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Anno XVI - n. 04 - Aprile 2024

  Amministrativo



Osservatorio sulla Giurisprudenza Amministrativa 31 marzo - 30 aprile 2017. A cura di Simona Sgroi

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  • Consiglio di Stato, Sezione VI, ordinanza 24 marzo 2017, n. 1337

    Rimette alla Plenaria la questione se occorra una motivazione sull'interesse pubblico per una ordinanza di demolizione adottata a distanza di diverso tempo e nei confronti di colui che non sia autore dell'abuso edilizio.

    Con l'ordinanza in esame, il Collegio ha preso atto del contrasto giurisprudenziale esistente in materia e ha rimesso, ex art. 99 co. 1 c.p.a., all'Adunanza Plenaria la seguente questione: “se l’ordinanza di demolizione di immobile abusivo (nella specie, trasferito mortis causa) debba essere congruamente motivato sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità violata quando il provvedimento sanzionatorio intervenga a una distanza temporale straordinariamente lunga dalla commissione dell'abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell'abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi del provvedimento sanzionatorio”.

    Infatti, sul tema, ancorché non sempre compiutamente esplicitati, il Consiglio ha individuato due orientamenti giurisprudenziali.

    Secondo il primo orientamento, che parrebbe maggioritario, l’ordinanza di demolizione di un manufatto abusivo è legittimamente adottata senza alcuna particolare motivazione e indipendentemente dal lasso temporale intercorso dalla commissione dell’abuso, dovendosi escludere in radice ogni legittimo affidamento in capo al responsabile dell'abuso o al di lui avente causa. Peraltro, ammettere la sostanziale estinzione di un abuso edilizio per decorso del tempo significherebbe configurare una sorta di sanatoria extra ordinem, di fatto, che potrebbe operare anche quando l'interessato non abbia inteso (o potuto) avvalersi del corrispondente istituto legislativamente previsto.

    In base a un secondo orientamento, invocato dagli appellanti, invece, si individuano dei “casi-limite in cui può pervenirsi a considerazioni parzialmente difformi”: considerazioni che fanno leva sul lasso temporale intercorso dalla commissione dell'abuso, sulla buona fede del soggetto destinatario dell'ordinanza di demolizione diverso dal responsabile dell'abuso e sull'assenza, per mezzo del trasferimento del bene, di un intento volto a eludere la comminatoria del provvedimento sanzionatorio

    Nella stessa scia, è stato sottolineato – ma in relazione a “semplici difformità” della costruzione dal titolo edificatorio sussistente – che il decorso del tempo incide sulla certezza dei rapporti giuridici e può incidere significativamente con le possibilità di difesa dell'interessato sia rispetto all'amministrazione sia nei confronti del dante causa.

    Il Collegio, poi, ritiene di dover evidenziare come la sussistenza di un interesse pubblico attuale era richiesto dalla giurisprudenza per l'annullamento (in autotutela) di un preesistente provvedimento valutato in seguito illegittimo. 

    La giurisprudenza invocata dagli appellanti estende, invece, con una radicale innovazione di sistema, al “fatto illecito” (quale deve considerarsi una costruzione realizzata senza titolo abilitativo) quel che originariamente era richiesto solo per un “atto illegittimo”

    E' peraltro vero, considerano i giudici, che un lasso di tempo straordinariamente lungo tra la commissione dell'abuso (da parte di terzi) e la sanzione – tempo intercorso anche a causa dell'inerzia serbata dall'amministrazione – potrebbe essere ritenuto in sé idoneo a giustificare un affidamento da parte del soggetto estraneo alla commissione dell'abuso; affidamento che, se non può certo elidere in radice il potere sanzionatorio, ne richiede una giustificazione in termini di attualità e concretezza, in relazione, oltre che al tempo, alla consistenza dell’abuso medesimo e ad altre circostanze fattuali che si assumano rilevanti.

    Alla luce di tutte le superiori considerazioni, la Sesta Sezione del Consiglio di Stato ritiene che sussistano i presupposti per rimettere l'affare alla Adunanza Plenaria affinché possa essere decisa la questione così come all'incipit individuata.

