Giurisprudenza Civile
Sull’ambito applicativo della condizione di procedibilità della mediazione, ex art. 5, decreto legislativo n. 28 del 2010
Di Giuseppe Lonero
Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza 7 febbraio 2024, n. 3452,
Sull’ambito applicativo della condizione di procedibilità della mediazione, ex art, 5, decreto legislativo n. 28 del 2010
Di Giuseppe Lonero
Riferimenti normativi: artt. 5, 6, 7 e 8, d.lgs. 28/2010
Principio di diritto: La condizione di procedibilità prevista dall’art. 5 d.lgs. n. 28 del 2010 sussiste per il solo atto introduttivo del giudizio e non per le domande riconvenzionali, fermo restando che al mediatore compete di valutare tutte le istanze e gli interessi delle parti ed al giudice di esperire il tentativo di conciliazione, per l’intero corso del processo e laddove possibile.
I fatti di causa vedono il ricorso al Tribunale di primo grado per l’accertamento della risoluzione di un contratto di locazione per avveramento della condizione risolutiva pattuita, per la perdita dei requisiti soggettivi ex l. n. 203 del 1991 o per scadenza del termine, con la condanna al rilascio del bene. Il resistente ha chiesto il rigetto delle domande o, nel caso di loro accoglimento ed in via riconvenzionale, la condanna di controparte alla restituzione del deposito cauzionale, con gli interessi legali. La procedura di mediazione si è svolta regolarmente sulle domande principali, ma non sulla riconvenzionale ed il Tribunale ha ritenuto quindi di operare il rinvio alla Suprema Corte, ai sensi dell’art. 363- bis c.p.c., in ordine alla proponibilità della domanda riconvenzionale, quando la causa rientri tra quelle a mediazione obbligatoria ex art. 5 d.lgs. n. 28 del 2010 e la mediazione sia stata già effettuata, anteriormente alla prima udienza, in relazione alla domanda di parte attrice. La Prima Presidente ha assegnato la questione sollevata con l’ordinanza di rinvio pregiudiziale alle Sezioni Unite civili per l’enunciazione del principio di diritto. Il Pubblico Ministero ha depositato requisitoria scritta, chiedendo di enunciare il principio di diritto secondo cui anche la domanda riconvenzionale è sottoposta all’obbligo di mediazione, salvo risulti prima facie inammissibile o non in grado, comunque, di incidere sulle rispettive posizioni sostanziali della vicenda oggetto di lite.
L’ordinanza di rinvio pregiudiziale ex art. 363-bis c.p.c. in particolare, pone la questione di diritto se, ai sensi dell’art. 5 del d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, sussista l’obbligo di provvedere alla mediazione nel caso di proposizione di una domanda riconvenzionale, ove la mediazione sia stata già ritualmente effettuata, anteriormente alla prima udienza, in relazione alla sola domanda principale.
Le Sezioni Unite hanno reputato di risolvere tale questione escludendo che il tentativo obbligatorio di conciliazione sia condizione di procedibilità della proposizione della domanda riconvenzionale, alla stregua delle considerazioni che seguono.
Innanzi tutto, le argomentazioni delle Sezioni Unite si fondano sulla diversa natura delle domande riconvenzionali astrattamente proponibili in giudizio. La Corte rileva che gli interpreti sogliono distinguere tra domanda riconvenzionale collegata all’oggetto della lite e domanda riconvenzionale ad essa “eccentrica”. La prima tipologia emerge dal sistema positivo processuale, come interpretato nel c.d. diritto vivente, secondo cui l’ammissibilità delle domande riconvenzionali, avanzate dal convenuto nel giudizio introdotto in via principale dall’attore, è subordinata alla comunanza del titolo già dedotto in giudizio dall’attore o da quello che appartiene alla causa come mezzo di eccezione – come recita l’art. 36 c.p.c. – ma al solo fine di ritenerle devolute al medesimo in quanto rientrino nella sua competenza per materia o per valore. Analoga “comunanza” della lite si richiede, peraltro, al fine di reputare ammissibile la domanda riconvenzionale, che pure non importi lo spostamento di competenza: invero, evidenziano le Sezioni Unite, del pari, in tal caso la giurisprudenza di legittimità esige «un qualsiasi rapporto o situazione giuridica in cui sia ravvisabile un collegamento obbiettivo tra domanda principale e domanda riconvenzionale, tale da rendere consigliabile e opportuna la celebrazione del simultaneus processus» (già Cass. 19 ottobre 1994, n. 8531; nonché, tra le tante, Cass. 14 gennaio 2005, n. 681; Cass. 4 luglio 2006, n. 15271; Cass. 15 gennaio 2020, n. 533; Cass. 4 marzo 2020, n. 6091). Tale collegamento oggettivo, che rende opportuno il simultaneus processus, prosegue la Corte, viene rimesso alla valutazione discrezionale del giudice di merito, al quale è richiesto unicamente di motivare al riguardo, in particolare ove ritenga la riconvenzionale inammissibile. Il Collegio ricorda che resta, però, fermo in entrambi i casi ricordati – domanda riconvenzionale che ecceda, oppure no, la competenza del giudice della causa principale – il detto principio circa la necessaria esistenza di un “collegamento oggettivo con l’oggetto” che già appartiene al giudizio. Dall’altra parte, per la Corte, si pone la seconda tipologia di domande afferente alla nozione di riconvenzionale c.d. eccentrica: la quale, per sottrazione, indica quella in nessun modo “obiettivamente ricollegabile all’oggetto” della causa. La genericità dei termini, alla luce dei precedenti di merito editi e di legittimità, ha reso, però, tutt’altro che rara l’estensione della lite fra le parti, proprio sul profilo se debba ritenersi sussistente un tale “collegamento oggettivo”; mentre poi una pluralità di indici positivi, presenti nell’ordinamento, conduce a non differenziare affatto le due tipologie indicate, quanto agli effetti, che ora interessano, della sottoposizione all’obbligo della preventiva mediazione, quale condizione di proponibilità della domanda riconvenzionale.
