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Anno XVI - n. 09 - Settembre 2024

  Tributario



Osservatorio sulla Giurisprudenza Tributaria aggiornato al 31 luglio 2017. A cura di Giuseppe Lonero

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  • Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza n. 13913 del 05 giugno 2017: in tema di riscossione ed espropriazione forzata nell’ipotesi di atto di pignoramento non preceduto da notifica della cartella di pagamento ed individuazione del giudice competente

    La Corte di Cassazione si pronuncia in tema di nullità dell’atto di pignoramento a causa dell’omissione della notifica della cartella di pagamento o di un altro atto presupposto da parte dell’Amministrazione finanziaria.

    Il caso de quo prende le mosse dall’impugnazione, avanti la CTP, di un verbale di pignoramento mobiliare eseguito dall’agente della riscossione in relazione a carichi di natura sia tributaria che non tributaria, nei confronti di una società contribuente.

    L’anzidetta contribuente impugna tale atto di pignoramento, lamentando l’omessa previa notificazione dei titoli esecutivi posti a fondamento del pignoramento con la conseguenziale inefficacia del titolo esecutivo azionato. In particolare, la CTR sostiene che il pignoramento costituisce il primo atto di manifestazione esterna della pretesa tributaria e pertanto, nella specie, il controllo giudiziale si risolve nel controllo delle cartelle di pagamento, configurabili come atti di riscossione delle pretese tributarie. La cognizione dell’impugnazione del pignoramento deve essere devoluta, secondo la CTR, alla giurisdizione del giudice tributario, in conformità ai dettami delle Sezioni Unite (Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza n. 14667 del 2011 e Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza n. 5994 del 2012).

    Contro tale pronuncia, l’Agente della riscossione propone ricorso per cassazione.

    La principale quaestio esaminata dalle Sezioni Unite riguarda l’individuazione della cognizione del giudice, ordinario o tributario, a decidere nell’ipotesi di opposizione proposta avverso un atto di pignoramento effettuato in forza di crediti tributari ed in forza della dedotta mancata o invalida previa notificazione della cartella di pagamento recante la pretesa creditoria.

    Le Sezioni Unite fondano la propria decisione sulla base di un quadro normativo abbastanza complesso ed articolato: art. 2 del D. Lgs. n. 546 del 1992, il quale attribuisce alle Commissioni tributarie, per i giudizi di merito, la giurisdizione in materia tributaria, fatta eccezione le controversie concernenti gli atti di esecuzione forzata tributaria successivi alla notificazione della cartella di pagamento e dell’avviso di cui all’art. 50 del D.P.R. n. 602 del 1973 (il quale sancisce che: “Il concessionario procede ad espropriazione forzata quando è inutilmente decorso il termine di sessanta giorni dalla notificazione della cartella di pagamento, salve le disposizioni relative alla dilazione ed alla sospensione del pagamento. Se l'espropriazione non è iniziata entro un anno dalla notifica della cartella di pagamento, l'espropriazione stessa deve essere preceduta dalla notifica, da effettuarsi con le modalità previste dall'articolo 26, di un avviso che contiene l'intimazione ad adempiere l'obbligo risultante dal ruolo entro cinque giorni. L'avviso di cui al comma 2 è redatto in conformità al modello approvato con decreto del Ministero delle finanze e perde efficacia trascorsi centottanta giorni dalla data della notifica.”); art. 19 del D.P.R. n. 546 del 1992, il quale prevede un ampio elenco di atti impugnabili avanti le Commissioni tributarie; art. 49, comma 2, del D.P.R. n. 602 del 1973, secondo il quale il procedimento di espropriazione forzata nell’esecuzione tributaria è regolato “dalle norme ordinarie applicabili in rapporto al bene oggetto di esecuzione”; art. 57 del D.P.R. n. 546 del 1992, ove si prevede che non sono ammesse né le opposizioni disciplinate dall’art. 615 c.p.c. né quelle regolamentate dall’art. 617 c.p.c., relative alla regolarità formale ed alla notificazione del titolo esecutivo ed infine l’art. 9, comma 2, c.p.c., che attribuisce al Tribunale la competenza esclusiva delle cause in materia di imposte e tasse.

