ISSN 2039 - 6937  Registrata presso il Tribunale di Catania
Anno XVI - n. 04 - Aprile 2024

  Civile



Osservatorio sulla Giurisprudenza Civile al 31 marzo 2017. A cura di Giulia Pagano e Ottavio Grasso

   Consulta il PDF   PDF-1   

  • 1. Corte di Cassazione, Sez. III, n. 3553 del 10 febbraio 2017: comodato e recedibilità ad nutum

    La Corte di Cassazione conferma l’orientamento, ormai consolidato, in merito al contratto di comodato  di immobile destinato a casa familiare che, anche in caso di crisi coniugale, ha impresso un vincolo di destinazione, da cui può essere ricavato un termine implicito, per cui il recesso può essere esercitato solo ex art. 1809 c.c., secondo comma, e non ad nutum come previsto dall’art. 1810 c.c.

    Nello specifico, si trattava di un immobile concesso dalla madre in comodato al figlio ed all’allora di lui compagna, per soddisfare le loro esigenze abitative dopo la nascita del figlio. In seguito alla separazione ed all’affidamento del figlio alla madre, la suocera agisce in giudizio per ottenere il rilascio dell’immobile, affermando che trattasi di comodato a tempo indeterminato, ex art. 1810 c.c, per cui il comodante può recedere immediatamente dal contratto, ad nutum, chiedendo l’immediata restituzione del bene.

    Il tema del rapporto, dopo la crisi coniugale, dell’assegnazione della casa al coniuge affidatario dei figli ed il precedente comodato relativo al medesimo immobile destinato a casa familiare, era stato già affrontato nel 2004, dalle Sezioni Unite (Cass. S.U. 13603/2004). Secondo il supremo organo di nomofilachia, quando il bene è stato concesso in comodato per soddisfare le esigenze abitative dei coniugi, il comodante può recedere solo ex art. 1809 c.c., secondo comma, anche in caso di separazione o di divorzio, perché si concentra nella persona del coniuge affidatario dei figli (sia minorenni che maggiorenni quando non autosufficienti) il titolo di godimento. Di conseguenza, il rapporto di comodato non si estingue al sopravvenire della crisi coniugale, perché perdurano le esigenze abitative familiari, almeno fino al raggiungimento dell’indipendenza economica dei figli.

    Le Sezioni Unite si erano preoccupate anche di distinguere tra i due diversi tipi di comodato: quello a tempo determinato ex art. 1809 c.c., nel quale il termine può essere espresso oppure può essere desunto dall’uso cui il bene è destinato, e quello a tempo indeterminato (c.d. comodato “precario”) ex art. 1810. Nel primo caso il comodante non è libero di recedere, ma deve attendere la scadenza del termine per porre fine al rapporto di comodato (salvo urgente ed impreveduto bisogno), mentre nel secondo caso il comodante può chiedere l’immediata restituzione del bene, con recesso ad nutum.

    Ciò premesso, le Sezioni Unite avevano, altresì, precisato che dal comodato, stipulato senza termine espresso, in favore delle esigenze abitative del nucleo familiare, il termine poteva essere “ricavato” dall’uso a cui era destinata la cosa. Di conseguenza, il comodato doveva intendersi come comodato a termine, con la conseguente applicazione dell’art. 1809 c.c., secondo comma, per la recedibilità dal contratto.

    Se non che le stesse S.U., in maniera poco chiara, definivano il comodato de quo come “precario”, facendo sorgere delle incertezze circa il corretto inquadramento dello stesso. I dubbi sorti dall’utilizzo di questa terminologia sono stati poi fugati nel 2014, da una successiva pronuncia, sempre delle Sezioni Unite, dove si osservava come fosse “improprio” l’utilizzo del termine “precario” con riferimento al comodato ad uso familiare, perché tale fattispecie non può essere ricondotta al contratto senza determinazione di durata ex art. 1810 c.c., bensì nel contratto a termine ex art. 1809 c.c. Inoltre, le S.U. escludono l’applicabilità della regola generale ex art. 1183 c.c., e ciò sulla base dei principi costituzionali a tutela della famiglia, anche nel momento di crisi: infatti il comodatario, in questo caso, non riceve il bene a titolo personale, ma come esponente del nucleo familiare.

  • 2. Corte di Cassazione, Sez. I, sentenza n. 3331 del 8 febbraio 2017: violazione della riservatezza e soglia di risarcibilità.

    Con la sentenza in commento, la prima sezione della Corte di Cassazione affronta il tema della risarcibilità del danno non patrimoniale derivante da lesione del diritto alla riservatezza.