Circa le ragioni dell’esclusione della mediazione obbligatoria per le domande riconvenzionali, le Sezioni Unite ricordano che, con l’art. 5, comma 1-bis, d.lgs. n. 28 del 2010 è stata reintrodotta nell’ordinamento – dopo la declaratoria d’illegittimità costituzionale dell’art. 5, comma 1, del decreto legislativo ad opera di Corte cost. n. 272 del 2012 per eccesso di delega – la mediazione civile, quale condizione di procedibilità delle domande giudiziali relative a talune materie. Si prevede quindi che «[c]hi intende esercitare in giudizio un’azione relativa a una controversia in materia di (…) è tenuto preliminarmente a esperire il procedimento di mediazione», quale «condizione di procedibilità della domanda giudiziale». È altresì disposto che l’improcedibilità sia «eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d’ufficio dal giudice non oltre la prima udienza. Il giudice, quando rileva che la mediazione non è stata esperita o è già iniziata, ma non si è conclusa, fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine di cui all’articolo 6» ossia, tre mesi, più tre su accordo delle parti (così i commi 1 e 2, a seguito della sostituzione dell’intero art. 5 ad opera dell’art. 7, comma 1, lett. d, d.lgs. n. 149 del 2022). Dunque, chi intenda esercitare una di simili liti è tenuto, preliminarmente, a tentare la composizione stragiudiziale della controversia mediante l’esperimento del procedimento disciplinato dal d.lgs. medesimo, il cui svolgimento è affidato ad appositi organismi di mediazione. Tale condizione di procedibilità della domanda giudiziale, ricorda la Corte, è un presupposto processuale, il cui difetto è sanabile retroattivamente, qualora il giudice rilevi il mancato esperimento del tentativo o la sua pendenza, per permetterne la conclusione. La Corte, ancora, precisa che non si parla di “sospensione” in senso tecnico, trattandosi di un mero rinvio, ma questo comporta pur sempre un differimento della trattazione della causa; il quale, inoltre, non necessariamente sarà contenuto nei pochi mesi indicati dal legislatore, essendo «dopo la scadenza» previsione relativa solo al termine minimo, non massimo, il quale ultimo invece necessariamente seguirà le esigenze del calendario del giudice.
Quanto alla riconvenzionale c.d. non eccentrica, le Sezioni Unite evidenziano che la lettera e la ratio della disposizione inducono a ritenerla non sottoposta alla condizione della mediazione obbligatoria, in quanto si collega all’oggetto del processo già introdotto dall’attore. Infatti, la legge non prevede espressamente né che la riconvenzionale sia sottoposta a mediazione obbligatoria, né le modalità processuali di tale eventualità; ed il legislatore, pur intervenuto anche recentemente sul tema quando la questione in esame era ampiamente emersa, nulla ha ritenuto di disporre al riguardo. L’istituto processuale in questione, precisa il Collegio, si inserisce in un contesto riformatore che esprime la ratio di costituire «una reale spinta deflattiva e contribuire alla diffusione della cultura della risoluzione alternativa delle controversie» (così la relazione illustrativa al d.lgs. n. 28 del 2010). Ciò, al fine di preservare la “risorsa” della giurisdizione, nella «consapevolezza, sempre più avvertita, che, a fronte di una crescente domanda di giustizia, anche in ragione del riconoscimento di nuovi diritti, la giurisdizione sia una risorsa non illimitata e che misure di contenimento del contenzioso civile debbano essere messe in opera» (Corte cost. 19 aprile 2018, n. 77). Da ciò l’adozione degli istituti processuali diretti, in via preventiva, a favorire la composizione della lite in altro modo, quali le misure di Adr (Alternative dispute resolution), cui sono riconducibili le procedure di mediazione, la negoziazione assistita, il trasferimento della lite alla sede arbitrale; nella stessa linea è la previsione generale del codice di rito civile, con gli artt. 185 e 185- bis c.p.c., relativi al tentativo di conciliazione ed alla formulazione della proposta di conciliazione da parte del giudice.
