ISSN 2039 - 6937  Registrata presso il Tribunale di Catania
Anno XVI - n. 12 - Dicembre 2024

  Giurisprudenza Amministrativa delle Corti Supreme
  A cura di Anna Laura Rum



Per l’Adunanza Plenaria, è inammissibile l’intervento adesivo-dipendente del cointeressato che abbia prestato acquiescenza al provvedimento lesivo ed è inammissibile l’intervento – innanzi alla medesima Adunanza Plenaria ? qualora sia ancora pendente un ricorso innanzi al TAR.

Di Anna Laura Rum
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NOTA A CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, 29 OTTOBRE 2024, N. 15

Per l’Adunanza Plenaria, è inammissibile l’intervento adesivo-dipendente del cointeressato che abbia prestato acquiescenza al provvedimento lesivo ed è inammissibile l’intervento – innanzi alla medesima Adunanza Plenaria ‒ qualora sia ancora pendente un ricorso innanzi al TAR

Di Anna Laura Rum

 

Sommario: 1. I fatti di causa 2. I quesiti sottoposti all’Adunanza Plenaria 3. Le argomentazioni dell’Adunanza Plenaria 3.1 Sulla questione se, in pendenza del secondo grado di un giudizio amministrativo avente per oggetto la legittimità di un atto generale, avente effetti nei confronti di una intera categoria di operatori economici, sia ammissibile l’intervento adesivo-dipendente proposto dal cointeressato, che non abbia impugnato a sua volta il medesimo atto generale e se sia ammissibile, dopo la rimessione della causa all’esame dell’Adunanza Plenaria, l’intervento del cointeressato, che abbia impugnato lo stesso atto generale con un autonomo ricorso, il cui giudizio, pendente ancora in primo grado, sia stato sospeso (o comunque rinviato) in attesa della decisione dell’organo nomofilattico 3.2 Sulla questione se può intervenire, nel giudizio pendente innanzi all’Adunanza Plenaria, colui che chieda l’affermazione di un principio di diritto per sé favorevole, da invocare in un separato giudizio

 

  1. I fatti di causa

 

L’ARERA, con la delibera n. 664 del 28 dicembre 2015, ha approvato il metodo tariffario idrico per il secondo periodo regolatorio «MTI-2», relativo agli anni 2016-2019. Con il ricorso di primo grado, la s.p.a. Acqualatina ha impugnato tale delibera, chiedendone l’annullamento. Il T.a.r. per la Lombardia (Sede di Milano) ha accolto il ricorso, con la sentenza n. 2493 del 2022, la quale è stata appellata da ARERA (con il ricorso n. 537 del 2023).

Nel corso del giudizio d’appello:

- la Seconda Sezione del Consiglio di Stato, con l’ordinanza n. 2054 del 2024, ai sensi dell’art. 99 del c.p.a., ha rimesso all’Adunanza Plenaria la causa.

Con la successiva delibera n. 580 del 27 dicembre 2019, l’ARERA ha approvato il metodo tariffario idrico per il terzo periodo regolatorio «MTI-3», in relazione al successivo quadriennio. Con il ricorso di primo grado, la s.p.a. Siciliacque ha impugnato tale delibera, chiedendone l’annullamento.

Il TAR per la Lombardia (Sede di Milano), ha respinto il ricorso, con la sentenza n. 499 del 2022, la quale è stata appellata dalla s.p.a. Siciliacque (con ricorso n. 4939 del 2023).

Nel corso del giudizio d’appello, la Seconda Sezione del Consiglio di Stato, con l’ordinanza n. 2054 del 2024, ai sensi dell’art. 99 del c.p.a. ha rimesso all’Adunanza Plenaria la causa.

Come rilevato dal Collegio, le due controversie, pur avendo ad oggetto delibere emesse per periodi regolatori diversi (quella che ha approvato il metodo tariffario idrico per il periodo «MTI-2», relativo agli anni 2016-2019, oggetto del ricorso in appello n. 537 del 2023, e la successiva recante la regolazione tariffaria del periodo «MTI-3», per agli anni 2020-2023, oggetto del ricorso in appello n. 4939 del 2023), riguardano il medesimo tema del riconoscimento degli oneri finanziari sostenuti dagli operatori economici del settore, a causa del differimento biennale della corresponsione dei conguagli relativi ai costi ammessi e non coperti dalla tariffa dell’anno regolatorio di riferimento.

 

  1. I quesiti sottoposti all’Adunanza Plenaria

 

In ragione del contrasto giurisprudenziale in materia, la Seconda Sezione ha deferito all’esame dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, ai sensi dell’art. 99, comma 1, del c.p.a. l’esame dei seguenti quesiti:

«a) se la deliberazione del 27 dicembre 2019, n. 580/2019/R/idr, con la quale l’Autorità di regolazione per energia reti e ambiente ha approvato il metodo tariffario idrico per il terzo periodo regolatorio (MTI-3), possa ritenersi legittima nella parte in cui non riconosce gli oneri finanziari sostenuti a causa del differimento biennale della corresponsione dei conguagli relativi ai costi ammessi e non coperti dalla tariffa dell’anno regolatorio di riferimento;

  1. b) se, in particolare, le disposizioni della deliberazione impugnata (ed eventualmente le norme nazionali su cui quest’ultima dichiara di fondarsi) siano, in parte qua, conformi ai principi di derivazione eurounitaria di certezza del diritto, legittimo affidamento, ragionevolezza, proporzionalità e del full cost recovery».

