Giurisprudenza Penale
Peculato e plurioffensività della condotta: per la Cassazione penale rileva o la lesione del patrimonio della P.A. o quella dell’imparzialità dell’Amministrazione. Nessuna sanzione penale se il bene mobile viene utilizzato per il soddisfacimento dell’interesse privato mantenendo la destinazione istituzionale.
Di Davide Cerrato
NOTA A SENTENZA CASS. PEN., SEZ. VI, 28 OTTOBRE 2024, N. 39546
Peculato e plurioffensività della condotta: per la Cassazione penale rileva o la lesione del patrimonio della P.A. o quella dell’imparzialità dell’Amministrazione. Nessuna sanzione penale se il bene mobile viene utilizzato per il soddisfacimento dell’interesse privato mantenendo la destinazione istituzionale.
Di Davide Cerrato
Abstract
Il contributo ha ad oggetto una recentissima statuizione della Cassazione penale, datata 28 ottobre 2024, nella quale vengono recuperati risalenti orientamenti della stessa giurisprudenza penale di legittimità in tema di plurioffensività della condotta incriminata dall’art. 314 c.p. e di bene giuridico tutelato dalla norma penale incriminatrice. Gli Ermellini ritengono che duplice sia l’interesse salvaguardato mediante la sanzione penale (imparzialità, legalità e buon andamento dell’azione amministrativa e patrimonio della P.A.) e che mai si realizzi interversione del possesso laddove l’utilizzo della res mobile mantenga comunque la destinazione istituzionale.
The contribution concerns a very recent ruling of the criminal Court of Cassation, dated 28 October 2024, in which dating back orientations of the same criminal jurisprudence of legitimacy are recovered about multi-offensiveness of the conduct incriminated by the art. 314 c.p. and of legal property protected by the incriminating criminal disposition. The judges believe that the interest safeguarded through the criminal sanction is twofold (impartiality, legality and good performance of the administrative action and assets of the Public Administration) and that interversion of possession never occurs where the use of the mobile res still maintains the institutional destination.
Peculato – art. 314 c.p. – art. 78 legge n. 121/1981 – legalità – imparzialità – buon andamento – Pubblica amministrazione - patrimonio - interversione
Massima
“[…] Il delitto di peculato ha natura plurioffensiva, tutelando tanto il patrimonio della pubblica amministrazione, quanto l'interesse alla legalità, all'imparzialità ed al buon andamento del suo operato, perciò risultando integrato, qualora tale interesse venga leso, anche in assenza di un danno patrimoniale per l'amministrazione. […] Il nucleo di disvalore del peculato dev'essere ravvisato nell'abuso, da parte del pubblico funzionario, del possesso della cosa in ragione del suo ruolo: nello sfruttamento, cioè, di quest'ultimo, e della disponibilità della cosa che esso gli garantisce, per destinare la stessa al profitto proprio od altrui e distoglierla dal suo scopo istituzionale. Il che può ben accadere anche in assenza di un pregiudizio economico per l'ente pubblico.
[…] Se questa, dunque, è la ratio della norma incriminatrice in esame, la risposta al quesito se l'uso concomitante della cosa per finalità private ed istituzionali costituisca peculato non può che essere negativa, per lo meno nella misura in cui da esso non derivi un apprezzabile pregiudizio economico o funzionale per l'amministrazione, giacché deve escludersi che si realizzi, in tali casi, l'interversione del possesso della cosa […] in cui risiede l'essenza dell'offesa criminale che la norma intende punire”.
Il Fatto
A.A., funzionario della Polizia di Stato nonché dirigente del Compartimento di polizia stradale del Trentino-Alto Adige, era imputato in primo grado di peculato d’uso ex art. 314, secondo comma, c.p. e di arbitraria utilizzazione di prestazioni lavorative ex art. 78, legge n. 121/1981.