La Corte nota come anche il giudice delle leggi abbia avvicinato, quanto alla ratio di indurre le parti a conciliarsi nell’intento di economizzare la risorsa giustizia, gli strumenti c.d. alternativi, quale la mediazione, all’attività del giudice stesso nel processo: il quale, in adempimento di un suo compito essenziale, conoscendo gli atti e le parti, ha tutto l’agio e le competenze per tentare la conciliazione lungo tutto il corso del processo, così come ora prevede l’art. 185-bis c.p.c., «fino al momento in cui fissa l’udienza di rimessione della causa in decisione» (non solo «alla prima udienza, ovvero sino a quando è esaurita l’istruzione», come recitava la norma prima delle modifiche apportate dal d.lgs. n. 149 del 2022). La mediazione rientra tra le disposizioni «finalizzate, unitamente alle altre adottate in materia di giustizia, alla realizzazione dei comuni e urgenti obiettivi – a loro volta preordinati al rilancio dell’economia – del miglioramento dell’efficienza del sistema giudiziario e dell’accelerazione dei tempi di definizione del contenzioso civile» (Corte cost. 18 aprile 2019, n. 97). «Si è al cospetto, pertanto, di un procedimento contraddistinto dall’obbligatorietà, che deve essere espletato, pena l’improcedibilità della domanda, prima dell’instaurazione di una lite giudiziaria.
Esso, di conseguenza, condiziona, in determinate materie, l’esercizio del diritto di azione» (Corte cost. 20 gennaio 2022, n. 10). L’istituto pone una condizione di procedibilità della domanda giudiziale, specificamente «con finalità deflattiva» (Corte cost. 20 gennaio 2022, n. 10 e 18 aprile 2019, n. 97, citt.).
La mediazione, evidenzia il Collegio, con l’auspicata conciliazione delle controversie mira a transigere le liti, evitando, in tal modo, che il soggetto debba ottenere soddisfazione attraverso gli organi di giustizia, con elevati costi e tempi, che nocciono alla parte, come al sistema giudiziario nel suo complesso. Il fine, dunque, è l’auspicata non introduzione della causa, risolta preventivamente innanzi all’organo apposito, in via stragiudiziale. Ciò induce a ritenere, secondo il Collegio, che la riconvenzionale c.d. non eccentrica non sia sottoposta alla condizione della mediazione obbligatoria. Nel caso di specie, si evidenzia che la mediazione è stata già esperita senza esito positivo, prima del processo o nel termine concesso dal giudice, dall’attore: onde la condizione di procedibilità è soddisfatta e la lite pende ormai innanzi ad un giudice, che ne resta investito. La mediazione obbligatoria si collega non alla domanda sic et simpliciter, ma al processo, che ormai è pendente, onde, essendo la causa insorta, la funzione dell’istituto viene meno, non avendo avuto l’effetto di prevenzione per la instaurazione del processo: in quanto essa si collega alla causa, non alla domanda come tale, in funzione deflattiva del processo. Pertanto, una volta che la domanda principale sia stata regolarmente proposta dopo che la mediazione abbia già fallito l’obiettivo, una nuova mediazione obbligatoria relativa alla domanda riconvenzionale – pur volendo trascurare ogni previsione sulle sue possibilità di successo, che non rilevano a questi fini interpretativi – non realizzerebbe, in ogni caso, il fine di operare un «filtro» al processo innanzi ad un organo della giurisdizione. Il giudice è già investito della controversia introdotta dall’attore, di cui non verrebbe ormai spogliato, neppure se il tentativo sulla domanda del convenuto avesse esito positivo, dovendo il processo proseguire per la decisione sulla domanda principale e, dunque, al più, con una mera “riduzione” del suo oggetto.
Posto che l’istituto ha esclusive finalità di economia processuale ricorda la Corte, nel senso di evitare il proliferare di cause iscritte innanzi all’organo giudiziario, imporre un successivo, o più successivi ad ogni ulteriore domanda proposta nel giudizio, tentativi obbligatori di conciliazione, nel contempo differendo la trattazione della causa per mesi ad ogni nuova domanda proposta in giudizio, è un effetto eccessivo non voluto dalla norma rispetto allo scopo deflattivo perseguito.
Quindi, le Sezioni Unite considerano il caso della proposizione della riconvenzionale c.d. eccentrica alla lite, che allarga l’oggetto del giudizio senza connessione con quello già introdotto dalla parte attrice. Qui, ad escludere la condizione di procedibilità concorrono – accanto alla ratio normativa di deflazione dei processi richiamata – ulteriori criteri d’interpretazione: quali il principio della certezza del diritto, che si oppone alla causazione di ulteriore contenzioso sul punto, e quello della ragionevole durata del processo.
