Ultimissime

Facoltà per gli enti locali che hanno proposto la rimodulazione o riformulazione dei rispettivi piani di riequilibrio di riproporlo per adeguarlo alla normativa vigente. Illegittimità costituzionale dell’art. 38, c. 2-ter, del DL 30 aprile 2019, n. 34.
Corte Costituzionale, sent. n. 115 del 23 giugno 2020.
Le norme censurate disciplinano la riformulazione del piano di riequilibrio degli enti locali che stavano applicando l’art. 1, comma 714, della legge 28 dicembre 2015, n. 208, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)», come modificato dalla legge 11 dicembre 2016, n. 232 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2017 e bilancio pluriennale per il triennio 2017-2019), nella versione dichiarata illegittima con la sentenza di questa Corte n. 18 del 2019.
Secondo la Sezione rimettente il combinato disposto dei commi 1-terdecies, 2-bis e 2-ter, dell’art. 38 del d.l. n. 34 del 2019, convertito, con modificazioni, nella legge n. 58 del 2019, nella parte in cui consentirebbe agli enti locali che si fossero avvalsi della facoltà loro concessa dall’art. 1, comma 714, della legge n. 208 del 2015, di riproporre il piano di riequilibrio finanziario pluriennale (PRFP) già approvato, estendendolo a un orizzonte ultradecennale, sarebbe in contrasto con il princìpio dell’equilibrio di bilancio, nelle declinazioni dell’equilibrio dinamico e intergenerazionale, di cui agli artt. 81, 97, primo comma, 117, primo comma, e 119, sesto comma, Cost. anche in combinato disposto con gli articoli 1, 2 e 3 Cost.
Ciò in quanto «la pianificazione del risanamento, contenuta nel piano medesimo, continu[erebbe] però ad essere incentrata su proiezioni di entrata e di spesa, di durata decennale, dal momento che l’art. 38, ai commi 2-bis e 2-ter, non impone, né consente, una revisione di tale pianificazione nel suo complesso». Anche il piano di smaltimento dei debiti commerciali, secondo quanto previsto dall’art. 1, comma 889, della legge 27 dicembre 2017, n. 205 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020), in base al quale la rimodulazione o riformulazione del piano di riequilibrio avverrebbe «[f]ermi restando i tempi di pagamento dei creditori», continuerebbe ad avere una durata decennale, incongruente con l’allungamento della nuova pianificazione.
Il giudice rimettente ritiene, altresì, che il combinato disposto dei commi 1-terdecies, 2-bis e 2-ter dell’art. 38 provocherebbe il «ribaltamento su generazioni future di debiti risalenti nel tempo, oltre alla liberazione di risorse (in virtù dell’alleggerimento della quota annuale di disavanzo da recuperare) che, lungi dall’essere destinate al risanamento finanziario dell’ente, [sarebbero] impiegate per espandere la spesa futura». Tale procedura costituirebbe una lesione dell’equità intergenerazionale, determinando la traslazione del debito pregresso da una generazione all’altra senza che vi sia una correlata utilità per il sacrificio sopportato.
Il censurato comma 2-ter dell’art. 38 stabilisce che la riproposizione del piano di riequilibrio deve contenere il ricalcolo pluriennale, fino a un massimo di venti anni, del disavanzo oggetto del piano modificato «ferma restando la disciplina prevista per gli altri disavanzi».
Il legislatore – fin dalla norma precedentemente oggetto di declaratoria di incostituzionalità (art. 1, comma 714, della legge n. 208 del 2015) – ha consentito, alla luce di evidenti difficoltà di risanamento di alcune fattispecie concrete come quelle oggetto del giudizio a quo, di modificare i piani di riequilibrio, originariamente concepiti come unica e definitiva chance per l’ente locale di evitare il dissesto.
Da tale mutato orientamento del legislatore deriva che a essere in contrasto con gli evocati parametri costituzionali non è la durata astrattamente fissata nel limite di venti anni dalla tabella dell’art. 38, comma 1-terdecies, del d.l. n. 34 del 2019, come convertito, bensì il meccanismo di manipolazione del deficit che consente – come già la norma dichiarata costituzionalmente illegittima con la sentenza n. 18 del 2019 – di sottostimare, attraverso la strumentale tenuta di più disavanzi, l’accantonamento annuale finalizzato al risanamento e, conseguentemente, di peggiorare, anziché migliorare, nel tempo del preteso riequilibrio, il risultato di amministrazione.
Tale meccanismo manipolativo consente, tra l’altro, una dilatazione della spesa corrente – pari alla differenza tra la giusta rata e quella sottostimata – che finisce per incrementare progressivamente l’entità del disavanzo effettivo. Il censurato comma 2-ter autorizza, infatti, gli enti locali che si trovano nella situazione del Comune di Reggio Calabria a tenere separati disavanzi di amministrazione ai fini del risanamento e a ricalcolare la quota di accantonamento indipendentemente dall’entità complessiva del deficit.
È fuor di dubbio che ogni bilancio consuntivo può avere un solo risultato di amministrazione, il quale deriva dalla sommatoria delle situazioni giuridiche e contabili degli esercizi precedenti fino a determinare un esito che può essere positivo o negativo. Consentire di avere più disavanzi significa, in pratica, permettere di tenere più bilanci consuntivi in perdita.
Da ciò consegue che la gestione del Comune in predissesto, anziché essere strettamente raccordata al piano ritualmente approvato dal Ministero dell’interno e dalla Corte dei conti, riparte da un quadro incerto e irrazionalmente indeterminato, preclusivo di una serie di operazioni indefettibili per raccordare il nuovo piano di riequilibrio con quello approvato originariamente.
Gli artt. 81 e 97, primo comma, Cost. risultano, dunque, violati perché il censurato art. 38, comma 2-ter, del d.l. n. 34 del 2019, come convertito, esonera l’ente locale in situazione di predissesto da una serie di operazioni indefettibili per ripristinare l’equilibrio e, in particolare, dall’aggiornamento delle proiezioni di entrata e di spesa, dalla ricognizione delle situazioni creditorie e debitorie, dalla previa definizione degli accordi con i nuovi creditori e con quelli vecchi eventualmente non soddisfatti, nonché dalla ricognizione e dimostrazione della corretta utilizzazione dei prestiti stipulati per adempiere alle pregresse obbligazioni passive.
I predetti principi risultano violati insieme all’art. 119, sesto comma, Cost. sotto il profilo dell’equità intergenerazionale, in quanto il comma 2-ter del citato art. 38 consente di utilizzare risorse vincolate al pagamento di debiti pregressi per la spesa corrente, in tal modo allargando la forbice del disavanzo.
Analoga violazione sussiste sotto il profilo della responsabilità di mandato, nella misura in cui l’ente locale in predissesto viene esonerato dal fornire contezza dei risultati amministrativi succedutisi nel tempo intercorso tra l’approvazione del piano originario e quello rideterminato. È costante l’orientamento di questa Corte secondo cui «il bilancio è un “bene pubblico” nel senso che è funzionale a sintetizzare e rendere certe le scelte dell’ente territoriale, sia in ordine all’acquisizione delle entrate, sia alla individuazione degli interventi attuativi delle politiche pubbliche, onere inderogabile per chi è chiamato ad amministrare una determinata collettività ed a sottoporsi al giudizio finale afferente al confronto tra il programmato ed il realizzato» (ex plurimis, sentenza n. 184 del 2016).