    La Corte applica, al riguardo, il principio di diritto espresso con le note Sezioni Unite del 2008, in virtù del quale il risarcimento del danno non patrimoniale, anche quando previsto espressamente dalla legge (art. 15 del codice della privacy), e pur comportando una lesione di un diritto fondamentale (artt. 2, 21 Cost e 8 CEDU) (c.d. lesione costituzionalmente qualificata), non si sottrae alla verifica della “gravità della lesione” e della “serietà del danno”.

    Infatti, in merito alle condizioni necessarie affinché possa essere invocato il risarcimento del danno non patrimoniale, si erano già espresse nel 2008 le Sezioni Unite (Sentt. nn. 26972, 26973, 26974, 26975, dette “sentenze di San Martino”). In breve, le SU avevano stabilito che, ai fini della risarcibilità del danno non patrimoniale, oltre alla lesione di un diritto costituzionalmente qualificato, è necessario che l’entità del danno patito dall’interessato superi la c.d. “soglia di risarcibilità”. La lesione del diritto deve oltrepassare una soglia minima, cagionando un danno grave e serio. Ciò in applicazione del principio di solidarietà (art. 2 Cost.), per cui vanno accettati e tollerati i pregiudizi futili e/o irrisori.

    L’evidente finalità è quella di escludere dal novero del risarcimento le liti c.d. bagatellari (l’orientamento della Corte, in questo senso, è consolidato), sul presupposto che quando il danno è irrisorio, è irrilevante per la coscienza sociale. I criteri della “gravità della lesione” e della “serietà del danno” sono, quindi, dei filtri che applicano un bilanciamento tra la solidarietà verso la vittima e la tolleranza verso pregiudizi futili.

    La verifica di tali condizioni rispondeva, più che altro, all’esigenza di far fronte all’allargamento delle maglie di risarcibilità del danno non patrimoniale, dovuta ad una pronuncia della Consulta del 2003 (sent. n. 233/2003), che ne aveva esteso la portata a tutti gli interessi costituzionalmente garantiti, e non solo ai casi tassativi di legge (come previsto dall’art. 2059 c.c.), sollevando numerose osservazioni critiche da parte della dottrina.

    Nel caso de quo, la Corte è stata investita dell’applicabilità della c.d. soglia di risarcibilità del danno non patrimoniale anche laddove il ristoro sia previsto espressamente e direttamente dalla legge, in particolare dall’art. 15 del codice della privacy. In altri termini l’interrogativo posto all’attenzione della Suprema Corte era se le condizioni della “gravità della lesione” e della “serietà del danno” siano dovute anche nel caso in cui il risarcimento del danno sia previsto ex lege?   

    La terza sezione della Corte di Cassazione, sempre su un caso concernente la violazione della riservatezza, si era già espressa in senso positivo tre anni fa, con la sentenza n. 16133 del 2014, statuendo che “il diritto fondamentale alla protezione dei dati personali non vive isolatamente, ma simbioticamente con gli altri ed implicati diritti fondamentali ed inviolabili della persona umana, operando strumentalmente per la sua integrale tutela. In tale quadro, non la mera violazione delle prescrizioni determinerà, quindi, una lesione ingiustificata del diritto fondamentale alla protezione dei dati personali, ma soltanto quella che ne offenda in modo sensibile (e cioè oltre la soglia di tollerabilità) la sua portata effettiva, calata in un contesto in cui si combinano strettamente i diritti e le libertà contemplate dai primi due articoli del codice, perché il risultato sia quello di una tutela piena della persona umana a fronte di un vulnus concreto ed effettivo, che, come tale, necessita di essere ristorato”. 

    La violazione di legge non è quindi requisito sufficiente, da solo, per invocare la risarcibilità del danno: il comportamento contra ius comporta l’antigiuridicità della condotta, ma non ancora l’ingiustizia del danno, che è esclusa quando il danno è futile o irrisorio.  Inoltre, il diritto alla riservatezza “non vive da solo”, ma fa parte del sistema giuridico, e come tale si relaziona con gli altri diritti fondamentali, meritevoli di tutela, per cui va attuato un bilanciamento con questi ultimi. Per questo motivo vanno tollerate le lesioni futili e irrisorie, in virtù del principio di solidarietà, di cui il principio di tolleranza è intrinseco precipitato.

    La pronuncia del 2014, inoltre, si preoccupa di dare una definizione dei criteri della gravità della lesione e della serietà del danno. La “gravità della lesione” attiene al momento dell’evento dannoso, e quindi al pregiudizio arrecato al diritto: tale criterio si riflette sul profilo dell’ingiustizia del danno, che non può predicarsi in presenza di una offesa minima. La “serietà del danno” attiene, invece, al piano delle conseguenze della lesione, e quindi alla sua risarcibilità in relazione alla perdita effettiva subita.

