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Anno XVI - n. 04 - Aprile 2024

  Diritto del Lavoro



Osservatorio sulla Giurisprudenza in materia di Diritto del Lavoro aggiornato al 29 febbraio 2016. A cura di Laura Sicari

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  • Cassazione Civile - Sezione Lavoro, Sentenza 12 gennaio 2016 n. 281

    Il criterio dell’immediatezza della contestazione disciplinare deve essere inteso in senso relativo, avuto riguardo al tempo necessario all’espletamento delle indagini dirette all’accertamento dei fatti. 

    Il principio di immediatezza della contestazione disciplinare assolve ad una funzione di garanzia del lavoratore e preclude al datore di lavoro di esercitare il proprio potere disciplinare qualora sia decorso un considerevole lasso di tempo, ciò al fine di non pregiudicare il diritto del lavoratore ad una pronta ed effettiva difesa.

    Con la sentenza in epigrafe, la Suprema Corte, pur aderendo al superiore orientamento, precisa che tale criterio deve in ogni caso ritenersi rispettato qualora tra i fatti ed il concreto esercizio del potere disciplinare da parte del datore di lavoro sia intercorso un intervallo di tempo necessario all’espletamento delle indagini dirette all’accertamento degli addebiti.

    Ed invero «la giurisprudenza di legittimità ha precisato che ove sussista un rilevante intervallo temporale tra i fatti contestati e l’esercizio del potere disciplinare, la tempestività di tale esercizio deve essere valutata in relazione al tempo necessario per acquisire conoscenza della riferibilità del fatto, nelle sue linee essenziali, al lavoratore medesimo, la cui prova e’ a carico del datore di lavoro, senza che possa assumere autonomo ed autosufficiente rilievo la denunzia dei fatti in sede penale o la pendenza stessa del procedimento penale, considerata l’autonomia tra i due procedimenti, e la circostanza che l’eventuale accertamento dell’irrilevanza penale del fatto non determina di per sè l’assenza di analogo disvalore in sede disciplinare (Cass., n. 7410 del 2010, n. 4724 del 2014)».

    Dunque, il principio dell’immediatezza della contestazione se da un lato mira a salvaguardare il diritto di difesa dell’incolpato, consentendogli di allestire il materiale difensivo e controbattere puntualmente agli addebiti formulati, dall’altro tutela il legittimo affidamento del lavoratore sulla mancanza di connotazioni disciplinari in relazione a determinati fatti incriminabili.

    Tuttavia, i Giudici di legittimità precisano che «il criterio dell’immediatezza va inteso in senso relativo, poiché  si deve tener conto delle ragioni che possono far ritardare la contestazione, tra cui il tempo necessario per l’espletamento delle indagini dirette all’accertamento dei fatti, la complessità dell’organizzazione aziendale, e la valutazione in proposito compiuta dal giudice di merito e’ insindacabile in sede di legittimità se sorretta da motivazione adeguata e priva di vizi logici».

    Nella fattispecie in esame, la Suprema Corte ha confermato la pronuncia della Corte territoriale che ha escluso la tardività della contestazione e «dopo avere premesso che la parte datoriale con il suo comportamento non aveva mai dato ad intendere di voler soprassedere dalla verifica disciplinare, ha affermato che la nota di contestazione veniva inviata una volta completata l’indagine ispettiva, e quindi in una concentrazione temporale assolutamente congrua che non aveva intaccato il diritto del lavoratore ad una pronta ed effettiva difesa».

    Per tali ragioni, la Suprema Corte ha ribadito la legittimità del licenziamento disciplinare comminato al lavoratore, anche in considerazione del ruolo apicale di direttore dell’ufficio dallo stesso rivestito all’interno della struttura aziendale, precisando che tale posizione, caratterizzata per sua natura da particolare fiducia, non può che aggravare la posizione dello stesso in ragione del maggiore affidamento riposto dal datore di lavoro, tale da giustificare il recesso datoriale in caso di accertamento di responsabilità disciplinari particolarmente gravi.  

