divieto per il potere legislativo di ingerirsi nell’amministrazione della giustizia ad opera di leggi retroattive, al fine di influenzare l’esito giudiziario di una controversia, in mancanza di motivi imperativi di interesse generale. Sennonché, il petitum caducatorio incentrato sull’incidenza della norma censurata sul (primo) giudizio di ottemperanza promosso dall’interessato per ottenere l’esecuzione della decisione presidenziale, ancora in corso alla data della sua entrata in vigore, sarebbe privo di rilevanza, avendo il ricorrente comunque rinunciato a quello stesso giudizio su cui il legislatore avrebbe (in tesi) illegittimamente interferito.
Per completezza, il Collegio precisa che, anche ove riferita al secondo giudizio di ottemperanza, la questione sarebbe a maggior ragione irrilevante, poiché non farebbe venire meno l’applicabilità della norma censurata (nella parte in cui dispone l’inefficacia delle decisioni di cui si è chiesta l’ottemperanza) nei giudizi che non erano in corso al momento di entrata in vigore della medesima norma, essendo stati promossi successivamente.
Venendo a scrutinare la domanda risarcitoria, formulata in via subordinata per il caso di reiezione della domanda principale, la Plenaria ricorda che, secondo i ricorrenti, l’illecito civile ‒ «nato come contrattuale» (in quanto derivante dall’inadempimento di un’obbligazione) e divenuto extracontrattuale con la norma subentrata dal 2001 (che avrebbe reso quella stessa obbligazione «inefficace») ‒ consisterebbe nella inesecuzione, penalmente rilevante, dei decreti decisori risalenti al 27 settembre 1999 (protrattasi oltre il termine di 14 mesi per l’adempimento che si assume «sancito come invalicabile dalla CEDU»), ritardo che avrebbe provocato l’applicabilità della norma retroattiva.
Sul punto, la Plenaria afferma che la domanda risarcitoria è infondata per assenza degli elementi costitutivi dell’illecito. La pretesa azionata, infatti, è sussumibile nella fattispecie del «danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento», disciplinata dall’articolo 2-bis della legge 7 agosto 1990, n. 241, introdotto dalla legge 18 giugno 2009, n. 69, e riconducibile al generale rimedio del risarcimento per lesione di interessi legittimi. Con riguardo alla relativa azione processuale, l’art. 30 del c.p.a., ai commi 2 e 4, disciplina unitariamente il «danno ingiusto derivante dall’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa o dal mancato esercizio di quella obbligatoria» e il «danno che il ricorrente comprovi di aver subito in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento». Lo stesso diritto vivente riconduce la responsabilità della pubblica amministrazione per lesione di interessi legittimi, sia da illegittimità provvedimentale, sia da inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento, al comune paradigma dell’illecito aquiliano (cfr. Adunanza plenaria del Consiglio di Stato 23 aprile 2021, n. 7).
La domanda risarcitoria – aggiunge la Plenaria – può essere promossa anche in via ‘autonoma’, senza la necessità, cioè, del previo esperimento del giudizio avverso il silenzio. La mancata attivazione dei rimedi procedimentali e processuali (ad esempio, la mancata sollecitazione del potere di avocazione previsto dall’art. 2, commi 9-bis e seguenti, della legge n. 241 del 1990), se non ha rilievo come presupposto processuale, può però operare quale fattore di mitigazione del danno risarcibile, ai sensi dell’art. 30, comma 3, secondo periodo, c.p.a., laddove si accerti «che le condotte attive trascurate […] avrebbero verosimilmente inciso, in senso preclusivo o limitativo, sul perimetro del danno» (cfr. la sentenza dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato 23 marzo 2011, n. 3).
Nell’ampia fenomenologia considerata dall’art. 2-bis della legge n. 241 del 1990, ricorda la Plenaria, rientrano almeno tre ordini di fattispecie: i) la tardiva adozione di un provvedimento a contenuto favorevole; ii) l’adozione tardiva di un provvedimento legittimo ma sfavorevole per l’interessato; iii) la mera inerzia. La prima fattispecie è ravvisabile non solo quando il provvedimento favorevole sia stato accordato tardivamente, ma anche nell’ipotesi in cui venga dimostrato che, ove fossero stati rispettati i termini prescritti dalla legge, il procedimento sarebbe culminato con l’accoglimento dell’istanza.
Se l’interesse protetto che si assume pregiudicato dall’azione amministrativa coincide con le utilità attese in vista della positiva conclusione del procedimento ‒ si tratti, a seconda dei casi, del valore patrimoniale oggetto di ablazione o conformazione o del valore investito di cui è stata impedita la realizzazione ‒ è necessario dimostrare, perché possa ritenersi integrato il requisito dell’«ingiustizia», che l’illegittimità accertata ha determinato la privazione di un’utilità che il diritto assicurava o ne ha pregiudicato, sempre in contrasto con il diritto, l’acquisizione. Ciò accade quando la disciplina sostanziale del potere non ammetta (già in astratto) alternative diverse, oppure quando lo specifico svolgimento dell’azione pubblica escluda nel caso concreto altre possibilità parimenti legittime.
Il Collegio aggiunge anche che va appurata la specifica rilevanza causale del vizio accertato rispetto al contenuto del provvedimento che si assume lesivo. Il rimedio risarcitorio può essere invocato, non solo per contestare l’uso sostanzialmente ‘infondato’ del potere pubblico, ma anche l’uso ‘scorretto’ (sul piano procedimentale) o ‘irragionevole’ dello stesso. L’ingiustizia come «clausola generale» consente infatti di attribuire rilievo anche alla violazione delle norme di diritto pubblico che, pur non ricomprendendo nel loro raggio di protezione l’interesse materiale, assicurano comunque all’istante la possibilità di conseguire il bene finale.
Il Collegio ricorda che, in queste ultime ipotesi ‒ che ricomprendono pure le citate fattispecie del danno cagionato dal ritardo nell’emanazione di un provvedimento sfavorevole ma legittimo o dalla mera inerzia nel provvedere ‒ il requisito dell’ingiustizia può essere integrato dal sacrificio di beni ‘intermedi’, purché meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico, come la c.d. ‘chance’ (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 13 settembre 2021, n. 6268) o la lesione dell’affidamento commisurata all’interesse ‘negativo’ (si pensi al valore delle occasioni perdute per effetto della lesione della libertà di autodeterminazione: cfr. Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, sentenza 4 maggio 2018, n. 5).
E il superamento del termine di conclusione del procedimento non è, ovviamente, mai risarcibile in re ipsa, occorrendo la prova rigorosa di un effettivo danno risarcibile che ne sia «conseguenza immediata e diretta» (art. 1223) e non evitabile (1227 del c.c.).
Il Collegio, quindi, conclude che, nel caso in esame – in cui, in ragione della domanda di parte ricorrente, occorre vagliare la consistenza dell’interesse materiale (o finale) – il ritardo del procedimento non ha causato un danno «ingiusto», perché la pretesa stipendiale dei ricorrenti non era riconosciuta dalla legge, come già emerso ampiamente in sede di scrutinio delle domande principali.
Il legislatore, mediante l’intervento retroattivo, riconosciuto legittimo dalla Corte costituzionale, ha inteso escludere la possibilità di invocare l’allineamento stipendiale di cui all’art. 4, nono comma, della legge n. 425 del 1984, in quanto istituto da intendersi abrogato, per incompatibilità, sin dal decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333.
Il legislatore ha agito al fine di scongiurare processi di incremento retributivo casuali, non controllabili e violativi dell’eguaglianza retributiva tra dipendenti pubblici preposti a mansioni equivalenti e in possesso di analoga anzianità: trattandosi di trattamenti economici «con esiti privilegiati», la Corte ha escluso che potesse invocarsi la tutela dell’affidamento.
Dunque, il Collegio ritiene che quanto detto in punto di insussistenza dell’elemento oggettivo dell’illecito è, di per sé, sufficiente ai fini del rigetto della domanda e, per completezza, osserva che difetterebbe comunque il nesso di imputazione soggettiva.
Infatti, nell’ambito della responsabilità della pubblica amministrazione ‒ derivante dall’esercizio illegittimo o dal mancato esercizio dell’attività amministrativa ‒ il nesso di imputazione soggettiva è integrato, non soltanto dalla violazione dalle norme di diritto pubblico, ma anche dalla ‘rimproverabilità’ dello scostamento così realizzatosi rispetto al modello normativamente predefinito.
La «colpa d’apparato» si pone come ineludibile criterio di misurazione della tollerabilità del rischio amministrativo, senza il quale si determinerebbe un ‘appiattimento’ del rimedio risarcitorio sulla illegittimità del procedimento o dell’atto. L’automatismo tra invalidità e illecito (oltre che non voluto dal sistema processuale) porterebbe con sé anche l’ulteriore rischio di rallentare oltremodo speditezza e buon andamento dell’azione pubblica.
E, nel caso di specie, afferma la Plenaria, non sussistono gli estremi per muovere il suddetto giudizio di rimproverabilità: le condizioni che fanno da sfondo alla controversia ‒ disordinata stratificazione normativa, oggettiva incertezza ermeneutica, elevata rilevanza economica della pretesa ‒ giustificavano il comportamento prudente dell’organo amministrativo preposto all’erogazione del trattamento economico, rimasto in attesa (per un periodo di tempo peraltro non abnorme) di un chiarimento che poi è stato fornito dallo stesso Parlamento.
Alla luce delle considerazioni svolte, l’Adunanza Plenaria, con la sentenza n. 12 del 2024, enuncia il seguente principio di diritto:
«La decisione processuale di inammissibilità, ancorché di natura ‘decisoria’, impiegata dalla Corte costituzionale per rilevare l’assenza delle condizioni previste dalla legge per la legittima instaurazione del giudizio in via incidentale, non spiega una rilevanza diretta sul giudizio principale ‒ come invece la pronuncia di accoglimento o di rigetto, vertente sulla questione di costituzionalità ‒ e, pertanto, non preclude al giudice rimettente, che non condivida l’assunto della Corte, di decidere comunque nel merito la causa principale, dovendo però in questo caso fare applicazione della norma censurata».
- Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sent. n. 15 del 2024, in tema di intervento adesivo-dipendente
In ragione del contrasto giurisprudenziale in materia, la Seconda Sezione ha deferito all’esame dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, ai sensi dell’art. 99, comma 1, del c.p.a. l’esame dei seguenti quesiti:
«a) se la deliberazione del 27 dicembre 2019, n. 580/2019/R/idr, con la quale l’Autorità di regolazione per energia reti e ambiente ha approvato il metodo tariffario idrico per il terzo periodo regolatorio (MTI-3), possa ritenersi legittima nella parte in cui non riconosce gli oneri finanziari sostenuti a causa del differimento biennale della corresponsione dei conguagli relativi ai costi ammessi e non coperti dalla tariffa dell’anno regolatorio di riferimento;
- b) se, in particolare, le disposizioni della deliberazione impugnata (ed eventualmente le norme nazionali su cui quest’ultima dichiara di fondarsi) siano, in parte qua, conformi ai principi di derivazione eurounitaria di certezza del diritto, legittimo affidamento, ragionevolezza, proporzionalità e del full cost recovery».