    Alla luce di tale articolato quadro normativo, i giudici delle Sezioni Unite affermano che: “1) le cause concernenti il titolo esecutivo, in relazione al diritto di procedere ad esecuzione forzata tributaria, si propongono davanti al giudice tributario (D. Lgs. n. 546 del 1992, art. 2, comma 1 secondo periodo; art. 9 c.p.c., comma 2); 2) le opposizioni all’esecuzione di cui all’art. 615 c.p.c. concernenti la pignorabilità dei beni si propongono davanti al giudice ordinario (art. 9 c.p.c., comma 2); 3) le opposizioni agli atti esecutivi di cui all’art. 617 c.p.c., ove siano diverse da quelle concernenti la regolarità formale e la notificazione del titolo esecutivo, si propongono al giudice ordinario (art. 9 c.p.c., comma 2); 4) le opposizioni di terzo all’esecuzione di cui all’art. 619 c.p.c. si propongono al giudice ordinario (D. Lgs. n. 546 del 1992, art. 58; art. 9 c.p.c., comma 2)”.

    In merito alla problematica legata all’individuazione del giudice davanti al quale proporre l’opposizione agli atti esecutivi nell’ipotesi in cui abbia come oggetto la regolarità formale o la notificazione del titolo esecutivo e, in particolare, ove il contribuente, in occasione del primo atto di esecuzione, deduca di non aver mai ricevuto in precedenza la notificazione del titolo esecutivo.

    Le Sezioni Unite risolvono tale quaestio, esaminando i due opposti orientamenti giurisprudenziali.

    Il primo orientamento (sostenuto dalla Corte di Cass., Sezioni Unite, sent. n. 14667 del 2011 e Corte Cass., sez. V, sent. n. 24915 del 2016) ritiene che l’opposizione agli atti esecutivi riguardante un atto di pignoramento, che il contribuente assume essere viziato da nullità derivata dall’omessa notificazione degli atti presupposti, deve essere proposta avanti il giudice tributario.

    Il secondo orientamento (sostenuto dalla Corte di Cass., Sezioni Unite, sentenza n. 21690 del 2016; Corte di Cass., Sezioni Unite, sentenza n. 8618 del 2015; Corte di Cass., sez. III, sentenza n. 9246 del 2015 e Corte di Cass., sez. III, sentenza n. 24235 del 2015) sostiene invece che l’opposizione agli atti esecutivi riguardante un atto di pignoramento, che il contribuente assume essere viziato da nullità derivata dall’omessa notificazione degli atti presupposti, deve essere proposta avanti al giudice ordinario ai sensi dell’art. 57 del D.P.R. n. 602 del 1973 ed ai sensi dell’art. 9 c.p.c. e dell’art. 617 c.p.c., in quanto la giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria quando l’atto impugnato di natura tributaria risulta essere emesso in data successiva alla cartella di pagamento.

    Le Sezioni Unite risolvono tale contrasto giurisprudenziale, manifestando la propria preferenza verso il primo orientamento, motivando la propria scelta sia dal punto di vista dell’interpretazione letterale della norma che dal punto di vista sistemico.

    In merito al primo aspetto, le Sezioni Unite osservano che l’art. 2, comma 1, del D. Lgs. 546 del 1992 traccia un chiaro discrimine tra la giurisdizione tributaria ed ordinaria nell’ipotesi della notificazione della cartella di pagamento: prima della predetta notifica, la competenza è devoluta al giudice tributario; successivamente alla notificazione della cartella di pagamento, la competenza è devoluta al giudice ordinario.

    Alla luce delle predette considerazioni, le Sezioni Unite ritengono pertanto che: “Ne deriva che l’impugnazione di un atto dell’esecuzione forzata tributaria (come il pignoramento effettuato in base a crediti tributari) che il contribuente assume essere invalido perché non preceduto dalla suddetta notificazione integra una opposizione ai sensi dell’art. 617 c.p.c. nella quale si fa valere una nullità “derivata” dell’atto espropriativo (…) e che è devoluta alla cognizione del giudice tributario, proprio perchè si situa (…) prima della notificazione in discorso. In questa prospettiva, ai fini della giurisdizione, non ha importanza se, in punto di fatto, la cartella (o un altro degli atti equipollenti richiesti dalla legge) sia stata o no effettivamente notificata: il punto attiene al merito e la giurisdizione non può farsi dipendere dal raggiungimento della prova della notificazione e, quindi, secundum eventum. Rileva invece, ai fini indicati, il dedotto vizio dell’atto di pignoramento (mancata notificazione della cartella) e non la natura, propria di questo, di primo atto dell’espropriazione forzata (art. 491 c.p.c.).” 

