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Anno XVI - n. 04 - Aprile 2024

  Studi



Analisi dei principi sostanziali espressi dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nel 2021.

Di Anna Laura Rum
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Analisi dei principi sostanziali

espressi dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nel 2021

 

Di ANNA LAURA RUM

 

Sommario: 1. Ricade sulla curatela fallimentare l’onere di ripristino e di smaltimento dei rifiuti di cui all’art. 192 d.lgs. n. 152/2006 (Cons. Stato, Ad. Plen., sent. n. 3/2021) 2. Consorzi stabili e possibilità di sostituire l’impresa non designata per l’esecuzione dei lavori (Cons. Stato, Ad. Plen., sent. n. 5/2021) 3. La natura della responsabilità della P.a. da illegittimo o ritardato esercizio del potere (Ad. Plen., sent. n. 7/2021) 4. Interferenze tra concordato preventivo con continuità aziendale e contratti pubblici: anche dopo la domanda di concordato in bianco o preconcordato è possibile partecipare alla gara (Cons. Stato, Ad. Plen., sentt. nn. 9 e 11/2021) 5. Raggruppamento temporaneo di imprese: la sostituibilità di un componente colpito da fallimento (Cons. Stato, Ad. Plen., sent. n. 10/2021) 6. Recesso dall’appalto per intervenuta interdittiva antimafia: la P.a. deve rimborsare le opere già eseguite, senza arricchimento ingiustificato (Cons. Stato, Ad. Plen., sent. n. 14/2021) 7. Danno da emotrasfusione e obblighi gravanti sul Ministero della Salute (Cons. Stato, Ad. Plen., sent. n. 16/2021) 8. L’Adunanza Plenaria boccia la proroga automatica delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative sostenendone il contrasto con il diritto eurounitario (Cons. Stato, Ad. Plen., sentt. nn. 17 e 18 del 2021) 9. Danno da provvedimento favorevole poi annullato e lesione dell’affidamento ingenerato nel privato Cons. Stato, Ad. Plen., sentt. nn. 19 e 20 del 2021) 10. I limiti del risarcimento per lesione dell’affidamento (Cons. Stato, Ad. Plen., sent. n. 21/2021)

 

  1. Ricade sulla curatela fallimentare l’onere di ripristino e di smaltimento dei rifiuti di cui all’art. 192 d.lgs. n. 152/2006 (Cons. Stato, Ad. Plen., sent. n. 3/2021)

La questione sottoposta all’esame dell’Adunanza Plenaria consiste nello stabilire se, a seguito della dichiarazione di fallimento, perdano giuridica rilevanza gli obblighi cui era tenuta la società fallita ai sensi dell’art. 192 d.lgs. n. 152/2006.

Esaminando le disposizioni del decreto legislativo n. 152/2006, la Plenaria rileva come al generale divieto di abbandono e di deposito incontrollato di rifiuti si riconnettano gli obblighi di rimozione, di avvio al recupero o smaltimento e di ripristino dello stato dei luoghi in capo al trasgressore e al proprietario, in solido, a condizione che la violazione sia ad almeno uno di essi imputabile secondo gli ordinari titoli di responsabilità, anche per condotta omissiva, colposa nei limiti della esigibilità, o dolosa.

La Plenaria in particolare, osserva come secondo il diritto europeo (che non pone alcuna norma esimente per i curatori), i rifiuti debbano comunque essere rimossi, pur quando cessa l’attività, o dallo stesso imprenditore che non sia fallito, o in alternativa da chi amministra il patrimonio fallimentare dopo la dichiarazione del fallimento.

Infatti, l'art. 3, par. 1 punto 6, della direttiva n. 2008/98/CE definisce il detentore, in contrapposizione al produttore, come la persona fisica o giuridica che è in possesso dei rifiuti (rectius: dei beni immobili sui quali i rifiuti insistono).

Secondo la Plenaria, pertanto, in materia non sono rilevanti le nozioni nazionali sulla distinzione tra il possesso e la detenzione: ciò che conta è la disponibilità materiale dei beni.

Ancora, si rileva come per la disciplina comunitaria (art. 14, par. 1, della direttiva n. 2008/98/CE), i costi della gestione dei rifiuti siano sostenuti dal produttore iniziale o dai detentori del momento o ancora dai detentori precedenti dei rifiuti.

Per la Plenaria, questa regola costituisce un'applicazione del principio "chi inquina paga", nel cui ambito solo chi non è detentore dei rifiuti, come il proprietario incolpevole del terreno su cui gli stessi siano collocati, può, in definitiva, invocare la cd. ‘esimente interna’ prevista dall'art. 192, comma 3, del d.lgs. n. 152 del 2006.

Allora, la curatela fallimentare, che ha la custodia dei beni del fallito, tuttavia, anche quando non prosegue l'attività imprenditoriale, non può evidentemente avvantaggiarsi dell’esimente di cui all'art. 192, lasciando abbandonati i rifiuti risultanti dall'attività imprenditoriale dell'impresa cessata.

Nella qualità di detentore dei rifiuti, sia secondo il diritto interno, ma anche secondo il diritto comunitario (quale gestore dei beni immobili inquinati), il curatore fallimentare è obbligato a metterli in sicurezza e a rimuoverli, avviandoli allo smaltimento o al recupero.

Seguendo invece la tesi contraria, afferma la Plenaria, i costi della bonifica finirebbero per ricadere sulla collettività incolpevole.

Si aggiunge, inoltre, che la responsabilità della curatela fallimentare - nell’eseguire la bonifica dei terreni di cui acquisisce la detenzione per effetto dell’inventario fallimentare dei beni, ex artt. 87 e ss. L.F. - può analogamente prescindere dall’accertamento dell’esistenza di un nesso di causalità tra la condotta e il danno constatato.

In definitiva, l’Adunanza Plenaria, con sentenza n. 3/2021, dichiara il seguente principio di diritto:

“ricade sulla curatela fallimentare l’onere di ripristino e di smaltimento dei rifiuti di cui all’art. 192 d.lgs. n. 152/2006 e i relativi costi gravano sulla massa fallimentare”.

 

  1. Consorzi stabili e possibilità di sostituire l’impresa non designata per l’esecuzione dei lavori (Cons. Stato, Ad. Plen., sent. n. 5/2021)

La questione sottoposta all’attenzione dell’Adunanza Plenaria riguardava se, nell’ipotesi di partecipazione ad una gara d’appalto di un consorzio stabile, che ripeta la propria qualificazione, necessaria ai sensi del bando, da una consorziata non designata ai fini dell’esecuzione dei lavori, quest’ultima vada considerata come soggetto terzo rispetto al consorzio, equiparabile all’impresa ausiliaria nell’avvalimento, sicché la perdita da parte della stessa del requisito durante la gara imponga alla stazione appaltante di ordinarne la sostituzione, in applicazione dell’art. 89 co. 3, d.lgs. n. 50/2016 e/o dell’art. 63, direttiva 2014/24/UE, derogandosi, pertanto, al principio dell’obbligo del possesso continuativo dei requisiti nel corso della gara e fino all’affidamento dei lavori.

L’Adunanza Plenaria, con la sentenza n. 5/2021, ha dato risposta affermativa, in forza di una interpretazione dell’art. 89 comma 3 del codice dei contratti pubblici, orientata alla corretta applicazione dell’art. 63 della direttiva 2014/24/UE.

La Plenaria ha preso le mosse dalla configurazione del consorzio stabile, prevista dall’ art. 45, comma 2, lett. c) del d.lgs. n. 50/2016, distinguendola dal consorzio ordinario di cui agli artt. 2602 e ss. del codice civile: quest’ultimo, pur essendo un autonomo centro di rapporti giuridici, non comporta l’assorbimento delle aziende consorziate in un organismo unitario costituente un’impresa collettiva, né esercita autonomamente e direttamente attività imprenditoriale, ma si limita a disciplinare e coordinare, attraverso un’organizzazione comune, le azioni degli imprenditori riuniti.

Ne discende che, ai fini della disciplina in materia di contratti pubblici, il consorzio ordinario è considerato un soggetto con identità plurisoggettiva, che opera in qualità di mandatario delle imprese della compagine.

I consorzi stabili, invece, a mente dell’art. 45, comma 2, lett. c) del d.lgs. n. 50/2016, sono costituiti “tra imprenditori individuali, anche artigiani, società commerciali, società cooperative di produzione e lavoro” che “abbiano stabilito di operare in modo congiunto nel settore dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture per un periodo di tempo non inferiore a cinque anni, istituendo a tal fine una comune struttura di impresa”: i partecipanti in questo caso danno vita ad una stabile struttura di impresa collettiva, la quale, oltre a presentare una propria soggettività giuridica con autonomia anche patrimoniale, rimane distinta e autonoma rispetto alle aziende dei singoli imprenditori ed è strutturata, quale azienda consortile, per eseguire, anche in proprio le prestazioni affidate a mezzo del contratto.