A seguire, con seconda ordinanza di rimessione, la Seconda Sezione ha rimesso all’Adunanza Plenaria i seguenti ulteriori quesiti:
«a) se la deliberazione n. 664/2015/R/idr del 28 dicembre 2015 dell’ARERA, di approvazione del Metodo tariffario idrico per il secondo periodo regolatorio MTI-2, possa ritenersi legittima – anche in riferimento ai principi di derivazione eurounitaria di certezza del diritto, legittimo affidamento, ragionevolezza, proporzionalità, nonché al principio del “full cost recovery” sancito dall’art. 9 della direttiva n. 2000/60/CE – nella parte in cui non riconosce gli oneri finanziari sostenuti dal gestore a causa del differimento biennale della corresponsione dei conguagli relativi ai costi ammessi e non coperti dalla tariffa dell’anno regolatorio di riferimento;
- b) se in particolare, ai fini della valutazione di legittimità della previsione, sia rilevante la circostanza che il differimento biennale nell’ottenimento dei ricavi oggetto dei conguagli dipenda da scelte di natura imprenditoriale del gestore ovvero da decisioni discrezionali di politica sociale dell’Ente di governo dell’ATO cui questi non si è opposto».
Il Collegio prende le mosse dalla questione se, in pendenza del secondo grado di un giudizio amministrativo avente per oggetto la legittimità di un atto generale, avente effetti nei confronti di una intera categoria di operatori economici, sia ammissibile l’intervento adesivo-dipendente proposto dal cointeressato, che non abbia impugnato a sua volta il medesimo atto generale e se sia ammissibile, dopo la rimessione della causa all’esame dell’Adunanza Plenaria, l’intervento del cointeressato, che abbia impugnato lo stesso atto generale con un autonomo ricorso, il cui giudizio, pendente ancora in primo grado, sia stato sospeso (o comunque rinviato) in attesa della decisione dell’organo nomofilattico.
L’Adunanza Plenaria, disposta la riunione dei due ricorsi, stante la loro connessione (oggettiva e soggettiva) e la sostanziale sovrapponibilità dei quesiti di diritto rimessi al suo esame, procede allo scrutinio dell’ammissibilità degli atti di intervento, depositati dalla s.p.a. Acquedotto Pugliese. In particolare, nota il Collegio, l’interveniente, s.p.a. Acquedotto Pugliese, esercita l’attività di gestore del servizio idrico integrato (operante nell’Ambito Territoriale Ottimale Puglia) e risente, quindi, in via diretta degli effetti dei due atti di regolazione tariffaria, impugnati dalle altre due società con i ricorsi di primo grado.
A fondamento della sua legittimazione ad intervenire, la società deduce, in primo luogo, di avere impugnato innanzi al TAR per la Lombardia, Sede di Milano, la delibera «MTI-2» (oggetto dell’appello n. 537 del 2023), censurando la determinazione relativa al mancato riconoscimento della spettanza degli oneri finanziari sostenuti a causa del differimento biennale della corresponsione dei conguagli, relativi ai costi ammessi e non coperti dalla tariffa dell’anno regolatorio di riferimento.
Il Collegio, ancora, rileva che il giudice di primo grado ha disposto il rinvio della trattazione in attesa del pronunciamento della stessa Adunanza Plenaria sui quesiti di diritto sollevati dalla Seconda Sezione del Consiglio di Stato. Con riguardo alla delibera «MTI-3» (oggetto dell’appello n. 4939 del 2023) – rispetto alla quale l’impugnazione proposta dalla società non ha invece avuto ad oggetto la disposizione sul mancato riconoscimento degli oneri finanziari (divenendo quindi inoppugnabile nei suoi confronti) – la legittimazione ad intervenire viene supportata dalle considerazioni aggiuntive secondo le quali, malgrado le sentenze n. 732 del 2021 e n. 7154 del 2022 del Consiglio di Stato abbiano ritenuto in parte fondati i ricorsi allora proposti dalla s.p.a. Acquedotto Pugliese avverso le determinazioni dell’ARERA sul mancato riconoscimento degli oneri finanziari sui conguagli nell’ambito dei precedenti regimi tariffari «MTT» e «MTI-1», l’Autorità avrebbe rifiutato sinora di riconoscere gli oneri finanziari a lei dovuti, rifacendosi ad un diverso (e sfavorevole) indirizzo giurisprudenziale. Dunque, l’eventuale conferma di tale orientamento da parte dell’Adunanza Plenaria consoliderebbe il rifiuto sinora opposto alle pretese della società, ripercuotendosi «in via mediata e indiretta» sui suoi interessi.
Prosegue l’Adunanza Plenaria rilevando che il deposito degli atti di intervento pone due ordini di questioni:
- i) con riferimento al giudizio n. 4939 del 2023 (n. 2 del 2024 del ruolo Ad. Plen.), se ‒ in pendenza del secondo grado di un giudizio amministrativo avente per oggetto la legittimità di un atto generale, avente effetti nei confronti di una intera categoria di operatori economici ‒ sia ammissibile l’intervento adesivo-dipendente proposto dal cointeressato, che non abbia impugnato a sua volta il medesimo atto generale;
- ii) con riferimento al giudizio n. 537 del 2023 (n. 9 del 2024 del ruolo Ad. Plen.), se ‒ in pendenza del secondo grado di un giudizio amministrativo avente per oggetto la legittimità di un atto generale, avente effetti nei confronti di una intera categoria di operatori economici ‒ sia ammissibile, dopo la rimessione della causa all’esame dell’Adunanza Plenaria, l’intervento del cointeressato, che abbia impugnato lo stesso atto generale con un autonomo ricorso, il cui giudizio, pendente ancora in primo grado, sia stato sospeso (o comunque rinviato) in attesa della decisione dell’organo nomofilattico.
Quindi, la Plenaria evidenzia che l’estrema delicatezza e portata sistematica delle riferite questioni induce la stessa a premettere alcune considerazioni di carattere generale sul ruolo che l’intervento assolve nel contesto del processo amministrativo, alla luce del dibattito scientifico e giurisprudenziale seguito all’entrata in vigore del codice del processo amministrativo.
Innanzi tutto, afferma il Collegio, la funzione dell’intervento ‒ avente un rilievo centrale nella teoria dell’azione, dell’oggetto del giudizio e dei limiti soggettivi della tutela giurisdizionale ‒ è quella di consentire l’emersione in sede processuale delle situazioni giuridiche soggettive, di varie tipologia e contenuto, che si muovono ‘interrelate’ nel contesto del diritto sostanziale, consentendo al giudice di cogliere la portata della controversia nella sua globale complessità e di ampliare lo spettro soggettivo di incisione del giudicato.
In particolare, afferma la Plenaria, l’esigenza di tener conto delle connessioni sussistenti tra i rapporti giuridici ha una peculiare particolare importanza nel contesto dell’azione amministrativa, poiché i provvedimenti di regola incidono su una pluralità di interessi pubblici e privati, irradiando i propri effetti su situazioni ulteriori, dipendenti o connesse, rispetto a quelle riguardanti le parti necessarie del giudizio.
Osserva, ancora, la Plenaria, che la disciplina dell’intervento nel processo amministrativo è mutata nel corso del tempo.
Il regio-decreto 17 agosto 1907, n. 642, analogamente all’art. 201 del codice di procedura vigente all’epoca vigente, stabiliva che «chi ha interesse nella contestazione può intervenirvi» (art. 37), «nello stato in cui si trova la contestazione» (art. 40).
Il successivo regio-decreto 26 giugno 1924, n. 1054 (‘Testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato’), non apportava ulteriori integrazioni a tale disciplina.
L’art. 22, comma 2, della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, istitutiva dei Tribunali amministrativi regionali, riprendeva la formulazione del regio-decreto del 1907.
Tali disposizioni hanno disciplinato gli interventi volontari (e non la chiamata del terzo per ordine del giudice o su istanza di parte), per definirne le forme della loro proposizione, senza specificarne le posizioni legittimanti ed i contenuti della relativa domanda.
Il Codice del processo amministrativo, di cui al d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, ha dettato una disciplina più dettagliata degli interventi, la quale riflette l’attuale configurazione del processo amministrativo, non più basato soltanto sul cd. modello impugnatorio, ma tiene conto delle differenziate esigenze di tutela, consentendo di concentrare nel giudizio di cognizione, per quanto possibile, tutte le questioni dalla cui definizione possa derivare una risposta piena alla domanda di giustizia (e di acquisizione o di conservazione del ‘bene della vita’ inciso o regolato dall’esercizio del potere pubblico).
La collocazione sistematica dell’intervento ‒ nel Titolo III, intitolato «Azioni e domande», all’interno del Capo I, rubricato «Contraddittorio e intervento» ‒ evidenzia la sua derivazione dal principio costituzionale del «contraddittorio tra le parti», quale componente del «giusto processo regolato dalla legge» (art. 111, secondo comma, Cost., richiamato dall’art. 2 del c.p.a.).
I primi due commi dell’art. 28 del c.p.a. distinguono le parti necessarie «nei cui confronti la sentenza deve essere pronunciata» e l’intervento volontario di chiunque altro «non sia parte del giudizio» ma che cionondimeno «vi abbia interesse».
Il comma 3 dello stesso art. 28 ha introdotto nel processo amministrativo l’intervento in causa c.d. «iussu iudicis», ovvero di coloro nei cui confronti il giudice, anche su istanza di parte, ritenga «opportuno che il processo si svolga».
La disciplina è completata dagli artt. 49, 50 e 51, dedicati alle modalità con cui deve avere luogo l’integrazione del contraddittorio, nonché dalle disposizioni contenute all’art. 42 c.p.a., concernenti il ricorso incidentale e la domanda riconvenzionale delle parti resistenti e dei controinteressati.
La disciplina degli interventi delle parti eventuali del giudizio è contenuta nel comma 2 dell’art. 28, per il quale «[c]hiunque non sia parte del giudizio e non sia decaduto dall’esercizio delle relative azioni, ma vi abbia interesse, può intervenire accettando lo stato e il grado in cui il giudizio si trova». Secondo il Collegio, la disposizione non indica puntualmente i requisiti necessari per ritenere ammissibile l’intervento di chi non rientri tra le parti necessarie (le quali sono invece individuate all’art. 41, comma 2, del c.p.a.).
Quindi, prosegue la Plenaria, per comprendere la rilevanza giuridica dell’interesse del terzo ad inserirsi in un processo pendente inter alios, i modelli partecipativi elaborati dalla dottrina del processo civile rappresentano un importante punto di riferimento di teoria generale, avendo la medesima funzione di collegare la vicenda sostanziale a quella processuale in presenza di fenomeni di connessione, con la seguente distinzione.
In particolare, deduce il Collegio, quando è chiesta la tutela di un diritto soggettivo in sede di giurisdizione esclusiva, in tema di intervento si applicano senz’altro le regole ed i principi desumibili dal codice di procedura civile; nell’ambito invece dell’azione di annullamento posta a tutela di posizioni di interesse legittimo, l’impianto sistematico del codice di procedura civile non può essere automaticamente trasposto nel processo amministrativo, dovendo i meccanismi di intervento adattarsi alle specificità strutturali di ciascuna tipologia di giudizio (la clausola di completezza di cui all’art. 39 c.p.a., del resto, prevede che solo «per quanto non disciplinato dal presente codice si applicano le disposizioni del codice di procedura civile, in quanto compatibili o espressione di principi generali»).
Quindi, conclude il Collegio, ai fini della soluzione delle questioni sopra indicate, è importante premettere che l’intervento volontario nel processo amministrativo riguarda due principali tipologie di posizioni giuridiche. Il terzo può essere titolare di un interesse non direttamente inciso dal provvedimento da altri impugnato, ma cionondimeno suscettibile di risentire gli effetti «riflessi», sia pure con differenti graduazioni e pregiudizio, dall’esito della lite inter alios iudicata.
