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Anno XVI - n. 12 - Dicembre 2024

  Giurisprudenza Civile



Sulla non perentorietà del termine di quindici giorni disposto dal giudice per dar corso alla mediazione delegata e sull’onere di promuovere la procedura di mediazione nelle materie sottoposte a mediazione obbligatoria, i cui giudizi vengano introdotti con decreto ingiuntivo

Di Giuseppe Lonero
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Corte di Cassazione, sez. III, ordinanza 14 febbraio 2024, n. 4133,

Sulla non perentorietà del termine di quindici giorni disposto dal giudice per dar corso alla mediazione delegata e sull’onere di promuovere la procedura di mediazione nelle materie sottoposte a mediazione obbligatoria, i cui giudizi vengano introdotti con decreto ingiuntivo

 

Di Giuseppe Lonero

Riferimenti normativi: artt. 5, d.lgs. 28/2010

Principi di diritto:

  1. a) Non è perentorio il termine di quindici giorni disposto dal giudice per dar corso alla mediazione delegata; è soddisfatta la condizione di procedibilità di cui all’art. 5 del d.lgs. n. 28/2010 se, entro l'udienza di rinvio fissata dal giudice, vi sia stato il primo incontro delle parti innanzi al mediatore conclusosi senza l'accordo
  2. b) Nelle materie sottoposte a mediazione obbligatoria, i cui giudizi vengano introdotti con decreto ingiuntivo, una volta instaurato il relativo giudizio di opposizione e decise le istanze di concessione o sospensione del decreto, l’onere di promuovere la procedura di mediazione è a carico della parte opposta, ove questa non si attivi alla pronuncia di improcedibilità deve conseguire la revoca del decreto ingiuntivo opposto, tale principio dovrebbe trovare applicazione anche nelle ipotesi di mediazione delegata, perché l’art. 5, comma 2, d.lgs. n. 28/2010 fa salvo quanto previsto dal comma 1 bis

 

I fatti oggetto di causa vedono la dichiarazione da parte del Tribunale di primo grado di improcedibilità dell’opposizione promossa dagli eredi avverso il decreto ingiuntivo per una somma dovuta a titolo di penale contrattuale per l’ingiustificato recesso dal contratto di spandimento fanghi di depurazione agricola; segnatamente, il Tribunale riteneva non rispettato il termine di quindici giorni assegnato con ordinanza, per il deposito dell’istanza di avvio della mediazione delegata.

La Corte d’appello, investita del gravame, ha accolto l’impugnazione principale, ha, quindi, revocato il decreto ingiuntivo, ha rigettato la domanda degli eredi di condanna ex art. 96 cod.proc.civ. ha respinto l’appello incidentale di quest’ultimo ed ha regolato le spese di lite, secondo il principio della soccombenza; segnatamente la Corte d’appello ha ritenuto non corretta la statuizione del Tribunale che aveva dichiarato improcedibile la opposizione al decreto ingiuntivo in ragione del fatto che era stata proposta tardivamente, rispetto al termine di 15 giorni assegnato, l’istanza ad un organismo di mediazione abilitato, in quanto: a) il termine di 15 giorni era ordinatorio, ai sensi dell’art. 152 cod.proc.civ.; b) per l’avveramento della condizione di procedibilità non bastava che il termine ordinatorio non fosse stato rispettato, occorrendo che il primo intervento di mediazione non avesse avuto luogo prima della data dell’udienza di rinvio; c) l’istanza del 4 marzo di revoca dell’avvio della mediazione avrebbe potuto essere interpretata come istanza di proroga del termine ordinatorio, ex art. 154 cod.proc.civ.; ha ritenuto che non meritasse accoglimento l’eccezione di incompetenza del Tribunale di primo grado, basata sull’inefficacia, ex art. 1341 cod.civ., della clausola derogatoria di cui al contratto, perché non vi erano i presupposti per ritenere applicabile la disciplina relativa alle clausole vessatorie; ha rilevato che: il contratto di spandimento di fanghi da parte di sui terrenti dell’azienda era sottoposto alla condizione sospensiva del rilascio dell’autorizzazione provinciale a cura e spese di detta condizione si era verificata e, quindi, il contratto aveva assunto efficacia; dal 16 novembre 2000 fino al 25 aprile 2001(data del decesso del proprietario dell’azienda non avendo avuto la disponibilità di fanghi da spandere, non aveva subito alcun danno; dopo la morte di questi la autorizzazione provinciale non era stata volturata e pertanto la prestazione non poteva essere più eseguita, con conseguente insussistenza di alcun inadempimento da parte degli eredi non vi era stata la violazione del patto di esclusiva, perché lo spandimento dei fanghi era stato autorizzato a favore di una società di cui era socio insieme con i suoi fratelli; ricorre avverso detta sentenza, formulando quattro motivi.