La Plenaria ricorda che, sulla base di questa impostazione, la Corte di Giustizia UE (C-376/08, 23 dicembre 2009) è giunta ad ammettere la contemporanea partecipazione alla medesima gara del consorzio stabile e della consorziata, ove quest’ultima non sia stata designata per l’esecuzione del contratto e non abbia pertanto concordato la presentazione dell’offerta.

La Plenaria, poi, procede ad un distinguo circa i legami che si instaurano nell’ambito della gara, tra consorzio stabile e consorziate, a seconda se queste ultime siano o meno designate per l’esecuzione dei lavori: solo le consorziate designate per l’esecuzione dei lavori partecipano alla gara e concordano l’offerta, assumendo una responsabilità in solido con il consorzio stabile nei confronti della stazione appaltante (art. 47 comma 2 del codice dei contratti). Per le altre, il consorzio si limita a mutuare, ex lege, i requisiti oggettivi, senza che da ciò discenda alcun vincolo di responsabilità solidale per l’eventuale mancata o erronea esecuzione dell’appalto.

Viene evidenziato dal Collegio come quest’ultima ipotesi rassomigli ad un rapporto di avvalimento, ancorché con le dovute differenze: da una parte, infatti, il consorziato presta i requisiti senza partecipare all’offerta, similmente all’impresa avvalsa (senza bisogno di dichiarazioni, soccorrendo la “comune struttura di impresa” e il disposto di legge), dall’altra, pur facendo ciò, rimane esente da responsabilità (diversamente dall’impresa avvalsa).

Secondo la Plenaria, tale constatazione è sufficiente a giustificare l’applicazione alla fattispecie in esame dell’art. 89 comma 3 del codice dei contratti: se è possibile, in via eccezionale, sostituire il soggetto legato da un rapporto di avvalimento, a fortiori dev’essere possibile sostituire il consorziato nei confronti del quale sussiste un vincolo che rispetto all’avvalimento è meno intenso.

Questa è la soluzione adottata dalla Plenaria per colmare la lacuna normativa esistente, che troverebbe piena conferma nell’ampia formulazione dell’art. 63 della direttiva 2014/24/UE, il quale, nel disciplinare l’avvalimento, vi ricomprende tutti i casi in cui un operatore economico, per un determinato appalto, fa “affidamento sulle capacità di altri soggetti, a prescindere dalla natura giuridica dei suoi legami con questi ultimi”, senza dare rilevanza qualificante alla responsabilità solidale dei soggetti avvalsi.

La Plenaria sottolinea, poi, che tale conclusione non tocca la perdurante validità del principio di necessaria continuità nel possesso dei requisiti, né il più generale principio di immodificabilità soggettiva del concorrente (salvi i casi previsti della legge nel caso di raggruppamento temporaneo di imprese).

La sostituzione è lo strumento nuovo e alternativo che, alla luce del principio di proporzionalità, consente una continuità, in tutti i casi in cui il concorrente si avvalga dell’ausilio di operatori terzi.

Esso restituisce al soggetto avvalso la sua vera natura di soggetto che presta i requisiti al concorrente, senza partecipare alla compagine e all’offerta da questa formulata e risponde all'esigenza, stimata superiore, di evitare l'esclusione del concorrente, singolo o associato, per ragioni a lui non direttamente riconducibili o imputabili.

E questa esigenza, sottolinea il Collegio, è strumentale a stimolare il ricorso all'avvalimento: il concorrente, infatti, può contare sul fatto che, nel caso in cui l'ausiliaria non presenti o perda i requisiti prescritti, potrà procedere alla sua sostituzione senza il rischio di essere, solo per questa circostanza, estromesso automaticamente dalla procedura selettiva.

In definitiva, l’Adunanza Plenaria, con sentenza n. 5/2021, afferma il seguente principio di diritto: “La consorziata di un consorzio stabile, non designata ai fini dell’esecuzione dei lavori, è equiparabile, ai fini dell’applicazione dell’art. 63 della direttiva 24/2014/UE e dell’art. 89 co. 3 del d.lgs. n. 50/2016, all’impresa ausiliaria nell’avvalimento, sicché la perdita da parte della stessa del requisito impone alla stazione appaltante di ordinarne la sostituzione”.

 

  1. La natura della responsabilità della P.a. da illegittimo o ritardato esercizio del potere (Ad. Plen., sent. n. 7/2021)

Le questioni su cui l’Adunanza Plenaria si è pronunciata concernono la responsabilità dell’amministrazione pubblica per il ritardo nella conclusione del procedimento originato da un’istanza autorizzativa.

L’Adunanza Plenaria ritiene che la responsabilità in cui incorre l’amministrazione per l’esercizio delle sue funzioni pubbliche sia inquadrabile nella responsabilità da fatto illecito, sia pure con gli inevitabili adattamenti richiesti dalla sua collocazione ordinamentale nei rapporti intersoggettivi, quale risultante dall’evoluzione storico-istituzionale e di diritto positivo che la ha caratterizzata.

Le argomentazioni a sostegno di questa statuizione sono esplicitate dal Collegio nel senso che la responsabilità da inadempimento si fonda, ai sensi dell’art. 1218 cod. civ., sul non esatto adempimento della «prestazione» cui il debitore è obbligato in base al contratto. Dunque, un vincolo obbligatorio di analoga portata non può essere configurato per la pubblica amministrazione che agisca nell’esercizio delle sue funzioni amministrative e quindi nel perseguimento dell’interesse pubblico definito dalla norma attributiva, che fonda la causa giuridica del potere autoritativo.

Ancora, si specifica che, sebbene a quest’ultimo si contrapponga l’interesse legittimo del privato, la relazione giuridica che si instaura tra il privato e l’amministrazione è caratterizzata da due situazioni soggettive entrambe attive, l’interesse legittimo del privato e il potere dell’amministrazione nell’esercizio della sua funzione. In questo caso, quindi, è configurabile non già un obbligo giuridico in capo all’amministrazione, rapportabile a quello che caratterizza le relazioni giuridiche regolate dal diritto privato, bensì un potere attribuito dalla legge, che va esercitato in conformità alla stessa e ai canoni di corretto uso del potere individuati dalla giurisprudenza. Né, secondo la Plenaria, la fattispecie in esame può essere ricondotta alla nozione di “contatto sociale”, che si fonda su una relazione paritaria, in quanto la relazione tra privato e amministrazione è comunque configurata in termini di “supremazia”.

Allora, il Collegio afferma chiaramente che il paradigma cui è improntato il sistema della responsabilità dell’amministrazione per l’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa o per il mancato esercizio di quella doverosa, devoluto alla giurisdizione amministrativa, è quello della responsabilità da fatto illecito.

Viene, pertanto, rilevato come elemento centrale, nella fattispecie di responsabilità, l’ingiustizia del danno, da dimostrare in giudizio: il risarcimento potrà essere riconosciuto se l’esercizio illegittimo del potere amministrativo abbia leso un bene della vita del privato, che quest’ultimo avrebbe avuto titolo per mantenere o ottenere, secondo la dicotomia interessi legittimi oppositivi e pretensivi.

La Plenaria sostiene che depongano nel senso della responsabilità per fatto illecito, anche indici normativi di univoca portata testuale: i commi 2 e 4 dell’art. 30 cod. proc. amm. e l’art. 2-bis, comma 1, della legge n. 241 del 1990.

In materia di responsabilità della P.a. per illegittimo esercizio del potere, l’Adunanza Plenaria dal Consiglio di Stato, con sentenza n. 7/2021, formula, pertanto, il seguente principio di diritto:

“la responsabilità della pubblica amministrazione per lesione di interessi legittimi, sia da illegittimità provvedimentale sia da inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento, ha natura di responsabilità da fatto illecito aquiliano e non già di responsabilità da inadempimento contrattuale; è pertanto necessario accertare che vi sia stata la lesione di un bene della vita, mentre per la quantificazione delle conseguenze risarcibili si applicano, in virtù dell’art. 2056 cod. civ. –da ritenere espressione di un principio generale dell’ordinamento- i criteri limitativi della consequenzialità immediata e diretta e dell’evitabilità con l’ordinaria diligenza del danneggiato, di cui agli artt. 1223 e 1227 cod. civ.; e non anche il criterio della prevedibilità del danno previsto dall’art. 1225 cod. civ.; […]”

 

  1. Interferenze tra concordato preventivo con continuità aziendale e contratti pubblici: anche dopo la domanda di concordato in bianco o preconcordato è possibile partecipare alla gara (Cons. Stato, Ad. Plen., sentt. nn. 9 e 11/2021)

La questione esaminata dall’Adunanza Plenaria, con le pronunce in esame, attiene ai profili di interferenza che insorgono fra procedura concorsuale del concordato preventivo con continuità aziendale e procedura ad evidenza pubblica.