Rileva la Plenaria che la giurisprudenza ‒ senza prendere posizione sulla teoria ricostruttiva della «riflessione», oggi oggetto di attenta riconsiderazione, in quanto il diritto costituzionale di difesa impone forti limitazioni all’operatività del giudicato in danno di persone che non abbiano preso parte al processo ‒ ammette l’intervento dei soggetti titolari di una posizione giuridica collegata o dipendente rispetto a quella dedotta nel processo inter alios (ovvero la cui nascita, esistenza o contenuto dipendano dalla nascita, esistenza o contenuto di un rapporto sostanziale altrui).
Il carattere indiretto e mediato del pregiudizio subito esclude la legittimazione dei predetti soggetti a promuovere un autonomo giudizio.
L’intervento, afferma la Plenaria, è «adesivo-dipendente», in quanto determina un ampliamento solo soggettivo della controversia: l’interventore, pur divenendo a tutti gli effetti parte del giudizio, deve limitarsi a cooperare con la parte adiuvata nell’attività asseverativa, senza potere introdurre domande, fatti o prove, o dare altrimenti impulso al giudizio. Il terzo può essere titolare di un interesse direttamente inciso dall’azione pubblica ‒ già oggetto di altra impugnazione ‒ e che quindi potrebbe essere fatto valere autonomamente.
In tal caso, specifica il Collegio, il fondamento dell’intervento non è quello di evitare la propagazione di un risultato processuale sfavorevole ovvero di agevolare un esito processuale da cui ricavare in via derivata la soddisfazione del proprio interesse; il fondamento è invece quello di favorire, per ragioni di economia processuale, il cumulo di impugnazioni (connesse per l’oggetto o per il titolo) in un unico processo, evitando la formazione di giudicati (logicamente) contraddittori.
Rileva, ancora, la Plenaria, che, rispetto all’ammissibilità di questa figura di interventore ‒ denominato «litisconsortile» ‒ l’orientamento tradizionale della giurisprudenza amministrativa è di segno restrittivo.
In particolare, con riguardo ai provvedimenti incidenti su una pluralità di soggetti di per sé legittimati all’impugnazione, e in particolare gli atti generali (anche quelli che incidono su prezzi e tariffe), il Consiglio di Stato, con orientamento costante, ha escluso che potesse proporre intervento chi avrebbe potuto impugnare l’atto lesivo, prestandovi invece acquiescenza: si è ritenuto che ammettere in tal caso l’intervento (e consentire di avvalersi degli effetti dell’eventuale annullamento dell’atto lesivo) avrebbe comportato l’elusione del termine di decadenza.
Tale regola è stata ribadita, ricorda il Collegio, sia dalle singole Sezioni del Consiglio (tra le più risalenti, senza pretesa di completezza, Sez. IV, 15 aprile 1932, n. 143; Sez. IV, 8 ottobre 1941, n. 320; Sez. V, 15 dicembre 1942, n. 676; Sez. IV, 27 luglio 1946, n. 256; Sez. IV, 30 ottobre 1947, n. 371; Sez. V, 22 dicembre 1948, n. 386; Sez. IV, 29 dicembre 1948, n. 524; Sez. VI, 2 maggio 1949, n. 30; Sez. VI, 3 ottobre 1949, n. 120; Sez. IV, 10 ottobre 1950, n. 464; Sez. VI, 3 dicembre 1950, n. 592; Sez. VI, 4 dicembre 1950, n. 595; Sez. IV, 4 aprile 1951, n. 203; Sez. IV, 18 luglio 1951, n. 507; Sez. VI, 27 agosto 1951, n. 632; Sez. VI, 27 settembre 1951, n. 633; Sez. IV, 28 novembre 1951, n. 927; Sez. VI27 agosto 1952, n. 632; Sez. IV, 23 dicembre 1952, n. 1030; Sez. VI, 14 aprile 1954, n. 233; Sez. IV, 28 agosto 1954, n. 494; Sez. VI, 6 novembre 1957, n. 810; Sez. IV, 15 novembre 1961, n. 585; Sez. V, 12 gennaio 1963, n. 4; Sez. V, 25 settembre 1963, n. 802), sia dall’Adunanza Plenaria (sentenze 25 maggio 1954, n. 18; 31 gennaio 1961, n. 1, in un significativo caso in cui erano stati impugnati un regolamento ed un atto generale, lesivi per una pluralità di insegnanti).
Tuttavia, la Plenaria specifica che la stessa giurisprudenza ha temperato la posizione di chiusura riguardante l’intervento litisconsortile, ammettendolo tramite la sua conversione in ricorso principale (in applicazione del principio sancito dall’art. 1424 c.c., ritenuto applicabile anche nel processo), alla triplice condizione che non fossero scaduti i termini di decadenza, che fosse ravvisabile nell’interventore la volontà di agire quale ricorrente e che l’atto di intervento possedesse i requisiti di sostanza e di forma del ricorso, compresi quelli di natura fiscale (cfr. Ad. Plen., 25 maggio 1954, n. 18, cit.; Sez. IV, 30 ottobre 1947, n. 371; Sez. IV, 3 febbraio 1956, n. 76; Sez., V, 28 settembre 1970, n. 713; Sez. IV, 12 dicembre 1996, n. 1292; Sez., IV, 13 dicembre 1999, n. 1853; Sez. IV, 27 maggio 2002, n. 2928).
Rileva la Plenaria che il Codice ha recepito l’orientamento giurisprudenziale di limitata ammissibilità dell’intervento litisconsortile, al fine di conciliare l’esigenza del «simultaneus processus» con la struttura impugnatoria del giudizio amministrativo. L’ampia formulazione dell’art. 28, comma 2 ‒ secondo cui può intervenire «[c]hiunque non sia parte del giudizio […], ma vi abbia interesse» ‒ ricomprende senza dubbio il terzo titolare di un interesse direttamente inciso dall’atto oggetto di impugnazione e che quindi potrebbe farlo valere autonomamente contro alcune delle parti necessarie.
Una ulteriore evidenza sistematica dell’ammissibilità dell’intervento litisconsortile in primo grado è offerta anche dall’art. 102, comma 2, c.p.a., che, legittimando all’appello l’interventore «titolare di una posizione giuridica autonoma», presuppone che l’intervento in prime cure riguardasse un interesse legittimo esposto all’efficacia diretta della sentenza di annullamento (un’ipotesi specifica di intervento sicuramente litisconsortile è contemplata anche dall’art. 1, comma 3, del d.lgs. 20 dicembre 2009, n. 198).
Il codice subordina l’ammissibilità dell’intervento litisconsortile alla condizione che il cointeressato «non sia decaduto dall’esercizio delle relative azioni», affinché tale intervento non si risolva in un’elusione del termine per impugnare.
Quindi, deduce la Plenaria, rispetto alla soluzione elaborata dalla giurisprudenza nel previgente regime processuale, la novità consiste nel fatto che non più è necessario disporre la conversione dell’intervento tempestivo del cointeressato in un ricorso autonomo: l’interventore litisconsortile ‒ in quanto parte principale, ancorché non necessaria ‒ non incontra limiti all’attività assertiva, è libero di addurre argomenti propri e diversi da quelli dedotti dalle altre parti (mentre l’interventore adesivo non può ampliare il thema decidendum o sostituire la propria iniziativa processuale a quella mancante del ricorrente principale). Per gli stessi motivi, l’intervento litisconsortile può essere spiegato solo in un giudizio che si trova in primo grado, in quanto, nel giudizio di appello, lo stesso è precluso del divieto di cui all’art. 104, comma 1, del c.p.a.
Come evidenziato dalla Plenaria, la giurisprudenza maggioritaria ritiene che il cointeressato decaduto dall’azione di annullamento, così come non può spiegare intervento litisconsortile, neppure possa fare intervento in forma adesivo-dipendente (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. III, 4 aprile 2023, n. 3442; Sez. II, 4 gennaio 2021, n. 105; Sez. VI, 13 agosto 2018, n. 4939; Sez. V, 10 aprile 2018, n. 2186). Una parte della dottrina, nota il Collegio, critica lo sbarramento così frapposto all’intervento adesivo-dipendente del cointeressato già decaduto dall’azione di annullamento, sostenendo che tale orientamento perpetuerebbe il fraintendimento intorno alla natura dell’intervento ad adiuvandum, che, limitandosi a sostenere le ragioni del ricorrente senza incidere sul thema decidendum, sarebbe intrinsecamente privo dell’attitudine a eludere il termine di decadenza per l’azione di annullamento. Si sostiene, in altre parole, che, se l’intervento ad adiuvandum è consentito a chi risente l’efficacia ‘riflessa’ della sentenza di annullamento, a fortiori lo stesso dovrebbe essere accordato a chi è attinto dalla sua efficacia diretta.
Questi rilievi hanno trovato accoglimento anche in alcune pronunce del Consiglio di Stato (Sez. VI, 3 marzo 2016, n. 882, alla quale si richiama Sez. V, 30 ottobre 2017, n. 4973), limitatamente all’ipotesi del cointeressato destinatario di atti ad effetti non frazionabili. A sostegno di tale assunto questa giurisprudenza afferma che la ratio dell’art. 28 del c.p.a., che ammette l’intervento solo da parte di chi non sia decaduto dall’esercizio delle relative azioni, non sarebbe quella di sanzionare i comportamenti inerti dei soggetti interessati, bensì quella di assicurare la stabilità e la certezza dei rapporti giuridici e delle situazioni soggettive, evitando che l’azione amministrativa rimanga per troppo tempo controvertibile per via giurisdizionale.
Di conseguenza, afferma la Plenaria, una volta che sia validamente instaurato, da uno dei suoi destinatari, un giudizio intorno alla legittimità del provvedimento amministrativo, non vi sarebbe più alcuna ragione di invocare il termine di decadenza e di precludere l’azione del legittimato che, pur senza ampliare il thema decidendum, voglia solo profittare del processo pendente per sostenere la tesi del ricorrente principale ed ottenere così, indirettamente, data la natura inscindibile degli effetti del provvedimento, la tutela della propria posizione.
L’intervento adesivo-dipendente sarebbe così denominato, non perché chi se ne fa portatore è titolare di un interesse necessariamente ‘dipendente’ rispetto a quello azionato in via principale, ma perché tramite questo tipo di intervento non si propongono autonome domande.
L’Adunanza Plenaria, in continuità con l’orientamento tradizionale, ritiene che il cointeressato decaduto dal diritto di impugnare non sia legittimato, né (come espressamente previsto dalla legge) all’intervento litisconsortile, né all’intervento adesivo-dipendente (tanto meno in grado d’appello e quando il giudizio sia stato sottoposto all’esame dell’Adunanza Plenaria).
L’opinione contraria, secondo il Collegio, ancorché finemente argomentata dalla dottrina e dalla giurisprudenza sopra richiamata, non è condivisibile per i seguenti motivi:
1) Rileva, in primo luogo, l’argomento di interpretazione letterale: la possibilità dell’intervento adesivo-dipendente del cointeressato contrasta con la chiara formula legislativa, che pone espressamente quale condizione dell’intervento l’assenza del prodursi di una decadenza.
L’art. 28, comma 2, c.p.a., peraltro, non si limita semplicemente a richiedere che l’intervento del cointeressato sia proposto prima dello spirare del termine di decadenza, bensì che l’interventore «non sia decaduto dall’esercizio delle relative azioni», il che postula che l’atto di intervento del cointeressato, oltre che tempestivo, contenga la domanda di annullamento.
