Civile

Osservatorio sulla Giurisprudenza Civile al 28 febbraio 2017. A cura di Giovanna Nalis
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1. Corte di Cassazione, sezione terza, sentenza n. 243 del 10 gennaio 2017, efficacia causale dell’operato del medico di fiducia sull’autodeterminazione della gestante nelle sue scelte successive.
Una donna, il marito ed i figli citano in giudizio il ginecologo di fiducia per il risarcimento dei danni subiti a seguito della nascita di un bambino affetto dalla sindrome di down. Si ravvisa in particolare nei confronti del medico una violazione dei suoi obblighi informativi che, ove correttamente eseguiti, avrebbero permesso alla gestante di interrompere la gravidanza. Il ginecologo aveva rassicurato la gestante sulle buone condizioni di salute del feto e due mesi dopo la donna, confidando nella corretta diagnosi, si era rifiutata di sottoporsi all’amniocentesi consigliata dai medici dell’ospedale.
In primo e in secondo grado, la domanda è rigettata.
Sulla questione è dunque chiamata a pronunciarsi la Corte di Cassazione.
La sentenza si segnala in tema di individuazione delle regole giuridiche del rapporto causale.
La Suprema Corte rileva come la Corte d’Appello abbia erroneamente applicato il comma 2 dell’art. 41 c.p., attribuendo al rifiuto della donna di sottoporsi ad amniocentesi efficacia causale esclusiva nella determinazione della nascita a sorpresa di un bimbo affetto da sindrome di down, da cui poi era derivato il danno alla salute psico-fisica della donna, cioè una nevrosi ansiosa depressiva. E ciò, nonostante fosse incontestato l’inadempimento del ginecologo.
La Cassazione sostiene invece che l’operato del medico di fiducia e l’affidamento riposto dalla gestante nella sua diagnosi avevano condizionato la scelta della donna, cosicché ella si era rifiutata di sottoporsi agli esami suggeriti dalla struttura ospedaliera.
La Suprema Corte nega l’efficacia esclusiva sopravvenuta alla scelta fatta dalla donna, poiché la perdita della chance di conoscere lo stato di salute del nascituro si era verificata al momento del rifiuto. Il rifiuto di sottoporsi ad amniocentesi non poteva essere interpretato quale rinuncia tacita a lamentare la perdita di chance, dovendo essere inteso quale perdita, astrattamente imputabile anche all’inadempimento del sanitario, della possibilità di conoscere lo stato di salute del feto nel momento in cui è stato manifestato.
La Suprema Corte cassa la sentenza impugnata, stabilendo che la Corte di merito provvederà ad una nuova decisione applicando i seguenti principi di diritto:
a) qualora risulti che un medico ginecologo, cui fiduciariamente una gestante si sia rivolta per accertamenti sulle condizioni della gravidanza e del feto, non abbia adempiuto correttamente la prestazione, per non avere prescritto l’amniocentesi ed all’esito della gravidanza il feto nasca con una sindrome che quell’accertamento avrebbe potuto svelare, la mera circostanza che due mesi dopo quella prestazione la gestante abbia rifiutato di sottoporsi all’amniocentesi presso una struttura ospedaliera in occasione di ulteriori controlli, non può dal giudice di merito essere considerata automaticamente come causa efficiente esclusiva, sopravenuta all’inadempimento, riguardo al danno alla propria salute psico-fisica che la gestante lamenti per avere avuto la 'sorpresa' della condizione patologica del figlio all’esito della gravidanza, occorrendo all’uopo invece accertare in concreto che sul rifiuto non abbia influito il convincimento ingenerato nella gestante dalla prestazione erroneamente eseguita;
b) qualora risulti che un medico specialista in ginecologia, cui una gestante si sia rivolta per accertamenti sulle condizioni della gravidanza e del feto, non abbia adempiuto correttamente la prestazione per non avere prescritto l’amniocentesi ed all’esito della gravidanza il feto nasca con una sindrome che quell’accertamento avrebbe potuto svelare, la mera circostanza che, due mesi dopo quella prestazione, la gestante abbia rifiutato di sottoporsi all’amniocentesi, non elide l’efficacia causale dell’inadempimento quanto alla perdita della chance di conoscere lo stato della gravidanza fin dal momento in cui si è verificato e, conseguentemente, ove la gestante lamenti di avere subito un danno alla salute psico-fisica, per avere avuto la sorpresa della condizione patologica del figlio solo al termine della gravidanza, la perdita di quella chance dev’essere considerata un parte di quel danno ascrivibile all’inadempimento del medico.