Preliminarmente, viene notato come il rapporto tra le procedure concorsuali e le procedure ad evidenza pubblica sia sempre stato all’insegna dell’antinomia: la sottoposizione dell’impresa al fallimento o a procedure similari è sempre stata una causa ostativa o di impedimento a partecipare alle gare. Poi, a partire dal d.l. 83/2012 che modificava l’art. 38 del Codice dei contratti del 2006 si è aperta una breccia, che ha riguardato proprio il concordato preventivo con continuità aziendale: si tratta di una variante del concordato preventivo, procedura concorsuale che, a differenza del fallimento, ha finalità “recuperatoria” ma che, nella logica originaria della legge fallimentare del 1942, incentrata sull’espulsione dal mercato dell’impresa insolvente, occupava un posto secondario, se non marginale.

L’evoluzione del diritto concorsuale italiano, a partire dalle riforme del 2005-2006 attraverso una profonda revisione dell’impianto della legge fallimentare, nel quadro di una riscoperta e di un forte potenziamento delle procedure finalizzate al recupero del valore dell’impresa e alla continuazione dell’azienda, privilegiando soluzioni della crisi concordate con i creditori, ha visto, con il d.l. 83/2012 che ha aggiunto l’art. 186 bis alla legge del 1942, l’ingresso nel nostro sistema del concordato con continuità aziendale, finalizzato ad assicurare il ritorno in bonis dell’imprenditore e la prosecuzione dell’attività d’impresa da parte dello stesso.

La Plenaria osserva come, in linea generale, nella disciplina sui contratti pubblici, il problema della crisi di impresa sia sempre stato affrontato per lo più o primariamente secondo la prospettiva e dal punto di vista della stazione appaltante, muovendo quindi dalla preoccupazione che la crisi possa minare alla radice l’affidabilità dell’appaltatore in vista della realizzazione della commessa pubblica: l’ordinamento risponde con delle norme di ordine pubblico poste a tutela della stazione appaltante, con una regola di esclusione obbligatoria ed automatica, salvo l’eccezione per l’ipotesi di concordato con continuità aziendale.

Il Collegio, quindi, rileva che, stando al complessivo dato testuale ricavabile dal codice dei contratti, la partecipazione a nuove gare sarebbe preclusa non solo a chi ha presentato domanda di concordato in bianco ma, più in generale, in tutti i casi in cui l’operatore che ha presentato domanda di concordato preventivo a norma dell’art. 161 non sia stato ancora ammesso alla procedura.

Sul punto, la Plenaria evidenzia che ciò, nei casi di concordato con continuità, non solo condurrebbe al sicuro insuccesso dell’istituto, ma contrasterebbe frontalmente con quanto espresso dall’art. 186 bis, comma 4, dove si dice che, tra il deposito della domanda e il decreto di apertura della procedura, la partecipazione alle gare pubbliche è possibile purché sia autorizzata dal tribunale, acquisito il parere del commissario giudiziale, se nominato.

Pertanto, secondo il Collegio,  la presentazione di una domanda di concordato in bianco o con riserva, ai sensi dell’art. 161, comma 6, legge fallimentare non integra una causa di esclusione automatica dalle gare pubbliche, per perdita dei requisiti generali, essendo rimesso in primo luogo al giudice fallimentare in sede di rilascio dell’autorizzazione di cui all’art. 186 bis, comma 4, e al quale l’operatore che ha chiesto il concordato si deve tempestivamente rivolgere fornendo all’uopo le informazioni necessarie, valutare la compatibilità della partecipazione alla procedura di affidamento in funzione e nella prospettiva della continuità aziendale.

Ancora, si osserva come la partecipazione alle gare pubbliche sia considerata dal legislatore, a seguito del deposito della domanda di concordato anche in bianco o con riserva, come un atto che deve essere comunque autorizzato dal tribunale, acquisito il parere del commissario giudiziale ove già nominato, ai sensi dell’art. 186 bis, comma 4, da ultimo richiamato anche dagli articoli 80 e 110 del codice dei contratti: l’operatore che presenta domanda di concordato in bianco o con riserva è tenuto a richiedere senza indugio l’autorizzazione, anche qualora sia già partecipante alla gara, e ad informarne prontamente la stazione appaltante.

L’Adunanza Plenaria richiede che l’autorizzazione giudiziale alla partecipazione alla gara pubblica debba intervenire entro il momento dell’aggiudicazione della stessa, non occorrendo che in tale momento l’impresa, inclusa quella che ha presentato domanda di concordato in bianco o con riserva, sia anche già stata ammessa al concordato preventivo con continuità aziendale.

In definitiva, l’Adunanza Plenaria, con le sentenze nn. 9 e 11 del 2021, formula i seguenti principi di diritto:

“- a) la presentazione di una domanda di concordato in bianco o con riserva, ai sensi dell’art. 161, comma 6, legge fallimentare non integra una causa di esclusione automatica dalle gare pubbliche, per perdita dei requisiti generali, essendo rimesso in primo luogo al giudice fallimentare in sede di rilascio dell’autorizzazione di cui all’art. 186 bis, comma 4, e al quale l’operatore che ha chiesto il concordato si deve tempestivamente rivolgere fornendo all’uopo le informazioni necessarie, valutare la compatibilità della partecipazione alla procedura di affidamento in funzione e nella prospettiva della continuità aziendale;

- b) la partecipazione alle gare pubbliche è dal legislatore considerata, a seguito del deposito della domanda di concordato anche in bianco o con riserva, come un atto che deve essere comunque autorizzato dal tribunale, acquisito il parere del commissario giudiziale ove già nominato, ai sensi dell’art. 186 bis, comma 4, da ultimo richiamato anche dagli articoli 80 e 110 del codice dei contratti; a tali fini l’operatore che presenta domanda di concordato in bianco o con riserva è tenuto a richiedere senza indugio l’autorizzazione, anche qualora sia già partecipante alla gara, e ad informarne prontamente la stazione appaltante;

- c) l’autorizzazione giudiziale alla partecipazione alla gara pubblica deve intervenire entro il momento dell’aggiudicazione della stessa, non occorrendo che in tale momento l’impresa, inclusa quella che ha presentato domanda di concordato in bianco o con riserva, sia anche già stata ammessa al concordato preventivo con continuità aziendale”.

 

  1. Raggruppamento temporaneo di imprese: la sostituibilità di un componente colpito da fallimento (Cons. Stato, Ad. Plen., sent. n. 10/2021)

L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la pronuncia in esame, ha risolto talune questioni concernenti la sostituibilità di un componente del RTI, colpito da fallimento.

La questione centrale del giudizio riguarda la sostituibilità, in corso di gara, dell’impresa mandataria fallita o comunque assoggettata ad altra procedura concorsuale con un’altra impresa, esterna all’originario raggruppamento di imprese (c.d. sostituzione per addizione).

La Plenaria ricorda che il principio regolatore della materia, la tendenziale immodificabilità soggettiva dell’operatore economico partecipante alla gara in forma di raggruppamento temporaneo di imprese, è sancito in modo espresso dall’art. 48, comma 9, del d. lgs. n. 50 del 2016, il vigente codice dei contratti pubblici, il quale prescrive che, salve le eccezioni previste al comma 17, per la mandataria, e al comma 18, per una delle mandanti, è vietata qualsiasi modificazione alla composizione dei raggruppamenti temporanei e dei consorzi ordinari di concorrenti rispetto a quella risultante dall’impegno presentato in sede di offerta, pena l’annullamento dell’aggiudicazione e la nullità del conseguente contratto stipulato con il soggetto illegittimamente modificato.