    In merito all’aspetto sistemico, le Sezioni Unite sostengono che, nell’ipotesi in cui, l’atto di pignoramento non viene preceduto dalla notifica della cartella di pagamento integra il primo atto, mediante il quale si manifesta al contribuente la volontà di procedere alla riscossione di un credito tributario e pertanto, esso rientra nell’ambito degli atti impugnabili davanti al giudice tributario in forza dell’art. 19 del D. Lgs. n. 546 del 1992. 

    In conclusione, i giudici delle Sezioni Unite emanano il seguente principio di diritto: “in materia di esecuzione forzata tributaria, l’opposizione agli atti esecutivi riguardante l’atto di pignoramento, che si assume viziato per l’omessa o invalida notificazione della cartella di pagamento (o degli altri atti presupposti dal pignoramento), è ammissibile e va proposta – ai sensi del D. Lgs. n. 546 del 1992, art. 2, comma 1, secondo periodo, art. 19, D.P.R. n. 602 del 1973, art. 57 e art. 617 cod. proc. civ. – davanti al giudice tributario”.

  • Corte di Cassazione, sez. trib., sentenza n. 14065 del 07 giugno 2017: in tema di processo tributario, notifica del ricorso a mezzo raccomandata postale on line sottoscritta mediante uso dello scanner e relative problematiche legate alla irregolarità formale

    In occasione della sentenza n. 14065 del 2017, giudici di legittimità si pronunciano in merito ad una diffusa problematica procedurale, legata all’ipotesi in cui il ricorso in materia tributaria venga spedito mediante invio della raccomandata on line con sottoscrizione in originale, in formato PDF criptato ed immodificabile.

    La vicenda processuale trae origine da un ricorso proposto da una contribuente avverso il diniego di rimborso a titolo IRPEF relativo all’anno d’imposta 2004.

    Il giudice di secondo grado ribadisce, nella motivazione della sentenza, l’inosservanza da parte della contribuente degli artt.16, 18 e 20 del D. Lgs. n. 546 del 1992, relativamente ai requisiti per la proposizione del ricorso in materia tributaria, sostenendo che il ricorso introduttivo del giudizio si presenta inficiato da irregolarità formale, essendo spedito mediante invio di raccomandata on line con sottoscrizione in originale, in formato PDF criptato ed immodificabile; rilevando, inoltre, che il predetto ricorso è anche tardivo, perché pervenuto oltre il termine ex lege e privo della sottoscrizione autografa.

    Avverso tale decisione, la contribuente propone ricorso per cassazione.

    I giudici della Consulta motivano la propria decisione sulla base dell’esame e dell’interpretazione dell’art. 18 e dell’art. 22 del D. Lgs. n. 546 del 1992.

    L’art. 18 del citato Decreto Legislativo sancisce che: “Il processo è introdotto con ricorso alla Commissione Tributaria provinciale. Il ricorso deve contenere l'indicazione: a) della Commissione Tributaria cui è diretto; b) del ricorrente e del suo legale rappresentante, della relativa residenza o sede legale o del domicilio eventualmente eletto nel territorio dello Stato, nonché del codice fiscale; c) dell'ufficio del Ministero delle finanze o dell'ente locale o del concessionario del servizio di riscossione nei cui confronti il ricorso è proposto; d) dell'atto impugnato e dell'oggetto della domanda; e) dei motivi. Il ricorso deve essere sottoscritto dal difensore del ricorrente e contenere l'indicazione dell'incarico a norma dell'articolo 12, comma 3, salvo che il ricorso non sia sottoscritto personalmente, nel qual caso vale quanto disposto dall'articolo 12, comma 5. La sottoscrizione del difensore o della parte deve essere apposta tanto nell'originale quanto nelle copie del ricorso destinate alle altre parti, fatto salvo quanto previsto dall'articolo 14, comma 2. Il ricorso è inammissibile se manca o è assolutamente incerta una delle indicazioni di cui al comma 2, ad eccezione di quella relativa al codice fiscale, o se non è sottoscritto a norma del comma precedente.”