Per la Corte, sotto il primo profilo, occorre rilevare l’inadeguatezza di soluzioni intermedie, al fine di preservare il bene della certezza del diritto. Viene ricordato come nei precedenti relativi alle controversie agrarie, ai sensi dell’art. 46 l. 3 maggio 1982, n. 203, la Cassazione ritiene che il tentativo di conciliazione debba precedere anche la domanda riconvenzionale da parte del convenuto (cfr. Cass. 11 novembre 2022, n. 33379; Cass. 26 maggio 2014, n. 11644; Cass. 23 agosto 2013, n. 19501, in motivazione; Cass. 14 novembre 2008, n. 27255; Cass. 15 luglio 2008, n. 19436; Cass. 16 novembre 2007, n. 23816; Cass. 18 gennaio 2006, n. 830; Cass. 28 luglio 2005, n. 15802; Cass. 2 agosto 2004, n. 14772, ove non è massimato questo punto; Cass. 22 ottobre 2002, n. 14900; Cass. 19 febbraio 2002, n. 2388; Cass. 8 giugno 1999, n. 5613; Cass. 1° dicembre 1998, n. 12196; Cass. 7 marzo 1992, n. 2753). Peraltro, il Collegio evidenzia come l’immanente insoddisfazione per la soluzione, attesi tutti gli inconvenienti sopra indicati e che vengono all’evidenza avvertiti dai giudici, ha indotto a compiere una serie di distinguo: i quali, se riescono a scongiurare alcuni di quegli inconvenienti, sono forieri poi di un pregiudizio assai più rilevante all’ordinamento nel suo complesso, ossia la compromissione del principio fondante della certezza del diritto, il quale, come è noto, non è un principio come gli altri, ma è essenziale espressione dello Stato costituzionale di diritto, a fini anche di uguaglianza. Così, si afferma che il convenuto in riconvenzionale sia onerato dal tentativo di conciliazione, ma solo se: i) «la domanda riconvenzionale vada ad ampliare l’ambito della controversia rispetto ai limiti posti alla stessa in sede di esperimento del tentativo di conciliazione di cui alla domanda principale» (Cass. 26 maggio 2014, n. 11644; Cass. 23 agosto 2013, n. 19501, in motivazione; Cass. 14 novembre 2008, n. 27255; Cass. 19 febbraio 2002, n. 2388; Cass. 4 aprile 2001, n. 4982; Cass., 26 febbraio 1998, n. 2117); ii) «la riconvenzionale investa aspetti nuovi della controversia, che se conosciuti e valutati dalle parti unitamente a quelli per i quali vi è già vertenza giudiziaria, potrebbero condurre ad una definizione bonaria della lite, evitando l’intervento del giudice» (Cass. 27 aprile 1995, n. 4651), in quanto «si espongono aspetti nuovi della controversia che, se conosciuti anticipatamente, avrebbero potuto condurre ad una definizione bonaria della controversia» (Cass. 14 novembre 2008, n. 27255, la quale reputa, sulla base di tale premessa, non ampliati i confini della controversia dalla domanda riconvenzionale di risarcimento del danno, ove lo sforzo di affermare che «la domanda principale era diretta a sentire dichiarare la validità ed efficacia del contratto di soccida inter partes e, pertanto, implicitamente, la verifica che nessun inadempimento si era verificato da parte dell’attore»; ivi i giudici del merito avevano ritenuto, al fine di dimostrare come per effetto della riconvenzionale si sia avuto un ampliamento della materia del contendere, rilevante che si fosse posta l’esigenza di espletamento della c.t.u. riconnessa proprio alla domanda riconvenzionale e non a quella di pagamento formulata dalla soccidaria; Cass. 1° dicembre 1999, n. 13359; Cass. 8 giugno 1999, n. 5613); iii) «la domanda stessa [non] si ricolleghi direttamente al contrasto tra le parti ed alle pretese fatte valere dall’attore che abbia esperito la procedura in questione» (Cass. 8 agosto 1995, n. 8685); iv) «il convenuto [non] abbia già dedotto le relative richieste nella procedura di conciliazione sperimentata dall’attore» (Cass. 16 novembre 2007, n. 23816; Cass. 14 luglio 2003, n. 10993; Cass. 17 gennaio 2001, n. 593; Cass. 8 agosto 1995, n. 8685; Cass. 5 ottobre 1995, n. 10447).
Dunque, precisa la Corte, la tesi in esame afferma la necessità del tentativo anche per la domanda riconvenzionale, ma con distinzioni casistiche. Peraltro, i tanti distinguo rivelano l’imbarazzo, percepito dalle stesse decisioni che li propongono, di ritardare il processo con ulteriori oneri, quando le parti comunque non siano addivenute ad un accordo bonario palesando una indisponibilità al riguardo: onde si palesa trattarsi di un adempimento non conforme al parametro di ragionevolezza, in quanto non funzionale allo scopo di evitare l’intervento della giurisdizione mediante un componimento bonario della lite. In tal modo, essa è foriera di eccessiva incertezza del diritto.