Si aggiunge che il c.d. correttivo al codice dei contratti pubblici, di cui al d. lgs. n. 57 del 2016, ha in parte ritoccato la disciplina originaria dell’art. 48 del codice dei contratti pubblici, estendendo le originarie eccezioni consentite dai commi 17 e 18, con riferimento al fallimento e alle altre ipotesi di procedure concorsuali (in quanto la sottoposizione ad esse costituisce causa di esclusione ai sensi dall’art. 80, comma 5, lett. b) del codice), anche alla fase di gara, permettendo, altresì, la modifica soggettiva del raggruppamento, nella sola fase dell’esecuzione, anche per la perdita di uno degli altri requisiti dell’art. 80 in capo ad uno dei componenti, vietando, infine, il recesso di uno dei componenti per ragioni di mera riorganizzazione interna al raggruppamento, laddove queste ragioni siano in realtà finalizzate a colmare l’assenza dei requisiti partecipativi.

La Plenaria osserva come sia ammesso, dal successivo comma 19, il recesso di una o più imprese raggruppate, anche qualora il raggruppamento si riduca ad un unico soggetto, esclusivamente per esigenze organizzative del raggruppamento e sempre che le imprese rimanenti abbiano i requisiti di qualificazione adeguati ai lavori o servizi o forniture ancora da eseguire, ma in ogni caso la modifica soggettiva non è ammessa se finalizzata ad eludere la mancanza di un requisito di partecipazione alla gara.

Secondo il comma 19-bis, le previsioni di cui ai commi 17, 18 e 19 trovano applicazione anche con riferimento ai soggetti di cui all’art 45, comma 2, lettere b), c) ed e), e cioè ai consorzi tra società cooperative di produzione e lavoro, ai consorzi stabili e ai consorzi ordinari di concorrenti di cui all’art. 2602 c.c.

Secondo il comma 19-ter, infine, le previsioni di cui ai commi 17, 18 e 19 trovano applicazione anche laddove le modifiche soggettive ivi contemplate si verifichino in fase di gara.

Per la Plenaria, tali disposizioni, che consentono nella fase dell’esecuzione del contratto la modificabilità soggettiva del raggruppamento solo in tassative, eccezionali ipotesi, ora estese anche alla fase pubblicistica di gara, rispondono ad una duplice esigenza, fortemente avvertita sia a livello nazionale che a livello europeo.

Da un lato, si vuole evitare che la stazione appaltante si trovi ad aggiudicare la gara e a stipulare il contratto con un soggetto, del quale non abbia potuto verificare i requisiti, generali o speciali, di partecipazione, in conseguenza di modifiche della composizione del raggruppamento avvenute nel corso della procedura ad evidenza pubblica o nella fase esecutiva del contratto.

Dall’altro lato, si avverte l’esigenza di tutelare la par condicio dei partecipanti alla gara con modifiche della composizione soggettiva del raggruppamento “calibrate” sull’evoluzione della gara o sull’andamento del rapporto contrattuale.

Si evince, dunque, che in questa prospettiva, l’addizione di soggetti esterni all’originaria composizione del raggruppamento, che ha presentato la propria offerta con una determinata composizione soggettiva, costituisce un vulnus non solo al fondamentale interesse pubblico alla trasparenza e al buon andamento della pubblica amministrazione, dovendo l’iter della gara svolgersi secondo determinate e non alterabili scansioni procedurali, ma anche un vulnus al principio di parità di trattamento tra le imprese interessate all’aggiudicazione e, dunque, al valore primario della concorrenza nel suo corretto esplicarsi.

Il Collegio rileva come le uniche modifiche consentite dal legislatore siano quelle interne allo stesso raggruppamento, con una diversa distribuzione di ruoli e compiti tra mandanti e mandataria, secondo la disciplina dei richiamati commi 17 e 18, in ragione di eventi imprevedibili tassativamente definiti dal legislatore, che abbiano colpito taluno degli originari componenti. Tali eventi costituiscono eccezione al principio di immutabilità soggettiva.

L’Adunanza Plenaria ha riportato un proprio recente pronunciamento (sent. n. 10/2020), col quale  ha chiarito che anche la fase esecutiva del contratto pubblico non è indifferente all’interesse pubblico e a quello privato degli altri operatori che hanno preso parte alla gara.

Secondo il Collegio, inoltre, nella stessa direzione muove il diritto europeo dei contratti e, da ultimo, anche la Direttiva n. 2014/24/UE.

Pertanto, la deroga all’immodificabilità soggettiva dell’appaltatore costituito in raggruppamento, tale da evitare in fase esecutiva la riapertura dell’appalto alla concorrenza e, dunque, l’indizione di una nuova gara, è solo quella dovuta, in detta fase, a modifiche strutturali interne allo stesso raggruppamento, senza l’addizione di nuovi soggetti che non abbiano partecipato alla gara.

La modifica sostituiva c.d. per addizione costituirebbe ex se una deroga non consentita al principio della concorrenza, ammettendo ad eseguire la prestazione un soggetto che non ha preso parte alla gara secondo regole di correttezza e trasparenza, in violazione di quanto prevede l’art. 106, comma 1, lett. d), n. 2, del d. lgs. n. 50 del 2016, più in generale, per la sostituzione dell’iniziale aggiudicatario.

In conclusione, la Plenaria ribadisce la posizione della giurisprudenza del Consiglio di Stato, ferma nell’escludere la modifica del raggruppamento con l’addizione di un soggetto esterno, essendo consentita in sede di gara solo quella c.d. per sottrazione, per ragioni riorganizzative tutte interne allo stesso raggruppamento e ora eccezionalmente, per la sola fase esecutiva, anche per il venir meno, eventualmente, di uno dei requisiti di cui all’art. 80 del d. lgs. n. 50 del 2016, in capo ad una delle imprese partecipanti.

In definitiva, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con sentenza n. 10/2021, formula i seguenti principi di diritto:

“a) l’art. 48, commi 17, 18 e 19-ter, del d. lgs. n. 50 del 2016, nella formulazione attuale, consente la sostituzione meramente interna del mandatario o del mandante di un raggruppamento temporaneo di imprese con un altro soggetto del raggruppamento stesso in possesso dei requisiti, nella fase di gara, e solo nelle ipotesi di fallimento, liquidazione coatta amministrativa, amministrazione straordinaria, concordato preventivo o di liquidazione o, qualora si tratti di imprenditore individuale, di morte, interdizione, inabilitazione o anche liquidazione giudiziale o, più in generale, per esigenze riorganizzative dello stesso raggruppamento temporaneo di imprese, a meno che – per questa ultima ipotesi e in coerenza con quanto prevede, parallelamente, il comma 19 per il recesso di una o più imprese raggruppate – queste esigenze non siano finalizzate ad eludere la mancanza di un requisito di partecipazione alla gara;

  1. b) l’evento che conduce alla sostituzione meramente interna, ammessa nei limiti anzidetti, deve essere portato dal raggruppamento a conoscenza della stazione appaltante, laddove questa non ne abbia già avuto o acquisito notizia, per consentirle, secondo un principio di c.d. sostituibilità procedimentalizzata a tutela della trasparenza e della concorrenza, di assegnare al raggruppamento un congruo termine per la riorganizzazione del proprio assetto interno tale da poter riprendere correttamente, e rapidamente, la propria partecipazione alla gara o la prosecuzione del rapporto contrattuale”.

 

  1. Recesso dall’appalto per intervenuta interdittiva antimafia: la P.a. deve rimborsare le opere già eseguite, senza arricchimento ingiustificato (Cons. Stato, Ad. Plen., sent. n. 14/2021)

Le questioni sottoposte all’esame dell’Adunanza Plenaria in materia di interdittiva antimafia riguardano il rimborso delle opere già eseguite a seguito del recesso del contratto da parte della P.a. ed, in particolare, si chiede di verificare come debba essere interpretato il concetto di “valore delle opere già eseguite” e, con particolare riferimento agli appalti di servizi connotati da prestazioni periodiche, ripetitive e standardizzate, come debba essere inteso il “valore dei servizi già resi”, e cioè se debba tenersi conto solo del prezzo pattuito come desumibile dal contratto stipulato tra le parti o dell’effettivo valore economico delle prestazioni, che deve essere quantificato dovendosi anche tenere conto della revisione dei prezzi che hanno interessato le opere già realizzate ed i servizi già erogati.

Preliminarmente, l’Adunanza Plenaria ricorda che l’informazione interdittiva antimafia determina una particolare forma di incapacità ex lege parziale (in quanto limitata a specifici rapporti giuridici con la Pubblica Amministrazione) e tendenzialmente temporanea, con la conseguenza che al soggetto - persona fisica o giuridica - è precluso avere con la Pubblica Amministrazione rapporti riconducibili a quanto disposto dall'art. 67 co. 1 lett. g) d.lgs. n. 159/2011, nella parte in cui prevede il divieto di ottenere "contributi, finanziamenti e mutui agevolati ed altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati da parte dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità Europee, per lo svolgimento di attività imprenditoriali”.