  • Tar Liguria – Genova, Sezione II, ordinanza 29 marzo 2017, n. 263

    Sui soggetti legittimati a impugnare gli atti di gara. Rinvio alla Corte di Giustizia dell'UE.

    La Seconda Sezione del Tar Liguria si è interrogata sulla compatibilità con la normativa comunitaria della normativa italiana nella parte in cui riconosce la possibilità di impugnare gli atti di gara solo a coloro che hanno presentato domanda di partecipazione alla gara stessa.

    L'ordinanza in esame ha osservato, in particolare, che la giurisprudenza dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato afferma che, con riferimento alle controversie aventi ad oggetto gare di appalto, sia legittimato a proporre il ricorso esclusivamente l'operatore economico che abbia partecipato alla procedura oggetto di contestazione, giacché solo in tale ipotesi il ricorrente sarebbe titolare di una situazione differenziata e dunque meritevole di tutela

    A tale regola generale fanno eccezione talune ipotesi tra le quali, per quel che rileva nel caso in esame, l'eventualità in cui il ricorrente contesti in radice la procedura di gara, atteso che, in tale caso, “la mancata partecipazione alla gara, ostativa all'ammissibilità del ricorso, è del tutto equiparabile alla situazione di chi ne sia stato legittimamente escluso”.

    Peraltro, la sentenza della Corte Costituzionale n. 245/2016 ha proposto un'interpretazione del requisito processuale dell'interesse ad agire tale per cui sarebbe inammissibile il ricorso proposto dalla impresa che non ha partecipato alla gara quando non sarebbe assolutamente certo ma soltanto altamente probabile che, per effetto della strutturazione della gara (ad esempio dimensione dei lotti) ovvero per effetto della normativa di gara, l’impresa stessa non potrebbe conseguire l’aggiudicazione.

    A tal riguardo, il Collegio genovese rileva anche che l'autorevolissimo precedente della Corte costituzionale italiana è già stato ripreso da alcune sentenze del Consiglio di Stato (da ultimo C.d.S. n. 481/2017; C.d.S. n. 474/2017) onde il consolidarsi di un'interpretazione che può preludere alla formazione del diritto vivente nel senso, restrittivo della possibilità di accedere alla tutela giurisdizionale, stabilito dalla pronuncia della Corte costituzionale italiana.  Evidenti appaiono, ai giudici, le conseguenze sull’effettività della tutela del diritto alla concorrenza di tale ultimo orientamento.

    La possibilità di accedere alla tutela giurisdizionale sarebbe condizionata alla partecipazione alla gara, partecipazione che comporta di per sé rilevanti oneri, e ciò anche nel caso in cui l'impresa intendesse contestarne la legittimità per essere la gara stessa eccessivamente restrittiva della concorrenza, partecipazione che si renderebbe del tutto inutile dal momento che le chances di aggiudicazione sarebbero, fin dall'inizio, inesistenti o estremamente limitate.

    Per tutti i superiori motivi, il Tar Liguria ritiene che va sottoposta alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea la seguente questione pregiudiziale: “se gli artt. 1, parr. 1, 2 e 3, e l'art. 2, par. 1, lett. b), della direttiva n. 89/665 CEE, avente ad oggetto il coordinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all'applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, ostino ad una normativa nazionale che riconosca la possibilità di impugnare gli atti di una procedura di gara ai soli operatori economici che abbiano presentato domanda di partecipazione alla gara stessa, anche qualora la domanda giudiziale sia volta a sindacare in radice la procedura, derivando dalla disciplina della gara un’altissima probabilità di non conseguire l’aggiudicazione”.

  • Consiglio di Stato, Sezione V, sentenza 4 aprile 2017, n. 1549

    Sulla giurisdizione in materia di incarichi dirigenziali (1)

    In questa sentenza, il Consiglio di Stato si è occupato della questione relativa all'individuazione del giudice competente a decidere una controversia riguardante una procedura selettiva indetta da un Comune ex art. 110 Tuel per il conferimento di un incarico dirigenziale “a contratto”.