Il processo tenutosi innanzi al Tribunale di Bolzano si è tuttavia concluso con sentenza di assoluzione, la quale è stata impugnata dal P.M. innanzi alla Corte d’Appello di Trento – Sezione distaccata di Bolzano. Quest’ultima, accogliendo l’appello e riformando la sentenza di primo grado, ha condannato A.A. per quei reati ritenuti insussistenti nel precedente grado di giudizio (sentenza del 30 novembre 2023). Il funzionario avrebbe indebitamente utilizzato autovetture del Compartimento di polizia stradale e si sarebbe avvalso dei relativi autisti per conseguire il profitto personale consistente negli spostamenti da T (luogo della propria abitazione) a B (località dell’ufficio).
La Corte d’Appello ha sostenuto che gli incontri tra A.A. e il personale soggetto alla sua direzione non costituissero affatto riunioni operative, ma contatti estemporanei, pur dovendo l’imputato sapere (o sapendo) che l’utilizzo delle autovetture di servizio dovesse (e debba) di norma essere finalizzato unicamente a spostamenti necessari per ragioni di servizio (D.P.C.M. 25 settembre 2014). L’alloggio in T era poi messo gratuitamente a disposizione da “Autostrada del B” s.p.a., ciò che consentiva all’imputato di beneficiare delle indennità senza alcuna riduzione del 20%.
La riduzione percentuale è infatti normalmente prevista se vitto e alloggio sono a carico dell’amministrazione, ma nel caso di specie A.A. avrebbe conseguito un vero e proprio profitto economico.
A.A. ha però impugnato la sentenza di condanna d’appello con ricorso per cassazione. I suoi difensori hanno fatto leva sul fatto che la Corte d’Appello non abbia fornito una motivazione “rafforzata” ai fini della riforma della sentenza assolutoria, soffermandosi su profili irrilevanti ai fini dell’individuazione della natura delle riunioni tenutesi tra il dirigente del Compartimento di polizia stradale e i dipendenti. In sostanza, i giudici d’appello hanno soltanto tenuto conto della breve durata degli incontri e del fatto che essi si tenessero al di fuori delle sedi istituzionali, travisando pure le risultanze probatorie dalle quali si evincerebbe che quelle riunioni in realtà fossero istituzionali e che gli uffici di T avessero significatività nel Compartimento.
Le autovetture venivano inoltre utilizzate, a detta dei difensori, sempre nell’alveo del ruolo istituzionale ricoperto da A.A., che indossava in ogni caso la divisa e richiedeva ai dipendenti di trasportarlo da T a B sulla base di ordini di servizio documentati. La scelta di alloggiare nell’abitazione in T sarebbe poi stata determinata dal fatto che il soggetto che precedentemente abitava nell’appartamento in B non avesse provveduto a liberare rapidamente quest’ultimo. A seguito della liberazione dell’appartamento ubicato in B, A.A. avrebbe difatti fornito subito apposita comunicazione all’Amministrazione.
Rispetto all’elemento psicologico del reato, sia il decreto di archiviazione della denuncia per truffa che la Corte dei conti avrebbero escluso la configurazione dell’intento doloso. I veicoli sarebbero stati utilizzati esclusivamente per gli spostamenti da T a B, con l’istituzione di un registro specifico finalizzato a documentare questi ultimi e senza alcun agere illecito, con errore (scusabile) sul fatto costituente reato e non su legge extrapenale rappresentata dal D.P.C.M. 25 settembre 2014 (non scusabile).
Rispetto invece ai connotati offensivi delle condotte poste in essere, la motivazione fornita dai giudici d’appello sarebbe viziata in quanto le vetture sarebbero sempre rimaste nella sfera di attività amministrativa e una di esse (una “Hyundai”) sarebbe persino di proprietà di “Autostrada del B” e non dell’Amministrazione, essendo quest’ultima soltanto proprietaria dell’altra (una “Alfa Romeo”). Il danno verrebbe tra l’altro correlato alla destinazione di un soggetto alla funzione di autista del dirigente A.A., ma il ruolo risulterebbe essere già stato previsto in quell’ufficio prima dell’arrivo dell’imputato. La confisca ex art. 322-ter c.p. è stata poi disposta con riferimento alla somma dei costi dei viaggi effettuati con entrambe le automobili, pur non avendo la P.A. sostenuto nessun tipo di spesa con riferimento a una delle due (la “Hyundai).