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2. Corte di Cassazione, sezione terza, sentenza n. 416 dell’11 gennaio 2017, reticenza dell’assicurato e annullamento del contratto di assicurazione.
In tema di contratto di assicurazione, la Suprema Corte ha più volte affermato che la reticenza dell’assicurato è causa di annullamento negoziale ove si presentino cumulativamente tre condizioni: a) la dichiarazione sia inesatta o reticente; b) la dichiarazione sia stata resa con dolo o colpa grave; c) la reticenza sia stata determinante nella formazione del consenso dell’assicuratore (Cass., Sez. 3, Sentenza n. 25582 del 30/11/2011, Rv. 620624; conf.: Sez. 3, Sentenza n. 16769 del 21/07/2006, Rv. 591763; Sez. 3, Sentenza n. 16406 del 13/07/2010, Rv. 614110).
La sentenza in esame ritiene che la Corte di appello abbia correttamente applicato i suddetti principi. Ha, infatti, accertato in fatto che l’assicurato era consapevole di essere affetto da una grave malattia (cardiopatia post infartuale) e che la reticenza su tale circostanza, espressamente prevista nella polizza, era determinante nella formazione del consenso dell’assicuratore. Ha quindi ritenuto sussistente la fattispecie prevista dal primo comma dell’art. 1892 c.c. : “le dichiarazioni inesatte e le reticenze del contraente, relative a circostanze tali che l’assicuratore non avrebbe dato il suo consenso o non lo avrebbe dato alle medesime condizioni se avesse conosciuto il vero stato delle cose, sono causa di annullamento del contratto quando il contraente ha agito con dolo o con colpa grave)”.
Il giudizio sulla rilevanza delle dichiarazioni inesatte o sulla reticenza del contraente, implicando un apprezzamento di fatto, è riservato al giudice di merito ed è censurabile in sede di legittimità solo se non sia sorretto da una motivazione logica, coerente e completa.
Le censure avanzate dal ricorrente con la richiesta di una nuova e diversa valutazione del materiale istruttorio, riguardando accertamenti di fatto operati dai giudici di merito, non sono pertanto ammissibili in sede di legittimità.
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3. Corte di Cassazione, sezioni unite, sentenza n. 1946 depositata il 25 gennaio 2017, sui diritti del nato da parto anonimo.
Una nota del Presidente dell’Associazione italiana dei magistrati per i minorenni e per la famiglia ha sottoposto alla valutazione dell’Ufficio del pubblico ministero presso la Corte di cassazione il contrasto esistente nella giurisprudenza di merito in materia di parto anonimo e ricerca delle proprie origini da parte dell’adottato a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 278 del 2013. Con tale sentenza è stata dichiarata “l’illegittimità costituzionale della L. 4 maggio 1983, n. 184, art. 28, comma 7, (Diritto del minore ad una famiglia), come sostituito dal D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 177, comma 2, (Codice in materia di protezione dei dati personali), nella parte in cui non prevede - attraverso un procedimento, stabilito dalla legge, che assicuri la massima riservatezza - la possibilità per il giudice di interpellare la madre - che abbia dichiarato di non voler essere nominata ai sensi del D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, art. 30, comma 1, (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell'ordinamento dello stato civile, a norma della L. 15 maggio 1997, n. 127, art. 2, comma 12) - su richiesta del figlio, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione”.
La Corte d’appello di Milano ha aderito ad un orientamento, seguito anche dai Tribunali per i minorenni di Milano, di Catania, di Bologna, di Brescia e di Salerno, che ritiene necessario attendere l’intervento del legislatore. In particolare, l’intervento del giudice in tali casi è considerato indebito ed invasivo degli altri poteri dello Stato.
Vi è invece un altro orientamento di parte dei giudici di merito (il Tribunale per i minorenni di Trieste; il Tribunale per i minorenni per il Piemonte e la Valle d'Aosta; la Corte d’appello di Catania, sezione della famiglia, della persona e dei minori) che, in forza dei principi enunciati dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo (nella sentenza 25 settembre 2012 Godelli c. Italia) e per effetto della sentenza di illegittimità costituzionale del 2013, ammette la possibilità di interpello riservato anche senza legge.