Secondo la Plenaria, la disposizione dell’art. 67, co. 1, lett. g) del codice antimafia va interpretata nel senso di riferirsi a qualunque tipo di esborso proveniente dalla P.a., quale che ne sia la fonte e la causa, per il tempo di durata degli effetti dell’interdittiva.

Eccezione al detto principio è contenuta nel disposto degli artt. 92, co. 3 e 94, co. 2 che prevedono testualmente che i soggetti di cui all’art. 83 “revocano le autorizzazioni o le concessioni o recedono dai contratti fatto salvo il pagamento del valore delle opere già eseguite e il rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione del rimanente, nei limiti delle utilità conseguite”.

Ai soggetti, sebbene già destinatari del provvedimento interdittivo, deve essere comunque corrisposto il “valore delle opere già eseguite e il rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione del rimanente, nei limiti delle utilità conseguite”.

L’Adunanza Plenaria si è preliminarmente soffermata su che cosa debba intendersi per “valore delle opere (o servizi) già eseguiti”, pagabili al contraente privato interdetto “nei limiti delle utilità conseguite” dall’Amministrazione, non potendosi dare per scontata la equivalenza tra prezzo contrattuale e valore delle prestazioni, ove si consideri il tenore letterale delle norme in commento, che, da un lato, non prevedono il pagamento del “prezzo” delle prestazioni già eseguite, ma fanno riferimento al “valore” di dette prestazioni, e dall’altro lato pongono l’ulteriore limite delle utilità conseguite.

A tal fine, il Collegio ribadisce i principi affermati nella sentenza dell’Adunanza Plenaria 6 aprile 2018, n. 3, secondo cui il provvedimento di cd. “interdittiva antimafia” determina una particolare forma di incapacità giuridica in ambito pubblico, e dunque l’insuscettività del soggetto (persona fisica o giuridica) che di esso è destinatario ad essere titolare di quelle situazioni giuridiche soggettive (diritti soggettivi, interessi legittimi) che, sul loro cd. “lato esterno”, determinino rapporti giuridici con la Pubblica Amministrazione.

Ancora, è stata citata la successiva sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 23 del 2020, che  ha precisato che:

“a fronte dell’estremo rigore risultante dal complessivo sistema normativo disciplinante l’informazione antimafia e le sue conseguenze (posto, lo si ribadisce, a tutela di essenziali valori costituzionali) – costituiscono norme di eccezione, e come tali di stretta interpretazione (ex art. 14 disp. prel. cod. civ.: v. Cons. Stato, sez. IV, 28 ottobre 2011 n. 5799), quelle che, pur in presenza di una riconosciuta situazione di incapacità, consentono la conservazione da parte di un soggetto destinatario di informazione interdittiva di attribuzioni patrimoniali medio tempore eventualmente acquisite ovvero la possibilità di procedere alla loro dazione da parte delle pubbliche amministrazioni.

Pertanto, l’esame ermeneutico degli articoli 92, co. 3 e 94, co. 2 del d.lgs. n. 159/2011, nella parte in cui questi consentono la salvezza del “pagamento del valore delle opere già eseguite e il rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione del rimanente, nei limiti delle utilità conseguite” – da accertare se con riferimento ai contratti da cui si recede ovvero anche ai finanziamenti o simili medio tempore erogati – deve rispondere alla regola di stretta interpretazione propria delle norme di eccezione.”

L’Adunanza Plenaria, poi, procede ad esaminare se nella determinazione del prezzo contrattuale relativo ad un appalto di servizi, da pagarsi o già pagato in relazione alle prestazioni già eseguite dall’esecutore attinto da informativa antimafia, ai sensi e per gli effetti degli artt. 92, co. 3 e 94, co. 2 d.lgs. n. 159/2011 debba farsi riferimento solo al prezzo originariamente pattuito nel contratto, ovvero a tale prezzo come integrato dalla revisione dei prezzi nel frattempo maturata (anche essa prima della interdittiva antimafia).

La Plenaria esclude che l’istituto della revisione dei prezzi abbia finalità risarcitorie: la ratio sottesa alla revisione dei prezzi è di evitare che oscillazioni dei prezzi, tali da portare il prezzo pattuito sotto il valore di mercato delle prestazioni, comportino un ingiustificato arricchimento della parte contrattuale pubblica in danno della parte privata.

In definitiva, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con sentenza n. 14/2021, afferma i seguenti principi di diritto:

“a) negli appalti pubblici di servizi aggiudicati a seguito di una procedura di evidenza pubblica, aventi ad oggetto prestazioni periodiche o continuative connotate da standardizzazione, omogeneità e ripetitività, il “valore delle prestazioni già eseguite”, da pagarsi all’esecutore nei limiti delle utilità conseguite dalla stazione appaltante, in caso di interdittiva antimafia, ai sensi e per gli effetti degli artt. 92, co. 3 e 94, co. 2 del d lgs. n. 159/2011, corrisponde al prezzo contrattuale pattuito dalle parti, salva la possibilità di prova contraria da parte della stazione appaltante che esercita il recesso;

  1. b)nella determinazione del valore-prezzo degli appalti di servizi da pagarsi per le prestazioni già eseguite, ai sensi e per gli effetti degli artt. 92, co. 3 e 94, co. 2 del d lgs. n. 159/2011, deve intendersi compresa anche la somma risultante dall’applicazione del procedimento obbligatorio di revisione dei prezzi di cui all’art. 115 d.lgs. n. 163/2006”.

 

  1. Danno da emotrasfusione e obblighi gravanti sul Ministero della Salute (Cons. Stato, Ad. Plen., sent. n. 16/2021)

La vicenda in questione concerne la speciale procedura transattiva messa a disposizione dallo Stato a favore dei “soggetti talassemici, affetti da altre emoglobinopatie o affetti da anemie ereditarie, emofilici ed emotrasfusi occasionali danneggiati da trasfusione con sangue infetto o da somministrazione di emoderivati infetti…”, che abbiano instaurato azioni di risarcimento danni e si è sviluppata dagli anni settanta agli anni novanta a causa della somministrazione di sangue e plasma infetto da virus delle epatiti virali (HBV e HCV) e dell'HIV.

La maggioranza dei contagi è avvenuta tra i malati talassemici ed emofilici, costretti al tempo a effettuare periodiche trasfusioni. Inoltre, molti contagi si sono verificati in trasfusi occasionali nel corso di interventi chirurgici o nel caso di emorragie. Si tratta di un numero assai considerevole di persone, le quali hanno subito gravi lesioni e talvolta, la morte, a causa del mancato controllo sul sangue trasfuso e sugli emoderivati.

La Plenaria, preliminarmente, cita la legge 25/2/1992 n. 210, che ha riconosciuto un indennizzo ai soggetti danneggiati e le successive leggi 29.11.2007 n. 222 e 31 dicembre 2007, n. 244, che hanno inoltre previsto la possibilità per il Ministero della Salute di stipulare transazioni con soggetti talassemici, affetti da altre emoglobinopatie o da anemie ereditarie, emofilici ed emotrasfusi occasionali danneggiati da trasfusione con sangue infetto o da somministrazione di emoderivati infetti e con soggetti danneggiati da vaccinazioni obbligatorie, che abbiano instaurato azioni di risarcimento del danno ex art. 2043 c.c.

Tali disposizioni sono state attuate con DM 28 aprile 2009, n. 132, che ha fissato i criteri in base ai quali definire le suddette transazioni.

Il Collegio, poi, precisa che il quadro dei termini prescrizionali era, già al tempo dell’emanazione del regolamento in parola, chiaro e definito: i congiunti, se agiscono iure hereditatis, non possono far valere altro che il reato di lesioni, perché quello è il solo reato rispetto al quale il defunto avrebbe potuto avanzare una pretesa risarcitoria diretta, e conseguentemente la prescrizione è quinquennale. Viceversa, qualora essi agiscano iure proprio, cioè chiedendo il risarcimento di un danno diretto da loro patito per la morte del congiunto, allora è invocabile il delitto di omicidio colposo, con il corollario della prescrizione decennale.

La Plenaria ricorda che il DM 28 aprile 2009, n. 132, pur avendo fissato stringenti criteri, ha ritenuto opportuno demandare la definizione dei “moduli” transattivi, id est la determinazione degli importi da riconoscere secondo un piano di rateizzazione, a un successivo decreto espressamente definito “di natura non regolamentare” del Ministro della Salute, di concerto con il Ministro dell’Economia e delle Finanze, adottato sulla scorta del lavoro istruttorio della Commissione tecnica interministeriale e sentita l’Avvocatura Generale dello Stato.