    Hanno osservato i giudici, nella sentenza in esame, che l'art. 110, comma 1, del Tuel prevede che la copertura dei posti di responsabili dei servizi o degli uffici, di qualifiche dirigenziali o di alta specializzazione, possa avvenire mediante contratto a tempo determinato «previa selezione pubblica volta ad accertare, in capo ai soggetti interessati, il possesso di comprovata esperienza pluriennale e specifica professionalità nelle materie oggetto dell'incarico».

    Per quanto rivestita di forme atte a garantire pubblicità, massima partecipazione e selezione effettiva dei candidati, la procedura in questione non ha le caratteristiche del concorso pubblico e più precisamente delle «procedure concorsuali per l’assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni»

    Infatti, in base all'art. 63, comma 4, del testo unico sul pubblico impiego di cui al d.lgs. n. 165/2001, nell'ambito del pubblico impiego “privatizzato”, solo queste procedure radicano la giurisdizione amministrativa.

    Nel caso di specie, la procedura selettiva non consiste in una selezione comparativa di candidati svolta sulla base dei titoli o prove finalizzate a saggiarne il grado di preparazione e capacità, da valutare (gli uni e le altre) attraverso criteri predeterminati, attraverso una valutazione poi espressa in una graduatoria finale recante i giudizi attribuiti a tutti i concorrenti ammessi

    Tale procedura è invece finalizzata ad accertare tra coloro che hanno presentato domanda quale sia il profilo professionale maggiormente rispondente alle esigenze di copertura dall'esterno dell'incarico dirigenziale.

    I giudici hanno richiamato a conforto anche l'orientamento della Corte di cassazione, secondo cui è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia originata dall'impugnazione di atti di una procedura selettiva finalizzata al conferimento di incarichi dirigenziali a carattere non concorsuale, laddove per concorso si intende la procedura di valutazione comparativa sulla base dei criteri e delle prove fissate in un bando da parte di una commissione esaminatrice con poteri decisori e destinata alla formazione di una graduatoria finale di merito dei candidati, mentre al di fuori di questo schema l’individuazione del soggetto cui conferire l’incarico invece costituisce l’esito di una valutazione di carattere discrezionale, che rimette all’amministrazione la scelta, del tutto fiduciaria, del candidato da collocare in posizione di vertice, ancorché ciò avvenga mediante un giudizio comparativo tra curricula diversi.  

    In particolare, in base a questo indirizzo giurisprudenziale le controversie relative al conferimento degli incarichi dirigenziali, anche se implicanti l'assunzione a termine di soggetti esterni, sono di pertinenza del giudice ordinario, in applicazione dell'art. 63, comma 1 d.lgs. 165/2001, mentre esulano dalla nozione di «procedure concorsuali per l'assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni» prevista dal citato comma 4 della medesima disposizione.

    Alla luce di tutte le superiori considerazioni, il Consiglio di Stato conclude nel senso che rientra nella giurisdizione del giudice ordinario una controversia relativa ad una procedura selettiva indetta da un Comune per il conferimento di un incarico dirigenziale “a contratto” ai sensi dell'articolo 110, comma 1, del testo unico sull'ordinamento degli enti locali.

  • Corte di Cassazione, Sezioni Unite, ordinanza 5 aprile 2017, n. 8799

    Ancora sulla giurisdizione in materia di incarichi dirigenziali (2)

    In relazione al regolamento di giurisdizione proposto, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, in questa ordinanza, si soffermano sul giudice competente a decidere le controversie relative provvedimenti di conferimento di incarichi dirigenziali nell'ambito del pubblico impiego privatizzato.

    Affermano i giudici, molto chiaramente, che in questo ambito sono attribuite alla giurisdizione del giudice ordinario tutte le controversie inerenti ad ogni fase del rapporto di lavoro, ivi comprese quelle relative al conferimento d'incarichi dirigenziali, perché la riserva stabilita in favore del giudice amministrativo concerne soltanto le procedure concorsuali strumentali all'assunzione o alla progressione in un'area o fascia superiore a quella di appartenenza, laddove gli atti di conferimento d’incarichi dirigenzialii quali non concretano procedure concorsuali ed hanno come destinatari persone già in servizio, nonché in possesso della relativa qualificaconservano natura privata, in quanto rivestono il carattere di determinazioni negoziali assunte dall’Amministrazione con i poteri e le capacità del comune datore di lavoro.