Il Procuratore generale ha chiesto che la Corte di cassazione enunci, in una prospettiva di orientamento del giudice, il principio di diritto secondo il quale: “Per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 278 del 2013, va affermata l’esistenza del diritto dell’adottato (e comunque del) nato da parto anonimo a conoscere le proprie origini con il limite dell’accertata persistenza della volontà della madre biologica di mantenere il segreto; l’esercizio del diritto trova attuazione mediante istanza dell’adottato rivolta al giudice, che dovrà procedere all'interpello della madre con modalità idonee a preservare la massima riservatezza nell’assunzione delle informazioni in ordine alla volontà della donna di mantenere ferma la dichiarazione di anonimato o di revocarla”. A tale conclusione il pubblico ministero perviene sul rilievo che la sentenza n. 278 del 2013 è di accoglimento ed il suo contenuto non si risolve soltanto nella addizione di un principio, ma anche nella indicazione di una regola chiara circa la possibilità di interpello della madre da parte del giudice su richiesta del figlio. La perdurante inerzia del legislatore non potrebbe oltremodo giustificare la violazione di un diritto del figlio, il cui riconoscimento e la cui tutela non trovano più alcun ostacolo normativo nella L. n. 184 del 1983, art. 28, comma 7, ormai espunto dall’ordinamento. Data la particolare rilevanza della questione, il Primo Presidente ha disposto che, sulla richiesta del Procuratore generale, la Corte si pronunci a sezioni unite. Premesso che l’anonimato è una scelta di sistema che vuole favorire la genitorialità naturale ed impedisce l’insorgenza di una genitorialità giuridica, ma che la irreversibilità di questa scelta è stata riconosciuta contrastante con il diritto del figlio a conoscere le proprie origini in quanto diritto coessenziale ad ogni persona umana anche se nata da madre legittimata a rimanere anonima, il Procuratore generale requirente individua i referenti normativi per le modalità di interpello nell’art. 93 del codice in materia di protezione dei dati personali e nella stessa L. n. 184 del 1983, art. 28. Inoltre, l’Ufficio del pubblico ministero osserva che “l’applicazione diretta” della sentenza di incostituzionalità è già intervenuta con due recenti pronunce della 1 Sezione civile della Corte di cassazione, le quali hanno statuito che l’anonimato vale solo per la madre in vita e che, pertanto, dopo la morte della genitrice biologica che aveva scelto il segreto, il figlio adottato può conoscerne l’identità (sentenza 21 luglio 2016, n. 15024; sentenza 9 novembre 2016, n. 22838)”.
La Corte d’appello di Milano, con il decreto da cui ha preso avvio la richiesta del Procuratore generale, ha ritenuto che la mancanza di disciplina legislativa volta a regolamentare l’interpello della madre naturale circa la perdurante attualità della sua scelta di non voler essere nominata, precluda di dare corso alla istanza del figlio.
Il pubblico ministero presso la Corte di cassazione è invece di diverso avviso.
La richiesta del Procuratore generale è ritenuta ammissibile e fondata.
I. Il quadro normativo dal quale trae origine la questione.
La L. n. 184 del 1983, art. 28, commi 5, 6 e 8, nel testo sostituito dalla L. n. 149 del 2001, attribuisce al figlio adottivo che abbia raggiunto l’età di venticinque anni il diritto potestativo di accedere a informazioni che riguardano la sua origine e l’identità dei suoi genitori biologici e consente l’esercizio di questo diritto, anche prima dei venticinque anni, al figlio che abbia raggiunto la maggiore età, se sussistono gravi e comprovati motivi attinenti alla sua salute psico-fisica. Il comma 7 stabiliva tuttavia, come norma di chiusura di tale sistema, una regola invalicabile per il figlio nato da parto anonimo: “(l')accesso alle informazioni non è consentito nei confronti della madre che abbia dichiarato alla nascita di non volere essere nominata ai sensi del D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, art. 30, comma 1”. Tale norma andava letta in collegamento con l’art. 30 del regolamento per la revisione e la semplificazione dell'ordinamento dello stato civile, in tema di dichiarazione di nascita, ove è prevista la necessità di rispettare “l’eventuale volontà della madre di non essere nominata” e con l’art. 93 del codice in materia di protezione dei dati personali, che non permette all’interessato l’accesso al certificato di assistenza al parto o alla cartella clinica, contenenti le informazioni identificative della madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata al momento della nascita, se non trascorsi cento anni dalla formazione di quei documenti. La scelta compiuta dalla madre al momento del parto si connotava per l’assolutezza e l’irreversibilità, proiettandosi su di un arco di tempo eccedente la durata normale della vita umana, cosicché il giudice non poteva fornire alcuna informazione identificativa al figlio.