La Decisione
Gli Ermellini hanno sostanzialmente accolto il ricorso per cassazione, sostenendo che l’imputato non avesse mai utilizzato le due autovetture al di fuori delle finalità istituzionali. Ciò perché comunque l’alloggio ubicato in T era sito nell’edificio in cui si trovavano gli uffici della polizia stradale in cui il Compartimento si articolava, ed anche perché gli incontri con il personale hanno sempre avuto riguardo anche a tematiche di tipo organizzativo. La breve durata di questi ultimi dipendeva in effetti proprio dalla peculiare collocazione degli edifici, la quale non rendeva necessaria alcuna tipologia di programmazione delle riunioni.
La Suprema Corte ha dovuto statuire in particolar modo sul se il delitto di peculato ex art. 314 c.p. possa dirsi integrato nell’ipotesi in cui un pubblico ufficiale faccia uso di un bene del quale disponga in ragione dell’ufficio per soddisfare un interesse privato, pur quando la res mantenga la destinazione istituzionale. Richiamando datati orientamenti delle Sezioni Unite (Cass. Pen., SS.UU. nn. 38691/2009 e 19054/2012), i giudici di legittimità penale hanno ribadito il carattere plurioffensivo del reato di peculato: l’art. 314 c.p. viene così integrato anche laddove non venga leso il bene giuridico del patrimonio della P.A., dovendosi rinvenire la ratio giustificatrice della norma penale incriminatrice in questione pure nella salvaguardia della legalità, dell’imparzialità e del buon andamento dell’attività amministrativa. Gli Ermellini hanno danno per la verità conto anche dell’orientamento dottrinale contrario a questa posizione – il quale ritiene che la condotta incriminata ex art. 314 c.p. sia “alternativamente monoffensiva” se così intesa. Essi sostengono, tuttavia, che vadano condivisi gli orientamenti giurisprudenziali più risalenti richiamati in sentenza, in quanto sarebbe connotato da disvalore penale il fatto dello sfruttamento del ruolo di pubblico ufficiale (o di incaricato di pubblico servizio) a fini di utilizzazione della res per scopi propri o altruistici differenti da quelli istituzionali. Una condotta di questo tipo può aversi, a detta dei giudici di legittimità, anche laddove la P.A. utilizzi gratuitamente un bene di un privato o laddove “l’utilizzo indebito [di un bene di proprietà della P.A. stessa] non determini per la medesima un aggravio di spesa”, e di certo il fatto non va considerato privo di carica offensiva per il sol fatto di non star ledendo il bene giuridico del patrimonio della Pubblica amministrazione.
Di conseguenza, l’iter argomentativo conduce la Suprema Corte a rispondere negativamente alla domanda che si è inizialmente posta: se la res viene utilizzata per soddisfare un interesse privato, ma l’uso medesimo non priva la stessa del perseguimento del fine istituzionale, in assenza di un danno al patrimonio della P.A. non potrà discorrersi di peculato. In un’ipotesi di questo tipo, infatti – che è poi anche quella del caso all’esame – non si ha alcuna interversione del possesso.
L’imputato pertanto va assolto in quanto non sussiste né peculato ex art. 314 c.p. né arbitraria utilizzazione di prestazioni lavorative ex art. 78 della legge n. 121/1981. A.A. ha fatto uso delle automobili e del personale del Compartimento svolgente il ruolo di autista per gli spostamenti dall’abitazione all’ufficio, ma l’abitazione medesima è ubicata nello stesso edificio ove si trovano gli uffici sottoposti a direzione. Proprio una situazione di questo tipo ha fatto sì che non si producesse alcun pregiudizio per il patrimonio dell’Amministrazione. Con la statuizione all’esame gli Ermellini hanno quindi annullato senza rinvio la decisione della Corte d’Appello, “perché il fatto non sussiste”, disponendo pure la revoca della confisca dei beni mobili ex art. 322-ter c.p.
Conclusioni e brevi riflessioni sistematiche.