Ancora, si cita il decreto ministeriale del 4 maggio 2012 (cd. “Decreto moduli”), con cui sono stati definiti i moduli transattivi, cioè gli importi da applicare a ciascuna delle categorie di soggetti individuati dalle leggi n. 222 e n. 244 del 2007, tenuto conto anche dei pareri resi dall’Avvocatura Generale dello Stato.

Secondo l’Adunanza Plenaria, il procedimento transattivo del quale si discorre è certamente procedimento di carattere speciale che non esclude la percorribilità della transazione ordinaria fra le parti ove ne ricorrano i presupposti generali di cui all’art. 1965 c.c..

Esso ha la duplice finalità di incidere sul vasto contenzioso che la vicenda ha generato nonché di offrire in tempi rapidi (purtroppo solo auspicati) ai danneggiati o ai loro eredi un ristoro, sì da evitare che, specialmente nelle fasce di popolazione a basso reddito, al danno si associno ulteriori disagi sociali ed economici.

In definitiva, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con sentenza n. 16/2021, formula i seguenti principi di diritto:

“a) la previsione di cui all’art. 5, comma 1, lettera b), del D.M. 4 maggio 2012 comprende nel proprio ambito applicativo l’ipotesi della richiesta di adesione alla transazione formulata dall’erede del danneggiato da emotrasfusioni, il quale abbia fatto valere in giudizio la propria pretesa al risarcimento del danno iure hereditario;

  1. b) il termine decennale contemplato dal citato art. 5, comma 1, lettera b), non è riferibile alla presunta prescrizione ma si limita a segnare l’ambito temporale entro il quale la pendenza del giudizio costituisce il necessario presupposto per l’ammissione alla transazione”.

 

  1. L’Adunanza Plenaria boccia la proroga automatica delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative sostenendone il contrasto con il diritto eurounitario (Cons. Stato, Ad. Plen., sentt. nn. 17 e 18 del 2021)

Con la pronuncia in esame, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha affrontato lo spinoso tema della proroga automatica delle concessioni demaniali, per finalità turistico-ricreative, prevista dalla normativa nazionale che, secondo il Collegio, è anticomunitaria.

Andando al nucleo della questione, l’Adunanza Plenaria ritiene che l’obbligo di non applicare la legge anticomunitaria gravi in capo all’apparato amministrativo, anche nei casi in cui il contrasto riguardi una direttiva self-executing e la sussistenza di un dovere di non applicazione anche da parte della P.A. rappresenti un approdo ormai consolidato nell’ambito della giurisprudenza sia europea sia nazionale, posto che tutti i soggetti dell’ordinamento, compresi gli organi amministrativi, devono riconoscere come diritto legittimo e vincolante le norme comunitarie, non applicando le norme nazionali contrastanti.

Opinare diversamente, per il Consiglio di Stato significherebbe autorizzare la P.A. all’adozione di atti amministrativi illegittimi per violazione del diritto dell’Unione, destinati ad essere annullati in sede giurisdizionale, con grave compromissione del principio di legalità, oltre che di elementari esigenze di certezza del diritto.

Per il Collegio, ne consegue allora che la legge nazionale in contrasto con una norma europea dotata di efficacia diretta, ancorché contenuta in una direttiva self-executing, non può essere applicata né dal giudice né dalla pubblica amministrazione, senza che sia all’uopo necessario (come chiarito dalla Corte Costituzionale a partire dalla sentenza n. 170 del 1984) una questione di legittimità costituzionale. E un sindacato di costituzionalità in via incidentale su una legge nazionale anticomunitaria è oggi possibile solo se tale legge sia in contrasto con una direttiva comunitaria non self-executing oppure, secondo la recente teoria della c.d. doppia pregiudizialità, nei casi in cui la legge nazionale contrasti con i diritti fondamentali della persona tutelati sia dalla Costituzione sia dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

Ancora, la Plenaria si sofferma sul principio di primazia del diritto U.E., ricordando che, secondo la stessa giurisprudenza comunitaria, di regola non incide sul regime di stabilità degli atti (amministrativi e giurisdizionali) nazionali che risultino comunitariamente illegittimi. In linea di principio, quindi, va escluso un obbligo di autotutela (o anche di riesame), a maggior ragione laddove il provvedimento amministrativo risulti confermato da un giudicato.

Sulla qualificazione dell’atto di rinnovo di proroga, richiesto o che sia stato eventualmente già adottato, la Plenaria ritiene che sia un atto meramente ricognitivo di un effetto prodotto automaticamente dalla legge e quindi alla stessa direttamente riconducibile.

Viene citato l’art. 1, comma 682, della legge 30 dicembre 2018, n. 145, che dispone che le concessioni demaniali già rilasciate “vigenti alla data di entrata in vigore della presente legge hanno una durata, con decorrenza dalla data di entrata in vigore della presente legge, di anni quindici”.

La proroga del termine avviene, quindi, automaticamente, in via generalizzata ed ex lege, senza l’intermediazione di alcun potere amministrativo. Si tratta di una legge-provvedimento che non dispone in via generale e astratta, ma, intervenendo su un numero delimitato di situazioni concrete, recepisce e “legifica”, prorogandone il termine, le concessioni demaniali già rilasciate.

Dunque, conclude la Plenaria, se la proroga è direttamente disposta per legge ma la relativa norma che la prevede non poteva e non può essere applicata perché in contrasto con il diritto dell’Unione, ne discende che l’effetto della proroga deve considerarsi tamquam non esset.

Per il Collegio, analoghe considerazioni valgono anche nei casi in cui sia intervenuto un giudicato favorevole al concessionario demaniale: deve essere richiamato il consolidato principio in base al quale la sopravvenienza normativa incide sulle situazioni giuridiche durevoli per quella parte che si svolge successivamente al giudicato.

Pertanto, conclude la Plenaria, l’incompatibilità comunitaria della legge nazionale che ha disposto la proroga ex lege delle concessioni demaniali produce come effetto, anche nei casi in cui siano stati adottati formali atti di proroga e nei casi in cui sia intervenuto un giudicato favorevole, il venir meno degli effetti della concessione, in conseguenza della non applicazione della disciplina interna.

L’Adunanza Plenaria è, tuttavia, consapevole del notevole impatto (anche sociale ed economico) che tale immediata non applicazione può comportare, specie in un contesto caratterizzato da un regime di proroga che è frutto di interventi normativi stratificatisi nel corso degli anni: la prima proroga, fino al 31 dicembre 2015, fu disposta dall’art. 1, comma 18, d.l. n. 194 del 2009, convertito con modificazione in legge 26 febbraio 2010, n. 25. Il termine del 31 dicembre 2015 fu successivamente prorogato sino al 31 dicembre 2020 per effetto della successiva legge 24 dicembre 2012, n. 228, e, infine, approssimandosi la scadenza del 31 dicembre 2020, l’art. 1, commi 682 e 683 ha disposto l’ulteriore proroga fino al 31 dicembre 2033.

Nel corso di queste ripetute proroghe, il legislatore, anche per fare fronte alle procedure di infrazione nel frattempo aperte dalla Commissione europea, aveva “annunciato” il “riordino della materia in conformità dei principi di derivazione europea”, ma la nuova normativa non è mai intervenuta.

Ne è derivata una situazione di incertezza, che sarebbe ulteriormente alimentata dall’improvvisa cessazione di tutti i rapporti concessori in atto, come conseguenza della immediata non applicazione della legge nazionale incompatibile con il diritto dell’Unione.

E in tale contesto di incertezza normativa, l’Adunanza Plenaria ritiene che sussistano i presupposti per modulare gli effetti temporali della propria decisone: la deroga alla retroattività trova fondamento nel principio di certezza del diritto.

Il Collegio tiene conto che deve essere lasciato un congruo periodo per l’espletamento degli effetti della sentenza, rispetto all’esigenza funzionale di espletare le gare e di evitare il significativo impatto economico e sociale che altrimenti deriverebbe dall’improvvisa decadenza dei rapporti concessori in essere.

Secondo la Plenaria, l’intervallo temporale potrebbe altresì consentire al legislatore di predisporre una disciplina che, nel rispetto dei principi dell’ordinamento dell’Unione e degli opposti interessi, sia in grado di contemperare le ormai ineludibili istanze di tutela della concorrenza e del mercato con l’altrettanto importante esigenza di tutela dei concessionari uscenti.