A seguire, con seconda ordinanza di rimessione, la Seconda Sezione ha rimesso all’Adunanza Plenaria i seguenti ulteriori quesiti:

«a) se la deliberazione n. 664/2015/R/idr del 28 dicembre 2015 dell’ARERA, di approvazione del Metodo tariffario idrico per il secondo periodo regolatorio MTI-2, possa ritenersi legittima – anche in riferimento ai principi di derivazione eurounitaria di certezza del diritto, legittimo affidamento, ragionevolezza, proporzionalità, nonché al principio del “full cost recovery” sancito dall’art. 9 della direttiva n. 2000/60/CE – nella parte in cui non riconosce gli oneri finanziari sostenuti dal gestore a causa del differimento biennale della corresponsione dei conguagli relativi ai costi ammessi e non coperti dalla tariffa dell’anno regolatorio di riferimento;

  1. b) se in particolare, ai fini della valutazione di legittimità della previsione, sia rilevante la circostanza che il differimento biennale nell’ottenimento dei ricavi oggetto dei conguagli dipenda da scelte di natura imprenditoriale del gestore ovvero da decisioni discrezionali di politica sociale dell’Ente di governo dell’ATO cui questi non si è opposto».

 

  1. Le argomentazioni dell’Adunanza Plenaria

 

3.1 Sulla questione se, in pendenza del secondo grado di un giudizio amministrativo avente per oggetto la legittimità di un atto generale, avente effetti nei confronti di una intera categoria di operatori economici, sia ammissibile l’intervento adesivo-dipendente proposto dal cointeressato, che non abbia impugnato a sua volta il medesimo atto generale e se sia ammissibile, dopo la rimessione della causa all’esame dell’Adunanza Plenaria, l’intervento del cointeressato, che abbia impugnato lo stesso atto generale con un autonomo ricorso, il cui giudizio, pendente ancora in primo grado, sia stato sospeso (o comunque rinviato) in attesa della decisione dell’organo nomofilattico.

L’Adunanza Plenaria, disposta la riunione dei due ricorsi, stante la loro connessione (oggettiva e soggettiva) e la sostanziale sovrapponibilità dei quesiti di diritto rimessi al suo esame, procede allo scrutinio dell’ammissibilità degli atti di intervento, depositati dalla s.p.a. Acquedotto Pugliese. In particolare, nota il Collegio, l’interveniente, s.p.a. Acquedotto Pugliese, esercita l’attività di gestore del servizio idrico integrato (operante nell’Ambito Territoriale Ottimale Puglia) e risente, quindi, in via diretta degli effetti dei due atti di regolazione tariffaria, impugnati dalle altre due società con i ricorsi di primo grado.

A fondamento della sua legittimazione ad intervenire, la società deduce, in primo luogo, di avere impugnato innanzi al TAR per la Lombardia, Sede di Milano, la delibera «MTI-2» (oggetto dell’appello n. 537 del 2023), censurando la determinazione relativa al mancato riconoscimento della spettanza degli oneri finanziari sostenuti a causa del differimento biennale della corresponsione dei conguagli, relativi ai costi ammessi e non coperti dalla tariffa dell’anno regolatorio di riferimento.

Il Collegio, ancora, rileva che il giudice di primo grado ha disposto il rinvio della trattazione in attesa del pronunciamento della stessa Adunanza Plenaria sui quesiti di diritto sollevati dalla Seconda Sezione del Consiglio di Stato. Con riguardo alla delibera «MTI-3» (oggetto dell’appello n. 4939 del 2023) – rispetto alla quale l’impugnazione proposta dalla società non ha invece avuto ad oggetto la disposizione sul mancato riconoscimento degli oneri finanziari (divenendo quindi inoppugnabile nei suoi confronti) – la legittimazione ad intervenire viene supportata dalle considerazioni aggiuntive secondo le quali, malgrado le sentenze n. 732 del 2021 e n. 7154 del 2022 del Consiglio di Stato abbiano ritenuto in parte fondati i ricorsi allora proposti dalla s.p.a. Acquedotto Pugliese avverso le determinazioni dell’ARERA sul mancato riconoscimento degli oneri finanziari sui conguagli nell’ambito dei precedenti regimi tariffari «MTT» e «MTI-1», l’Autorità avrebbe rifiutato sinora di riconoscere gli oneri finanziari a lei dovuti, rifacendosi ad un diverso (e sfavorevole) indirizzo giurisprudenziale. Dunque, l’eventuale conferma di tale orientamento da parte dell’Adunanza Plenaria consoliderebbe il rifiuto sinora opposto alle pretese della società, ripercuotendosi «in via mediata e indiretta» sui suoi interessi.

Prosegue l’Adunanza Plenaria rilevando che il deposito degli atti di intervento pone due ordini di questioni:

  1. i) con riferimento al giudizio n. 4939 del 2023 (n. 2 del 2024 del ruolo Ad. Plen.), se ‒ in pendenza del secondo grado di un giudizio amministrativo avente per oggetto la legittimità di un atto generale, avente effetti nei confronti di una intera categoria di operatori economici ‒ sia ammissibile l’intervento adesivo-dipendente proposto dal cointeressato, che non abbia impugnato a sua volta il medesimo atto generale;
  2. ii) con riferimento al giudizio n. 537 del 2023 (n. 9 del 2024 del ruolo Ad. Plen.), se ‒ in pendenza del secondo grado di un giudizio amministrativo avente per oggetto la legittimità di un atto generale, avente effetti nei confronti di una intera categoria di operatori economici ‒ sia ammissibile, dopo la rimessione della causa all’esame dell’Adunanza Plenaria, l’intervento del cointeressato, che abbia impugnato lo stesso atto generale con un autonomo ricorso, il cui giudizio, pendente ancora in primo grado, sia stato sospeso (o comunque rinviato) in attesa della decisione dell’organo nomofilattico.