L’intervento del cointeressato, in altre parole, è necessariamente litisconsortile.
2) Sul piano dell’interpretazione sistematica, l’incompatibilità tra l’intervento adesivo-dipendente e la titolarità di un interesse autonomo all’impugnazione discende dalla struttura stessa del giudizio impugnatorio.
Il titolare di una posizione di interesse legittimo soggiace alle condizioni e ai termini di tutela posti dalla legge tra cui, in primo luogo, l’onere di attivarsi entro il termine di decadenza previsto dalla legge. Lasciato decorrere inutilmente tale termine, il soggetto non può più azionare, in nessuna forma giurisdizionale, il proprio interesse giuridicamente qualificato.
In caso di atto individuale o atto plurimo a effetti scindibili, è evidente che l’estinzione dell’interesse legittimo collegata al sopraggiunto regime di inoppugnabilità priva il terzo di qualsivoglia interesse, anche di fatto, da far valere nel processo da altri instaurato.
Ma anche nel caso ‒ che ha originato i sopra citati precedenti difformi ‒ di atto con effetti inscindibili, con effetti erga omnes o comunque plurisoggettivi (come, per l’appunto, nel caso degli atti di regolazione tariffaria), ostano all’intervento del cointeressato decaduto analoghe esigenze di stabilità e certezza dell’azione amministrativa.
Tale assunto ‒ che richiede di essere sviluppato nel punto seguente ‒ si basa sulla non coincidenza tra la delimitazione soggettiva degli effetti delle sentenze di annullamento ed i limiti soggettivi del giudicato amministrativo.
3) Al giudicato amministrativo si applica la regola dell’«esclusiva operatività inter partes del giudicato» stabilita dall’art. 2909 c.c.
Di regola, quindi, i terzi estranei al giudizio non sono pregiudicati dalle statuizioni della sentenza, così come neppure possono avvantaggiarsene.
Cionondimeno, ricorda il Collegio, la giurisprudenza ha da tempo individuato alcuni casi di giudicato amministrativo con effetti ultra partes.
Tale estensione dipende da una pluralità di fattori concorrenti, e segnatamente: a) in alcuni casi, dal tipo di atto annullato (di pensi ad un regolamento, ad un atto plurimo inscindibile che provvede unitariamente nei confronti di un complesso di soggetti); b) altre volte, sia dal tipo di atto annullato, sia dal tipo di vizio dedotto (si pensi all’annullamento di un atto plurimo scindibile, se il ricorso viene accolto per un vizio comune alla posizione di tutti i destinatari); c) altre volte ancora, dal tipo di effetto che il giudicato produce e di cui si invoca l’estensione (il quadro concettuale dell’estensione soggettiva del giudicato di annullamento è stato, da ultimo, così sintetizzato dall’Adunanza Plenaria n. 4 del 2019; la tesi degli effetti ultra partes è stata in passato condivisa anche dalla Corte di Cassazione civile, Sez. I, 13 marzo 1998, n. 2734).
Va però ricordato, afferma il Collegio, che, secondo la stessa giurisprudenza, solo gli «effetti di annullamento della sentenza» sono capaci di operare erga omnes.
L’«autorità del giudicato» ‒ e, quindi, i vincoli ordinatori e conformativi che esso solitamente comporta ‒ fa invece stato unicamente inter partes (cfr., ex plurimis, Consiglio di Stato, Sez. VI, 5 dicembre 2005, n. 6964; Sez. IV, 5 settembre 2003, n. 4977; Sez. V, 6 marzo 2000, n. 1142; Sez. V, 9 aprile 1994, n. 276).
La propagazione dell’effetto di annullamento giurisdizionale, anche a vantaggio dei terzi che non abbiamo tempestivamente impugnato, si giustifica in quanto la caducazione di un atto a contenuto inscindibile rileva come ‘fatto’ (di ablazione) dell’ordinamento generale, valevole cioè per tutti i consociati che ne siano concretamente destinatari, attesane l’ontologica indivisibilità sul piano sostanziale.
Il vincolo del giudicato opera, invece, solo nei confronti delle parti del giudizio, in quanto esso è legato indissolubilmente all’accertamento delle specifiche posizioni soggettive e delle pretese dedotte nel processo.
Da quanto detto, continua la Plenaria, consegue che soltanto le parti beneficiano della forza esecutiva della sentenza e sono legittimate a farne valere, in sede di ottemperanza, la violazione (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 1 dicembre 2017, n. 5634). Tale conclusione rileva quando il tratto conformativo dell’azione amministrativa susseguente al giudicato non deve necessariamente riguardare ‘indivisibilmente’ tutti i rapporti astrattamente regolati dall’atto generale annullato, ma è circoscritto ai soli rapporti che sono stati oggetto dell’accertamento giurisdizionale.
La Plenaria ricorda che l’orientamento della giurisprudenza amministrativa ‒ sulla non coincidenza tra la delimitazione soggettiva degli effetti delle sentenze di annullamento ed i limiti soggettivi del giudicato amministrativo ‒ è coerente con la teorica degli effetti del giudicato di annullamento della legge: quando la Corte costituzionale accoglie la questione sottopostale in via incidentale, la disposizione dichiarata illegittima «cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione» (ai sensi dell’art. 136 Cost.), travolgendo tutti i rapporti in virtù di essa sorti medio tempore, ad eccezione però dei «rapporti esauriti» (in cui rientrano, come è noto, anche i rapporti che originano da statuizione amministrative rimaste inoppugnate).
Quindi, alla luce di quanto sopra argomentato, per il Collegio è evidente l’erroneità della tesi secondo cui, una volta che sia stato validamente instaurato (da uno dei suoi destinatari) un giudizio intorno alla legittimità dell’atto generale, non vi sarebbe più alcuna ragione di invocare l’elusione del termine di decadenza, al fine di precludere l’intervento adesivo-dipendente degli altri soggetti incisi.
Infatti, secondo il Collegio, e si ammettesse l’intervento tardivo del cointeressato decaduto, questi ‒ divenuto parte del giudizio ‒ potrebbe azionare gli effetti conformativi del giudicato di annullamento, essendo la sua posizione soggettiva ricompresa nel giudicato materiale. Ciò avverrebbe in evidente elusione dei termini decadenziali, in tutte le ipotesi in cui l’obbligo conformativo dell’Amministrazione di colmare «ora per allora» il vuoto regolatorio determinato dal giudicato, non deve necessariamente riguardare ‘indivisibilmente’ tutti i rapporti astrattamente regolati dall’atto generale annullato.
Il caso oggetto del presente giudizio, rileva la Plenaria, è, sul punto, eloquente.
L’atto impugnato, riguardante la definizione dei costi ammissibili e dei criteri per la determinazione delle tariffe a copertura di questi costi, costituisce manifestazione di una funzione di regolazione centralizzata in capo all’Autorità (per l’esigenza di definire un sistema tariffario certo, trasparente e basato su criteri omogenei), destinata ad essere recepita a livello locale (la tariffa base viene predisposta dai diversi enti di governo dell’ambito, nell’osservanza del metodo tariffario regolato dall’Autorità).
Il vincolo conformativo derivante dal giudicato di annullamento dell’atto di regolazione tariffaria, all’esito del giudizio instaurato da un determinato operatore economico, non comporta l’obbligo, per tutte le amministrazioni locali, di revisionare a distanza di anni convenzioni e tariffe praticate da altri gestori che non abbiamo tempestivamente proposto impugnazione.
Consentire ai gestori che abbiano prestato acquiescenza di intervenire, a distanza di tempo, nei giudizi proposti da altri avrebbe quindi evidenti effetti distorsivi sulla stabilità del sistema regolatorio.
In definitiva, sostiene la Plenaria, nel processo amministrativo, l’intervento adesivo-dipendente ‒ a sostegno delle ragioni di una parte e nei limiti di questa (ad adiuvandum o ad opponendum) ‒ può essere proposto solo da un soggetto titolare di una posizione giuridica collegata o dipendente da quella del ricorrente in via principale. L’interesse a spiegare tale tipologia di intervento si lega ad un nesso normativamente qualificato tra la posizione soggettiva dell’interventore e quella dedotta in giudizio, che lo differenzia, sia dall’interesse generico alla legittimità dell’atto, sia dalla titolarità dell’interesse legittimo che legittima l’impugnazione autonoma.
In definitiva, alla luce delle considerazioni che precedono, l’Adunanza Plenaria enuncia il seguente principio di diritto:
«L’art. 28, comma 2, del codice del processo amministrativo va interpretato nel senso che – nel giudizio proposto da altri avverso un atto generale o ad effetti inscindibili per una pluralità di destinatari – è inammissibile l’intervento adesivo-dipendente del cointeressato che abbia prestato acquiescenza al provvedimento lesivo».
Quindi, la Plenaria è passata ad esaminare la questione se può intervenire, nel giudizio pendente innanzi all’Adunanza Plenaria, colui che chieda l’affermazione di un principio di diritto per sé favorevole, da invocare in un separato giudizio.
Con la sentenza 23 novembre 1971, n. 17, l’Adunanza Plenaria ha affermato che è inammissibile l’intervento di chi – dopo l’ordinanza di rimessione – intenda «conseguire un precedente giurisprudenziale dell’Adunanza Plenaria», «da invocare poi nel separato e distinto giudizio» da egli proposto.
In continuità con tale arresto, dopo l’entrata in vigore dell’art. 99 del codice del processo amministrativo, l’Adunanza Plenaria, con le sentenze n. 23 del 2020, n. 4 del 2019, n. 13 del 2018, n. 23 del 2016, ha rilevato che:
- «non è sufficiente a consentire l’intervento la sola circostanza per cui il proponente tale istanza sia parte in un giudizio in cui venga in rilievo una quaestio iuris analoga a quella divisata nell’ambito del giudizio principale»;
- «laddove si ammettesse la possibilità di spiegare l’intervento volontario a fronte della sola analogia fra le quaestiones iuris controverse nei due giudizi, si finirebbe per introdurre nel processo amministrativo una nozione di interesse del tutto peculiare e svincolata dalla tipica valenza endoprocessuale connessa a tale nozione e potenzialmente foriera di iniziative anche emulative, in toto scisse dall’oggetto specifico del giudizio cui l’intervento si riferisce».
Inoltre, con la sentenza n. 18 del 2021 l’Adunanza Plenaria ha escluso l’ammissibilità anche degli interventi in un giudizio pendente innanzi ad essa (avente per oggetto la legittimità di un diniego emesso nei confronti di uno specifico destinatario), depositati da soggetti pubblici e privati (anche associazioni di categoria), interessati alla definizione della «regola di diritto da applicare successivamente» nel settore.
Osserva il Collegio che la rilevanza giuridica dell’interesse al «precedente nomofilattico» non può essere invocata neppure adducendo che ‒ a fronte della vincolatività del principio di diritto enunciato dall’Adunanza Plenaria ‒ la statuizione di inammissibilità dell’intervento determinerebbe una violazione del diritto di difesa.
L’art. 99, comma 3, c.p.a. ‒ per cui, in presenza o in previsione di contrasti decisionali, l’Adunanza Plenaria è chiamata a risolvere il conflitto, non più con un’interpretazione avente mero valore persuasivo, bensì con decisione vincolante per le sezioni semplici ‒ non ha modificato il carattere soggettivo e di parti del giudizio amministrativo.