    Nel caso specifico, infatti, il conferimento dell'incarico dirigenziale di direttore generale, disposto ai sensi del D.M. 27.11.2014, è scaturito non da una procedura concorsuale, ma da un interpello dell'amministrazione che, ai sensi dell'art. 19, comma 1 -bis, d.lgs. n. 165/2001, si limita ad acquisire le dichiarazioni di disponibilità dei dirigenti interessati e a valutarle, «in un contesto che, non essendo governato da una procedura di evidenza pubblica, permane esclusivamente di diritto privato».

    Pertanto, concludono i giudici della Suprema Corte, che il ricorso va respinto e deve essere dichiarata la giurisdizione del giudice ordinario

  • Consiglio di Stato, Ad. Plen., sentenza 6 aprile 2017, n. 1

    Sui presupposti della revocazione della sentenza per contrasto con giudicato

    Nella sentenza in esame, l'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato si è occupata dei presupposti necessari per rendere ammissibile il ricorso in revocazione recante come motivo quello derivante dal combinato disposto degli art. 106 c.p.a. e 395 n. 5) c.p.c. alla cui stregua le sentenze del Consiglio di Stato “possono essere impugnate per revocazione […] se la sentenza è contraria ad altra precedente avente fra le parti autorità di cosa giudicata, purché non abbia pronunciato sulla relativa eccezione”.

    I giudici, quindi, rilevano, preliminarmente, che sono due i presupposti che devono ricorrere cumulativamente ai fini dell'integrazione del motivo revocatorio ex art. 395 n. 5) c.p.c.: il primo postula che tra i due giudizi vi sia identità di soggetti e di oggetto, tale che tra le due vicende sussista una ontologica e strutturale concordanza degli estremi su cui si sia espresso il secondo giudizio, rispetto agli elementi distintivi della decisione emessa per prima. A tal fine, dovrà aversi riguardo ai limiti oggettivi del giudicato quali risultano determinati dal decisum, ossia alla questione principale decisa nel giudizio che sorregge causalmente gli effetti scaturenti dal dispositivo della sentenza – con la precisazione che l'individuazione del dispositivo sostanziale deve essere il frutto della lettura congiunta della parte-motiva e della parte-dispositiva della sentenza –, i quali, a seconda della natura della giurisdizione esercitata (di legittimità, esclusiva, di merito), potranno essere effetti di accertamento, di condanna o costitutivi/determinativi (questi ultimi, a loro, volta, potranno essere annullatori-demolitori, ripristinatori e/o conformativi). Infatti, perché una sentenza possa considerarsi contraria ad un precedente giudicato, occorre che le decisioni a confronto risultino fra loro incompatibili in quanto dirette a tutelare beni ed interessi di identico contenuto, nei confronti delle stesse parti, con riferimento ad identici elementi di identificazione della domanda (petitum e causa petendi) confluiti nel decisum

    Inoltre, il contrasto, quale incompatibilità tra due pronunce decisorie che accertino e/o conformino in modo tra di loro antitetico (in tutto o in parte) una stessa situazione giuridica soggettiva, non può che manifestarsi in relazione a sentenze aventi un contenuto decisorio di merito, suscettibili di acquistare autorità di cosa giudicata sostanziale (art. 2909 cod. civ.), per cui non è configurabile in relazione a sentenze (o ad altri provvedimenti giudiziali a queste assimilabili) a mero contenuto processuale.

    Il secondo presupposto, affermano invece i giudici, richiede che il precedente giudicato formatosi sulle sentenze, con le quali la sentenza revocanda si assume essere in contrasto, sia rimasto del tutto estraneo al thema decidendum su cui si sia pronunciata la sentenza revocanda.

    A ben vedere, se sull'esistenza e sulla portata del giudicato preesistente ci sia stato dibattito processuale e il giudice abbia ritenuto che la causa non sia pregiudicata dalla precedente decisione, si potrà essere verificato un eventuale errore di giudizio, il quale resta tuttavia sottratto al rimedio della revocazione, a pena di introdurre un ulteriore „ordinario' mezzo di impugnazione a critica illimitata.