Quindi, la Plenaria evidenzia che l’estrema delicatezza e portata sistematica delle riferite questioni induce la stessa a premettere alcune considerazioni di carattere generale sul ruolo che l’intervento assolve nel contesto del processo amministrativo, alla luce del dibattito scientifico e giurisprudenziale seguito all’entrata in vigore del codice del processo amministrativo.

Innanzi tutto, afferma il Collegio, la funzione dell’intervento ‒ avente un rilievo centrale nella teoria dell’azione, dell’oggetto del giudizio e dei limiti soggettivi della tutela giurisdizionale ‒ è quella di consentire l’emersione in sede processuale delle situazioni giuridiche soggettive, di varie tipologia e contenuto, che si muovono ‘interrelate’ nel contesto del diritto sostanziale, consentendo al giudice di cogliere la portata della controversia nella sua globale complessità e di ampliare lo spettro soggettivo di incisione del giudicato.

In particolare, afferma la Plenaria, l’esigenza di tener conto delle connessioni sussistenti tra i rapporti giuridici ha una peculiare particolare importanza nel contesto dell’azione amministrativa, poiché i provvedimenti di regola incidono su una pluralità di interessi pubblici e privati, irradiando i propri effetti su situazioni ulteriori, dipendenti o connesse, rispetto a quelle riguardanti le parti necessarie del giudizio.

Osserva, ancora, la Plenaria, che la disciplina dell’intervento nel processo amministrativo è mutata nel corso del tempo.

Il regio-decreto 17 agosto 1907, n. 642, analogamente all’art. 201 del codice di procedura vigente all’epoca vigente, stabiliva che «chi ha interesse nella contestazione può intervenirvi» (art. 37), «nello stato in cui si trova la contestazione» (art. 40).

Il successivo regio-decreto 26 giugno 1924, n. 1054 (‘Testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato’), non apportava ulteriori integrazioni a tale disciplina.

L’art. 22, comma 2, della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, istitutiva dei Tribunali amministrativi regionali, riprendeva la formulazione del regio-decreto del 1907.

Tali disposizioni hanno disciplinato gli interventi volontari (e non la chiamata del terzo per ordine del giudice o su istanza di parte), per definirne le forme della loro proposizione, senza specificarne le posizioni legittimanti ed i contenuti della relativa domanda.

Il Codice del processo amministrativo, di cui al d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, ha dettato una disciplina più dettagliata degli interventi, la quale riflette l’attuale configurazione del processo amministrativo, non più basato soltanto sul cd. modello impugnatorio, ma tiene conto delle differenziate esigenze di tutela, consentendo di concentrare nel giudizio di cognizione, per quanto possibile, tutte le questioni dalla cui definizione possa derivare una risposta piena alla domanda di giustizia (e di acquisizione o di conservazione del ‘bene della vita’ inciso o regolato dall’esercizio del potere pubblico).

La collocazione sistematica dell’intervento ‒ nel Titolo III, intitolato «Azioni e domande», all’interno del Capo I, rubricato «Contraddittorio e intervento» ‒ evidenzia la sua derivazione dal principio costituzionale del «contraddittorio tra le parti», quale componente del «giusto processo regolato dalla legge» (art. 111, secondo comma, Cost., richiamato dall’art. 2 del c.p.a.).

I primi due commi dell’art. 28 del c.p.a. distinguono le parti necessarie «nei cui confronti la sentenza deve essere pronunciata» e l’intervento volontario di chiunque altro «non sia parte del giudizio» ma che cionondimeno «vi abbia interesse».

Il comma 3 dello stesso art. 28 ha introdotto nel processo amministrativo l’intervento in causa c.d. «iussu iudicis», ovvero di coloro nei cui confronti il giudice, anche su istanza di parte, ritenga «opportuno che il processo si svolga».

La disciplina è completata dagli artt. 49, 50 e 51, dedicati alle modalità con cui deve avere luogo l’integrazione del contraddittorio, nonché dalle disposizioni contenute all’art. 42 c.p.a., concernenti il ricorso incidentale e la domanda riconvenzionale delle parti resistenti e dei controinteressati.

La disciplina degli interventi delle parti eventuali del giudizio è contenuta nel comma 2 dell’art. 28, per il quale «[c]hiunque non sia parte del giudizio e non sia decaduto dall’esercizio delle relative azioni, ma vi abbia interesse, può intervenire accettando lo stato e il grado in cui il giudizio si trova». Secondo il Collegio, la disposizione non indica puntualmente i requisiti necessari per ritenere ammissibile l’intervento di chi non rientri tra le parti necessarie (le quali sono invece individuate all’art. 41, comma 2, del c.p.a.).

Quindi, prosegue la Plenaria, per comprendere la rilevanza giuridica dell’interesse del terzo ad inserirsi in un processo pendente inter alios, i modelli partecipativi elaborati dalla dottrina del processo civile rappresentano un importante punto di riferimento di teoria generale, avendo la medesima funzione di collegare la vicenda sostanziale a quella processuale in presenza di fenomeni di connessione, con la seguente distinzione.

In particolare, deduce il Collegio, quando è chiesta la tutela di un diritto soggettivo in sede di giurisdizione esclusiva, in tema di intervento si applicano senz’altro le regole ed i principi desumibili dal codice di procedura civile; nell’ambito invece dell’azione di annullamento posta a tutela di posizioni di interesse legittimo, l’impianto sistematico del codice di procedura civile non può essere automaticamente trasposto nel processo amministrativo, dovendo i meccanismi di intervento adattarsi alle specificità strutturali di ciascuna tipologia di giudizio (la clausola di completezza di cui all’art. 39 c.p.a., del resto, prevede che solo «per quanto non disciplinato dal presente codice si applicano le disposizioni del codice di procedura civile, in quanto compatibili o espressione di principi generali»).