    L’art. 22 del D. Lgs. n. 546 del 1992 stabilisce invece che: “Il ricorrente, entro trenta giorni dalla proposizione del ricorso, a pena d'inammissibilità deposita, nella segreteria della Commissione Tributaria adita, l'originale del ricorso notificato a norma degli articoli 137 e seguenti del codice di procedura civile ovvero copia del ricorso consegnato o spedito per posta, con fotocopia della ricevuta di deposito o della spedizione per raccomandata a mezzo del servizio postale. L'inammissibilità del ricorso è rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado del giudizio, anche se la parte resistente si costituisce a norma dell'articolo seguente. In caso di consegna o spedizione a mezzo di servizio postale la conformità dell'atto depositato a quello consegnato o spedito è attestata conforme dallo stesso ricorrente. Se l'atto depositato nella segreteria della Commissione non è conforme a quello consegnato o spedito alla parte nei cui confronti il ricorso è proposto, il ricorso è inammissibile e si applica il comma precedente. Unitamente al ricorso e ai documenti previsti al comma 1, il ricorrente deposita il proprio fascicolo, con l'originale o la fotocopia dell'atto impugnato, se notificato, ed i documenti che produce, in originale o fotocopia. Ove sorgano contestazioni il giudice tributario ordina l'esibizione degli originali degli atti e documenti di cui ai precedenti commi.”

    In primo luogo, gli Ermellini sostengono la decisione di secondo grado in merito l’inammissibilità del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado in quanto è stato notificato, a mezzo posta, in copia cartacea, costituente fotocopia mediante scansione digitale e senza l’apposizione di autografia in originale, quale elemento richiesto ad substantiam per la valida formazione ex lege dell’atto.

    Il predetto art. 18, commi 3 e 4, del D. Lgs. n. 546 del 1992 prevede, a pena di inammissibilità, che: “La sottoscrizione del difensore o della parte deve essere apposta tanto nell'originale quanto nelle copie del ricorso destinate alle altre parti, fatto salvo quanto previsto dall'articolo 14, comma 2.”

    Secondo un primo risalente orientamento giurisprudenziale, il ricorso, proposto mediante servizio postale, deve contenere la sottoscrizione dell’autore del ricorso nella copia depositata con la costituzione in giudizio, indipendentemente dall’ipotesi in cui la controparte contesti la sottoscrizione dell’originale.

    Gli Ermellini, nonostante decidano di conformarsi a tale orientamento, rilevano che il caso di specie esaminato sia diverso in quanto trattasi di copia notificata all’Agenzia delle Entrate e non depositata in presso la Segreteria della Commissione Tributaria Provinciale. In tale caso, i giudici di legittimità sostengono che si tratti di un caso di mera irregolarità e non, di inammissibilità del ricorso.

    Tale orientamento è anche coerente con quanto previsto dall’art. 22, comma 2, del D. Lgs. n. 546 del 1992, in quanto sancisce che la sanzione della inammissibilità non può trovare applicazione qualora un esemplare dell’atto introduttivo rechi la firma autografa dell’autore, in quanto il resistente è sempre nella condizione di poter verificare la sussistenza o meno della sottoscrizione sull’originale prima della propria costituzione in giudizio.

    Infine, i giudici della Corte sostengono che sia applicabile, nel caso in esame, un altro principio ormai pacifico in giurisprudenza, secondo il quale “l’inversione dello schema procedimentale delineato dall’art. 22, comma 1, del D. Lgs. n. 546 del 1992 con la notifica della copia dell’atto ed il deposito nella segreteria della Commissione tributaria dell’originale, comporta una mera irregolarità e non già una inammissibilità.

  • Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza n. 14648 del 13 giugno 2017: in tema di prescrizione dei crediti tributari ed individuazione del giudice competente

    Le Sezioni Unite si pronunciano, con la sentenza n. 14648 del 2017, in tema di prescrizione dei crediti tributari ed in tema d’individuazione del giudice competente a conoscere della causa.

    La vicenda esaminata prende le mosse dall’esclusione dallo stato passivo di alcuni crediti vantati dall’Agente della Riscossione nei confronti di alcuni soggetti, dichiarati falliti in epoca successiva.

    In particolare, il Tribunale respinge l’eccezione di difetto di giurisdizione a conoscere dell’eccezione sollevata dal curatore del fallimento, in merito alla prescrizione dei crediti tributari dopo la notifica della cartella, sostenendo che, ai sensi dell’art. 2 del D. Lgs. n. 546 del 1992, la competenza giurisdizionale del giudice tributario si esaurisce insieme ed in conseguenza della sopravvenuta incontrovertibilità della pretesa, che si determina con la notifica della cartella non seguita da impugnazione.

    Il predetto Decidente ritiene, inoltre, non provata la notificazione della cartella ovvero dell’intimazione di pagamento, alla stregua della mera distinta di accettazione dell’Ufficio Postale peraltro priva dell’indicazione dell’indirizzo di destinazione della raccomandata e che il credito tributario a seguito della notifica della cartella esattoriale è soggetto alla prescrizione breve prevista per il singolo tributo e non a quella decennale.

    Il Tribunale decide favorevolmente nei confronti del fallimento, ritenendo che è avvenuta la prescrizione dei crediti erariali, da calcolarsi nei cinque anni e non nei dieci anni.

    L’Agente della Riscossione propone pertanto ricorso per Cassazione, sostenendo, fra i quattro motivi di ricorso, che la competenza a conoscere dei crediti tributari e dell’eventuale prescrizione spetti al giudice tributario e che il termine prescrizionale sia quello decennale.

    Le Sezioni Unite fanno luce sulla quaestio iuris ricostruendo il quadro normativo applicabile, mediante un breve excursus giurisprudenziale tra le massime di maggior rilievo delle Sezioni Unite.

    Con sentenza n. 23832 del 19 novembre 2007, le Sezioni Unite si pronunciano sul tema controverso: “Il problema che più specificamente si poneva nel caso di specie concerneva, tuttavia, il fatto se la limitazione della materia del contendere alla eccepita prescrizione del credito potesse determinare la sottrazione della controversia stessa alla giurisdizione del giudice tributario, legittimandone la cognizione da parte del giudice ordinario. Si tratta di un quesito cui si deve rispondere negativamente, in quanto, facendosi valere mediante l'eccezione di prescrizione, un fatto estintivo dell'obbligazione tributaria, conoscere della causa spetta al giudice che abbia giurisdizione in merito a tale obbligazione. Ma siffatta considerazione non basta ad esaurire l'esame della questione, dato che nella specie il fatto estintivo opposto è sopravvenuto alla formazione del titolo esecutivo (la cartella esattoriale), tenuto conto che la disposizione di cui al già ricordato Decreto Legislativo n. 546 del 1992 articolo 2 nella formulazione tuttora vigente, sottrae alla esclusiva giurisdizione del giudice tributario "le controversie riguardanti gli atti della esecuzione forzata tributaria successivi alla notifica della cartella di pagamento e, ove, previsto, dell'avviso di cui al Decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602 articolo 50 per le quali continuano ad applicarsi le disposizioni del medesimo decreto del Presidente della Repubblica". Si tratta, pertanto, di accertare se il "sollecito di pagamento" inviato al contribuente, e dallo stesso impugnato innanzi al Giudice di pace di Catania, possa essere classificato tra gli atti della esecuzione forzata tributaria sui quali difetta la giurisdizione del Giudice tributario. La classificabilità dell'atto fatto oggetto di impugnazione del presente giudizio tra gli "atti dell'esecuzione forzata" deve essere escluso. Il "sollecito di pagamento" ricevuto dal contribuente e che ha dato inizio alla controversia in esame, è certamente atto che precede l'esecuzione, potendo lo stesso essere assimilato, al di là dell'ininfluente differenza di denominazione, all'avviso previsto dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 602 del 1973 articolo 50 comma 2, per l'ipotesi che l'espropriazione non sia iniziata entro un anno dalla notifica della cartella di pagamento: avviso - comunemente denominato "avviso di mora" - la cui impugnabilità innanzi alle commissioni tributarie è esplicitamente prevista dal Decreto Legislativo n. 546 del 1992 articolo 19 comma 1. Esigenze imprescindibili di tutela del contribuente impongono, infatti, di includere tra gli atti autonomamente impugnabili, innanzi al giudice tributario, tutti quegli atti che, pur essendo "atipici" in relazione ad una diversa denominazione ad essi attribuita dall'amministrazione finanziaria, abbiano, comunque, la stessa sostanza e svolgano la medesima funzione degli atti tipizzati nell'elenco della richiamata norma di rito: in questo senso devono trovare conferma i risultati ai quali è pervenuta la giurisprudenza della Corte in ordine ad atti innominati concernenti diversi tributi (cfr. Cass. n. 22869 del 2004, in tema di TOSAP, e n. 22015 del 2006, in tema di tributi doganali).