L’Adunanza Plenaria si esprime anche in ordine ai principi che dovranno ispirare lo svolgimento delle gare, sostenendo che, ferma restando la discrezionalità del legislatore nell’approntare la normativa di riordino del settore, la scelta di criteri di selezione proporzionati, non discriminatori ed equi è essenziale per garantire agli operatori economici l’effettivo accesso alle opportunità economiche offerte dalle concessioni.

Ancora, si sottolinea che la durata delle concessioni dovrebbe essere limitata e giustificata sulla base di valutazioni tecniche, economiche e finanziarie, al fine di evitare la preclusione dell’accesso al mercato. Al riguardo, sarebbe opportuna l’introduzione a livello normativo di un limite alla durata delle concessioni, che dovrà essere poi in concreto determinata (nell’ambito del tetto normativo) dall’amministrazione aggiudicatrice nel bando di gara in funzione dei servizi richiesti al concessionario.

In definitiva, l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con le sentenze nn. 17 e 18 del 2021, enuncia i seguenti principi di diritto:

  1. Le norme legislative nazionali che hanno disposto (e che in futuro dovessero ancora disporre) la proroga automatica delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative – compresa la moratoria introdotta in correlazione con l’emergenza epidemiologica da Covid-19 dall’art. 182, comma 2, d.l. n. 34/2020, convertito in legge n. 77/2020 – sono in contrasto con il diritto eurounitario, segnatamente con l’art. 49 TFUE e con l’art. 12 della direttiva 2006/123/CE. Tali norme, pertanto, non devono essere applicate né dai giudici né dalla pubblica amministrazione.
  2. Ancorché siano intervenuti atti di proroga rilasciati dalla P.A. (e anche nei casi in cui tali siano stati rilasciati in seguito a un giudicato favorevole o abbiamo comunque formato oggetto di un giudicato favorevole) deve escludersi la sussistenza di un diritto alla prosecuzione del rapporto in capo gli attuali concessionari. Non vengono al riguardo in rilievo i poteri di autotutela decisoria della P.A. in quanto l’effetto di cui si discute è direttamente disposto dalla legge, che ha nella sostanza legificato i provvedimenti di concessione prorogandone i termini di durata. La non applicazione della legge implica, quindi, che gli effetti da essa prodotti sulle concessioni già rilasciate debbano parimenti ritenersi tamquam non esset, senza che rilevi la presenza o meno di un atto dichiarativo dell’effetto legale di proroga adottato dalla P.A. o l’esistenza di un giudicato. Venendo in rilievo un rapporto di durata, infatti, anche il giudicato è comunque esposto all’incidenza delle sopravvenienze e non attribuisce un diritto alla continuazione del rapporto.
  3. Al fine di evitare il significativo impatto socio-economico che deriverebbe da una decadenza immediata e generalizzata di tutte le concessioni in essere, di tener conto dei tempi tecnici perché le amministrazioni predispongano le procedura di gara richieste e, altresì, nell’auspicio che il legislatore intervenga a riordinare la materia in conformità ai principi di derivazione europea, le concessioni demaniali per finalità turistico-ricreative già in essere continuano ad essere efficaci sino al 31 dicembre 2023, fermo restando che, oltre tale data, anche in assenza di una disciplina legislativa, esse cesseranno di produrre effetti, nonostante qualsiasi eventuale ulteriore proroga legislativa che dovesse nel frattempo intervenire, la quale andrebbe considerata senza effetto perché in contrasto con le norme dell’ordinamento dell’U.E.

 

  1. Danno da provvedimento favorevole poi annullato e lesione dell’affidamento ingenerato nel privato Cons. Stato, Ad. Plen., sentt. nn. 19 e 20 del 2021)

Le questioni deferite all’esame dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato riguardano la possibilità di configurare un legittimo e qualificato affidamento sul provvedimento amministrativo annullato in sede giurisdizionale e, in caso positivo, a quali condizioni ed entro quali limiti può essere riconosciuto un risarcimento del danno per lesione dell’affidamento incolpevole.

Con riguardo alla prima questione, la risposta della Plenaria è affermativa.

La Plenaria sottolinea come le regole di legittimità amministrativa e quelle di correttezza operino su piani distinti, uno relativo alla validità degli atti amministrativi e l’altro concernente invece la responsabilità dell’amministrazione e i connessi obblighi di protezione in favore della controparte.

Oltre che distinti, i profili in questione sono autonomi e non in rapporto di pregiudizialità, nella misura in cui l’accertamento di validità degli atti impugnati non implica che l’amministrazione sia esente da responsabilità per danni nondimeno subiti dal privato destinatario degli stessi.

Viene citato l’art. 1, comma 2-bis, della legge 7 agosto 1990, n. 241, il quale dispone che: «(i) rapporti tra il cittadino e la pubblica amministrazione sono improntati ai princìpi della collaborazione e della buona fede». Secondo la Plenaria, tale disposizione ha positivizzato una regola di carattere generale dell’agire pubblicistico dell’amministrazione, che trae fondamento nei principi costituzionali di imparzialità e buon andamento (art. 97, comma 2, Cost.) e che porta a compimento la concezione secondo cui il procedimento amministrativo - forma tipica di esercizio della funzione amministrativa - è il luogo di composizione del conflitto tra l’interesse pubblico primario e gli altri interessi, pubblici e privati, coinvolti nell’esercizio del primo.

Dunque, il Collegio prosegue sostenendo che a fronte del dovere di collaborazione e di comportarsi secondo buona fede possono sorgere aspettative, che per il privato istante si indirizzano all’utilità derivante dall’atto finale del procedimento, la cui frustrazione può essere per l’amministrazione fonte di responsabilità.

Sul punto, in conclusione, la Plenaria afferma il seguente principio di diritto: «nei rapporti di diritto amministrativo, inerenti all’esercizio del pubblico potere, è configurabile un affidamento del privato sul legittimo esercizio di tale potere e sull’operato dell’amministrazione conforme ai principi di correttezza e buona fede, fonte per quest’ultima di responsabilità non solo per comportamenti contrari ai canoni di origine civilistica ora richiamati, ma anche per il caso di provvedimento favorevole annullato su ricorso di terzi».

L’ulteriore questione deferita, concernente i limiti entro cui può essere riconosciuto il risarcimento per lesione dell’affidamento, viene affrontata rilevando, preliminarmente, come l’affidamento tutelabile in via risarcitoria debba essere ragionevole, id est incolpevole: deve quindi fondarsi su una situazione di apparenza costituita dall’amministrazione con il provvedimento, o con il suo comportamento correlato al pubblico potere, e in cui il privato abbia senza colpa confidato.

La Plenaria chiarisce inequivocabilmente che, nel caso di provvedimento poi annullato, il soggetto beneficiario deve dunque vantare una fondata aspettativa alla conservazione del bene della vita ottenuto con il provvedimento stesso, la frustrazione della quale può quindi essere considerata meritevole di tutela per equivalente in base all’ordinamento giuridico.

Si specifica come la tutela risarcitoria non intervenga a compensare il bene della vita perso a causa dell’annullamento del provvedimento favorevole, che comunque si è accertato non spettante nel giudizio di annullamento, ma a ristorare il convincimento ragionevole che esso spettasse.

Viene considerato che, sebbene al privato sia riconosciuto il potere di attivare il procedimento amministrativo e di fornire in esso ogni apporto utile per la sua conclusione in senso per sé favorevole, egli lo fa all’esclusivo fine di realizzare il proprio utile. E’ invece sempre l’amministrazione che rimane titolare della cura dell’interesse pubblico e che dunque è tenuta a darvi piena attuazione, se del caso sacrificando l’interesse privato; pertanto, se quest’ultimo trova soddisfazione è perché esso è ritenuto conforme alla norma e all’interesse pubblico primario dalla stessa tutelato. Malgrado gli istituti partecipativi introdotti con legge n. 241 del 1990, e la recente positivizzazione dei doveri di collaborazione e buona fede, il potere amministrativo mantiene la sua tipica connotazione di unilateralità, che si correla alle sovraordinate esigenze di attuazione dei fini di interesse pubblico stabiliti dalla legge, di cui l’amministrazione è responsabile.

In conclusione, sulla seconda questione di diritto sollevata, l’Adunanza Plenaria afferma il seguente principio di diritto: «la responsabilità dell’amministrazione per lesione dell’affidamento ingenerato nel destinatario di un suo provvedimento favorevole, poi annullato in sede giurisdizionale, postula che sulla sua legittimità sia sorto un ragionevole convincimento, il quale è escluso in caso di illegittimità evidente o quando il medesimo destinatario abbia conoscenza dell’impugnazione contro lo stesso provvedimento».