Quindi, conclude il Collegio, ai fini della soluzione delle questioni sopra indicate, è importante premettere che l’intervento volontario nel processo amministrativo riguarda due principali tipologie di posizioni giuridiche. Il terzo può essere titolare di un interesse non direttamente inciso dal provvedimento da altri impugnato, ma cionondimeno suscettibile di risentire gli effetti «riflessi», sia pure con differenti graduazioni e pregiudizio, dall’esito della lite inter alios iudicata.

Rileva la Plenaria che la giurisprudenza ‒ senza prendere posizione sulla teoria ricostruttiva della «riflessione», oggi oggetto di attenta riconsiderazione, in quanto il diritto costituzionale di difesa impone forti limitazioni all’operatività del giudicato in danno di persone che non abbiano preso parte al processo ‒ ammette l’intervento dei soggetti titolari di una posizione giuridica collegata o dipendente rispetto a quella dedotta nel processo inter alios (ovvero la cui nascita, esistenza o contenuto dipendano dalla nascita, esistenza o contenuto di un rapporto sostanziale altrui).

Il carattere indiretto e mediato del pregiudizio subito esclude la legittimazione dei predetti soggetti a promuovere un autonomo giudizio.

L’intervento, afferma la Plenaria, è «adesivo-dipendente», in quanto determina un ampliamento solo soggettivo della controversia: l’interventore, pur divenendo a tutti gli effetti parte del giudizio, deve limitarsi a cooperare con la parte adiuvata nell’attività asseverativa, senza potere introdurre domande, fatti o prove, o dare altrimenti impulso al giudizio. Il terzo può essere titolare di un interesse direttamente inciso dall’azione pubblica ‒ già oggetto di altra impugnazione ‒ e che quindi potrebbe essere fatto valere autonomamente.

In tal caso, specifica il Collegio, il fondamento dell’intervento non è quello di evitare la propagazione di un risultato processuale sfavorevole ovvero di agevolare un esito processuale da cui ricavare in via derivata la soddisfazione del proprio interesse; il fondamento è invece quello di favorire, per ragioni di economia processuale, il cumulo di impugnazioni (connesse per l’oggetto o per il titolo) in un unico processo, evitando la formazione di giudicati (logicamente) contraddittori.

Rileva, ancora, la Plenaria, che, rispetto all’ammissibilità di questa figura di interventore ‒ denominato «litisconsortile» ‒ l’orientamento tradizionale della giurisprudenza amministrativa è di segno restrittivo.

In particolare, con riguardo ai provvedimenti incidenti su una pluralità di soggetti di per sé legittimati all’impugnazione, e in particolare gli atti generali (anche quelli che incidono su prezzi e tariffe), il Consiglio di Stato, con orientamento costante, ha escluso che potesse proporre intervento chi avrebbe potuto impugnare l’atto lesivo, prestandovi invece acquiescenza: si è ritenuto che ammettere in tal caso l’intervento (e consentire di avvalersi degli effetti dell’eventuale annullamento dell’atto lesivo) avrebbe comportato l’elusione del termine di decadenza.

Tale regola è stata ribadita, ricorda il Collegio, sia dalle singole Sezioni del Consiglio (tra le più risalenti, senza pretesa di completezza, Sez. IV, 15 aprile 1932, n. 143; Sez. IV, 8 ottobre 1941, n. 320; Sez. V, 15 dicembre 1942, n. 676; Sez. IV, 27 luglio 1946, n. 256; Sez. IV, 30 ottobre 1947, n. 371; Sez. V, 22 dicembre 1948, n. 386; Sez. IV, 29 dicembre 1948, n. 524; Sez. VI, 2 maggio 1949, n. 30; Sez. VI, 3 ottobre 1949, n. 120; Sez. IV, 10 ottobre 1950, n. 464; Sez. VI, 3 dicembre 1950, n. 592; Sez. VI, 4 dicembre 1950, n. 595; Sez. IV, 4 aprile 1951, n. 203; Sez. IV, 18 luglio 1951, n. 507; Sez. VI, 27 agosto 1951, n. 632; Sez. VI, 27 settembre 1951, n. 633; Sez. IV, 28 novembre 1951, n. 927; Sez. VI27 agosto 1952, n. 632; Sez. IV, 23 dicembre 1952, n. 1030; Sez. VI, 14 aprile 1954, n. 233; Sez. IV, 28 agosto 1954, n. 494; Sez. VI, 6 novembre 1957, n. 810; Sez. IV, 15 novembre 1961, n. 585; Sez. V, 12 gennaio 1963, n. 4; Sez. V, 25 settembre 1963, n. 802), sia dall’Adunanza Plenaria (sentenze 25 maggio 1954, n. 18; 31 gennaio 1961, n. 1, in un significativo caso in cui erano stati impugnati un regolamento ed un atto generale, lesivi per una pluralità di insegnanti).

Tuttavia, la Plenaria specifica che la stessa giurisprudenza ha temperato la posizione di chiusura riguardante l’intervento litisconsortile, ammettendolo tramite la sua conversione in ricorso principale (in applicazione del principio sancito dall’art. 1424 c.c., ritenuto applicabile anche nel processo), alla triplice condizione che non fossero scaduti i termini di decadenza, che fosse ravvisabile nell’interventore la volontà di agire quale ricorrente e che l’atto di intervento possedesse i requisiti di sostanza e di forma del ricorso, compresi quelli di natura fiscale (cfr. Ad. Plen., 25 maggio 1954, n. 18, cit.; Sez. IV, 30 ottobre 1947, n. 371; Sez. IV, 3 febbraio 1956, n. 76; Sez., V, 28 settembre 1970, n. 713; Sez. IV, 12 dicembre 1996, n. 1292; Sez., IV, 13 dicembre 1999, n. 1853; Sez. IV, 27 maggio 2002, n. 2928).