Per il Collegio, il meccanismo si muove sul piano processuale e non sostanziale. L’obbligo che ne discende non è di conformarsi al contenuto del precedente (come lo «stare decisis»), bensì di reinvestire della questione, qualora non si condivida il principio di diritto affermato, l’organo nomofilattico di vertice: è significativo osservare che, finanche nel giudizio costituzionale incidentale – avente carattere di giurisdizione oggettiva –, l’intervento di soggetti che non siano parti formali del giudizio a quo è ammesso soltanto qualora si tratti di terzi titolari di un interesse qualificato e immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in quel giudizio, e non in favore dei «portatori di un interesse semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalle norme oggetto di censura» (Corte cost., ordinanza n. 202 del 2020, allegata alla sentenza n. 234 del 2020; ordinanza n. 271 del 2020, allegata alla sentenza n. 278 del 2020). Del pari, rileva il Collegio, nei giudizi di legittimità costituzionale in via principale non è ammessa la presenza di soggetti diversi dalla parte ricorrente e dal titolare della potestà legislativa il cui esercizio è oggetto di contestazione (Corte cost., ordinanze n. 111 e n. 37 del 2020; sentenze n. 134 del 2020, n. 56 del 2020, n. 3 del 2021).
Tenuto conto di tale giurisprudenza, ricorda il Collegio, le norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale (approvate con la delibera della Corte in sede non giurisdizionale del 22 luglio 2021) hanno recentemente introdotto la figura degli amici curiae (art. 6) e la possibilità che siano ascoltati esperti di chiara fama (art. 17).
Tali istituti evidenziano la distinzione giuridica che esiste tra i soggetti ammessi al contraddittorio ‒ come appunto gli intervenienti ‒ e quelli che possono portare ai giudici soltanto un contributo di ragionamento e di informazioni.
Gli amici curiae, infatti, non diventano parte del processo, non possono ottenere copia degli atti, non partecipano all’udienza, non devono essere assistiti da un avvocato, il loro ingresso nel giudizio si limita ad una opinione scritta. L’audizione degli esperti è, invece, un istituto affine ad un mezzo istruttorio che consente l’acquisizione di una consulenza nell’ambito di materie specialistiche.
In definitiva, afferma il Collegio, in assenza di una norma di legge processuale espressa, non si può utilizzare impropriamente l’intervento in giudizio in funzione di «advocacy».
La disciplina processuale dell’attività giurisdizionale è infatti riservata alla legge in termini «assoluti» (art. 111, primo comma, della Costituzione, secondo cui «[l]a giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge»).
Inoltre, per la Plenaria, le considerazioni sopra esposte non mutano per il solo fatto che il giudice innanzi al quale pende il giudizio in cui è parte il soggetto intervenuto innanzi all’Adunanza Plenaria abbia ritenuto di disporre la sospensione ‘impropria’ del medesimo, in attesa della enunciazione del principio di diritto, cui eventualmente conformare la propria successiva pronuncia.
Mirando a salvaguardare il diritto di difesa, l’Adunanza Plenaria, con la sentenza n. 4 del 2024, ha affermato che la sospensione impropria ‘in senso lato’ del processo ‒ con tale espressione intendendosi quella «disposta, in un dato giudizio, nelle more della soluzione, in un diverso giudizio, di un incidente di costituzionalità, o di una pregiudiziale eurounitaria, o di una rimessione all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato avente carattere pregiudiziale anche nel giudizio de quo)» ‒ «va adottata previo contraddittorio ai sensi dell’art. 73, comma 3, c.p.a. e solo se le parti o almeno una di esse non chiedano di poter interloquire davanti la Corte costituzionale, la CGUE, la Plenaria, nel qual caso va disposta una nuova rimessione (con conseguente sospensione impropria “in senso stretto” nelle prime due ipotesi)».
A maggior ragione, osserva il Collegio, il diritto di difesa non può ritenersi vulnerato nel caso in cui il giudizio sia stato sospeso o rinviato ad altra data dal T.a.r. Infatti, in primo luogo, il T.a.r. non è giuridicamente vincolato dal principio di diritto enunciato ai sensi dell’art. 99 del c.p.a. In secondo luogo, il soccombente può proporre appello, deducendo gli argomenti che possano indurre la Sezione del Consiglio di Stato a rimeditare il principio di diritto ritenuto non corretto e a sottoporre nuovamente la questione all’esame dell’Adunanza Plenaria.
Alla luce delle considerazioni che precedono, dunque, l’Adunanza plenaria enuncia il seguente ulteriore principio di diritto:
«Qualora sia pendente innanzi all’Adunanza Plenaria un giudizio nel quale si faccia questione di profili di illegittimità di un atto generale regolatorio, avente effetti nei confronti di una intera categoria di operatori economici, è inammissibile l’intervento – innanzi alla medesima Adunanza Plenaria ‒ di chi abbia impugnato il medesimo atto con un ricorso ancora pendente innanzi al Tribunale Amministrativo Regionale».
- Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sent. n. 16 del 2024, sull’applicabilità dell’art. 105, comma 1, c.p.a. al caso in cui la sentenza appellata abbia dichiarato inammissibile il ricorso di primo grado, errando nell’escludere la legittimazione o l’interesse del ricorrente
Il quesito sottoposto dal CGARS all’esame dell’Adunanza Plenaria è formulato come segue:
“se l’annullamento della sentenza di inammissibilità (o di improcedibilità) del ricorso, disvelando che l’omessa trattazione del merito della causa in primo grado ha determinato una ingiusta compressione e dunque una ‘lesione del diritto di difesa’ del ricorrente – lesione che verrebbe ulteriormente perpetrata, per la sottrazione alla sua disponibilità di un grado di giudizio, ove la causa fosse trattata (nel merito) direttamente dal giudice d’appello – non determini la necessità di rimettere la causa, ai sensi dell’art. 105, comma 1, c.p.a., al giudice di primo grado: e ciò, quantomeno, allorché la declaratoria di inammissibilità (o di improcedibilità) del ricorso, nella sua interezza, sia avvenuta ex ante e a prescindere dall’esame, seppur parziale, dei motivi dedotti dalla parte”.
L’ordinanza di rimessione, in particolare, ha rammentato il principio di diritto espresso dall’Adunanza Plenaria con le sentenze nn. 10, 11 e 15 del 2018, per il quale, in caso di erronea pronuncia di irricevibilità, inammissibilità o improcedibilità del ricorso di primo grado, il Consiglio di Stato non deve rimettere la causa al primo giudice ai sensi dell’art. 105, comma 1, c.p.a., bensì deve esaminare, per la prima volta, nel merito la controversia.
Con l’ordinanza di rimessione, inoltre, si è rilevato di non condividere integralmente tale principio di diritto, sollecitando una rimeditazione, limitatamente al caso in cui la declaratoria di inammissibilità (o di improcedibilità), del ricorso, nella sua interezza, abbia precluso l’esame, seppur parziale, dei motivi dedotti dalla parte. Ancora, l’ordinanza ha richiamato e fatto proprie le considerazioni poste a base della sentenza non definitiva del CGARS n. 223/2018, che a suo tempo già rimise all’esame dell’Adunanza Plenaria la questione dell’inclusione o meno dell’erronea declaratoria di inammissibilità del ricorso nell’ambito di applicazione dell’art. 105 c.p.a.
A tali considerazioni, il CGARS ha aggiunto ulteriori notazioni, facendo leva sulla costituzionalizzazione del doppio grado di giudizio per il processo amministrativo, per inferirne che nei casi di pronuncia di inammissibilità o improcedibilità dell’intero ricorso di primo grado, senza alcuno scrutinio del merito, si determinerebbe una “lesione del diritto di difesa”, che giustificherebbe la rimessione della causa al primo giudice.
L’ordinanza di rimessione individua quattro possibili argomenti contrari alla tesi per cui va disposto l’annullamento con rinvio ai sensi dell’art. 105 c.p.a., nei casi di erronea declaratoria di inammissibilità del ricorso di primo grado, proponendone però il superamento.
L’Adunanza Plenaria osserva che il CGARS formula il proprio quesito sia con riguardo alla riforma di una sentenza di inammissibilità che con riguardo alla riforma di una sentenza di improcedibilità.
Il caso concreto, ricorda il Collegio, riguarda una pronuncia di inammissibilità del ricorso da parte del T.A.R. per difetto di legittimazione e interesse ad agire, e non anche un caso di erronea declaratoria di improcedibilità del ricorso.
L’Adunanza Plenaria, quindi, ritiene di dover enunciare il principio di diritto solo con riferimento al caso di erronea declaratoria di inammissibilità del ricorso, poiché il presupposto implicito per la rimessione di una questione alla Plenaria è la rilevanza della stessa rispetto alla res controversa, nel senso che il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla sua risoluzione (Cons. St., Ad. plen., 26.4.2023 n. 14; 19.4.2023 n. 13; 22.3.2024 n. 4).
La Plenaria, allora, richiama, preliminarmente, la cornice normativa e giurisprudenziale di riferimento.
L’art. 105, comma 1, del c.p.a. dispone che “Il Consiglio di Stato rimette la causa al giudice di primo grado soltanto se è mancato il contraddittorio, oppure è stato leso il diritto di difesa di una delle parti, ovvero dichiara la nullità della sentenza, o riforma la sentenza o l’ordinanza che ha declinato la giurisdizione o ha pronunciato sulla competenza o ha dichiarato l’estinzione o la perenzione del giudizio”.
Tra i casi di rimessione al T.A.R., ricorda il Collegio, non sono espressamente previsti da tale comma quelli in cui il Consiglio di Stato riforma la sentenza che abbia dichiarato l’irricevibilità, l’inammissibilità o l’improcedibilità del ricorso di primo grado.
Si pone pertanto la questione, afferma il Collegio, se essi siano riconducibili, e con quali condizioni, alle ipotesi generali, elencate nell’art. 105, comma 1, di “mancanza del contraddittorio”, “lesione del diritto di difesa”, “nullità della sentenza”. La questione, si rileva, è già stata affrontata dall’Adunanza Plenaria nel 2018, con decisioni delle quali viene richiamato il percorso argomentativo.
Il loro punto di partenza è che l’art. 105 del c.p.a. vada interpretato alla luce dell’art. 354 c.p.c., espressivo di principi processuali generali, rilevanti ai sensi dell’art. 39 c.p.a. (Cons. St., Ad. plen., 30.7.2018 nn. 10 e 11, § 12; 5.9.2018 n. 14, § 6; 28.9.2018 n. 15, § 6).
Secondo tali decisioni, le espressioni “lesione del diritto di difesa” e “mancanza del contraddittorio”, pur non costituendo un’endiadi (perché ciascuna nozione ha un suo significato autonomo che non si risolve in quello dell’altra), sarebbero ambedue riconducibili alla menomazione del contraddittorio lato sensu inteso, nel senso che in entrambi i casi è mancata la possibilità di difendersi nel giudizio-procedimento, con suo svolgimento irrimediabilmente viziato, sicché il giudice è pervenuto a una pronuncia la cui illegittimità va riguardata non per il suo contenuto, ma per il solo fatto che essa sia stata resa, senza che la parte abbia potuto esercitare il diritto di difesa o beneficiare dell’integrità del contraddittorio.
Nell’ambito di questa macro-categoria (di violazione del contraddittorio in senso lato), l’ulteriore distinzione tra mancanza del contraddittorio in senso stretto e violazione del diritto di difesa atterrebbe alla natura “genetica” o “funzionale” del vizio che ha inficiato lo svolgimento del giudizio-procedimento.