    Ne consegue che il mancato rilievo dell'eccezione giustifica la proposizione della revocazione soltanto se la sentenza, assistita dall'autorità della cosa giudicata, sia stata pronunciata in altro separato giudizio, mentre, se la cosa giudicata promana da una sentenza pronunciata nello stesso giudizio, è garantita la rilevabilità anche d’ufficio (facendo i provvedimenti del giudice parte del fascicolo d'ufficio), sicché anche in tali casi l’eventuale violazione della cosa giudicata (al pari dell'ipotesi in cui l'interessato abbia eccepito il giudicato esterno, ma l'eccezione sia stata erroneamente respinta) si risolve in un error in iudicando (o, a seconda dei punti di vista, in un error in procedendo) sottratto al rimedio della revocazione.

    Nel caso di specie, la sentenza revocanda (Ad. Plen. 11/2016) e le altre sentenze (C.d.S. 3817/2008; 4710/2011; 2153/2010; 8240/2010) con le quali, secondo la prospettazione dell'odierna ricorrente, la prima si porrebbe in contrasto, sono state pronunciate in sede di giudizio di ottemperanza.

    In quell'occasione l'Adunanza Plenaria n. 11/2016, è pervenuta alla conclusione che la natura ampiamente discrezionale del procedimento avviato dal Comune (una ricerca di mercato diretta a verificare la realizzabilità di un progetto di opera pubblica) e la natura stessa del giudizio con cui ha avuto inizio la controversia, e cioè di giudizio sul silenzio inadempimento, escludessero la possibilità per il giudice amministrativo di sostituirsi all’amministrazione e di predeterminare l’esito del procedimento attraverso il riconoscimento all’impresa del diritto di realizzare l’opera, a pena di un inammissibile sconfinamento nel merito amministrativo da parte del giudice e, di conseguenza, di un possibile eccesso di potere giurisdizionale.

    Indi, l’Adunanza Plenaria, all'esito dell'esame delle pronunce di ottemperanza via via susseguitesi, pur rilevando come la struttura dell'interesse procedimentale riconosciuto dell'impresa si fosse progressivamente «arricchito» e «rafforzato» a mano a mano che il giudice amministrativo, con le sentenze di ottemperanza, aveva dichiarato la nullità per violazione del giudicato degli atti adottati dall'amministrazione o dal commissario ad acta, con la impugnata sentenza n. 11/2016, è pervenuta alla conclusione che «il massimo livello di tutela riconosciuto» dalle predette sentenze si sia tradotto nell'imposizione, in capo all'amministrazione, «dell'obbligo di concludere il procedimento, di concluderlo in maniera “plausibilmente congrua”, verificando nel rispetto dei principi di buona fede, correttezza e tutela dell'affidamento, la possibilità di realizzare l'opera, compatibilmente con la situazione di fatto e il sistema normativo e amministrativo», e ha ritenuto, tuttavia, che fosse rimasto un tratto libero dell’azione amministrativa riservata alla discrezionalità dell’amministrazione.

    Nonostante quanto sinora affermato, però, all'esito di tale ricostruzione, i giudici, nella sentenza revocanda, hanno rilevato che la trasformazione dell'interesse procedimentale dell'impresa in interesse finale (e, quindi, la conclusione positiva del procedimento) è risultata definitivamente preclusa dalla sopravvenienza rappresentata dalla sentenza della Corte di Giustizia 10 luglio 2014 nella causa C-213/13 la quale ha sancito l’incompatibilità con il diritto dell’Unione Europea della procedura in questione, in forza della contrarietà dell'interesse finale reclamato dall'impresa ricorrente con la disciplina europea quale dichiarata dalla Corte di Giustizia.