Rileva la Plenaria che il Codice ha recepito l’orientamento giurisprudenziale di limitata ammissibilità dell’intervento litisconsortile, al fine di conciliare l’esigenza del «simultaneus processus» con la struttura impugnatoria del giudizio amministrativo. L’ampia formulazione dell’art. 28, comma 2 ‒ secondo cui può intervenire «[c]hiunque non sia parte del giudizio […], ma vi abbia interesse» ‒ ricomprende senza dubbio il terzo titolare di un interesse direttamente inciso dall’atto oggetto di impugnazione e che quindi potrebbe farlo valere autonomamente contro alcune delle parti necessarie.

Una ulteriore evidenza sistematica dell’ammissibilità dell’intervento litisconsortile in primo grado è offerta anche dall’art. 102, comma 2, c.p.a., che, legittimando all’appello l’interventore «titolare di una posizione giuridica autonoma», presuppone che l’intervento in prime cure riguardasse un interesse legittimo esposto all’efficacia diretta della sentenza di annullamento (un’ipotesi specifica di intervento sicuramente litisconsortile è contemplata anche dall’art. 1, comma 3, del d.lgs. 20 dicembre 2009, n. 198).

Il codice subordina l’ammissibilità dell’intervento litisconsortile alla condizione che il cointeressato «non sia decaduto dall’esercizio delle relative azioni», affinché tale intervento non si risolva in un’elusione del termine per impugnare.

Quindi, deduce la Plenaria, rispetto alla soluzione elaborata dalla giurisprudenza nel previgente regime processuale, la novità consiste nel fatto che non più è necessario disporre la conversione dell’intervento tempestivo del cointeressato in un ricorso autonomo: l’interventore litisconsortile ‒ in quanto parte principale, ancorché non necessaria ‒ non incontra limiti all’attività assertiva, è libero di addurre argomenti propri e diversi da quelli dedotti dalle altre parti (mentre l’interventore adesivo non può ampliare il thema decidendum o sostituire la propria iniziativa processuale a quella mancante del ricorrente principale). Per gli stessi motivi, l’intervento litisconsortile può essere spiegato solo in un giudizio che si trova in primo grado, in quanto, nel giudizio di appello, lo stesso è precluso del divieto di cui all’art. 104, comma 1, del c.p.a.

Come evidenziato dalla Plenaria, la giurisprudenza maggioritaria ritiene che il cointeressato decaduto dall’azione di annullamento, così come non può spiegare intervento litisconsortile, neppure possa fare intervento in forma adesivo-dipendente (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. III, 4 aprile 2023, n. 3442; Sez. II, 4 gennaio 2021, n. 105; Sez. VI, 13 agosto 2018, n. 4939; Sez. V, 10 aprile 2018, n. 2186). Una parte della dottrina, nota il Collegio, critica lo sbarramento così frapposto all’intervento adesivo-dipendente del cointeressato già decaduto dall’azione di annullamento, sostenendo che tale orientamento perpetuerebbe il fraintendimento intorno alla natura dell’intervento ad adiuvandum, che, limitandosi a sostenere le ragioni del ricorrente senza incidere sul thema decidendum, sarebbe intrinsecamente privo dell’attitudine a eludere il termine di decadenza per l’azione di annullamento. Si sostiene, in altre parole, che, se l’intervento ad adiuvandum è consentito a chi risente l’efficacia ‘riflessa’ della sentenza di annullamento, a fortiori lo stesso dovrebbe essere accordato a chi è attinto dalla sua efficacia diretta.

Questi rilievi hanno trovato accoglimento anche in alcune pronunce del Consiglio di Stato (Sez. VI, 3 marzo 2016, n. 882, alla quale si richiama Sez. V, 30 ottobre 2017, n. 4973), limitatamente all’ipotesi del cointeressato destinatario di atti ad effetti non frazionabili. A sostegno di tale assunto questa giurisprudenza afferma che la ratio dell’art. 28 del c.p.a., che ammette l’intervento solo da parte di chi non sia decaduto dall’esercizio delle relative azioni, non sarebbe quella di sanzionare i comportamenti inerti dei soggetti interessati, bensì quella di assicurare la stabilità e la certezza dei rapporti giuridici e delle situazioni soggettive, evitando che l’azione amministrativa rimanga per troppo tempo controvertibile per via giurisdizionale.

Di conseguenza, afferma la Plenaria, una volta che sia validamente instaurato, da uno dei suoi destinatari, un giudizio intorno alla legittimità del provvedimento amministrativo, non vi sarebbe più alcuna ragione di invocare il termine di decadenza e di precludere l’azione del legittimato che, pur senza ampliare il thema decidendum, voglia solo profittare del processo pendente per sostenere la tesi del ricorrente principale ed ottenere così, indirettamente, data la natura inscindibile degli effetti del provvedimento, la tutela della propria posizione.

L’intervento adesivo-dipendente sarebbe così denominato, non perché chi se ne fa portatore è titolare di un interesse necessariamente ‘dipendente’ rispetto a quello azionato in via principale, ma perché tramite questo tipo di intervento non si propongono autonome domande.

L’Adunanza Plenaria, in continuità con l’orientamento tradizionale, ritiene che il cointeressato decaduto dal diritto di impugnare non sia legittimato, né (come espressamente previsto dalla legge) all’intervento litisconsortile, né all’intervento adesivo-dipendente (tanto meno in grado d’appello e quando il giudizio sia stato sottoposto all’esame dell’Adunanza Plenaria).