    Ed ancora, in anni successivi le Sezioni Unite si pronunciano, in occasione di un caso di specie simile a quello in commento ovvero, in tema di materia concorsuale, sostenendo che nella procedura fallimentare vigono il divieto di azioni esecutive individuali, ex art. 51 legge fall., ed il concorso e l’accertamento dei crediti dei crediti ex art. 52, ne consegue che esclusa la riscossione dei crediti tributari portati dai ruoli secondo le regole ordinarie della esecuzione esattoriale, automaticamente devono ritenersi rientranti nella giurisdizione del giudice delegato in sede di verifica dei crediti o del tribunale in sede di opposizione allo stato passivo e di insinuazione tardiva, le controversie riguardanti i fatti estintivi dell’obbligazione tributaria sopravvenuti alla formazione del titolo.

    Alla luce dei predetti orientamenti, le Sezioni Unite emanano il seguente principio di diritto: “Ove in sede di ammissione al passivo sia eccepita dal curatore la prescrizione dei crediti tributari successivamente alla notifica della cartella di pagamento, la giurisdizione sulla controversia spetta al giudice tributario, da ciò conseguendo in sede fallimentare l’ammissione con riserva del credito in oggetto.

  • Corte di Cassazione, sezione tributaria, sentenza n. 15003 del 16 giugno 2017: in tema di accertamenti fondati sulle indagini bancarie ed onere del contribuente di giustificare la provenienza e la destinazione dei movimenti sui conti correnti

    La Corte di Cassazione viene adita al fine di pronunciarsi in tema di accertamenti fondati sulle indagini bancarie ed in tema di onere della prova a carico del contribuente, mirante a giustificare la provenienza e la destinazione delle movimentazioni sui conti correnti bancari.

    I fatti di causa. Una società contribuente propone avverso un avviso di accertamento concernente l’IRES, l’IRAP e l’IVA dell’anno 2004. La CTP rigetta il predetto ricorso, ritenendo che manca l’allegazione al ricorso della perizia redatta in sede penale e che la contribuente non ha raggiunto la prova sulla provenienza e sulla destinazione delle somme sui propri conti correnti.

    La contribuente propone appello avverso la decisione di primo grado. La CTR statuisce che la società contribuente non ha soddisfatto l’onere della prova, come sancito dall’art. 32, n. 7, del D.P.R. n. 600 del 1973 e che l’avviso di accertamento risulta essere motivato in quanto rinvia al pvc, già notificato alla contribuente e che il metodo analitico induttivo, adottato come metodo di accertamento, risulta corretto ai sensi dell’art. 32 del D.P.R. n. 600 del 1973.

    Avverso tale decisione, la società contribuente propone ricorso per cassazione.