II. La sentenza n. 425 della Corte Costituzionale del 2005.
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 425 del 2005 giudicò infondata la questione della quale era stata investita per violazione degli articoli 2, 3 e 32 della Costituzione. Affermò che l’assolutezza del diritto all’anonimato era “espressione di una ragionevole valutazione comparativa dei diritti inviolabili dei soggetti della vicenda”, rappresentando la garanzia che il legislatore ha ritenuto necessaria per assicurare che il parto avvenga “in condizioni ottimali, sia per la madre che per il figlio”, e per “distogliere la donna da decisioni irreparabili, per quest’ultimo ben più gravi”. In tale ottica si giustificava l’assenza di un limite temporale nella tutela dell’anonimato della madre.
III. La sentenza n. 278 della Corte Costituzionale del 2013.
La Corte, pur riaffermando il fondamento costituzionale del diritto all’anonimato della madre, ha tuttavia riconosciuto che “anche il diritto del figlio a conoscere le proprie origini - e ad accedere alla propria storia parentale costituisce un elemento significativo nel sistema costituzionale di tutela della persona”, e che “il relativo bisogno di conoscenza rappresenta uno di quegli aspetti della personalità che possono condizionare l'intimo atteggiamento e la stessa vita di relazione di una persona in quanto tale”. Così inquadrati i valori costituzionali in gioco, la Corte ha censurato la disciplina legislativa in esame “per la sua eccessiva rigidità”, dichiarando in contrasto con gli artt. 2 e 3 Cost. l’ “irreversibilità del segreto”.
Il legislatore dovrà introdurre apposite disposizioni volte a consentire la verifica della perdurante attualità della scelta della madre naturale di non volere essere nominata e cautelare in termini rigorosi il suo diritto all’anonimato, secondo scelte procedimentali che circoscrivano adeguatamente le modalità di accesso, anche da parte degli uffici competenti, ai dati di tipo identificativo.
IV. La sentenza Godelli della Corte Edu del 2012.
Tra la prima e la seconda pronuncia della Corte costituzionale è intervenuta, sulla stessa materia, la Corte Europea dei diritti dell’uomo, con la sentenza 25 settembre 2012 Godelli c. Italia.
Per la Corte di Strasburgo, nel perimetro della tutela offerta dall’art. 8 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali rientra anche la possibilità di disporre dei dettagli sulla propria identità di essere umano, poiché si protegge “l’interesse vitale... a ottenere delle informazioni necessarie alla scoperta della verità concernente un aspetto importante della propria identità personale, ad esempio l’identità dei propri genitori”. La Corte Europea ha quindi affermato che la normativa italiana non tenta di mantenere alcun equilibrio tra i diritti e gli interessi concorrenti in causa e che, in assenza di meccanismi destinati a bilanciare il diritto del figlio a conoscere le proprie origini con i diritti e gli interessi della madre a mantenere l’anonimato, dà una preferenza incondizionata agli interessi della madre.
V. Le conclusioni delle sezioni unite della Cassazione.
La Cassazione precisa innanzi tutto che la sentenza n. 278 del 2013 della Corte costituzionale è una pronuncia di accoglimento. Trattandosi di una sentenza di illegittimità costituzionale, essa produce gli effetti di cui all’art. 136 Cost. e L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 30, comma 3, sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale: la norma dichiarata costituzionalmente illegittima (nella specie l'implicita esclusione di qualsiasi possibilità per il figlio nato da parto anonimo di attivare, dinanzi al giudice, un procedimento atto a raccogliere l'eventuale revoca, da parte della madre naturale, della dichiarazione originaria) cessa di avere efficacia e non può avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione.
Si tratta, in particolare, di una sentenza additiva di principio.
Tuttavia, la circostanza che tale pronuncia di incostituzionalità consegni l’addizione ad un principio, senza introdurre regole di dettaglio self-executing quanto al procedimento di appello riservato, e si indirizzi espressamente al legislatore affinchè, previe le necessarie ponderazioni e opzioni politiche, ripiani la lacuna incostituzionale e concretizzi le modalità del meccanismo procedimentale aggiunto, non esonera gli organi giurisdizionali, in attesa che il legislatore adempia al suo compito, dall’applicazione diretta di quel principio, nè implica un divieto di reperimento dal sistema delle regole più idonee per la decisione dei casi loro sottoposti.