Per il Collegio, è facile, invero, prevedere code e sviluppi contenziosi allorché, proposta la domanda riconvenzionale senza mediazione, si sostenga dall’una e dall’altra parte, secundum commoda, che la domanda riconvenzionale “amplia l’ambito”, si “ricollega al contesto”, concerne questioni “intorno alle quali il tentativo si è svolto”, “si ricolleghi direttamente al contrasto tra le parti ed alle pretese fatte valere dall’attore”, che nella domanda di conciliazione “erano già esposti tutti i fatti, nonché la valutazione giuridica degli stessi” o “il convenuto abbia già dedotto le relative richieste nella procedura di conciliazione sperimentata dall’attore” o che, con la sua nuova domanda, “espone aspetti nuovi della controversia che, se conosciuti anticipatamente, avrebbero potuto condurre ad una definizione bonaria della controversia”. Ed invero, molti possono essere i profili e le questioni dubbie, se il linguaggio resta vago ed i concetti controvertibili. Non questo è il senso del tentativo obbligatorio di mediazione o di conciliazione, precisa la Corte, ma proprio il fine opposto deflattivo delle liti giudiziarie, nell’an e nel tempus. Imporre di valutare se la domanda riconvenzionale «investa aspetti nuovi che se conosciuti e valutati dalle parti unitamente a quelli per i quali vi è già vertenza, giudiziaria, potrebbero condurre ad una definizione bonaria della lite, evitando l’intervento del giudice» (Cass. 27 aprile 1995, n. 4651) è ancora più arduo: impingendo così il criterio, invero, in una valutazione dello stato psicologico e dell’intendimento soggettivo presunto o ricostruito ex post (analogamente es. agli artt. 1419 e 1424 c.c.: dove però la scelta del legislatore ha ben altra ratio di conservazione degli atti giuridici e sicurezza dei traffici). Con evidenti forzature, volta a volta, da parte del giudicante, cui neppure la stessa Corte è rimasta immune: come quando (Cass. 14 novembre 2008, n. 27255) ha ritenuto che, proposta domanda diretta a sentir dichiarare la validità ed efficacia del contratto di soccida inter partes, la domanda riconvenzionale di risoluzione per inadempimento e di risarcimento del danno fosse ricompresa nella prospettazione attorea, avente ad oggetto «implicitamente, la verifica che nessun inadempimento si era verificato da parte dell’attore», nonché fosse «irrilevante, al fine di pervenire ad una diversa conclusione, [è] la circostanza che solo nella riconvenzionale si invochino i danni assertivamente patiti dalla società convenuta a causa del comportamento di quella attrice, atteso – da una parte – che la richiesta di danni è consequenziale alla pronunzia di risoluzione, dall’altra, che … non è sufficiente un mero ampliamento del petitum perché sorga l’obbligo, per il convenuto in via riconvenzionale, di sollecitare un nuovo tentativo di conciliazione ai sensi della l. 3 maggio 1982, n. 203, art. 46»; e che neppure, «al fine di dimostrare come per effetto della riconvenzionale si sia avuto un ampliamento della materia del contendere è sufficiente considerare che l’esigenza di espletamento della c.t.u. si riconnette proprio alla domanda riconvenzionale e non a quella di pagamento formulata dalla soccidaria», come invece reputato dal giudice di merito. Ulteriore complicazione, per la Corte, induce la tesi in discorso, laddove compaia il difensore in sede conciliativa, ove pure si fosse trattata ogni questione, e tuttavia ovviamente egli non avesse il mandato degli attori al riguardo (cfr. Cass. 23 agosto 2013, n. 19501).
Sotto il secondo profilo, per il Collegio, sussistono limiti, individuati dallo stesso legislatore positivo e dal giudice delle leggi, contro l’allungamento dei tempi dovuti alla mediazione obbligatoria ed altri simili istituti, in ossequio al principio di ragionevole durata del processo.
In particolare, specifica la Corte, l’esigenza di non cadere in soluzioni controproducenti emerge con chiarezza, invero, dalle regole positive dettate dal legislatore, nel testo normativo in esame ed il altri similari, sul piano della interpretazione teleologica e avuto riguardo allo scopo perseguito dal legislatore medesimo. i) Anzitutto, nell’art. 23, secondo comma, d.lgs. n. 28 del 2010 è stabilito che «Restano ferme le disposizioni che prevedono i procedimenti obbligatori di conciliazione e mediazione, comunque denominati, nonché le disposizioni concernenti i procedimenti di conciliazione relativi alle controversie di cui all’art. 409 del codice di procedura civile. I procedimenti di cui al periodo precedente sono esperiti in luogo di quelli previsti dal presente decreto». In tal modo, si è voluto escludere il concorso di analoghi istituti. Del pari, l’art. 3, primo comma, secondo periodo, d.l. n. 132 del 2014, conv. nella l. n. 162 del 2014 (Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile) prevede la convenzione di negoziazione assistita per chi intende proporre in giudizio una domanda di pagamento a qualsiasi titolo di somme non eccedenti cinquantamila euro, ma «fuori dei casi previsti … dall’articolo 5, comma 1-bis, del decreto legislativo 4 marzo 2010 n. 28». Infine, la medesima prospettiva restrittiva emerge dai commi 3 e 6 dell’art. 5 d.lgs. n. 28 del 2010, rispettivamente concernenti altre specifiche procedure e peculiari esclusioni. Dunque, l’“eccesso di mediazione” è stato temuto e scongiurato dal legislatore mediante le riportate previsioni, ed altre analoghe, che escludono l’ipotesi del concorso di