Il risalente orientamento della giurisprudenza penale in tema di peculato (Cass. Pen., SS.UU. nn. 38691/2009 e 19054/2012), venendo richiamato in questa recentissima statuizione degli Ermellini, resta consolidato e pare condivisibile: al di là della semplice lesione del patrimonio della P.A., è a garanzia dei valori costituzionali sanciti dall’art. 97, secondo comma, Cost.[1] che l’art. 314 c.p. è posto. Impedire che un soggetto dotato della qualifica di pubblico ufficiale – la cui norma definitoria è rappresentata dall’art. 357 c.p. – o di quella di incaricato di un pubblico servizio – la cui definizione si rinviene invece nel successivo art. 358 c.p. – significa salvaguardare la correttezza dell’operato delle Pubbliche amministrazioni, impedendo che l’attività amministrativa esercitata per il tramite di coloro che forniscano un servizio pubblico o svolgano una funzione pubblica legislativa, amministrativa o giudiziaria possa essere distolta dal perseguimento di interessi pubblicistici in favore del soddisfacimento di interessi personali o del conseguimento di un personale profitto. L’art. 1, comma 1 della legge 241/1990 non solo dispone che “L’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge” (legalità), ma pure che l’agere publicum sia retto, tra l’altro, dal criterio dell’imparzialità, che assurge anche al rango di valore e principio primario e fondamentale dell’ordinamento giuridico nazionale. L’imparzialità è, del resto, qualificata dalla giurisprudenza amministrativa come principio che permea “inderogabilmente […] l’attività amministrativa in ogni svolgimento”, declinandosi, ad esempio, nel dovere per la P.A. di ammettere ogni soggetto alla fruizione dei servizi pubblici, nel divieto di operare favoritismi e nell’obbligo di astensione del funzionario dalla partecipazione ad un atto nel quale abbia un interesse, anche “per interposta persona”[2].
Sempre stando alla disposizione normativa appena menzionata, anche i principi del diritto europeo reggono l’azione delle Pubbliche amministrazioni, e tra questi indubbiamente si rinviene quello della buona amministrazione sancito dall’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, con previsione del rimedio risarcitorio da parte dell’Unione medesima per i danni recati ad un soggetto da istituzioni o agenti europei nell’esercizio delle loro funzioni (art. 41, par. 3, Carta UE). Legalità, imparzialità e buon andamento hanno una portata ordinamentale così significativa da venir tutelati anche sul fronte penalistico ogniqualvolta il pubblico funzionario commetta un abuso consistente nello sfruttamento del proprio ruolo al fine di appropriarsi di denaro o di una res mobile altrui o di utilizzare temporaneamente tali beni, giungendo poi a restituirli. Ciò può certamente verificarsi, come ribadito dagli Ermellini il 28 ottobre 2024, “anche in assenza di un pregiudizio economico per l’ente pubblico”. Non può peraltro ricorrersi alla sanzione penale – e ciò soprattutto nell’ottica del rispetto del principio di extrema ratio caratteristico del diritto penale e ricavabile argomentando dall’inviolabilità della libertà personale ex art. 13, primo comma, Cost.[3] – laddove il bene altruistico, pur essendo fatto oggetto di un uso destinato al soddisfacimento di un interesse privato, mantenga la sua destinazione istituzionale: in tal caso, infatti, non vi è interversione del possesso e non può discorrersi né di lesione del patrimonio della P.A né di offesa al corretto spiegarsi dell’agere publicum. Del resto, nullum crimen sine iniuria, in quanto cogitationis poenam nemo patitur: i principi di offensività e materialità di cui tali brocardi sono espressivi[4] implicano, come è noto, che l’intento delittuoso debba trovare estrinsecazione in un comportamento materiale sostanziantesi in una lesione o messa in pericolo – appunto un’offesa – del bene giuridico che la norma penale incriminatrice intende salvaguardare mediante l’irrogazione di una sanzione dotata di un significativo grado di afflittività. Nel caso di specie, l’ampia formula assolutoria legata all’insussistenza del fatto ex art. 530, primo comma, c.p.p., viene utilizzata dalla Suprema Corte in ragione della mancanza di elementi essenziali della fattispecie[5], essendo stata in ogni caso preservata la destinazione di tipo istituzionale delle res mobili (le autovetture) utilizzate per gli spostamenti.