Con il primo motivo sono denunciate la violazione e falsa applicazione dell’art. 5.2 del d.lgs. n. 28/2010 e dell’art. 12 disp. legge in generale, ai sensi dell’art. 360, 1° comma, n. 3, n. 4 e n. 5, cod.proc.civ. ; secondo il ricorrente, il giudice a quo avrebbe erroneamente applicato la giurisprudenza della Corte di Cassazione relativa all’ipotesi di adempimento dell’iscrizione a ruolo, con la velina in attesa del ritorno dell’originale con la relata di notifica, pervenendo così all’erronea decisione di ritenere il termine assegnato dal giudice non solo ordinatorio, ma anche fungibile con quello di conclusione del procedimento di mediazione.

Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 111 Cos. e degli artt. 125 e 132cod.proc.civ., per motivazione inesistente o meramente apparente, ai sensi dell’art. 360, 1° comma, n. 3 e n. 5, cod.proc.civ.; il giudice a quo avrebbe stravolto il contenuto del provvedimento n. 1064/2005 della Corte di Cassazione, avendo ritenuto ordinatorio il termine di quindici giorni, assegnato con l’ordinanza, senza verificare se la perentorietà, pur non espressamente affermata dal d.lgs. n. 28/2010, non potesse discendere dallo scopo e dalla funzione adempiuta, e senza motivare la ragione per cui ha ritenuto di modificare la statuizione del Tribunale che aveva ritenuto perentorio il termine proprio in via interpretativa, cioè tenendo conto dello scopo e delle funzioni ad esso assegnabili.

Per la Cassazione, i primi due motivi  sono infondati; la stessa Corte ha già affrontato questa specifica questione con la pronuncia n. 40035 del 14/12/2021, negando carattere di perentorietà al termine di quindici giorni disposto dal giudice per dar corso alla mediazione delegata e ritenendo soddisfatta la condizione di procedibilità di cui all’art. 5 del d.lgs. n. 28/2010 se, entro l'udienza di rinvio fissata dal giudice, vi sia stato il primo incontro delle parti innanzi al mediatore e conclusosi senza l'accordo; tale conclusione che il Collegio condivide e intende ribadire si basa sul rilievo che deve essere attribuito al tenore letterale della prescrizione di cui all’art. 5, comma 2 bis, del d.lgs. n. 28/2010, a mente del quale "quando l'esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale la condizione si considera avverata se il primo incontro dinanzi al mediatore si conclude senza l'accordo"; ciò, per il Collegio, è segno che il legislatore non ha collegato la dichiarazione di improcedibilità al mancato rispetto del termine di presentazione della domanda, bensì al solo evento dell'esperimento del procedimento di mediazione;. Per il Collegio, tale lettura – come già chiarito dalla Corte – risulta: i) “coerente con la riconosciuta natura non perentoria del termine di quindici giorni, fissato dal giudice ai sensi del D.Lgs. n. 28 del 2010, art. 5, comma 2, e tale rimasto anche nella disciplina risultata a seguito della riforma legislativa del 2013, che non è intervenuta sul punto”; ii) ha il conforto dell’art. 152, 2° comma, cod.proc.civ. , posto che il termine di quindici giorni non è stato qualificato come perentorio; iii) è confermata dalla necessità che il giudice fissi una successiva udienza tenendo conto della scadenza del termine massimo della durata della mediazione; iv) è compatibile con la ratio legis sottesa alla mediazione obbligatoria ope iudicis, consistente nella ricerca della soluzione migliore possibile per le parti, dato un certo stato di avanzamento della lite e certe sue caratteristiche che poco si concilierebbero con la tesi della natura perentoria del termine, atteso che finirebbe per frustrare l'operatività del generale principio del raggiungimento dello scopo; v) è coerente con il principio della ragionevole durata del processo, perché la verifica all'udienza fissata D.Lgs. n. 28 del 2010, ex art. 5, comma 2, è già ricompresa nell'intervallo temporale delimitato dalla previsione del D.Lgs. n. 28 del 2010, art. 7, a mente del quale "Il periodo di cui all'art. 6 e il periodo del rinvio disposto dal giudice ai sensi dell'art. 5, commi 1-bis e 2, non si computano ai fini di cui della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2".