L’opinione contraria, secondo il Collegio, ancorché finemente argomentata dalla dottrina e dalla giurisprudenza sopra richiamata, non è condivisibile per i seguenti motivi:

1) Rileva, in primo luogo, l’argomento di interpretazione letterale: la possibilità dell’intervento adesivo-dipendente del cointeressato contrasta con la chiara formula legislativa, che pone espressamente quale condizione dell’intervento l’assenza del prodursi di una decadenza.

L’art. 28, comma 2, c.p.a., peraltro, non si limita semplicemente a richiedere che l’intervento del cointeressato sia proposto prima dello spirare del termine di decadenza, bensì che l’interventore «non sia decaduto dall’esercizio delle relative azioni», il che postula che l’atto di intervento del cointeressato, oltre che tempestivo, contenga la domanda di annullamento.

L’intervento del cointeressato, in altre parole, è necessariamente litisconsortile.

2) Sul piano dell’interpretazione sistematica, l’incompatibilità tra l’intervento adesivo-dipendente e la titolarità di un interesse autonomo all’impugnazione discende dalla struttura stessa del giudizio impugnatorio.

Il titolare di una posizione di interesse legittimo soggiace alle condizioni e ai termini di tutela posti dalla legge tra cui, in primo luogo, l’onere di attivarsi entro il termine di decadenza previsto dalla legge. Lasciato decorrere inutilmente tale termine, il soggetto non può più azionare, in nessuna forma giurisdizionale, il proprio interesse giuridicamente qualificato.

In caso di atto individuale o atto plurimo a effetti scindibili, è evidente che l’estinzione dell’interesse legittimo collegata al sopraggiunto regime di inoppugnabilità priva il terzo di qualsivoglia interesse, anche di fatto, da far valere nel processo da altri instaurato.

Ma anche nel caso ‒ che ha originato i sopra citati precedenti difformi ‒ di atto con effetti inscindibili, con effetti erga omnes o comunque plurisoggettivi (come, per l’appunto, nel caso degli atti di regolazione tariffaria), ostano all’intervento del cointeressato decaduto analoghe esigenze di stabilità e certezza dell’azione amministrativa.

Tale assunto ‒ che richiede di essere sviluppato nel punto seguente ‒ si basa sulla non coincidenza tra la delimitazione soggettiva degli effetti delle sentenze di annullamento ed i limiti soggettivi del giudicato amministrativo.

3) Al giudicato amministrativo si applica la regola dell’«esclusiva operatività inter partes del giudicato» stabilita dall’art. 2909 c.c.

Di regola, quindi, i terzi estranei al giudizio non sono pregiudicati dalle statuizioni della sentenza, così come neppure possono avvantaggiarsene.

Cionondimeno, ricorda il Collegio, la giurisprudenza ha da tempo individuato alcuni casi di giudicato amministrativo con effetti ultra partes.

Tale estensione dipende da una pluralità di fattori concorrenti, e segnatamente: a) in alcuni casi, dal tipo di atto annullato (di pensi ad un regolamento, ad un atto plurimo inscindibile che provvede unitariamente nei confronti di un complesso di soggetti); b) altre volte, sia dal tipo di atto annullato, sia dal tipo di vizio dedotto (si pensi all’annullamento di un atto plurimo scindibile, se il ricorso viene accolto per un vizio comune alla posizione di tutti i destinatari); c) altre volte ancora, dal tipo di effetto che il giudicato produce e di cui si invoca l’estensione (il quadro concettuale dell’estensione soggettiva del giudicato di annullamento è stato, da ultimo, così sintetizzato dall’Adunanza Plenaria n. 4 del 2019; la tesi degli effetti ultra partes è stata in passato condivisa anche dalla Corte di Cassazione civile, Sez. I, 13 marzo 1998, n. 2734).

Va però ricordato, afferma il Collegio, che, secondo la stessa giurisprudenza, solo gli «effetti di annullamento della sentenza» sono capaci di operare erga omnes.

L’«autorità del giudicato» ‒ e, quindi, i vincoli ordinatori e conformativi che esso solitamente comporta ‒ fa invece stato unicamente inter partes (cfr., ex plurimis, Consiglio di Stato, Sez. VI, 5 dicembre 2005, n. 6964; Sez. IV, 5 settembre 2003, n. 4977; Sez. V, 6 marzo 2000, n. 1142; Sez. V, 9 aprile 1994, n. 276).

La propagazione dell’effetto di annullamento giurisdizionale, anche a vantaggio dei terzi che non abbiamo tempestivamente impugnato, si giustifica in quanto la caducazione di un atto a contenuto inscindibile rileva come ‘fatto’ (di ablazione) dell’ordinamento generale, valevole cioè per tutti i consociati che ne siano concretamente destinatari, attesane l’ontologica indivisibilità sul piano sostanziale.

Il vincolo del giudicato opera, invece, solo nei confronti delle parti del giudizio, in quanto esso è legato indissolubilmente all’accertamento delle specifiche posizioni soggettive e delle pretese dedotte nel processo.

Da quanto detto, continua la Plenaria, consegue che soltanto le parti beneficiano della forza esecutiva della sentenza e sono legittimate a farne valere, in sede di ottemperanza, la violazione (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 1 dicembre 2017, n. 5634). Tale conclusione rileva quando il tratto conformativo dell’azione amministrativa susseguente al giudicato non deve necessariamente riguardare ‘indivisibilmente’ tutti i rapporti astrattamente regolati dall’atto generale annullato, ma è circoscritto ai soli rapporti che sono stati oggetto dell’accertamento giurisdizionale.