  • Cassazione Civile - Sezione Lavoro, Sentenza 21 gennaio 2016 n. 1070

    Le dimissioni rese dal lavoratore che al momento della loro redazione versava in uno stato di incapacità naturale sono annullabili

    Le dimissioni costituiscono l’atto con cui il lavoratore manifesta la propria volontà di recedere dal contratto di lavoro e, come tali, rientrano nell’ambito generale  degli atti unilaterali recettizi a cui, ai sensi dell’art. 1324 c.c., sono applicabili le norme sui contratti. Con la sentenza in epigrafe, la Corte di Cassazione, statuendo in ordine alla domanda di inefficacia delle dimissioni rassegnate da un lavoratore affetto da “schizofrenia cronica di tipo paranoide”, ha precisato che la sussistenza dell’incapacità naturale deve essere verificata al momento del compimento dell’atto che si assume pregiudizievole.  

    Ed infatti, l’atto delle dimissioni è annullabile ai sensi dell’art. 428 c.c. qualora il lavoratore versi in uno stato di privazione delle facoltà intellettive e volitive, anche parziale, dovuto a qualsiasi causa.

    In tal caso «ai fini dell’annullamento del negozio, non necessaria una malattia che annulli in modo assoluto le facoltà psichiche del soggetto, essendo sufficiente un turbamento psichico risalente al momento della conclusione del negozio tale sa menomare gravemente, anche senza escluderle, le facoltà volitive ed intellettive, che devono risultare diminuite in modo da impedire o ostacolare una seria valutazione dell’atto o la formazione di una volontà; l’accertamento di tale incapacità costituisce valutazione di merito, non sindacabile in cassazione ove adeguatamente motivato (cfr. in tal senso Cass. 15.1.04 n. 515)».

    Peraltro, ad avviso dei giudici di legittimità, è necessario verificare che vi sia un’incidenza causale tra l’alterazione mentale del lavoratore e le ragioni soggettive che lo avevano spinto alle dimissioni.

    Per tali motivi, la Suprema Corte ha censurato la pronuncia del giudice di secondo grado perché viziata dalla mancanza di verifica delle effettive capacità intellettive e volitive del lavoratore al momento della rassegna delle dimissioni.

    Nel caso di specie, infatti, la Corte territoriale non ha tenuto in debita considerazione la sussistenza di certificati medici che, a soli pochi giorni dal compimento dell’atto di dimissioni, attestavano che il lavoratore si trovava in cura presso una struttura di salute mentale perché affetto da “schizofrenia cronica di tipo paranoide”. 

    Peraltro, ad avviso dei giudici di legittimità, in sede di gravame la Corte territoriale avrebbe dovuto disporre una CTU «al fine di verificare se la dichiarazione di dimissioni fosse stata effettivamente frutto di una scelta consapevole o fosse stata effettivamente resa in un momento di alterata percezione sia della situazione di fatto che delle conseguenze dell’atto che andava a compiere». 

    Sulla scorta di tali considerazioni, la Corte di Cassazione ha cassato con rinvio la sentenza di appello per l’ulteriore esame della controversia.

  • Cassazione Civile - Sezione Lavoro, Sentenza 29 gennaio 2016 n. 1756

    Il lavoratore deve godere delle ferie entro l’anno di maturazione, altrimenti in capo al medesimo sorge il diritto all’indennità sostitutiva delle ferie non godute che ha prescrizione decennale. 

    La sentenza in esame è degna di nota perché ripercorre gli orientamenti ormai consolidati della giurisprudenza di legittimità in materia di indennità sostitutiva per ferie non godute. Com’è noto, il diritto alle ferie nel nostro ordinamento gode di una tutela rigorosa di rilievo costituzionale direttamente ricollegabile all’art. 36 Cost. che prevede che “il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite e non può rinunziarvi”.