La “mancanza del contraddittorio” sarebbe così essenzialmente riconducibile all’ipotesi in cui doveva essere integrato il contraddittorio o non doveva essere estromessa una parte: il vizio sarebbe, quindi, genetico, nel senso che - a causa della mancata integrazione del contraddittorio o della erronea estromissione - una o più parti vengono in radice e sin dall’inizio private della possibilità di partecipare al giudizio-procedimento.
A sua volta, la “lesione del diritto di difesa” non sarebbe una categoria generale e aperta, ma quella individuabile secondo “criteri determinati e identificabili attraverso le singole e puntuali norme processuali che prescrivono, con sfumature diverse secondo l’incedere del processo, le garanzie del diritto di difesa”.
Essa farebbe riferimento ad un vizio non genetico, ma funzionale del contraddittorio, incidente sui diritti di difesa di una parte, che ha, tuttavia, preso parte al giudizio, perché nei suoi confronti il contraddittorio iniziale è stato regolarmente instaurato, ma, successivamente, nel corso dello svolgimento del giudizio, è stata privata di alcune necessarie garanzie difensive.
Rileverebbe al riguardo la giurisprudenza formatasi nella vigenza dell’art. 35 della legge n. 1034 del 1071, per il quale doveva esservi l’annullamento con rinvio al T.A.R. nei casi di “difetto di procedura”, in particolare nei casi di mancata concessione di termini a difesa o di mancata trasmissione di avvisi alle parti.
Le sopra citate sentenze dell’Adunanza Plenaria hanno pertanto escluso, ricorda il Collegio, la sussistenza di una “lesione del diritto di difesa” nei casi di violazioni sostanziali in cui i ricorsi siano stati definiti con pronunce di mero rito, o anche di esame del merito con ‘omissioni gravi’.
In particolare, esse hanno escluso l’applicabilità dell’art. 105, comma 1, qualora l’erronea decisione di rito sia stata emessa dopo che la questione sia stata sottoposta al contraddittorio delle parti, nel rispetto di modalità e termini di rito: si è osservato che “la violazione del diritto di difesa in tutte queste ipotesi avviene nel giudizio-procedimento, dove la parte non ha potuto difendersi; l’errore si annida nella procedura, e non nel contenuto della sentenza: il diritto di difesa, quindi, è leso nel giudizio e non dal giudizio” (Cons. St., Ad. plen., nn. 10 e 11 del 2018).
Il Collegio, con la sentenza in esame, ricorda che le stesse sentenze dell’Adunanza Plenaria hanno ritenuto che l’erronea declaratoria di irricevibilità, inammissibilità o improcedibilità del ricorso di primo grado potrebbe dare luogo a una rimessione al primo giudice solo nel caso di ‘nullità della sentenza’, sussistente quando essa sia ‘totalmente carente di motivazione’ o basata su una ‘motivazione apparente’.
Nel decidere sul quesito formulato con l’ordinanza di rimessione dal CGARS, ritiene l’Adunanza Plenaria di dover confermare, nella sostanza, la soluzione seguita dalla Plenaria nel 2018, sia pure sulla base di un percorso argomentativo parzialmente diverso e con una integrazione, quanto alla individuazione delle ipotesi di ‘nullità della sentenza’.
Per il Collegio, occorre muovere dalla conformazione costituzionale del processo amministrativo e dalla individuazione dei limiti entro cui le disposizioni del c.p.c. possono essere ad esso applicate.
Sotto il primo profilo, per il processo amministrativo il doppio grado di giudizio ha valore di regola costituzionale (art. 125 Cost.; Corte cost., 12.3.1975, n. 61, e 1.2.1982, n. 8; Cass., Sez. un., 15.12.1983, n. 7409), e i casi di giurisdizione in unico grado davanti al Consiglio di Stato devono ritenersi eccezionali e basarsi su una espressa previsione normativa, anche dopo la pronuncia della Corte cost. n. 395/1988.
Il principio costituzionale del doppio grado del giudizio, rileva la Plenaria, va interpretato alla luce, da un lato, dei principi del giusto processo e del diritto a un ricorso effettivo (artt. 111, primo comma, Cost.; 13 CEDU; 1 c.p.a.), e, dall’altro lato, della previsione costituzionale del limitato sindacato della Corte di cassazione sulle decisioni del giudice amministrativo, circoscritto “ai soli motivi inerenti alla giurisdizione” (art. 111, ottavo comma, Cost.) e più ristretto del sindacato di legittimità che la Corte di cassazione esercita sulle sentenze del giudice civile per “violazione di legge” (art. 111, settimo comma, Cost. e art. 360 c.p.c.).
Il principio del doppio grado del giudizio amministrativo, specifica il Collegio, non implica che la parte abbia diritto a un pieno esame della causa nel merito in due gradi (Cons. St., Ad. plen., 30.6.1978, n. 18). Esso, invero, comporta da un lato che, una volta che la causa sia stata decisa dal T.A.R., sia previsto il rimedio dell’appello, e, dall’altro lato che la causa debba essere esaminata nel merito in primo grado, in presenza dei relativi presupposti e sulla base dei principi del giusto processo e di effettività della tutela.
Una pronuncia di merito in primo grado, afferma la Plenaria, potrebbe dal soccombente essere ritenuta persuasiva senza necessità di appello, così evitando i costi di un secondo giudizio e contribuendo alla ragionevole durata del processo. Le erronee sentenze di primo grado di mero rito non sono solo sentenze “ingiuste” e come tali appellabili, ma, nella misura in cui l’ordinamento non consentisse mai una regressione del giudizio, recherebbero anche un vulnus al principio del giusto processo.
La decisione in unico grado di merito innanzi al Consiglio di Stato, specifica il Collegio, le cui sentenze non sono impugnabili per violazione di legge, non costituisce il modello del giudizio amministrativo disciplinato dagli articoli 111 e 125 Cost. e dal c.p.a., laddove hanno previsto il giusto processo e il doppio grado per i casi in cui il giudizio sia definito dall’organo di giustizia amministrativa di primo grado.
La mediazione tra il modello del ‘doppio grado di merito pieno’ - in cui tutti i motivi e tutte le questioni sono esaminati in due gradi - e l’evenienza pratica di un primo grado di mero rito, seguito da un unico grado di merito pieno in fase di appello, è lasciata al legislatore ordinario, chiamato a operare un ragionevole bilanciamento tra le esigenze del giusto processo e della sua ragionevole durata, e ad individuare, per il caso di erronee pronunce in rito, un modello intermedio tra un appello sempre cassatorio e un appello con effetto devolutivo pieno.
A tale bilanciamento, aggiunge la Plenaria, il legislatore ordinario ha provveduto in modo differenziato nei diversi processi, con diversa ampiezza dei casi di regressione del giudizio in presenza di erronee pronunce in rito. L’art. 105 c.p.a. prevede un novero di ipotesi di regressione del processo ben più ampio di quello contemplato dall’art. 354 c.p.c.
Il Collegio, quindi, prosegue l’iter argomentativo affermando che, quanto ai limiti entro cui le disposizioni del c.p.c. possono essere applicate nel processo amministrativo, l’art. 39, comma 1, c.p.a. stabilisce che “Per quanto non disciplinato dal presente codice si applicano le disposizioni del codice di procedura civile in quanto compatibili o espressione di principi generali”.
Siffatta previsione consente l’applicazione del c.p.c. attraverso gli strumenti dell’analogia legis e dell’analogia iuris di cui all’art. 12, secondo comma, disp. prel. c.c.
Pertanto, l’operazione logica di trarre un principio generale dalle disposizioni del c.p.c., da applicarsi al processo amministrativo, ha come presupposto indefettibile che nel c.p.a. ci sia una lacuna, come già affermato dall’Adunanza Plenaria (Cons. St., Ad. plen., 22.3.2024, n. 4, § 21.2.f; 27.4.2015; n. 5; 10.12.2014, n. 33).
La circostanza che una disposizione del processo civile sia espressione di un principio generale, per la Plenaria, non giustifica di per sé sola l’estensione del principio processualcivilistico al processo amministrativo o il suo utilizzo come criterio ermeneutico. Invero, la regolamentazione di una fattispecie concreta mediante i principi generali piuttosto che mediante disposizioni puntuali, è consentita dall’ordinamento positivo solo (i) quando i principi siano gerarchicamente sovraordinati e siano pertanto prevalenti a prescindere da una lacuna dell’ordinamento (ad es. i principi eurounitari), (ii) o quando vi sia una lacuna normativa da colmare (analogia iuris ex art. 12, secondo comma, disp. prel. c.c.), (iii) o quando una legge stabilisca espressamente che i principi da essa enunciati prevalgono sulle sue regole puntuali o ne costituiscono criterio esegetico (v. ad es. art. 1, comma 4, d.lgs. n. 36/2023).
Nessuna di queste tre ipotesi, secondo il Collegio, è ravvisabile nel caso specifico, in quanto: (i) il c.p.c. non è una fonte del diritto sovraordinata al c.p.a., (ii) l’art. 105 c.p.a. non presenta alcuna lacuna, (iii) nessuna disposizione del c.p.a. affida ai principi del processo civile una valenza di canone esegetico del c.p.a.
Il c.p.a. non contiene alcuna lacuna, quanto ai casi di regressione del giudizio e al c.d. effetto devolutivo, recando un’autonoma e compiuta disciplina di tali profili nel combinato disposto dell’art. 101, comma 2, e dell’art. 105 c.p.a., che non necessita di alcuna integrazione o esegesi sistematica, sicché di per sé non rileva per il processo amministrativo l’art. 354 c.p.c.
In tal senso, viene ricordato, si è già pronunciata l’Adunanza Plenaria in sede di interpretazione dell’art. 35 della legge n. 1034 del 1971 (che ha disciplinato i casi di annullamento con rinvio al T.A.R., prima dell’entrata in vigore del c.p.a.), affermando che esso non contenesse lacune suscettibili di integrazione mediante il richiamo all’art. 354 c.p.c. (Cons. St., Ad. plen., 27.10.1987, n. 24).
La Plenaria aggiunge poi che, è vero che l’art. 44, comma 1, l. n. 69/2009 individua tra le finalità del riassetto delle norme del processo amministrativo quella “di coordinarle con le norme del codice di procedura civile in quanto espressione di principi generali”, ma tale criterio della legge delega ha richiesto al legislatore delegato di effettuare una ricognizione e una trasposizione dei principi generali del processo all’interno del processo amministrativo, anche alla luce della pregressa prassi giurisprudenziale utilizzata al fine di colmare lacune della legge processuale amministrativa, e quindi individuando i principi generali del processo civile già ritenuti applicabili al processo amministrativo prima dell’entrata in vigore del c.p.a.
“Coordinamento” del c.p.a. con il c.p.c. non significa necessariamente pedissequa trasposizione, bensì adattamento alle peculiarità di un processo che risponde a diverse esigenze e ha una diversa struttura secondo la Costituzione.
In ogni caso, specifica il Collegio, una volta esercitata la delega, i principi del processo civile possono regolare quello amministrativo solo alle condizioni stabilite dall’art. 39 c.p.a., ossia in presenza di una lacuna. Ne consegue che il c.d. “effetto devolutivo” dell’appello, quale lo si desume, a guisa di principio generale, dall’art. 354 c.p.c. non può essere ricostruito, per il processo amministrativo, in modo identico a come viene ricostruito in quello civile, perché differiscono sia la cornice costituzionale (‘doppio grado di merito’ costituzionalizzato nel primo e non nel secondo, caratterizzato dalla ricorribilità in Cassazione), sia le disposizioni applicabili (rispettivamente gli artt. 101 e 105 c.p.a. e l’art. 354 c.p.c.).