diverse procedure di conciliazione o mediazione obbligatoria, o altre condizioni di procedibilità «comunque denominat[e]»: dettando una disciplina che risolve, in tal modo, il concorso tra la mediazione obbligatoria e le altre condizioni di procedibilità della domanda giudiziale, escludendo un doppio e contemporaneo “filtro alla giurisdizione”, ma optando, invece, per l’alternatività di procedure. Una diversa soluzione, invero, secondo la Corte, avrebbe determinato una gravosa duplicazione di costi superflui per le parti, attesa la necessità di assistenza difensiva in tutte le procedure, onde avrebbe finito per costituire, piuttosto, un serio ostacolo al raggiungimento di una soluzione conciliativa e causa di ritardo nella soluzione della lite insorta. ii) A ciò si aggiunga il disposto dell’art. 5, comma 2, secondo periodo, d.lgs. n. 28 del 2010, secondo cui «L’improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d’ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza». Il legislatore, conclude il Collegio, ha dunque, pur nel favor per la soluzione alternativa delle controversie, circoscritto la condizione di improcedibilità al rilievo d’ufficio o all’eccezione di parte entro un limite processuale assai ristretto (la prima udienza). iii) Nella stessa direzione milita la generale previsione di una durata massima del procedimento di mediazione – fissata in tre mesi, prorogabile di ulteriori tre mesi dopo la sua instaurazione e prima della sua scadenza con accordo scritto delle parti – ai sensi dell’art. 6 d.lgs. n. 28 del 2010, termine, inoltre, neppure soggetto a sospensione feriale: a confermare che per il legislatore il tentativo è utile e necessario, ma solo se esperito in tempi definiti e non foriero, invece, di ulteriori ritardi. iv) Ancora, espressamente l’art. 7 d.lgs. n. 28 del 2010 si preoccupa del principio della ragionevole durata del processo: stabilendo che «Il periodo di cui all’articolo 6 e il periodo del rinvio disposto dal giudice ai sensi dell’articolo 5, comma 2 e dell’articolo 5-quater, comma 1, non si computano ai fini di cui all’articolo 2 della legge 24 marzo 2001, n. 89». Ricorda il Collegio che, al di là dell’intervento restrittivo di Corte cost. 6 dicembre 2012, n. 272, come delle perplessità in dottrina sollevate circa la reale precettività della disposizione ai fini del computo del termine ragionevole di cui all’art. 6 Cedu (quanto alla possibilità di escludere il tempo utilizzato per il procedimento di mediazione, ove questo costituisca, in virtù del diritto interno, un presupposto indispensabile per l’accesso alla tutela giurisdizionale), il punto è che il conflitto con il fondamentale principio della ragionevole durata è avvertito chiaramente dallo stesso legislatore.
In ordine alla costanza, da parte del giudice delle leggi, nel ritenere non violato dalla mediazione obbligatoria l’art. 24 Cost., laddove questo tutela il diritto di azione, in quanto detto principio «non comporta l’assoluta immediatezza del suo esperimento, ben potendo la legge imporre oneri finalizzati a salvaguardare ”interessi generali”, con le dilazioni conseguenti», interessi individuati nell’evitare «che l’aumento delle controversie attribuite al giudice ordinario… provochi un sovraccarico dell’apparato giudiziario, con conseguenti difficoltà per il suo funzionamento» e nel favorire «la composizione preventiva della lite, che assicura alle situazioni sostanziali un soddisfacimento più immediato rispetto a quella conseguita attraverso il processo» (Corte cost. 13 luglio 2000, n. 276; e già sent. n. 46 del 1974; n. 47 del 1964; nn. 56, 83 e 113 del 1963; n. 40 del 1962), per le Sezioni Unite resta tuttavia il rilievo del principio generale di ragionevolezza delle restrizioni a tale diritto, in ispecie in comparazione con un reale effetto positivo dell’istituto conciliativo: ossia per gli scopi, ora ricordati, di non investire affatto il giudice della lite e di dare presto a questa soluzione stragiudiziale, nei limiti, quindi, in cui tale effetto positivo verosimilmente sussista, e non sia, invece, irragionevolmente ed inevitabilmente soppiantato da ritardi non più giustificabili, perché non idonei a realizzare détti scopi. Le previsioni ricordate ai punti precedenti, specifica la Corte, hanno un’indubbia valenza sistematica, al fine dell’individuazione di un «appropriato meccanismo di coordinamento, ispirato alla considerazione necessariamente unitaria della vicenda sostanziale dedotta in giudizio e all’esigenza di salvaguardare la ragionevole durata del processo (art. 111, secondo comma, Cost.), senza vanificare, con inutili intralci, l’effettività della tutela giurisdizionale (art. 24 Cost.)», secondo l’esigenza ravvisata dalla Corte costituzionale (Corte cost. 12 dicembre 2019, n. 266, nel dichiarare inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, commi 1, secondo e terzo periodo, e 5, d.l. n. 132 del 2014). La Corte costituzionale da tempo rileva che, se simili strumenti «tendono, infatti, ad evitare l’abuso del diritto alla tutela giurisdizionale, nondimeno l’adempimento di un onere, lungi dal costituire uno svantaggio per il titolare della pretesa sostanziale, rappresenta il modo di soddisfazione della posizione sostanziale più pronto e meno dispendioso»: proprio lo scongiurare «l’abuso… della giurisdizione, in vista di un interesse della stessa funzione giurisdizionale, è stato sovente la ratio espressa della “giurisdizione condizionata”.