La Plenaria ricorda che l’orientamento della giurisprudenza amministrativa ‒ sulla non coincidenza tra la delimitazione soggettiva degli effetti delle sentenze di annullamento ed i limiti soggettivi del giudicato amministrativo ‒ è coerente con la teorica degli effetti del giudicato di annullamento della legge: quando la Corte costituzionale accoglie la questione sottopostale in via incidentale, la disposizione dichiarata illegittima «cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione» (ai sensi dell’art. 136 Cost.), travolgendo tutti i rapporti in virtù di essa sorti medio tempore, ad eccezione però dei «rapporti esauriti» (in cui rientrano, come è noto, anche i rapporti che originano da statuizione amministrative rimaste inoppugnate).

Quindi, alla luce di quanto sopra argomentato, per il Collegio è evidente l’erroneità della tesi secondo cui, una volta che sia stato validamente instaurato (da uno dei suoi destinatari) un giudizio intorno alla legittimità dell’atto generale, non vi sarebbe più alcuna ragione di invocare l’elusione del termine di decadenza, al fine di precludere l’intervento adesivo-dipendente degli altri soggetti incisi.

Infatti, secondo il Collegio, e si ammettesse l’intervento tardivo del cointeressato decaduto, questi ‒ divenuto parte del giudizio ‒ potrebbe azionare gli effetti conformativi del giudicato di annullamento, essendo la sua posizione soggettiva ricompresa nel giudicato materiale. Ciò avverrebbe in evidente elusione dei termini decadenziali, in tutte le ipotesi in cui l’obbligo conformativo dell’Amministrazione di colmare «ora per allora» il vuoto regolatorio determinato dal giudicato, non deve necessariamente riguardare ‘indivisibilmente’ tutti i rapporti astrattamente regolati dall’atto generale annullato.

Il caso oggetto del presente giudizio, rileva la Plenaria, è, sul punto, eloquente.

L’atto impugnato, riguardante la definizione dei costi ammissibili e dei criteri per la determinazione delle tariffe a copertura di questi costi, costituisce manifestazione di una funzione di regolazione centralizzata in capo all’Autorità (per l’esigenza di definire un sistema tariffario certo, trasparente e basato su criteri omogenei), destinata ad essere recepita a livello locale (la tariffa base viene predisposta dai diversi enti di governo dell’ambito, nell’osservanza del metodo tariffario regolato dall’Autorità).

Il vincolo conformativo derivante dal giudicato di annullamento dell’atto di regolazione tariffaria, all’esito del giudizio instaurato da un determinato operatore economico, non comporta l’obbligo, per tutte le amministrazioni locali, di revisionare a distanza di anni convenzioni e tariffe praticate da altri gestori che non abbiamo tempestivamente proposto impugnazione.

Consentire ai gestori che abbiano prestato acquiescenza di intervenire, a distanza di tempo, nei giudizi proposti da altri avrebbe quindi evidenti effetti distorsivi sulla stabilità del sistema regolatorio.

In definitiva, sostiene la Plenaria, nel processo amministrativo, l’intervento adesivo-dipendente ‒ a sostegno delle ragioni di una parte e nei limiti di questa (ad adiuvandum o ad opponendum) ‒ può essere proposto solo da un soggetto titolare di una posizione giuridica collegata o dipendente da quella del ricorrente in via principale. L’interesse a spiegare tale tipologia di intervento si lega ad un nesso normativamente qualificato tra la posizione soggettiva dell’interventore e quella dedotta in giudizio, che lo differenzia, sia dall’interesse generico alla legittimità dell’atto, sia dalla titolarità dell’interesse legittimo che legittima l’impugnazione autonoma.

In definitiva, alla luce delle considerazioni che precedono, l’Adunanza Plenaria enuncia il seguente principio di diritto:

«L’art. 28, comma 2, del codice del processo amministrativo va interpretato nel senso che – nel giudizio proposto da altri avverso un atto generale o ad effetti inscindibili per una pluralità di destinatari – è inammissibile l’intervento adesivo-dipendente del cointeressato che abbia prestato acquiescenza al provvedimento lesivo».

 

3.2 Sulla questione se può intervenire, nel giudizio pendente innanzi all’Adunanza Plenaria, colui che chieda l’affermazione di un principio di diritto per sé favorevole, da invocare in un separato giudizio.

Con la sentenza 23 novembre 1971, n. 17, l’Adunanza Plenaria ha affermato che è inammissibile l’intervento di chi – dopo l’ordinanza di rimessione – intenda «conseguire un precedente giurisprudenziale dell’Adunanza Plenaria», «da invocare poi nel separato e distinto giudizio» da egli proposto.

In continuità con tale arresto, dopo l’entrata in vigore dell’art. 99 del codice del processo amministrativo, l’Adunanza Plenaria, con le sentenze n. 23 del 2020, n. 4 del 2019, n. 13 del 2018, n. 23 del 2016, ha rilevato che:

- «non è sufficiente a consentire l’intervento la sola circostanza per cui il proponente tale istanza sia parte in un giudizio in cui venga in rilievo una quaestio iuris analoga a quella divisata nell’ambito del giudizio principale»;

- «laddove si ammettesse la possibilità di spiegare l’intervento volontario a fronte della sola analogia fra le quaestiones iuris controverse nei due giudizi, si finirebbe per introdurre nel processo amministrativo una nozione di interesse del tutto peculiare e svincolata dalla tipica valenza endoprocessuale connessa a tale nozione e potenzialmente foriera di iniziative anche emulative, in toto scisse dall’oggetto specifico del giudizio cui l’intervento si riferisce».

Inoltre, con la sentenza n. 18 del 2021 l’Adunanza Plenaria ha escluso l’ammissibilità anche degli interventi in un giudizio pendente innanzi ad essa (avente per oggetto la legittimità di un diniego emesso nei confronti di uno specifico destinatario), depositati da soggetti pubblici e privati (anche associazioni di categoria), interessati alla definizione della «regola di diritto da applicare successivamente» nel settore.