 

  1. I limiti del risarcimento per lesione dell’affidamento (Cons. Stato, Ad. Plen., sent. n. 21/2021)

Con la pronuncia in esame, facente parte della triade di sentenze in materia di danno da provvedimento favorevole poi annullato e lesione dell’affidamento incolpevole, nn. 19, 20, 21 del 2021, la Plenaria, oltre a ribadire principi già espressi nelle sentenze nn. 19 e 20, si sofferma sul profilo dei limiti entro cui può essere riconosciuto il risarcimento per lesione dell’affidamento, con particolare riguardo all’ipotesi di aggiudicazione definitiva di appalto di lavori, servizi o forniture, successivamente revocata a seguito di una pronuncia giudiziale.

Sul punto, viene precisato che questo settore dell’attività della pubblica amministrazione è quello in cui tradizionalmente e più volte è stata riconosciuta la responsabilità di quest’ultima.

Viene rilevato, ancora, che le ragioni alla base dell’orientamento di giurisprudenza favorevole al privato venutosi a creare in questo settore si spiega sulla base del fatto che, sebbene svolta secondo i moduli autoritativi ed impersonali dell’evidenza pubblica, l’attività contrattuale dell’amministrazione è nello stesso tempo inquadrabile nello schema delle trattative prenegoziali, da cui deriva quindi l’assoggettamento al generale dovere di «comportarsi secondo buona fede» enunciato dall’art. 1337 del codice civile.

Il Collegio rileva che, per comune acquisizione di diritto civile, la tutela risarcitoria per responsabilità precontrattuale è posta a presidio dell’interesse a non essere coinvolto in trattative inutili, e dunque del più generale interesse di ordine economico a che sia assicurata la serietà dei contraenti nelle attività preparatorie e prodromiche al perfezionamento del vincolo negoziale: la reintegrazione per equivalente è pertanto ammessa non già in relazione all’interesse positivo, corrispondente all’utile che si sarebbe ottenuto dall’esecuzione del contratto, riconosciuto invece nella responsabilità da inadempimento, ma all’interesse negativo, con il quale sono ristorate le spese sostenute per le trattative contrattuali e la perdita di occasioni contrattuali alternative, secondo la dicotomia ex art. 1223 cod. civ. danno emergente – lucro cessante.

Il Consiglio di Stato osserva che, se applicata all’evidenza pubblica, la responsabilità precontrattuale sottopone l’amministrazione alla duplice soggezione alla legittimità amministrativa e agli obblighi di comportamento secondo correttezza e buona fede, i quali costituiscono profili tra loro autonomi e da cui può rispettivamente derivare l’annullamento degli atti adottati nella procedura di gara e le responsabilità per la sua conduzione.

Ancora, il Collegio evidenzia come nei rapporti di diritto civile, affinché un affidamento sia legittimo occorre che esso sia fondato su un livello di definizione delle trattative tale per cui la conclusione del contratto, di cui sono già stati fissati gli elementi essenziali, può essere considerata come uno sbocco prevedibile, e rispetto al quale il recesso dalle trattative, in linea di principio libero, risulti invece ingiustificato sul piano oggettivo e integrante una condotta contraria al dovere di buona fede ex art. 1337 cod. civ.

Analogamente, la Plenaria evidenzia come nei rapporti fra privato e pubblica amministrazione, l’affidamento sia legittimo quando sia stata pronunciata l’aggiudicazione definitiva, cui non abbia poi fatto seguito la stipula del contratto, ed ancorché ciò sia avvenuto nel legittimo esercizio dei poteri della stazione appaltante. L’Adunanza Plenaria è risoluta nell’affermare che l’aggiudicazione è il punto di emersione dell’affidamento ragionevole, tutelabile pertanto con il rimedio della responsabilità precontrattuale: il recesso ingiustificato assume i connotati provvedimentali tipici della revoca o dell’annullamento d’ufficio della gara, che interviene a vanificare l’aspettativa dell’aggiudicatario alla stipula del contratto e che, pur legittimo, non vale quindi ad esonerare l’amministrazione da responsabilità per avere inutilmente condotto una procedura di gara fino all’atto conclusivo ed avere così ingenerato e fatto maturare il convincimento della sua positiva conclusione con la stipula del contratto d’appalto.

Pur tuttavia, l’Adunanza Plenaria ritiene anche condivisibile l’orientamento della giurisprudenza amministrativa che ha negato rilievo dirimente all’intervenuta aggiudicazione definitiva, laddove ha in particolare affermato che la verifica di un affidamento ragionevole sulla conclusione positiva della procedura di gara vada svolta in concreto (viene ancora citata, sul punto, la sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, 4 maggio 2018, n. 5, secondo cui la responsabilità precontrattuale può insorgere «anche prima dell’aggiudicazione e possa derivare non solo da comportamenti anteriori al bando, ma anche da qualsiasi comportamento successivo che risulti contrario, all’esito di una verifica da condurre necessariamente in concreto, ai più volte richiamati doveri di correttezza e buona fede»).

Il Collegio, poi, dopo aver individuato un primo requisito dell’affidamento tutelabile nella sua ragionevolezza e nel correlato carattere ingiustificato del recesso, prosegue tratteggiandone un secondo, consistente nel carattere colposo della condotta dell’amministrazione: la violazione del dovere di correttezza e buona fede deve esserle imputabile quanto meno a colpa, secondo le regole generali valevoli in materia di responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 cod. civ. (ancora richiamando Cons. Stato, Ad. plen., 4 maggio 2018, n. 5).

Viene specificato, inoltre, che a sua volta non deve essere inficiato da colpa l’affidamento del concorrente, richiamando l’art. 1338 cod. civ., il quale assoggetta a responsabilità precontrattuale la «parte che, conoscendo o dovendo conoscere l’esistenza di una causa di invalidità del contratto, non ne ha dato notizia all’altra parte», ed in base al quale viene escluso il risarcimento se la conoscenza di una causa invalidante il contratto è comune ad entrambe le parti che conducono le trattative, poiché nessuna legittima aspettativa di positiva conclusione delle trattative può mai dirsi sorta.

A tal proposito viene rilevato come l’annullamento d’ufficio della procedura di gara, ai sensi dell’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990, opera in modo distinto rispetto alla revoca ai sensi dell’art. 21-quinquies della medesima legge sul procedimento amministrativo, perché interviene non già come rivalutazione dell’interesse pubblico sotteso all’affidamento del contratto, secondo l’ampia definizione del potere di revoca data dalla disposizione da ultimo richiamata, ma per rimuovere un vizio di legittimità degli atti della procedura di gara: se il motivo di illegittimità che ha determinato la stazione appaltante ad annullare in autotutela la gara è conoscibile dal concorrente, la responsabilità della prima deve escludersi.

Ancora, viene osservato che l’elemento della colpevolezza dell’affidamento si modula diversamente nel caso in cui l’annullamento dell’aggiudicazione non sia disposto d’ufficio dall’amministrazione ma in sede giurisdizionale. In questo secondo caso emergono i caratteri di specialità del diritto amministrativo rispetto al diritto comune, tra cui la centralità che nel primo assume la tutela costitutiva di annullamento degli atti amministrativi illegittimi, contraddistinta dal fatto che il beneficiario di questi assume la qualità di controinteressato nel relativo giudizio. Con l’esercizio dell’azione di annullamento quest’ultimo è quindi posto nelle condizioni di conoscere la possibile illegittimità del provvedimento a sé favorevole, entro il ristretto arco temporale dato dal termine di decadenza entro cui ai sensi dell’art. 29 cod. proc. amm. l’azione deve essere proposta, e di difenderlo. La situazione che viene così a crearsi induce per un verso ad escludere un affidamento incolpevole, dal momento che l’annullamento dell’atto per effetto dell’accoglimento del ricorso diviene un’evenienza non imprevedibile, di cui il destinatario non può non tenere conto ed addirittura da questo avversata allorché deve resistere all’altrui ricorso; per altro verso, porta ad ipotizzare un affidamento tutelabile solo prima della notifica dell’atto introduttivo del giudizio.

L’Adunanza Plenaria, in definitiva, sulla questione esaminata, afferma il seguente principio di diritto: «nel settore delle procedure di affidamento di contratti pubblici la responsabilità precontrattuale dell’amministrazione, derivante dalla violazione imputabile a sua colpa dei canoni generali di correttezza e buona fede, postula che il concorrente abbia maturato un ragionevole affidamento nella stipula del contratto, da valutare in relazione al grado di sviluppo della procedura, e che questo affidamento non sia a sua volta inficiato da colpa».