Le Sezioni Unite precisano che il principio di economia processuale, inteso come più efficace e pronta soluzione dei conflitti, ha solitamente fondato la rispondenza dei condizionamenti censurati alla previsione costituzionale del diritto di azione» (Corte cost. 4 marzo 1992, n. 82). In altre occasioni, la giurisprudenza costituzionale ha affermato la legittimità di quelle regole, che subordinano «l’esercizio dei diritti a controlli o condizioni, purché non vengano imposti oneri o modalità tali da rendere impossibile o estremamente difficile l’esercizio del diritto di difesa o lo svolgimento dell’attività processuale» (sent. 13 aprile 1977, n. 63), in particolare stabilendo che il tentativo di conciliazione riguardo alle cause agrarie non costituisce «adempimento vessatorio di difficile osservanza né un’insidiosa complicazione processuale tale da ledere il diritto di difesa dell’attore» (Corte cost. 21 gennaio 1988, n. 73). Per la Corte costituzionale, dunque, la mediazione obbligatoria non viola il diritto di azione, sancito dalla Costituzione, soltanto laddove risulti idoneo a produrre il risultato vantaggioso del c.d. effetto deflattivo, senza mai divenire tale da provocare un inutile prolungamento dei tempi del giudizio. Le indicazioni del giudice delle leggi additano, in sostanza, una linea di equilibrio fra il principio di azione di ordine costituzionale e le deroghe che possono esservi apportate in funzione di interessi di estrema rilevanza, ma confermano il carattere eccezionale delle ipotesi limitative: ne deriva che le condizioni di procedibilità stabilite dalla legge non possono essere aggravate da una interpretazione che conduca ad estenderne la portata (Cass. 21 gennaio 2004, n. 967, con riguardo alla conciliazione lavoristica). Analogamente, come ricorda anche la relazione del Massimario, il principio della tutela giurisdizionale effettiva costituisce un principio generale del diritto comunitario, derivante dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, sancito dagli artt. 6 e 13 della CEDU (intitolati, rispettivamente, “Diritto a un equo processo” e “Diritto a un ricorso effettivo”), oltre ad essere stato ribadito anche dall’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 (intitolato “Diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale”). Viene in rilievo anche l’art. 67, par. 4, TFUE, secondo il quale “l’Unione facilita l’accesso alla giustizia, in particolare attraverso il principio del reciproco riconoscimento delle decisioni giudiziali ed extragiudiziali in materia civile”. Con sentenza del 18 marzo 2010, C-317, C-318, C-319 e C320, la Corte di giustizia dell’Unione europea ha escluso che il tentativo obbligatorio di conciliazione di cui all’art. 1, comma 11, della l. n. 249/1997 confligga col diritto comunitario (in particolare, con l’art. 34 della direttiva 2002/22/CE, relativa al servizio universale e ai diritti degli utenti in materia di reti e di servizi di comunicazione elettronica), rimarcando come la conseguente restrizione ai diritti fondamentali degli utenti sia legittima, in quanto tesa al perseguimento di obiettivi di interesse generale e non sproporzionata rispetto a questi ultimi.
Per il Collegio, dunque, tutto quanto esposto indica l’esistenza un bilanciamento degli interessi, già operato dal legislatore positivo e confermato come legittimo dal giudice delle leggi: in quanto, se è vero che anche un ripetuto strumento conciliativo extragiudiziale potrebbe condurre, a volte, ad una soluzione favorevole della lite al secondo, al terzo o ulteriore tentativo, è pur vero che così si finirebbe per contraddire l’intento di rendere più rapida e meno onerosa per tutti la risoluzione della controversia, quando questa sia ormai comunque instaurata. Effetto deflattivo, ragionevole durata e divieto di inutili intralci sono, dunque, principî ampiamente presenti anche innanzi al giudice delle leggi. L’art. 5 d.lgs. n. 28 del 2010 estende a numerose materie la mediazione obbligatoria, al fine di evitare l’introduzione della lite ed assicurare una maggiore celerità al processo, non di ostacolarla oltre il ragionevole. Dovendosi dunque, piuttosto, secondo il legislatore pervenire – è la ratio sottesa – al processo ordinario, una volta infruttuosamente esperito il tentativo di mediazione in via obbligatoria senza che esso sia andato a buon fine, quale condizione di procedibilità da applicare al solo atto introduttivo, non a tutte le “domande” proposte nel processo.