    In primo luogo, gli Ermellini ritengono, come emerge dalle allegazioni dei fatti di causa, che la contribuente ha prodotto in giudizio dei documenti generici che impediscono al Decidente di poter valutare la decisività dei dati emergenti dai predetti documenti ed in particolare, la Suprema Corte rileva che la contribuente “si è invece limitata ad elencare nel ricorso, in relazione ai documenti prodotti nei giudizi di merito, alcune astratte ragioni delle operazioni bancarie senza precisare se dai suddetti documenti emergessero: a) la distinzione tra i conti correnti in esame; b) i titoli giustificativi (salva l'indicazione, in qualche caso, di alcune fatture) delle movimentazioni; c) un raffronto tra i dati addotti e le risultanze contabili; d) una riconciliazione documentata e analitica tra le risultanze contabili e le singole operazioni; e) adeguati dettagli sugli importi che sarebbero stati a suo avviso complessivamente giustificati (secondo la ricorrente: su un totale di versamenti di Euro 39.286,64 erano stati giustificati analiticamente Euro 34.286,64; su un totale di prelevamenti di 36.914,72 erano stati giustificati analiticamente Euro 15.970,52; in base al prospetto di conciliazione erano stati giustificati prelevamenti per Euro 18.338,85 e versamenti per Euro 34.286,90; per il conto intestato all'amministratore erano stati giustificati prelevamenti per Euro 61.277,60 e versamenti per Euro 55.010,27). La genericità di tali elementi, quali esposti nel ricorso, impedisce di valutare la decisività dei dati emergenti dai documenti (alcuni elementi riportati nel ricorso sembrano addirittura riferirsi proprio all'attività della contribuente) ed evidenzia che, con tale censura, la ricorrente intende proporre una inammissibile revisione delle valutazioni di merito effettuate dalla CTR, che restano insindacabili in sede di giudizio di legittimità, data la mancanza di vizi logici.

    In merito alla doglianza da parte della contribuente, fondata sulla violazione o falsa applicazione degli artt. 2729 e 2697 c.c., del principio praesumptum de praesumpto non admittitur, sancito dall’art. 32 del D.P.R. n. 600 del 1973 dell’art. 51 del D.P.R. n. 633 del 1972, la CTR ritiene che sulla contribuente ricade l’onere della prova delle movimentazioni sul proprio conto corrente bancario.

    La Suprema Corte reputa che anche tale motivo di ricorso, proposto dalla contribuente, deve essere dichiarato inammissibile sulla base delle seguenti motivazioni.

    In primo luogo, il principio del praesumptum de praesumpto non admittitur, ossia il divieto di doppie presunzioni, deve ritenersi non esistente nel nostro ordinamento giuridico. I giudici della Corte, riprendendo un orientamento consolidato in dottrina ed in giurisprudenza, ritengono che “il fatto noto accertato in base ad una o più presunzioni (anche non legali), purchè “gravi, precise e concordanti”, ai sensi dell’art. 2729 c.c., può legittimamente costituire la premessa di una ulteriore inferenza presuntiva idonea – in quanto, a sua volta adeguata – a fondare l’accertamento del fatto ignoto”.

    Gli Ermellini sostengono anche che qualora si volesse protendere per la tesi, secondo la quale esista nel nostro ordinamento il riconoscimento di tale divieto di doppia presunzione, dovrebbe essere interpretata come presunzione semplice correlata ad altra presunzione semplice, ma non ad una presunzione legale e pertanto, non ricorre nell’ipotesi in cui l’Amministrazione finanziaria proceda all’accertamento fiscale sulla base dei proventi desumibili dalle indagini su conti correnti bancari ai sensi e per gli effetti dell’art. 32 del D.P.R. n. 600 del 1973 e dell’art. 51 del D.P.R. n. 633 del 1972.

    Nello specifico, gli Ermellini osservano che, in tema di indagini bancarie, l’art. 32 del D.P.R. n. 600 del 1973 prevede una presunzione relativa a carico del contribuente assoggettato alle indagini bancarie sia nei confronti del contribuente medesimo sia nei confronti dei soggetti per i quali è ipotizzabile che abbiano messo il loro conto a disposizione del contribuente, come ad esempio amministratori, soci, congiunti o terzi che intrattengano particolari rapporti di cointeressenza, rappresentanza organica e similari.

    Infine, i giudici della Corte sostengono che sussista una presunzione nei confronti della società sulla base delle risultanze dei conti correnti bancari dei soci e dei loro congiunti, qualora la predetta società vanti una ristretta base partecipativa.