La riserva espressa in favore del legislatore si riferisce al piano della normazione primaria e dunque delle fonti del diritto, ma non estromette il giudice comune dal ruolo, costituzionalmente diverso da quello affidato al legislatore, di organo chiamato nel momento applicativo ad individuare e dedurre la regola del caso singolo dai testi normativi e dal sistema, di cui è parte anche il principio vincolante dichiarato dalla Corte costituzionale con la sentenza additiva.
Nel perdurante silenzio del legislatore, l’applicazione in sede giurisdizionale dell’interpello riservato della madre biologica anonima, trova sostegno nei principi elaborati dalla giurisprudenza costituzionale con riguardo alle sentenze additive a dispositivo generico (cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 295 del 1991).
Le additive di principio, infatti, sono pronunce tendenzialmente caratterizzate da una duplice funzione: da un lato, di orientamento del legislatore, nella necessaria attività consequenziale alla pronuncia, diretta a rimediare all’omissione incostituzionale; dall’altro, di guida del giudice nell'individuare, ove possibile, soluzioni applicative utilizzabili medio tempore, estraendo da quel principio, e dal quadro normativo generale esistente, la regola buona per il caso.
Il procedimento utilizzabile al fine di rendere l’additiva di principio suscettibile di seguito giurisdizionale conforme è quello “base”, di volontaria giurisdizione, previsto dalla L. n. 184 del 1983, art. 2, commi 5 e 6, nel corso del quale è stata sollevata dal giudice a quo la questione di costituzionalità accolta dalla Corte costituzionale. Si tratta di un procedimento in camera di consiglio, che si svolge dinanzi al tribunale per i minorenni del luogo di residenza, dettato per la ricerca delle origini del figlio adottato, una volta che questi abbia raggiunto la maggiore età, nel caso in cui la madre non ha fatto la dichiarazione di anonimato. Il procedimento è utilizzabile, con i dovuti adattamenti alla luce della sentenza di illegittimità costituzionale.
Le modalità del procedimento trovano un parametro di riferimento anche nell’art. 93 del Codice in materia di protezione dei dati personali. La norma detta un criterio utile per il giudice che, nel procedere all’interpello della madre, dovrà seguire modalità idonee a preservare la massima riservatezza e segretezza nel contattare la madre per verificare se intenda mantenere ferma la dichiarazione di anonimato o revocarla.
Altro referente normativo utile ai fini della individuazione della regola del caso concreto è desumibile dal comma 6 del citato art. 28, il quale prevede che l’accesso per l’adottato alle notizie sulla sua origine e l’identità dei genitori biologici avvenga con modalità tali da evitare “turbamento all’equilibrio psico-fisico del richiedente”.
L’esigenza di individuare un quadro normativo in via giurisprudenziale deriva anche dalla necessità di ricercare una coerenza con la piena attuazione dei diritti di matrice convenzionale e di interpretare il diritto interno in senso conforme alla CEDU e alle pronunce della Corte Europea. Per i giudici comuni sussiste, infatti, l’obbligo di dare alle norme interne una lettura conforme ai precetti convenzionali (Corte cost., sentenze n. 311 e n. 317 del 2009), fermo il predominio assiologico della Costituzione sulla Convenzione Europea (Corte cost., sentenze n. 348 e n. 349 del 2007 e n. 49 del 2015).
L'ammissibilità di dare seguito giurisprudenziale ai principi esposti è confermata dall’orientamento nel frattempo formatasi nella prima Sezione civile della Corte di Cassazione (sentenza 21 luglio 2016, n. 15024 e sentenza 9 novembre 2016, n. 22838).
Le Sezioni Unite enunciano dunque il seguente principio di diritto nell’interesse della legge: In tema di parto anonimo, per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 278 del 2013, ancorchè il legislatore non abbia ancora introdotto la disciplina procedimentale attuativa, sussiste la possibilità per il giudice, su richiesta del figlio desideroso di conoscere le proprie origini e di accedere alla propria storia parentale, di interpellare la madre che abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione, e ciò con modalità procedimentali, tratte dal quadro normativo e dal principio somministrato dalla Corte costituzionale, idonee ad assicurare la massima riservatezza e il massimo rispetto della dignità della donna; fermo restando che il diritto del figlio trova un limite insuperabile allorchè la dichiarazione iniziale per l’anonimato non sia rimossa in seguito all’interpello e persista il diniego della madre di svelare la propria identità.
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4. Corte di Cassazione, sezione seconda, sentenza n. 1797 del 25 gennaio 2017, contratto per persona da nominare ed effetti prenotativi del preliminare.