    Alla luce della superiore ricostruzione, i giudici della sentenza in esame ritengono che il problema centrale della concreta individuazione dell'ambito oggettivo del giudicato amministrativo che il giudice dell'ottemperanza, nella fase esecutiva, è chiamato a risolvere si muove tra il soddisfacimento dell’interesse sostanziale della parte e la salvaguardia della discrezionalità dell’amministrazione, quando la discrezionalità residui all’esito del giudizio

    Tale problematica assume una accentuata rilevanza quando, come nel caso di specie, si verta in materia di giudicato cognitorio sul silenzio, particolarmente esposto alle sopravvenienze, e si tratti di valutare l'incidenza della normativa europea sull'attuazione del giudicato, tenuto conto che l'eventuale omessa considerazione di tale incidenza potrebbe dar luogo, „nei casi estremi', al vizio di eccesso di potere giurisdizionale.

    Orbene, applicando alla fattispecie all'esame le considerazioni in diritto sinora svolte, l'Adunanza Plenaria conclude nel senso che deve escludersi la sussistenza dei presupposti richiesti per la proposizione della revocazione ex art. 395, n. 5), c.p.c., la quale deve pertanto essere dichiarata inammissibile. Tale sussistenza va esclusa sia nei confronti della  originaria sentenza di cognizione, sia relativamente alle successive sentenze rese in sede di ottemperanza alla prima: difetta infatti in radice il presupposto del contrasto tra giudicati che non può che riguardare giudicati tra loro “esterni” e non certo sentenze rese all'interno di un processo, funzionalmente unitario, vòlto a dare ottemperanza a una originaria sentenza di cognizione

  • Consiglio di Stato, Sezione IV, ordinanza 19 aprile 2017, n. 1830

    Rimette alla Plenaria la questione se occorre una motivazione dell'annullamento d'ufficio della concessione edilizia in sanatoria che sia intervenuto a distanza di anni dal suo rilascio

    Stante il contrasto giurisprudenziale in atto – così come anche rimesso all'Adunanza Plenaria dall'ordinanza n. 1337 del 2017 (per cui vedi sopra) – la Quarta Sezione del Consiglio di Stato, anche al fine di favorire la trattazione della materia nell'ambito di un quadro più completo, ha ritenuto opportuno deferire all'Adunanza Plenaria la seguente questione: “se, nella vigenza dell'art. 21 nonies, come introdotto dalla legge n. 15 del 2005, l’annullamento di un provvedimento amministrativo illegittimo, sub specie di concessione in sanatoria, intervenuta ad una distanza temporale considerevole dal provvedimento annullato, debba o meno essere motivata in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico valutato in concreto in correlazione ai contrapposti interessi dei privati destinatari del provvedimento ampliativo e agli eventuali interessi dei controinteressati, indipendentemente dalla circostanza che il comportamento dei privati possa aver determinato o reso possibile il provvedimento illegittimo, anche in considerazione della valenza – sia pure solo a fini interpretativi – della ulteriore novella apportata al citato articolo, la quale appare richiedere tale valutazione comparativa anche per il provvedimento emesso nel termine di 18 mesi, individuato come ragionevole, e appare consentire un legittimo provvedimento di annullamento successivo solo nel caso di false rappresentazioni accertate con sentenza penale passata in giudicato”.

    Nella giurisprudenza del Consiglio appaiono, infatti, individuabili due contrapposti orientamenti al riguardo.

    Un primo, più recente orientamento (Cons. Stato, sez. VI, 27 gennaio 2017, n. 341), con riferimento ad un provvedimento di annullamento in autotutela di una concessione in sanatoria, e rispetto alla formulazione dell'art. 21 nonies, l. n. 241 del 1990, nel testo modificato dalla l. n. 15 del 2005, ha affermato che il potere di annullamento ha un presupposto rigido (l'illegittimità dell'atto da annullare) e due presupposti riferiti a concetti indeterminati, affidati all'apprezzamento discrezionale dell'amministrazione (la ragionevolezza del termine di adozione dell'atto; la sussistenza dell'interesse pubblico alla sua rimozione unitamente alla considerazione dell'interesse dei destinatari). Ha quindi ritenuto necessaria una motivazione in ordine all’apprezzamento degli interessi dei destinatari dell’atto in relazione alla pregnanza e preminenza dell’interesse pubblico alla eliminazione d’ufficio di un titolo illegittimo; tanto più, in presenza di un provvedimento, come quello in materia edilizia, destinato ad esaurirsi con l'adozione dell'atto permissivo, dove assume maggiore rilevanza l'interesse dei privati destinatari dell'atto ampliativo e minore rilevanza quello pubblico all'eliminazione di effetti che si sono prodotti in via definitiva. Con l'ulteriore corollario che l'interesse pubblico alla rimozione attuale dell'atto non può coincidere con l'esigenza del mero ripristino della legalità violata e deve essere integrato da ragioni differenti.