Con il fine di auspicata riduzione dei generali tempi di definizione del contenzioso civile, rileva, ancora, il Collegio, si porrebbe in irrimediabile contrasto l’effetto di estendere alla domanda riconvenzionale un ulteriore e ripetuto analogo tentativo. Invero, l’art. 5, comma 2, terzo periodo, d.lgs. n. 28 del 2010 prevede che il giudice, quando rileva che la mediazione non è stata esperita o conclusa, fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine di tre mesi (più tre, su accordo delle parti) di cui all’art. 6: con un inevitabile, ma dal legislatore ponderato, allungamento dei tempi processuali. In tal modo, se si reputasse obbligato anche il convenuto in riconvenzionale ad esperire la mediazione, i tempi si allungherebbero, però, in modo non prevedibile. Il differimento della trattazione, previsto dal legislatore quale strumento per contrastare l’elusione della condizione di procedibilità prescritta per la domanda introduttiva, si dilaterebbe oltre ogni modo: il rinvio necessariamente riguarderebbe non soltanto la trattazione della domanda riconvenzionale, ma l’intero giudizio, ivi compresa la domanda introduttiva, sebbene ormai procedibile, onde pure il pericolo di abusi ad opera del convenuto. La mediazione obbligatoria, affermano le Sezioni Unite, svolge un ruolo proficuo, solo se non si presti ad eccessi o abusi. La mediazione, più che accertamento di diritti, è “contemperamento di interessi”, con semplicità di forme e rapidità di trattazione, anche senza verifiche fattuali: è una sorta di “esperimento” finalizzato ad un accordo negoziale, che va certamente tentato, nella prospettiva assunta dal legislatore, ma prima di intraprendere la causa in funzione di scongiurare la originaria iscrizione a ruolo, e che non avrebbe senso diluire e prolungare oltre misura., Ma la soluzione che volesse sottoporre la domanda riconvenzionale a mediazione obbligatoria, proseguono, ancora le Sezioni Unite, dovrebbe – per coerenza – essere estesa ad ogni altra domanda fatta valere in giudizio, diversa ed ulteriore rispetto a quella inizialmente introdotta dall’attore: non solo, quindi, la domanda riconvenzionale, ma anche la riconvenzionale a riconvenzionale (c.d. reconventio reconventionis), la domanda proposta da un convenuto verso l’altro, oppure da e contro terzi interventori, volontari o su chiamata. Del pari, potrebbero esperirsi tante successive mediazioni non simultanee, con una assai poco efficiente gestione separata dei conflitti, che difficilmente condurrebbe ad un proficuo ed unitario accordo fra tutte le parti; mentre il processo necessariamente vedrebbe una trattazione disordinata e disarticolata, in attesa dell’esperimento di tanti tentativi di conciliazione stragiudiziali.
In definitiva, affermano le Sezioni Unite, la mediazione obbligatoria ha la sua ratio nelle dichiarate finalità di favorire la rapida soluzione delle liti e l’utilizzo delle risorse pubbliche giurisdizionali solo ove effettivamente necessario: posta questa finalità, l’istituto non può essere utilizzato in modo disfunzionale rispetto alle predette finalità ed essere trasformato in una ragione di intralcio al buon funzionamento della giustizia, in un bilanciamento dal legislatore stesso operato, secondo una lettura costituzionale della disposizione in esame, affinché, da un lato, non venga obliterata l’applicazione dell’istituto, e dall’altro lo stesso non si determini una sorta di “effetto boomerang” sull’efficienza della risposta di giustizia. Per ogni altro profilo, sussiste il compito generale del giudice, a fini di risparmiare risorse giurisdizionali e non emettere la sentenza, di tentare e proporre egli stesso la conciliazione (artt. 185, 185-bis c.p.c.), dove il tentativo di conciliazione potrà avere svolgimento con maggiore probabilità di esito positivo. Va anche precisato che spetta al mediatore, nel diligente adempimento del suo incarico professionale, esortare le parti a mettere ogni profilo “sul tappeto”, ivi comprese altre richieste del convenuto. Ciò, ai sensi dell’art. 8, comma 3, d.lgs. n. 28 del 2010: «Il mediatore si adopera affinché le parti raggiungano un accordo amichevole di definizione della controversia», dunque l’intera lite tra di loro. L’accordo sarà ricompreso nella proposta di conciliazione ex art. 11 del d.lgs., secondo cui, se è raggiunto un accordo amichevole, il mediatore forma processo verbale al quale è allegato il testo dell’accordo medesimo, mentre, quando l’accordo non è raggiunto, il mediatore può formulare una proposta di conciliazione; in ogni caso, il mediatore formula una proposta di conciliazione se le parti gliene fanno concorde richiesta in qualunque momento del procedimento. Piuttosto, la trattazione congiunta di più interessi di cui le varie parti siano portatrici sarà possibile all’interno dell’unico procedimento di mediazione: situazione che in diritto è ammessa ed in fatto è auspicabile, come è proprio delle funzioni di un bonario componimento degli interessi, affidato ad un terzo preparato ed estraneo alle parti. La mediazione torna un modo attraverso il quale le parti provano a risolvere la lite, anche in maniera diversa dall’applicazione rigorosa delle norme che regolano la vicenda, ricercando un equilibrio tra i rispettivi interessi, purché questi vengano peraltro adeguatamente ponderati e non ridotti forzatamente “a pari merito”, il tutto innanzi ad un organo apposito, per scongiurare l’introduzione della lite innanzi ad un giudice.
Le Sezioni Unite, all’esito dell’iter argomentativo, enunciano il seguente principio di diritto: «La condizione di procedibilità prevista dall’art. 5 d.lgs. n. 28 del 2010 sussiste per il solo atto introduttivo del giudizio e non per le domande riconvenzionali, fermo restando che al mediatore compete di valutare tutte le istanze e gli interessi delle parti ed al giudice di esperire il tentativo di conciliazione, per l’intero corso del processo e laddove possibile».