    Il diritto alle ferie, infatti, permette al lavoratore non solo di recuperare le energie psicofisiche spese per l’esecuzione della prestazione, ma anche a soddisfare e coltivare interessi personali di qualsiasi genere, fruendo di un determinato tempo libero retribuito. Per tali ragioni, tale diritto assolve ad una funzione che attiene più alla qualità della vita che al rispetto di equilibri contrattuali, in quanto garantisce al lavoratore la soddisfazione di esigenze primarie del lavoratore, la possibilità di svolgere attività ricreative e culturali, nonchè la reintegrazione delle energie psico-fisiche usurate dall’attività lavorativa. Ne deriva che, qualora il lavoratore non goda delle ferie durante l’anno, non può desumersi alcuna rinuncia (che, in ogni caso sarebbe nulla per contrasto a norme imperative) e quindi il datore di lavoro è tenuto a corrispondergli la relativa indennità sostitutiva delle ferie non godute. 

    Nella sentenza in epigrafe, la Corte, dapprima, conferma la tesi della duplice natura della citata indennità, tanto risarcitoria, perché volta a compensare il danno derivante dalla perdita di un bene determinato (il riposo), quanto retributiva, perché connessa al sinallagma contrattuale e costituente il corrispettivo dell’attività lavorativa resa in un periodo che, pur essendo di per sé retribuito, avrebbe dovuto essere non lavorato. 

    Infatti «il carattere risarcitorio dell’indennità sostitutiva delle ferie non godute discende dalla considerazione che la stessa è idonea a compensare il danno costituito dalla perdita di un bene (il riposo con recupero delle energie psicofisiche, la possibilità di meglio dedicarsi a relazioni familiari e sociali, l'opportunità di svolgere attività ricreative e simili) al cui soddisfacimento l’istituto delle ferie è preordinato, mentre il carattere retributivo deriva dal fatto che la stessa indennità rappresenta il corrispettivo dell’attività lavorativa resa in periodo che, pur essendo di per sé retribuito, avrebbe invece dovuto essere non lavorato perché destinato al godimento delle ferie annuali».

    Ciò premesso, gli Ermellini ribadiscono che, ai fini della determinazione della prescrizione del diritto all’indennità per ferie non godute, non può che considerarsi prevalente la natura risarcitoria della stessa, per la quale è prevista la durata decennale della prescrizione.

    Diversamente opinando, infatti, «si perverrebbe alla conclusione che la tutela del bene della vita alla quale l’indennità sostitutiva delle ferie è principalmente finalizzata, cioè quello del ristoro delle energie psico-fisiche, subirebbe in sede di esercizio dell’azione risarcitoria finalizzata al suo riequilibrio una inevitabile limitazione riconducibile all’applicazione della prescrizione quinquennale degli emolumenti di carattere retributivo. Invece, quest’ultima funzione, anch’essa assolta dall’indennità in esame, assume importanza allorquando debba valutarsene l’incidenza sul trattamento di fine rapporto o su ogni altro aspetto di natura esclusivamente retributiva, come ad esempio il calcolo degli accessori di legge o sul trattamento contributivo».

    I Giudici di legittimità, peraltro, si spingono oltre precisando che le ferie annuali devono essere godute entro l’anno e non successivamente.

    Pertanto, una volta decorso l’anno di competenza, il datore di lavoro (al quale ai sensi dell’art. 2109 c.c. spetta il potere di determinare il periodo feriale perché ritenuto estrinsecazione del potere organizzativo e direttivo dell’impresa) non può imporre al lavoratore di godere effettivamente delle ferie, né può stabilire il periodo nel quale deve goderle ma è tenuto al risarcimento del danno.