L’effetto devolutivo dell’appello, aggiunge la Plenaria, va delineato sulla base del quadro normativo vigente, dovendosi prendere atto che esso è conformato in modo diverso nelle diverse giurisdizioni. In quella civile si ha una maggiore estensione di tale effetto devolutivo, con una minore correlata estensione dei casi di regressione del giudizio. Il d.lgs. n. 149/2022 ha finanche abrogato l’art. 353 c.p.c. che prevedeva la rimessione al primo giudice in caso di erronea dichiarazione di difetto di giurisdizione, laddove nel processo amministrativo siffatta fattispecie resta una delle ipotesi tipiche di regressione del giudizio. Il codice di giustizia contabile, per i giudizi innanzi alla Corte dei conti, contiene un significativo ampliamento dei casi di regressione del giudizio, che includono non solo i casi di erronea declinatoria di giurisdizione o di nullità della sentenza o vizio del contraddittorio, ma anche “ogni caso” in cui, “senza conoscere del merito del giudizio, il giudice di primo grado ha definito il processo decidendo soltanto altre questioni pregiudiziali o preliminari. (…) su queste esclusivamente si pronuncia il giudice di appello. In caso di accoglimento del gravame proposto, rimette gli atti al primo giudice per la prosecuzione del giudizio sul merito e la pronuncia anche sulle spese del grado d'appello” (art. 199, comma 2, d.lgs. n. 174/2016).
Il paradigma del processo contabile, afferma la Plenaria, è ben più vicino a quello del processo amministrativo di quanto non lo sia il processo civile, atteso che anche le decisioni del giudice contabile, al pari di quelle del giudice amministrativo, sono impugnabili per cassazione ‘per i soli motivi inerenti alla giurisdizione’, laddove nel processo civile vi sono indefettibilmente quanto meno due gradi di pieno esame di legittimità (art. 111 Cost.; artt. 382 e 383 c.p.c.).
Pertanto, prosegue il Collegio, ogni questione esegetica circa il suo ambito applicativo va risolta considerando il solo art. 105 c.p.a. nella cornice del c.p.a. e dei principi costituzionali sopra ricordati.
Sul piano dell’interpretazione letterale, logica e sistematica dell’art. 105, il Collegio ritiene di dover analizzare e coordinare in modo armonico i seguenti “segmenti normativi”:
(a) “Il Consiglio di Stato rimette la causa al giudice di primo grado soltanto se”;
(b) “è mancato il contraddittorio, oppure è stato leso il diritto di difesa di una delle parti, ovvero dichiara la nullità della sentenza”;
(c) “o riforma la sentenza o l’ordinanza che ha declinato la giurisdizione o ha pronunciato sulla competenza o ha dichiarato l’estinzione o la perenzione del giudizio”.
Il primo segmento normativo, con l’espressione “soltanto se”, comporta che l’elenco dei casi di rimessione al primo giudice è tassativo e pertanto insuscettibile di interpretazione analogica.
L’analisi comparata del secondo e terzo segmento normativo rende evidente che i casi di rimessione al primo giudice sono individuati con una tecnica legislativa non omogenea.
Invero, afferma la Plenaria, il secondo segmento normativo si riferisce a tre vizi - afferenti al processo e alla decisione - individuati mediante tre ‘categorie generali’ che non corrispondono a tre “singoli vizi”, ma a tre “serie di vizi”, sicché le tre categorie vanno riempite di contenuto attraverso una ricognizione delle ipotesi normative e delle fattispecie concrete riconducibili nelle categorie generali.
Invece, il terzo segmento normativo si riferisce a quattro ipotesi puntuali di decisioni di rito erronee, univocamente corrispondenti a fattispecie previste da disposizioni processuali (erronea declinatoria della giurisdizione; erronea declinatoria della competenza; erronea estinzione del giudizio; erronea perenzione).
Per il Collegio, va ribadito quanto affermato dalle sentenze del 2018 dell’Adunanza Plenaria, sulla tassatività delle ipotesi previste dall’art. 105 e dunque sulla sua insuscettibilità di interpretazione analogica.
Tuttavia, dato che la previsione contempla tre “categorie generali” di vizi del procedimento o del giudizio di primo grado, l’interprete deve riempirle di contenuto.
Tale modus interpretandi è coerente con quanto deciso già prima dell’entrata in vigore del c.p.a. dall’Adunanza Plenaria, che, in ossequio al principio del doppio grado, ha accolto un’interpretazione estensiva della nozione di erronea declaratoria di incompetenza contenuta nell’art. 35 l. n. 1034/1971, ritenendovi inclusa anche la erronea declaratoria di difetto di giurisdizione (Cons. St., Ad. plen., 8.11.1996, n. 23).
Nell’individuazione delle fattispecie generali, aggiunge la Plenaria, occorre muovere dal rilievo che l’art. 105 non solo contempla distintamente le ipotesi in cui “è mancato il contraddittorio”, quella in cui “è stato leso il diritto di difesa di una delle parti”, e quella della “nullità della sentenza”, ma soprattutto contiene una formulazione ben più ampia di quella dell’art. 354 c.p.c., in cui la rimessione al primo giudice è prevista nei casi di mancata integrazione del contraddittorio, erronea estromissione di una parte e nullità della sentenza nel solo caso di cui all’art. 161, secondo comma, c.p.c.
L’art. 354 c.p.c., si evidenzia, menziona due sole fattispecie specifiche di mancanza del contraddittorio, non fa riferimento alcuno alla lesione del diritto di difesa e individua la nullità della sentenza con rinvio all’art. 161, secondo comma, c.p.c., così circoscrivendola al solo difetto di sottoscrizione.
Invece l’art. 105 c.p.a. si riferisce alla nullità della sentenza tout court, includendovi, oltre che il vizio formale di sottoscrizione, anche errori di giudizio, come hanno già rilevato dalle sentenze nn. 10, 11 e 15 del 2018 dell’Adunanza Plenaria.
Del resto, secondo il Collegio, non può ritenersi che l’art. 105 abbia inteso riprodurre solo la previgente disciplina basata sulla distinzione tra gli “errores in procedendo” e gli “errores in iudicando”.
Nelle fattispecie, sia generali che puntuali, ivi previste, molte ipotesi sono di “errores in iudicando”, così la ‘nullità della sentenza’, l’erronea declinatoria della giurisdizione o della competenza, l’erronea dichiarazione di estinzione o di perenzione del giudizio.
Già nel 1987, ricorda il Collegio, l’Adunanza Plenaria rilevò che – pur se si poteva ammettere un’approssimativa coincidenza fra l’ipotesi generica (“difetto di procedura”) dell’art. 35 n. 1034 del 1971, e le ipotesi specifiche elencate nell’art. 354 c.p.c. - il legislatore aveva utilizzato tecniche normative diverse: nel c.p.c., quella “dell’elencazione tassativa” che non può essere che di stretta interpretazione, e, nell’art. 35 della legge n. 1034 del 1971, quella della “formula generica”, la quale, se pur sostanzialmente coincidente, lasciava all’interprete la possibilità di aggiungere ulteriori ipotesi non previste dall’art. 354 c.p.c. (Cons. St., Ad. plen., 27.10.1987, n. 24).
Inoltre, ricorda ancora il Collegio, la sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 23/1996 ammise un’interpretazione estensiva, se non analogica, dell’art. 35 l. n. 1034/1971, includendo nell’erronea dichiarazione di difetto di competenza anche l’erronea dichiarazione di difetto di giurisdizione.
L’approccio seguito dall’Adunanza Plenaria nel 1987 e nel 1993 deve essere ora ribadito, anche alla luce di quanto sopra osservato circa l’autonoma portata normativa dell’art. 105 c.p.a. rispetto all’art. 354 c.p.c.
Così come già l’art. 35 della legge n. 1034 del 1971 aveva utilizzato la tecnica delle “categorie generali”, anche il vigente art. 105 c.p.a. ha indicato, da un lato, ipotesi specifiche di annullamento con rinvio, e, dall’altro lato, tre ‘categorie generali’.
Inoltre, mentre il medesimo art. 35 menzionava espressamente il “difetto di procedura” tra i casi di annullamento con rinvio, tale locuzione non compare nell’art. 105.
Le stesse pronunce dell’Adunanza Plenaria del 2018, specifica il Collegio, con riferimento alla categoria della “nullità della sentenza”, vi hanno attribuito un contenuto “misto” tale da includere sia errori procedurali, quale il difetto di sottoscrizione, sia errori di giudizio, quale quello della motivazione mancante o apparente.
Venendo al caso di erronea dichiarazione di inammissibilità del ricorso per difetto di una condizione dell’azione, oggetto dell’ordinanza di rimessione, la Plenaria muove dal fatto che il CGARS propone di incasellarlo, quanto meno nel caso di mancato esame di tutti i motivi di ricorso, nella categoria della “lesione del diritto di difesa” di cui all’art. 105, da intendersi come comprensiva non solo di errori processuali, ma anche di errori di giudizio.
La Plenaria ritiene che gli argomenti prospettati dal CGARS abbiano adeguatamente posto in evidenza come, nell’impianto dell’art. 105, tra i casi di regressione del giudizio rientrano non solo errori processuali, ma anche errori di giudizio, e come l’espressione “lesione del diritto di difesa”, per la sua ampia formulazione, potrebbe essere interpretata nel senso che si sia riferita non solo ad errori del processo, ma anche ai macroscopici errori di giudizio.
Tuttavia, ad avviso del Collegio non occorre, nel caso di specie, approfondire la questione della portata esegetica della “lesione del diritto di difesa” rispetto alla “mancanza del contraddittorio”, e neppure è necessario verificare se essa si sia riferita anche agli errori di giudizio, al pari della “nullità della sentenza” e delle altre quattro ipotesi specifiche previste dall’art. 105 c.p.a. Invero, l’erronea dichiarazione di inammissibilità del ricorso per difetto di una condizione dell’azione - con il consequenziale mancato esame della totalità dei motivi di ricorso - ben può integrare la ‘nullità della sentenza’, in armonia con i principi enunciati dalle sentenze dell’Adunanza Plenaria nn. 10 e 11 del 2018, § 47 e ss., e n. 15/2018 § 7.3, sia pure con alcune precisazioni.
Per le citate sentenze nn. 10 e 11 del 2018, aggiunge il Collegio, la ‘nullità della sentenza’ è ravvisabile non solo nel caso di motivazione “radicalmente assente”, ma anche nel caso di motivazione “meramente apparente”, che si ha quando essa è “palesemente non pertinente rispetto alla domanda proposta”, o “tautologica o assertiva, espressa attraverso mere formule di stile” o “richiama un generico orientamento giurisprudenziale senza illustrarne il contenuto”. “Più in generale, la motivazione è apparente quando sussistono anomalie argomentative di gravità tale da porre la motivazione al di sotto del minimo costituzionale che si ricava dall’art. 111, comma 5 Cost. (…) tale anomalia si identifica, oltre che nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili, nella motivazione meramente assertiva, tautologica, apodittica, oppure obiettivamente incomprensibile (…) La motivazione apparente non è sindacabile dal giudice, in quanto essa costituisce un atto d’imperio immotivato e dunque non è nemmeno integrabile, se non con il riferimento alle più varie, ipotetiche congetture, ma una sentenza “congetturale” è, per definizione, una non-decisione giurisdizionale – o, se si preferisce e all’estremo opposto, un atto di puro arbitrio – e, quindi, un atto di abdicazione alla potestas iudicandi.. (…). La nullità della sentenza per difetto assoluto di motivazione riguarda non solo le sentenze di rito (irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità), ma anche quelle che recano un dispositivo di merito (…) non sorretto da una reale motivazione.”. (…) “Il difetto assoluto di motivazione deve essere valutato e apprezzato con riferimento alla sentenza nella sua globalità rispetto al ricorso proposto unitariamente inteso, e non in maniera parcellizzata o frammentata, facendo riferimento ai singoli motivi o alle singole domande formulate all’interno di esso”.