    L’orientamento maggioritario ha invece affermato che il provvedimento di annullamento di una concessione edilizia illegittima è in re ipsa correlato alla necessità di curare l’interesse pubblico concreto ed attuale al ripristino della legalità violata, atteso che il rilascio del titolo edilizio comporta la sussistenza di una permanente situazione contra legem e di conseguenza ingenera nell’amministrazione il potere-dovere di annullare in ogni tempo la concessione illegittimamente assentita (Cons. Stato, sez. IV, 19 agosto 2016, n. 3660). Ciò soprattutto quando l'illegittimità è dipesa dalle prospettazioni non veritiere del privato. 

    La motivazione sulla comparazione degli interessi è stata ritenuta necessaria quando l’esercizio dell’autotutela discenda da errori di valutazione dovuti all’amministrazione. In particolare, in fattispecie nelle quali era applicabile il 21 nonies, si è ritenuto che, se è stata rappresentata una situazione dei luoghi difforme da quanto in realtà esistente e tale difformità costituisce un vizio di legittimità del titolo edilizio, determinato dallo stesso soggetto richiedente, tale circostanza costituisce ex se ragione idonea e sufficiente per l'adozione del provvedimento di annullamento di ufficio del titolo medesimo, tanto che in tale situazione si può prescindere, ai fini dell'autotutela, dal contemperamento con un interesse pubblico attuale e concreto.

    In considerazione di questi due orientamenti, il Consiglio di Stato ha rimesso la questione così come sopra enunciata all'Adunanza Plenaria ex art. 99, co. 1 c.p.a. 

     

  • Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza 27 aprile 2017, n. 10412

    Giurisdizione in materia di concessioni amministrative

    Con il primo motivo di ricorso, il ricorrente denuncia l'errata qualificazione, da parte della Corte di merito, del rapporto sottostante la concessione di bene pubblico deducendo che, poiché il rapporto è sorto in forza di concessione – e non sarebbe perciò riconducibile ad un contratto di natura privatistica, difettando il requisito della posizione paritetica delle parti – la controversia concernente l'indennità per miglioramenti, poiché non limitata alla mera quantificazione delle somme dovute al concessionario, ma riguardante anche il contenuto della concessione e la natura del rapporto relativo, rientrerebbe nella cognizione del giudice amministrativo.

    I giudici della Suprema Corte enunciano il seguente principio di diritto: in materia di concessioni amministrative, le controversie concernenti indennità, canoni od altri corrispettivi, riservate dall'art. 133 c.p.a. alla giurisdizione del giudice ordinario, sono solo quelle con un contenuto meramente patrimoniale, senza che assuma rilievo un potere di intervento della P.A. a tutela di interessi generali.

    Quando, invece, la controversia coinvolga la verifica dell’azione autoritativa della P.A. sul rapporto concessorio sottostante, ovvero quando investa l’esercizio di poteri discrezionali-valutativi nella determinazione del canone e non semplicemente di accertamento tecnico dei presupposti fattuali economico-aziendali (sia sull'“an” che sul “quantum”), la medesima è attratta nella sfera di competenza giurisdizionale del giudice amministrativo.

    Nel caso di specie – continuano i giudici – rientra nella giurisdizione del giudice ordinario e non in quella del giudice amministrativo una controversia introdotta da una società per l'accertamento di un rapporto agrario intercorso col Comune in forza di una concessione, a titolo gratuito, di un terreno di proprietà comunale, già gravato da uso civico, scaduta e non rinnovata e con domanda di condanna del Comune al pagamento dell'indennità per addizioni e miglioramenti eseguiti sul fondo oggetto di concessione. 

    Tale controversia, infatti, investe unicamente profili contrassegnati da un contenuto patrimoniale attinente al rapporto interno tra la P.A. concedente ed il concessionario del bene.