    Il Supremo Consesso, infatti, ha affermato il seguente principio di diritto «fermo il carattere irrinunciabile del diritto alle ferie, garantito anche dall'art. 36 Cost., ove in concreto le ferie non siano effettivamente fruite, anche senza responsabilità del datore di lavoro, spetta al lavoratore l’indennità sostitutiva che ha, per un verso, carattere risarcitorio, in quanto idonea a compensare il danno costituito dalla perdita di un bene (il riposo con recupero delle energie psicofisiche, la possibilità di meglio dedicarsi a relazioni familiari e sociali, l’opportunità di svolgere attività ricreative e simili) al cui soddisfacimento l’istituto delle ferie è destinato e, per altro verso, costituisce erogazione di indubbia natura retributiva, perchè non solo è connessa al sinallagma caratterizzante il rapporto di lavoro, quale rapporto a prestazioni corrispettive, ma più specificamente rappresenta il corrispettivo dell’attività lavorativa resa in periodo che, pur essendo di per sè retribuito, avrebbe invece dovuto essere non lavorato perchè destinato al godimento delle ferie annuali, restando indifferente l’eventuale responsabilità del datore di lavoro per il mancato godimento delle stesse». 

  • Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Sentenza 11 febbraio 2016, n. 2734

    Le comunicazioni di recesso al lavoratore e quella inviata agli organi competenti ai sensi dell’art. 4 della legge n. 223 del 1991 devono essere contestuali, pena l’inefficacia del licenziamento. 

    La Corte di Cassazione affronta la tematica della contestualità delle comunicazioni che il datore di lavoro deve rendere ai sensi dell’art. 4 della legge n.223 del 1991 tanto al lavoratore, quanto agli organi competenti individuati nella norma in caso di licenziamento collettivo.

    Com’è noto, infatti, la citata norma, nella sua versione originaria, applicabile alla fattispecie in esame ratione temporis, stabiliva che, una volta raggiunto l’accordo sindacale, l’impresa ha l’obbligo di comunicare il recesso al lavoratore e, contestualmente ¹, l’elenco dei lavoratori collocati in mobilità, con l’indicazione per ciascun soggetto del nominativo, del luogo di residenza, della qualifica, del livello di inquadramento, dell’età, del carico di famiglia, nonché con puntuale indicazione delle modalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta all’Ufficio regionale del lavoro e della massima occupazione competente, alla Commissione regionale per l'impiego e alle associazioni di categoria.

    Sul punto, la Corte ha richiamato il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, ad avviso del quale «in ordine, in particolare, al requisito della contestualità fra l’atto di recesso indirizzato ai lavoratori e la ulteriore comunicazione di cui sono destinatari gli uffici del lavoro e le associazioni di categoria, si è già chiarito, nella giurisprudenza di questa Corte, che nessuna comunicazione dei motivi viene prescritta con riguardo al singolo lavoratore, essendo sufficiente che il recesso venga operato tramite atto scritto, sicchè solo attraverso le comunicazioni alle organizzazioni sindacali e agli altri soggetti istituzionali è reso possibile ai lavoratori interessati di conoscere in via indiretta le ragioni della loro collocazione in mobilità (v. ad es. Cass. n. 5578/2004; Cass. n. 1722/2009). Ne deriva che il riferimento alla “contestualità” delle comunicazioni intercetta, quale sua ratio, l’esigenza di rendere visibile, e quindi controllabile, dalle associazioni di categoria oltre che dagli uffici pubblici competenti, la corretta applicazione della procedura con riferimento ai criteri di scelta seguiti ai fini della collocazione in mobilità e che tale possibilità di controllo si pone quale indispensabile presupposto per la tutela giurisdizionale riconosciuta al singolo dipendente. Nè ad escludere che la contestualità prescritta dalla norma sia in funzione anche della conoscibilità del corretto esercizio del potere da parte dei singoli dipendenti può valere la considerazione che la motivazione del recesso, nemmeno prescritta dalla Legge n. 604 del 1966, nel caso di licenziamenti individuali, a maggior ragione non è configuratale in materia di licenziamenti collettivi, ove il lavoratore si trova in una situazione di minore debolezza contrattuale, per la presenza di penetranti controlli delle organizzazioni sindacali e degli uffici pubblici (così Cass. n. 4970/2006), dal momento che la tutela collettiva assicurata dalla procedimentalizzazione dei poteri dell’imprenditore non esclude certo, pur nell’ambito dei licenziamenti collettivi, la tutela individuale, rappresentando la comunicazione congiunta prevista dalla norma in esame uno specifico termine di collegamento fra il momento collettivo e quello individuale (Cass. Sez. 1 , n. 24341 del 2010). Da quanto osservato discende che nell’interpretazione della giurisprudenza di legittimità non trova spazio una nozione elastica del requisito della contestualità, poichè la stessa “contraddice la funzione di garanzia dei lavoratori licenziati attribuita alle comunicazioni da inviare alle organizzazioni sindacali e ai competenti uffici del lavoro e si rileva incoerente con il disegno normativo contenuto nella Legge n. 223 del 1991”. Ne risultano esaltati i connotati di rigidità della procedura, con la conseguenza che “la riscontrata violazione determina di per sè, ai sensi della Legge n. 223 del 1991, articolo 5, comma 3, l’inefficacia del licenziamento” (Cass. Sez. I, n. 8680 del 29/04/2015, Rv. 635289)».