Osserva il Collegio che la rilevanza giuridica dell’interesse al «precedente nomofilattico» non può essere invocata neppure adducendo che ‒ a fronte della vincolatività del principio di diritto enunciato dall’Adunanza Plenaria ‒ la statuizione di inammissibilità dell’intervento determinerebbe una violazione del diritto di difesa.

L’art. 99, comma 3, c.p.a. ‒ per cui, in presenza o in previsione di contrasti decisionali, l’Adunanza Plenaria è chiamata a risolvere il conflitto, non più con un’interpretazione avente mero valore persuasivo, bensì con decisione vincolante per le sezioni semplici ‒ non ha modificato il carattere soggettivo e di parti del giudizio amministrativo.

Per il Collegio, il meccanismo si muove sul piano processuale e non sostanziale. L’obbligo che ne discende non è di conformarsi al contenuto del precedente (come lo «stare decisis»), bensì di reinvestire della questione, qualora non si condivida il principio di diritto affermato, l’organo nomofilattico di vertice: è significativo osservare che, finanche nel giudizio costituzionale incidentale – avente carattere di giurisdizione oggettiva –, l’intervento di soggetti che non siano parti formali del giudizio a quo è ammesso soltanto qualora si tratti di terzi titolari di un interesse qualificato e immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in quel giudizio, e non in favore dei «portatori di un interesse semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalle norme oggetto di censura» (Corte cost., ordinanza n. 202 del 2020, allegata alla sentenza n. 234 del 2020; ordinanza n. 271 del 2020, allegata alla sentenza n. 278 del 2020). Del pari, rileva il Collegio, nei giudizi di legittimità costituzionale in via principale non è ammessa la presenza di soggetti diversi dalla parte ricorrente e dal titolare della potestà legislativa il cui esercizio è oggetto di contestazione (Corte cost., ordinanze n. 111 e n. 37 del 2020; sentenze n. 134 del 2020, n. 56 del 2020, n. 3 del 2021).

Tenuto conto di tale giurisprudenza, ricorda il Collegio, le norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale (approvate con la delibera della Corte in sede non giurisdizionale del 22 luglio 2021) hanno recentemente introdotto la figura degli amici curiae (art. 6) e la possibilità che siano ascoltati esperti di chiara fama (art. 17).

Tali istituti evidenziano la distinzione giuridica che esiste tra i soggetti ammessi al contraddittorio ‒ come appunto gli intervenienti ‒ e quelli che possono portare ai giudici soltanto un contributo di ragionamento e di informazioni.

Gli amici curiae, infatti, non diventano parte del processo, non possono ottenere copia degli atti, non partecipano all’udienza, non devono essere assistiti da un avvocato, il loro ingresso nel giudizio si limita ad una opinione scritta. L’audizione degli esperti è, invece, un istituto affine ad un mezzo istruttorio che consente l’acquisizione di una consulenza nell’ambito di materie specialistiche.

In definitiva, afferma il Collegio, in assenza di una norma di legge processuale espressa, non si può utilizzare impropriamente l’intervento in giudizio in funzione di «advocacy».

La disciplina processuale dell’attività giurisdizionale è infatti riservata alla legge in termini «assoluti» (art. 111, primo comma, della Costituzione, secondo cui «[l]a giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge»).

Inoltre, per la Plenaria, le considerazioni sopra esposte non mutano per il solo fatto che il giudice innanzi al quale pende il giudizio in cui è parte il soggetto intervenuto innanzi all’Adunanza Plenaria abbia ritenuto di disporre la sospensione ‘impropria’ del medesimo, in attesa della enunciazione del principio di diritto, cui eventualmente conformare la propria successiva pronuncia.

Mirando a salvaguardare il diritto di difesa, l’Adunanza Plenaria, con la sentenza n. 4 del 2024, ha affermato che la sospensione impropria ‘in senso lato’ del processo ‒ con tale espressione intendendosi quella «disposta, in un dato giudizio, nelle more della soluzione, in un diverso giudizio, di un incidente di costituzionalità, o di una pregiudiziale eurounitaria, o di una rimessione all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato avente carattere pregiudiziale anche nel giudizio de quo)» ‒ «va adottata previo contraddittorio ai sensi dell’art. 73, comma 3, c.p.a. e solo se le parti o almeno una di esse non chiedano di poter interloquire davanti la Corte costituzionale, la CGUE, la Plenaria, nel qual caso va disposta una nuova rimessione (con conseguente sospensione impropria “in senso stretto” nelle prime due ipotesi)».

A maggior ragione, osserva il Collegio, il diritto di difesa non può ritenersi vulnerato nel caso in cui il giudizio sia stato sospeso o rinviato ad altra data dal T.a.r. Infatti, in primo luogo, il T.a.r. non è giuridicamente vincolato dal principio di diritto enunciato ai sensi dell’art. 99 del c.p.a. In secondo luogo, il soccombente può proporre appello, deducendo gli argomenti che possano indurre la Sezione del Consiglio di Stato a rimeditare il principio di diritto ritenuto non corretto e a sottoporre nuovamente la questione all’esame dell’Adunanza Plenaria.

Alla luce delle considerazioni che precedono, dunque, l’Adunanza plenaria enuncia il seguente ulteriore principio di diritto:

«Qualora sia pendente innanzi all’Adunanza Plenaria un giudizio nel quale si faccia questione di profili di illegittimità di un atto generale regolatorio, avente effetti nei confronti di una intera categoria di operatori economici, è inammissibile l’intervento – innanzi alla medesima Adunanza Plenaria ‒ di chi abbia impugnato il medesimo atto con un ricorso ancora pendente innanzi al Tribunale Amministrativo Regionale».