La Suprema Corte si sofferma su uno specifico caso, relativo ad un contratto per persona da nominare, privo di precedenti.
Nell’ambito della stipulazione di un contratto preliminare avente ad oggetto la compravendita di un immobile, il contraente B. (promissario acquirente) nomina la società F., ai sensi dell’art. 1401 c.c.¹, la quale stipulerà il definitivo.
La società conviene in giudizio alcuni istituti bancari ritenendo non opponibili nei suoi confronti le ipoteche iscritte sull’immobile dopo la trascrizione del contratto preliminare a favore di B.
Il giudice di primo grado dichiara inefficaci e non opponibili le ipoteche iscritte nei confronti della società F. sull’immobile in questione.
I giudici del secondo grado dichiarano invece efficaci, e dunque opponibili alla società, le ipoteche iscritte a favore delle banche.
La società F. propone ricorso per cassazione.
Nella ricostruzione operata dal Tribunale, per verificare se il contratto definitivo ha costituito esecuzione del preliminare, ai fini della retrodatazione prevista dall’art. 2645 bis c.c., deve farsi riferimento non alla nota di trascrizione del preliminare, ma del definitivo, nella quale occorre si sia dato atto della facoltà del promissario acquirente di nominare un terzo, ai sensi dell’art. 1401 c.c. e dell’esercizio di quella facoltà. Irrilevante la menzione di detta facoltà nel preliminare.
La Corte d’appello ha invece ritenuto di applicare in via analogica i precedenti elaborati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di effetti prenotativi della trascrizione di domande giudiziali. La regolamentazione dell’effetto di “prenotazione” del preliminare, conseguente all’introduzione dell’art. 2645 bis c.c., è considerata disciplina integrativa e speciale rispetto all’art. 2652 n. 2) c.c. per le ipotesi di contratto preliminare trascritto rispetto al quale sussistano i presupposti indicati dal terzo comma dell’art. 2645 bis c.c. Si ritiene che la nota di trascrizione della domanda giudiziale debba essere precisa e specifica e che la sentenza debba avere perfetta coincidenza con la citazione stessa.
La Cassazione rileva tuttavia che in senso opposto dispongono il dato teleologico e il dato letterale.
Per quanto riguarda il primo profilo, è indifferente per il creditore iscritto la trascrizione o meno della riserva di nomina di un terzo unitamente alla trascrizione del contratto preliminare che la contiene: trascorso il termine di tre giorni previsto dalla legge, o quello diverso pattuito dalle parti, il rapporto si consolida comunque in capo allo stipulante. Il contratto per persona da nominare, inquadrato nell’istituto della rappresentanza, produce effetti ex tunc, in via diretta e immediata, nei confronti del terzo. Il contratto si perfeziona prima della dichiarazione di nomina dell’eligendo, la quale ha solo l’effetto di far acquistare ex tunc all’eletto la qualifica di soggetto negoziale e i relativi diritti e obbligazioni.
Per quanto attiene il secondo profilo, la formulazione dell’articolo 1403 c.c., comma 2, depone nel senso che debba essere trascritta la sola dichiarazione di nomina e non anche la riserva di nomina: il contratto per persona da nominare produce l’effetto della sostituzione del nominato all’originario stipulante ex tunc, in via diretta ed immediata, nei confronti del terzo, purché la dichiarazione di nomina di questo da parte del contraente proceda in tempo utile e nelle debite forme e sia trascritta, ove tale formalità sia prevista per il contratto cui inerisce. A favore di questa impostazione depone anche l’articolo 2645 bis c.c., comma 2, il quale conferisce rilevanza assorbente alla trascrizione del contratto definitivo (fermo l’effetto prenotativo collegato alla trascrizione di quello preliminare).
Alla luce delle suesposte argomentazioni la Suprema Corte conclude che affinché l’electus possa godere degli effetti prenotativi del preliminare, anche quanto alle ipoteche iscritte contro il promittente alienante tra la trascrizione del preliminare suddetto e del contratto definitivo, è necessario, ma al contempo sufficiente, che la dichiarazione di nomina sia trascritta entro il termine stabilito nel preliminare, e comunque, entro quello ex art. 2645-bis, comma 3, c.c., non occorrendo, altresì, che la riserva di nomina risulti dalla nota di trascrizione del preliminare.
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¹Art. 1401 c.c. – Riserva di nomina del contraente - Nel momento della conclusione del contratto una parte può riservarsi la facoltà di nominare successivamente la persona che deve acquistare i diritti e assumere gli obblighi nascenti dal contratto stesso.