ISSN 2039 - 6937  Registrata presso il Tribunale di Catania
Anno XVI - n. 04 - Aprile 2024

  Unione Europea



Osservatorio sulla Giurisprudenza dell'Unione Europea aggiornato al 30 aprile 2016. A cura di Maria Novella Massetani

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  • Sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea nella causa C – 695 / 15 Shiraz Baig Mirza / Bevandorlasi és Allampolgarsagi Hivatal

    La fattispecie in esame riguarda un cittadino pakistano entrato illegalmente in Ungheria dalla Serbia. Presenta una prima domanda di protezione internazionale nel territorio ungherese. Durante la procedura il soggetto in questione ha abbandonato il luogo di soggiorno, così le autorità competenti hanno chiuso la pratica perché implicitamente ritirata dal richiedente.

    Successivamente il cittadino pakistano viene fermato nella Repubblica ceca; così le autorità ceche hanno chiesto all’Ungheria di riprendere l’interessato. Le autorità ungheresi hanno accolto la richiesta. Il cittadino pakistano ripresenta allora domanda di protezione internazionale, che però le autorità respingono per irricevibilità, in quanto ritengono che per il richiedente la Serbia devesse essere qualificata come paese terzo sicuro.

    La Corte di Giustizia, investita della questione, afferma che il diritto di inviare un richiedente protezione internazionale in un paese terzo sicuro può essere esercitato da uno Stato membro dopo che quest’ultimo abbia dichiarato di essere competente. 

    Il regolamento di Dublino III n. 604/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013 non impone allo Stato membro competente un obbligo di informare lo Stato membro che provvede al trasferimento circa il contenuto della sua normativa nazionale in materia di invio di richiedenti in Paesi terzi sicuri o della sua prassi amministrativa. Un’assenza di comunicazione al riguardo tra i due Stati membri interessati non pregiudica il diritto del richiedente ad un ricorso contro la decisione del trasferimento e contro la decisione sulla domanda di protezione internazionale, come previsto dal diritto comunitario.

    Gli Stati membri possono inviare un richiedente protezione internazionale in un paese terzo sicuro indipendentemente dal fatto che si tratti dello Stato membro competente per l’esame della domanda o di un altro Stato membro. 

  • Sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea nella causa C – 558 / 14 Mimoun Khachab / Subdelegacion del Gobierno en Alava

    Nella fattispecie la Corte si occupa della materia dei ricongiungimenti familiari. 

    Ad un cittadino di un Paese terzo, residente in Spagna e titolare di un permesso di soggiorno di lunga durata, è stato negato il ricongiungimento familiare riguardante il coniuge per non aver dimostrato che disponeva di risorse sufficienti per mantenere la propria famiglia. 

    La Corte di Giustizia, chiamata a pronunciarsi, afferma che la normativa spagnola è compatibile con la direttiva sul ricongiungimento familiare.

    La direttiva 2003/86/CE del Consiglio del 22 settembre 2003 ha lo scopo di favorire il ricongiungimento con i familiari che non siano cittadini europei. Gli Stati membri devono autorizzare l’ingresso e il soggiorno del coniuge del soggiornante, fatta salva l’osservanza di alcuni requisiti, ossia disporre di un alloggio, di un’assicurazione malattia, risorse stabili, regolari e sufficienti per sopperire ai propri bisogni e di quelli dei familiari. Gli Stati membri possono respingere una domanda di ricongiungimento familiare oppure respingere o non rinnovare il permesso qualora le condizioni indicate nona siano o non siano più soddisfatte. 

    La normativa spagnola dispone che il permesso di soggiorno al fine del ricongiungimento dei familiari non cittadini UE deve essere negato se sia accertato che non esiste una prospettiva di mantenimento delle risorse nel corso dell’anno successivo alla data di presentazione della domanda. Tale valutazione si fonda sull’evoluzione dei redditi del soggiornante nel corso dei sei mesi precedenti la presentazione della domanda.

    La Corte di Giustizia osserva che la direttiva prevede espressamente che gli Stati membri debbano valutare la regolarità delle risorse del soggiornante, quindi un’analisi periodica della loro evoluzione. Sottolinea, inoltre, che tale interpretazione è corroborata dal fatto che l’ambito di applicazione della direttiva è limitato ai soggiornanti che abbiano ottenuto un permesso di soggiorno di almeno un anno e che abbiano una fondata prospettiva di ottenere il permesso soggiorno permanente. Tale valutazione richiede un esame della futura evoluzione della situazione del soggiornante. Tale interpretazione è confermata da uno degli scopi della direttiva, cioè la prova relativa alla stabilità, regolarità e sufficienza delle risorse consente allo Stato membro di assicurarsi che sia il soggiornante sia i suoi familiari non rischino di diventare un onere per il sistema si assistenza sociale. La Corte ritiene che il periodo di un anno durante il quale il soggiornante deve disporre di risorse sufficienti è ragionevole e proporzionato, dato che tale periodo corrisponde alla durata della validità del permesso di soggiorno di cui il soggiornante deve almeno disporre per poter chiedere il ricongiungimento familiare. 

  • Sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea nella causa C - 377 / 14 Ernest Georg Radlinger e Helena Radlingerova / Finway a.s.

    La fattispecie che ha dato origine alla pronuncia della Corte di Giustizia prende inizio dal fatto che alcune persone hanno stipulato un contratto di credito al consumo in 120 rate; si sono impegnate a versare penalità elevate qualora non fossero rispettati gli obblighi contrattuali. Successivamente la società stipulante ha ceduto i crediti ad altra società la quale invita le persone in questione a rimborsare l’intero debito, compresi gli interessi, le spese e le penalità, adducendo che la società non era stata informata di un’esecuzione ordinata sui bene di loro proprietà. Così è stato aperto un procedimento di insolvenza nei loro confronti.

    La Corte di Giustizia chiamata a pronunciarsi afferma che l’obbligo del giudice nazionale di esaminare l’osservanza d’ufficio del rispetto delle norme dell’Unione in materia di tutela dei consumatori da parte dei professionisti, si applica ai procedimenti di insolvenza e anche ai contratti di credito al consumo.

    La direttiva 93/13/CEE osta alla normativa ceca che non consente al giudice di procedere all’esame dal carattere abusivo di una clausola stipulata in un contratto concluso con i consumatori anche qualora disponga degli elementi di diritto e di fatto necessari a tale scopo. Un giudice nazionale investito di una controversia relativa a crediti derivanti da tale contratto deve anche esaminare d’ufficio se le informazioni relative al credito che devono essere menzionate siano state riportate in modo chiaro e conciso. L’importo totale del credito non può includere nessuna delle somme rientranti nel costo totale del credito, cioè somme destinate a rispettare gli impegni presi in base al credito, quali le spese amministrative, gli interessi, le commissioni, ecc. La Corte conclude affermando che il giudice nazionale è tenuto a valutare l’effetto cumulativo di tutte le clausole del contratto e, nel caso in cui accerti il carattere abusivo di alcune di esse, a escludere tutte quelle che sono abusive.

  • Sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea nella causa C –26 / 15 Spagna / Commissione

    La Spagna ha impugnato davanti alla Corte di Giustizia la sentenza del Tribunale per vederla annullata. La Corte ha respinto l’impugnazione della Spagna.

    Il regolamento n. 1234/2007 relativo al commercio degli agrumi dispone che gli imballaggi di tali frutti devono recare indicazioni esterne che precisino gli egenti conservanti o altre sostanze chimiche. Con tale disposizioni la Commissione ha voluto assicurare la corretta applicazione della legislazione comunitaria sugli additivi alimentari. Essa si è discostata da una norma, quella CEE ONU FFV 14, non vincolante, secondo cui l’indicazione dell’utilizzo di conservanti o di altre sostanze chimiche è necessaria soltanto se richiesta dalla legislazione del paese importatore. 

    Il Tribunale ha respinto il ricorso perché la Commissione non è tenuta ad adottare una norma di commercializzazione degli agrumi indicata dalla norma CEE ONU FFV 14, ritendo che non sono stati violati i principi di parità di trattamento, di non discriminazione e nemmeno il principio di proporzionalità.

    La Corte afferma che la sentenza del Tribunale è sufficientemente motivata e che ha giustamente ritenuto la disposizione proporzionata allo scopo perseguito. E’ ragionevole che il consumatore sia avvertito dei trattamenti effettuati sugli agrumi dopo la raccolta, dal momento che, a differenza dei frutti buccia sottile, gli agrumi possono essere trattati con dosi molto più elevate di sostanze chimiche e possono entrare a far parte dell’alimentazione umana. Il fatto che né la legislazione specifica sugli agenti conservanti e altre sostanze chimiche utilizzate nei trattamenti post-raccolta né la legislazione relativa all’informazione del consumatore impongano una particolare etichettatura quando ai pesticidi usati dei trattamenti agricoli non comporta che alla Commissione sia impedito adottare una norma di commercializzazione che tenga conto dell’interesse dei consumatori a ricevere informazioni mirate e trasparenti nonché delle raccomandazioni relative alle norme CEE ONU. Tale circostanza non impedisce che la Commissione adotti una disposizione che prevede un’etichettatura menzionante i trattamenti effettuati dopo la raccolta.