    La sentenza in commento si allinea a questo orientamento, ribadendo che la mera violazione delle prescrizioni di legge non basta ai fini della risarcibilità, perché è sempre necessario verificare che il diritto sia stato leso oltre la soglia minima, accertabile attraverso i criteri  della “gravità della lesione” e della “serietà del danno”.

    D’altra parte, l’orientamento della Corte trova conforto anche da parte della giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo. La Suprema Corte ricorda che, ai sensi dell’art. 35 della Convenzione, occorre verificare in concreto che la violazione del diritto abbia raggiunto una soglia minima di gravità tale da giustificare l’esame della causa da parte del giudice internazionale (Corte EDU, sentenza Cusan e Fazzo c. Italia, n. 77/07, 7 gennaio 2014), anche se “la valutazione di questo livello minimo è relativa, dipende da tutte le circostanze del caso concreto, e va compiuta tenendo conto sia della percezione soggettiva del ricorrente, sia dell’oggettiva posta in gioco” (CEDU 1° luglio 2010 ricorso n. 25551/05, Korolev c. Russia).

  • 3. Corte di Cassazione, Sezione I, sentenza n. 2224 del 30 gennaio 2017: nullità degli accordi in vista del divorzio.

    Con la sentenza in commento, la prima sezione della Corte di Cassazione affronta nuovamente il tema degli accordi preventivi di divorzio in vista della crisi coniugale, ribadendo l’orientamento ad essi contrario, in quanto trattasi di accordi nulli per illiceità della causa.

    Nel caso di specie il marito, in costanza di matrimonio, aveva versato alla moglie un assegno pari a quasi due milioni di euro, da intendersi come anticipazione dell’assegno di mantenimento e dell’assegno divorzile in caso di futuro divorzio. Secondo la Corte d’Appello la moglie doveva quindi ritenersi soddisfatta, per aver già ottenuto quanto le spettava. Inoltre, si revocava l’assegno ad uno dei due figli, per aver quest’ultimo conseguito l’indipendenza economica, mentre al secondo figlio l’assegno veniva ridotto ad una somma calcolata in base alla retribuzione media di un laureato al primo impiego.

    La decisione della Corte d’Appello si pone in contrasto con il consolidato orientamento, teso a disconoscere la validità degli accordi tra coniugi in vista del divorzio, in forza dei principi generali in materia di matrimonio. 

    È stato infatti più volte affermato dalla Suprema Corte che gli accordi, con i quali i coniugi fissano il regime patrimoniale in vista di future crisi coniugali, sono nulli per illiceità della causa, perché stipulati in violazione del principio fondamentale dettato dall’art. 160 c.c., per cui sono indisponibili i diritti in materia matrimoniale. Di conseguenza un accordo tra coniugi non può implicare la rinuncia all’assegno divorzile, avente natura assistenziale, a tutela del coniuge più debole, anche quando soddisfi appieno le esigenze di quest’ultimo. D’altra parte, sempre secondo la giurisprudenza della Suprema Corte, tali tipi di accordi potrebbero anche determinare il consenso alla dichiarazione degli effetti civili del matrimonio (Cass. n.  1810 e 8109 del 2000, e Cass. n. 23908 del 2009).

    È altresì errata la valenza esclusiva attribuita all’assegno del marito a soddisfazione delle pretese della moglie. Infatti, ai sensi l’art. 5 della L. n. 898/1970, il giudice, nell’accertare il diritto all’assegno divorzile, deve prima verificare l’ inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente, in relazione al tenore di vita goduto in costanza di matrimonio e delle legittime aspettative maturate durante il rapporto. Accertato il diritto, va determinato l’importo dell’assegno, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione e del contributo personale ed economico apportato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio proprio e di quello comune, nonché del reddito di entrambi (sia del richiedente che dell’obbligato), valutandosi tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio. Così da poter accertare non solo il livello socio-economico della famiglia, ma anche quanto lo scioglimento del vincolo abbia inciso sulla situazione economica del richiedente. 

    Nemmeno si può attribuire, secondo i giudici di legittimità, valenza di corresponsione una tantum all’assegno del marito, ai sensi art. 5 c. 8 (per cui l’assegno può essere versato in un’unica soluzione), in quanto non ammesso al di fuori del giudizio di divorzio. Inoltre, una tale ipotesi richiede necessariamente la verifica giudiziale dell’equità dell’accordo, assente nel caso de quo.