Quando l’esclusione della legittimazione o dell’interesse a ricorrere è frutto di un palese errore, per effetto del quale è mancato l’esame della totalità dei motivi di ricorso, afferma la Plenaria, si determina per il ricorrente una situazione più grave rispetto all’erroneo diniego di giurisdizione o di competenza o all’errore in procedendo, posto che nelle prime due ipotesi non è negata la tutela giurisdizionale della posizione giuridica soggettiva e la parte può riassumere il giudizio davanti al giudice indicato come avente giurisdizione o competenza, così conservando i due gradi di merito, e nel caso di errore in procedendo la sentenza esamina i motivi di ricorso, mentre nel caso di erronea declaratoria del difetto di legittimazione o di interesse è più radicalmente negata la sussistenza di una posizione tutelabile (e dunque non vi è alcun esame del merito, né la possibilità di ottenerlo riassumendo il giudizio davanti ad altro giudice di primo grado). Il ricorrente, se vuole ottenere il riconoscimento della sussistenza di una posizione giuridica tutelabile in sede giurisdizionale (e dunque ottenere una pronuncia di merito), è pertanto onerato di proporre appello, con i relativi costi e tempi.
Per il Collegio, la sentenza che nega la sussistenza della legittimazione o dell’interesse al ricorso – e dunque ravvisa l’assenza di una posizione giuridica tutelabile, malgrado vi sia stata l’impugnazione di un provvedimento autoritativo incontestabilmente devoluta alla giurisdizione di legittimità del giudice amministrativo - deve basarsi su una motivazione adeguata, ragionevole e coerente con i principi processuali, che tenga conto dei fatti di causa e delle censure dedotte in relazione alla lesione prospettata, e deve consentire di far comprendere in modo chiaro in fatto e in diritto l’effettiva sussistenza della ragione giuridica, posta a base della declaratoria di inammissibilità.
Per individuare il ‘chi’ possa impugnare il provvedimento autoritativo, la motivazione della sentenza deve tenere adeguatamente conto della potenziale lesività dell’atto (ad esempio, sul patrimonio, sulla salute o anche sugli aspetti morali del ricorrente) e non è dunque sufficiente una riproduzione pedissequa dei fatti di causa e dei motivi di ricorso prospettati dalla parte, priva di vaglio critico da parte del giudice, né è sufficiente riportare gli orientamenti della giurisprudenza sulle condizioni dell’azione, ingiustificatamente negando la sussistenza di una posizione soggettiva tutelabile.
Dunque, specifica il Collegio, occorre una motivazione puntuale sulla specifica posizione dedotta in giudizio dalla parte ricorrente, tenendo conto della situazione fattuale. Qualora la statuizione di inammissibilità si basi su una motivazione tautologica o sia frutto di un errore palese, in fatto o in diritto, che abbia per conseguenza il mancato esame della totalità dei motivi di ricorso, si concreta il vizio di ‘nullità della sentenza’, che, secondo quanto statuito dalle sentenze dell’Adunanza Plenaria nel 2018, “deve essere valutato e apprezzato con riferimento alla sentenza nella sua globalità rispetto al ricorso proposto unitariamente inteso”.
È appunto il confronto tra una motivazione di puro rito frutto di un errore palese e il ricorso proposto unitariamente inteso che, per la Plenaria, rende evidente il grave difetto argomentativo di una tale motivazione rispetto al ricorso.
L’ordinanza di rimessione ha richiamato sia le ipotesi di mancato “esame del merito”, sia quelle di mancato esame di tutti i motivi di ricorso: la Plenaria rileva che della nozione di “merito processuale” possono darsi diverse accezioni, come “fatti processuali” o come “motivi di ricorso”, esaminati nella sostanza, in contrapposizione ad una pronuncia di “rito” che non esamina il “merito”. Le decisioni in rito di inammissibilità di un ricorso di primo grado, possono atteggiarsi in vario modo. Per il Collegio, viene in considerazione la seguente principale casistica:
(a) decisioni di inammissibilità, che hanno omesso l’esame del merito inteso come fatti di causa, ossia decisioni che non prendono in considerazione la specifica situazione fattuale (ad es., nelle controversie in materia edilizia, la concreta ubicazione del bene di proprietà del ricorrente ai fini della verifica della vicinitas, della legittimazione e dell’interesse al ricorso, le concrete caratteristiche dell’immobile costruendo);
(b) decisioni di inammissibilità, che non esaminano il merito inteso come motivi di ricorso;
(c) decisioni con doppia motivazione, in rito e in merito, che, pur dichiarando inammissibile un ricorso, esaminano “comunque” i motivi di ricorso;
(d) decisioni di inammissibilità in cui la declaratoria di inammissibilità è il risultato di una disamina di tutti o di alcuni motivi di ricorso.
Ad avviso dell’Adunanza Plenaria, la prima e la seconda ipotesi sopra delineate danno luogo ad una pronuncia di annullamento con rinvio, ai sensi dell’art. 105 c.p.a., in ragione della nullità della sentenza per motivazione apparente, come già rilevato dalle sentenze del 2018 dell’Adunanza Plenaria, o in ragione di un errore palese di rito che ha per conseguenza il mancato esame della totalità dei motivi di ricorso.
Nella terza e quarta ipotesi sopra delineate, prosegue la Plenaria, vi è stato comunque un esame dei motivi di ricorso, che, anche se solo parziale, non giustifica un annullamento con rinvio, in ragione dell’effetto devolutivo dell’appello, come si desume anche dall’art. 101, comma 2, c.p.a.
Tale ricostruzione del quadro normativo, afferma la Plenaria, consente di rendere coerenti tra loro le fattispecie disciplinate dall’art. 105 c.p.a., in quanto sia nel caso della ‘nullità della sentenza’ (per palese errore di giudizio sulle condizioni dell’azione) che in quelli di erronea declinatoria di giurisdizione o competenza, erronea estinzione o perenzione, viene in rilievo non qualsivoglia errore di giudizio, ma quell’errore di giudizio che ha per conseguenza il mancato esame della totalità dei motivi di ricorso.
Siffatta interpretazione, aggiunge il Collegio, consente anche di evitare disparità di trattamento tra i casi di riforma di erronee decisioni di rito dell’art. 35, comma 2, c.p.a. (che impongono l’annullamento con rinvio) e i casi di riforma di erronee decisioni di rito dell’art. 35, comma 1, c.p.a., non espressamente richiamati dall’art. 105 c.p.a., non risultando ragionevole il trattamento differenziato di chi subisce un’erronea dichiarazione di inammissibilità del ricorso e di chi subisce un’erronea dichiarazione di estinzione del giudizio.
La disparità di trattamento di situazioni equivalenti, specifica il Collegio, sarebbe del resto vistosa nel caso (non espressamente previsto dall’art. 105) di erronea declaratoria di irricevibilità del ricorso perché notificato o depositato oltre il termine massimo, rispetto al caso di erronea declaratoria di estinzione del processo, perché il ricorso è stato riassunto mediante notifica o deposito oltre il termine massimo (che impone la regressione del giudizio).
In entrambi i casi, per il Collegio, si disputa di una notifica o di un deposito tardivi dell’originario ricorso o del medesimo originario ricorso “riassunto”.
Ad avviso dell’Adunanza Plenaria, non sono condivisibili gli argomenti addotti a sostegno dell’interpretazione che nega la regressione del giudizio quando il T.A.R. abbia errato nell’individuare il ‘chi’ possa impugnare l’atto autoritativo ed abbia quindi errato nell’escludere una delle condizioni dell’azione. Non risulta persuasivo l’argomento secondo cui il giudice di primo grado avrebbe esercitato e consumato comunque il suo potere, anche con la semplice pronunzia di rito, posto che questo si verifica anche nei casi di “nullità della sentenza” (già considerati dalle sentenze del 2018 dell’Adunanza Plenaria), di erronea declinatoria di giurisdizione o competenza, erronea dichiarazione di estinzione del processo o di perenzione.
In tutti tali casi, afferma il Collegio, ciò che giustifica la regressione del processo è il mancato esame di qualsivoglia motivo di ricorso.
Quanto all’obiezione che l’interessato ha comunque avuto la possibilità di esperire entrambi i gradi di giudizio, per la Plenaria rileva quanto sopra esposto su quale sia la effettiva portata del principio del doppio grado del giudizio amministrativo.
Quanto all’obiezione che il carattere devolutivo dell’appello imporrebbe un’interpretazione restrittiva della normativa sui casi di rimessione al T.A.R., rileva quanto sopra esposto sulla portata dell’effetto devolutivo dell’appello amministrativo e al significato della “tassatività” delle fattispecie previste dall’art. 105.
Ancora, per il Collegio non risulta persuasivo nemmeno l’argomento secondo cui l’estensione delle ipotesi di rimessione al primo giudice pregiudicherebbe la ragionevole durata del processo. L’art. 105, comma 2, e l’art. 85, comma 3, c.p.a. disciplinano il rito camerale, più celere di quello ordinario, per gli appelli contro le sentenze dei T.A.R. che hanno declinato la giurisdizione o la competenza e contro le ordinanze rese sull’opposizione a decreti di estinzione o improcedibilità. Tuttavia, un appello avverso una pronuncia di inammissibilità, in cui si lamenti la ‘nullità della sentenza’ nei sensi sopra visti, si può comporre con un solo motivo (volto a far rilevare l’ammissibilità del ricorso) ed è destinato o al rigetto o all’accoglimento con annullamento con rinvio, senza esame del merito da parte del giudice di appello.
Trovano pertanto applicazione, afferma la Plenaria, gli articoli 72 e 72-bis c.p.a. sulla fissazione con priorità dell’udienza pubblica, trattandosi di un ricorso vertente su un’unica questione, e sulla trattazione in camera di consiglio con i termini propri del rito cautelare, trattandosi di un appello suscettibile di immediata definizione.
La parte appellante ha inoltre la possibilità di chiedere l’abbreviazione dei termini, sicché l’appello contro la statuizione di inammissibilità può essere definito rapidamente, senza nocumento per la ragionevole durata del processo.
In conclusione, l’Adunanza Plenaria, ad integrazione di quanto statuito con le sentenze sopra citate del 2018, enuncia il seguente principio di diritto in ordine alle ipotesi di “nullità della sentenza”:
“l’art. 105, comma 1, c.p.a., nella parte in cui prevede che il Consiglio di Stato rimette la causa al giudice di primo grado se dichiara la nullità della sentenza, si applica anche quando la sentenza appellata abbia dichiarato inammissibile il ricorso di primo grado, errando palesemente nell’escludere la legittimazione o l’interesse del ricorrente”.