    Per tali ragioni e tenuto conto della funzione di garanzia della disposizione citata, il Supremo Consesso ha adottato un’interpretazione rigorosa del termine “contestualità” degli adempimenti che il datore di lavoro deve rispettare per evitare la declaratoria di inefficacia del licenziamento collettivo.

    ______________________________

    ¹  L’attuale versione della norma, come modificata dalla legge n. 92 del 2012, prevede che le comunicazioni agli uffici competenti devono essere effettuate entro sette giorni dalle comunicazioni di recesso ai lavoratori. 

  • Cassazione Civile - Sezione Lavoro, Sentenza 18 febbraio 2016 n. 3212

    La dipendente dell’ufficio postale che subisce una rapina ha diritto al risarcimento del danno da parte del datore di lavoro per non aver predisposto idonee misure di prevenzione se le telecamere non funzionano e le finestre non sono presidiate. 

    La sentenza in epigrafe affronta la tematica dell’obbligo del datore di lavoro di dotare il luogo di lavoro di misure idonee di protezione e delle eventuali conseguenze connesse alla violazione di tale obbligo.

    Com’è noto, infatti, tale obbligo discende dalla disposizione ex art. 2087 c.c. ai sensi della quale “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.

    Dunque, è posto a carico dell’imprenditore l’obbligo di tutelare l’integrità psicofisica dei dipendenti, anche garantendo l’adozione ed il mantenimento di misure di tipo igienico-sanitarie o infortunistiche, ma anche «di misure atte, secondo le tecniche di sicurezza, a preservare i lavoratori dalla lesione di detta integrità nell’ambiente od in costanza di lavoro in relazione ad attività anche non collegate direttamente allo stesso come le aggressioni conseguenti all’attività criminosa di terzi, non essendo detti eventi coperti dalla tutela antinfortunistica prevista dal d.p.r. 1124/1965 e giustificandosi l’interpretazione estensiva della predetta norma alla stregua sia dei rilievo costituzionale del diritto alla salute (art. 32 Cost.), sia dei principi di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 cod. civ.), cui deve ispirarsi anche lo svolgimento del rapporto di lavoro».

    Nel caso di specie, la Suprema Corte ha ritenuto, in riferimento ad una rapina ad un ufficio postale, che il datore di lavoro avesse violato l’art. 2087 c.c. per non aver dotato di adeguati mezzi di tutela il luogo di lavoro in cui, per la tipologia di attività esercitata in ragione della movimentazione, anche contenuta, di somme di denaro, nonché delle plurime reiterazioni di rapine in un determinato arco temporale, era prevedibile il verificarsi di episodi di aggressione a scopo di lucro.

    Per tali ragioni, i giudici di legittimità hanno confermato la sentenza di secondo grado con cui il datore di lavoro è stato condannato al risarcimento del danno biologico e morale patito dalla dipendente a seguito della rapina subìta nell’ufficio postale in cui la stessa era adibita, ritenendo accertato l’inadempimento dell’obbligo datoriale di predisposizione di idonee misure di prevenzione nei luoghi di lavoro ai sensi dell’art. 2087 c.c.