    Infine, la Corte si esprime circa l’assegno dovuto ai figli. La Corte, occupandosi del punto della decisione nel quale era stato ridotto l’assegno mensile prendendo a riferimento il reddito medio di un laureato alla prima occupazione, ha ritenuto che una tale statuizione sia in contrasto con il principio di proporzionalità e con il dato normativo che impone di considerare le esigenze del figlio (che devono essere attuali e non generiche) ed il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, sulla base dei tempi di permanenza del figlio presso ciascuno dei genitori e delle risorse dei medesimi.

  • 4. Corte di Cassazione, Sezioni Unite, n. 4090 del 16 febbraio 2017: frazionabilità del credito nei rapporti di durata.

    Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione affrontano il delicato problema della proponibilità o meno, in diversi processi, di domande afferenti pretese creditizie inerenti ad uno stesso rapporto di durata tra le parti.

    Il caso riguardava un ricorso giudiziale di un ex dipendente inteso ad ottenere il ricalcolo del premio fedeltà, includendo lo straordinario prestato a titolo continuativo. La società si opponeva eccependo che lo stesso ricorrente aveva in precedenza proposto domanda volta ad ottenere la rideterminazione del TFR e, per questo motivo, la successiva domanda non poteva essere proposta, perché entrambi i crediti dovevano essere fatti valere in un unico giudizio, per violazione del principio, affermato dieci anni prima dalle S.U. (n. 23726/2007), secondo il quale è vietato l’indebito frazionamento di pretese creditizie dovute ad un unico rapporto obbligatorio.

    Infatti, secondo le Sezioni Unite, la “scissione” del contenuto dell’obbligazione, operata dal creditore, a discapito del debitore (che così subisce un aggravamento della sua posizione), si pone in contrasto non solo con i principi di correttezza e della buona fede, ma anche con quelli del giusto processo, in quanto la pluralità di domande risarcitorie comporta un abuso dello strumento processuale, che si ripercuote sulla tutela del diritto sostanziale. 

    Gli stessi principi erano stati ribaditi dalla pronuncia delle Sezioni Unite n. 26961/2009 concernenti pretese creditizie nascenti da un unico rapporto di lavoro: la stessa obbligazione va adempiuta nella sua interezza, in un’unica soluzione, senza essere frazionata dal debitore o dal creditore.

    Tuttavia, le pronunce indicate si riferivano a casi in cui l’infrazionabilità era riferita ad un singolo credito, e non ad una pluralità di crediti, sebbene facenti capo ad un unico rapporto obbligatorio. Infatti, se è indubbia la ratio che porta a sostenere l’infrazionabilità del singolo credito, più incerta si presenta l’applicazione dello stesso principio in presenza di crediti diversi, distinti ed autonomi, sebbene nascenti da un unico rapporto tra le parti.

    Considerata la complessità della materia e la presenza di contrasti giurisprudenziali, sulla questione vengono chiamate ad esprimersi le Sezioni Unite che, con la sentenza in commento, enunciano il seguente principio di diritto:
"Le domande aventi ad oggetto diversi e distinti diritti di credito, anche se relativi ad un medesimo rapporto di durata tra le parti, possono essere proposte in separati processi. Se tuttavia i suddetti diritti di credito, oltre a far capo ad un medesimo rapporto di durata tra le stesse parti, sono anche, in proiezione, inscrivibili nel medesimo ambito oggettivo di un possibile giudicato o comunque "fondati" sul medesimo fatto costitutivo - sì da non poter essere accertati separatamente se non a costo di una duplicazione di attività istruttoria e di una conseguente dispersione della conoscenza di una medesima vicenda sostanziale -, le relative domande possono essere proposte in separati giudizi solo se risulta in capo al creditore agente un interesse oggettivamente valutabile alla tutela processuale frazionata".


    Ciò che rileva, quindi, ai fini della proponibilità di diverse azioni giudiziarie, in caso di crediti relativi al medesimo rapporto di durata o comunque fondati su uno stesso fatto costitutivo, è che il creditore agente abbia un interesse oggettivo alla tutela processuale frazionata. Invece, quando si tratta di diversi e distinti diritti di credito – anche se relativi ad uno stesso rapporto di durata – non sorge la stessa limitazione, e la tutela giurisdizionale può essere azionata anche in separati processi.

    Nel caso di specie, gli istituti del TFR e del premio fedeltà hanno fonte, presupposti e finalità differenti, e non risultano altresì inquadrabili in un medesimo fatto costitutivo, sebbene scaturenti da uno stesso rapporto di durata tra le parti. Di conseguenza nulla osta alla proposizione di diverse domande in differenti processi, senza che sorga necessità alcuna di verificare la sussistenza di “un interesse oggettivamente valutabile” in capo al creditore.