Con il terzo motivo, il ricorrente imputa alla Corte d’appello la violazione e falsa applicazione degli artt. 111 Cost., 125 e 132 cod.proc.civ., per motivazione inesistente o meramente apparente; attinta da censura è la statuizione con cui la Corte d’Appello ha interpretato l’istanza di revoca dell’invio della mediazione come istanza di proroga chiesta tempestivamente; l’interpretazione attribuitale dal giudice a quo sarebbe errata, secondo il ricorrente, perché contrasterebbe con il tenore letterale dell’istanza da cui era dato evincere che la richiesta degli eredi non era quella di prorogare un termine in scadenza, bensì quella di ottenere una modifica del contenuto dispositivo del provvedimento del giudice.

Per la Cassazione, il terzo motivo è inammissibile e non v’è ragione di scrutinarlo, atteso che il giudice a quo ha enunciato una ratio decidendi ulteriore a sostegno della riforma della pronuncia del Tribunale (Cass. 18/04/2019, n. 18015); l’impugnazione di una sentenza basata, come in questa caso, su più rationes decidendi, deve essere tale da attingerle tutte ed utilmente, giacché se anche una sola delle dette ragioni non formi oggetto di censura, ovvero che sia respinta la censura relativa anche ad una sola delle dette ragioni, non vi è interesse all’impugnazione dell’altra o delle altre; quand’anche le censure mosse ad una delle rationes decidendi dovesse ritenersi fondata l’impugnazione non potrebbe conseguire alcun risultato pratico, restando il provvedimento impugnato autonomamente giustificato dall’altra o dalle altre argomentazioni non efficacemente censurate. (così, ex plurimis, Cass. 11/05/2018, n. 11493 e successiva giurisprudenza conforme).

Con il quarto motivo, il ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione degli artt. 125 e 132 cod.proc.civ., per motivazione inesistente o meramente apparente; la sentenza impugnata non avrebbe dato conto delle ragioni per cui ha escluso che nel periodo di vigenza dell’autorizzazione provinciale - segnatamente dal 17 novembre 2000 al 25 aprile 2001 - avesse subito un danno; avrebbe fatto riferimento a quanto verificato dal CTU e cioè che non aveva la disponibilità di fanghi da spandere, ma lo avrebbe fatto senza considerare le censure mosse all’elaborato del CTU, formulate in primo grado e reiterate nel giudizio di appello.

Per la Cassazione, il motivo non merita accoglimento; le critiche mosse alla CTU di cui il giudice non avrebbe tenuto conto, essendosi limitato a recepire la CTU, per portare alla cassazione della sentenza impugnata devono essere precise, circostanziate e decisive, cioè tali che, se esaminate dal giudice, avrebbero portato ad una statuizione diversa. Il Collegio, sul punto, afferma che nessuna delle ragioni poste a fondamento delle censure mosse al CTU è in grado di incrinare la statuizione della Corte d’Appello.

Proseguendo con l’esame del ricorso incidentale condizionato, con il primo motivo i ricorrenti lamentano la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 112 cod.proc.civ. , in combinato disposto con l’art. 5, comma 1 bis e comma 2, del d.lgs. n. 28/2010, in relazione all’art. 360, 1° comma, n. 4 cod.proc.civ.; secondo i ricorrenti il Tribunale di primo grado non aveva il potere di rilevare e dichiarare l’improcedibilità della domanda giudiziale oltre la prima udienza successiva all’esperimento del procedimento di mediazione obbligatoria.

Con il secondo motivo i ricorrenti imputano alla Corte d’appello di aver violato l’art. 112 cod.proc.civ., in combinato disposto con l’art. 5, comma 1 bis e comma 2, d.lgs. n. 28/2010, in combinato disposto con gli artt. 633 e ss., 640 e 645 cod.proc.civ., in relazione all’art. 360, 1° comma, n. 4, cod.proc.civ.

La Corte di Cassazione rileva che, atteso che la pronuncia della stessa Cassazione, a Sezioni Unite n. 19956/2020 ha enunciato il principio, a mente del quale, nelle materie sottoposte a mediazione obbligatoria, i cui giudizi vengano introdotti con decreto ingiuntivo, una volta instaurato il relativo giudizio di opposizione e decise le istanze di concessione o sospensione del decreto, l’onere di promuovere la procedura di mediazione è a carico della parte opposta, ove questa non si attivi alla pronuncia di improcedibilità deve conseguire la revoca del decreto ingiuntivo opposto, tale principio dovrebbe trovare applicazione anche nelle ipotesi di mediazione delegata, perché l’art. 5, comma 2, d.lgs. n. 28/2010 fa salvo quanto previsto dal comma 1 bis.

In definitiva, la Cassazione rigetta il ricorso principale: ne consegue l’assorbimento del ricorso incidentale condizionato.