BIBLIOGRAFIA
Cass. Pen., SS.UU, 25 giugno 2009, n. 38691
Cass. Pen., SS.UU., 20 dicembre 2012, n. 19054
Cass. Pen., Sez. VI, 28 ottobre 2024, n. 39546, “Peculato”, “Truffa”, in https://onelegale.wolterskluwer.it/document/cass-pen-sez-vi-sent-data-ud-09-07-2024-28-10-2024-n-39546/10SE0002919079?searchId=2739001653&pathId=09dc7fe3e69dd&offset=0
T.A.R. Calabria, Reggio Calabria, Sez. I, 19 maggio 2016, n. 517
AA.VV., “Istituzioni di diritto amministrativo”, Giappichelli Editore, Torino, pag. 47
FIANDACA G., MUSCO E., “Diritto penale. Parte generale”, VIII Edizione, Zanichelli Editore, Bologna, 2019, pag. 13
TONINI P., CONTI C., “Manuale di procedura penale”, XXIII Edizione, Giuffrè Francis Lefebvre, Milano, 2022.
[1] La disposizione in questione recita che “I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione”, sancendo principi propri dell’azione e dell’organizzazione amministrativa che assumono anche la valenza di beni giuridici tutelabili in sede penale.
[2] Cfr. T.A.R. Calabria, Reggio Calabria, Sez. I, 19 maggio 2016, n. 517, pronuncia indicata in AA.VV., “Istituzioni di diritto amministrativo”, Giappichelli Editore, Torino, pag. 47.
[3] Come sostenuto da autorevole dottrina, questa disposizione “riprova ulteriormente che l’uso della coercizione penale va limitato in rapporto a quei soli casi, che lasciano apparire inevitabile il costo di una restrizione della libertà come effetto dell’imposizione della sanzione”. Ancora, la medesima dottrina sostiene che la sanzione penale determini pure un significativo sacrificio della dignità sociale, trasformandosi in un ostacolo di non poco momento alla “piena estrinsecazione della persona umana”. Ne consegue pertanto anche l’operatività degli artt. 2 e 3 Cost., disposizioni che con l’art. 13 Cost. vanno lette in combinato disposto ai fini della determinazione del carattere sussidiario dello strumento penalistico. Si veda FIANDACA G., MUSCO E., “Diritto penale. Parte generale”, VIII Edizione, Zanichelli Editore, Bologna, 2019, pag. 13.
[4] Principi che non operano soltanto nell’ambito del diritto sostanziale, imponendo al legislatore di orientare le scelte di politica criminale verso l’incriminazione delle sole condotte materiali lesive di beni giuridici ricavabili anche implicitamente dal novero dei principi costituzionali, ma pure sul fronte processual-penalistico, imponendo al giudice dibattimentale di emanare una sentenza di proscioglimento dell’imputato ogniqualvolta accerti la carenza dell’effettività della lesione o messa in pericolo al bene giuridico al quale nelle aule parlamentari si è deciso di apprestare apposita salvaguardia.
[5] Stando a quando affermato da condivisibile dottrina (TONINI P., CONTI C.), la formula assolutoria legata all’insussistenza del fatto viene adottata dall’organo giudicante ogniqualvolta il fatto storico ricostruito mediante le prove non integri gli elementi oggettivi della fattispecie incriminatrice tipizzata dal legislatore, “poiché non risultano presenti gli elementi di fatto che dovrebbero integrare la condotta, l’evento o il rapporto di causalità”. Per un approfondimento sulle caratteristiche tipiche della sentenza di assoluzione e sull’art. 530 c.p.p., si consenta di rinviare a TONINI P., CONTI C., “Manuale di procedura penale”, XXIII Edizione, Giuffrè Francis Lefebvre, Milano, 2022.