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Anno XVI - n. 11 - Novembre 2024

  Giurisprudenza Civile



Contratto del consumatore e clausola abusiva: per la Corte di Giustizia, il giudice può intervenire sull’equilibrio contrattuale, ponendo il consumatore nella situazione di diritto e di fatto in cui egli si sarebbe trovato in mancanza della clausola della quale sia accertato e dichiarato il carattere abusivo.

Di Anna Laura Rum
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NOTA A CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA - SESTA SEZIONE,

SENTENZA 31 MARZO 2022, C‑472/20

 

 

Contratto del consumatore e clausola abusiva: per la Corte di Giustizia, il giudice può intervenire sull’equilibrio contrattuale, ponendo il consumatore nella situazione di diritto e di fatto in cui egli si sarebbe trovato in mancanza della clausola della quale sia accertato e dichiarato il carattere abusivo

Di ANNA LAURA RUM

 

 

Sommario: 1. I fatti di causa 2. Le argomentazioni della Corte di Giustizia 3. I principi di diritto

 

  1. I fatti di causa

La sentenza della Corte di Giustizia in commento ha ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, dal Fővárosi Törvényszék (Corte di Budapest, Ungheria) e verte sull’interpretazione della direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori.

Partendo dal contesto normativo, l’articolo 4 della direttiva 93/13 è così formulato:

«1. Fatto salvo l’articolo 7, il carattere abusivo di una clausola contrattuale è valutato tenendo conto della natura dei beni o servizi oggetto del contratto e facendo riferimento, al momento della conclusione del contratto, a tutte le circostanze che accompagnano detta conclusione e a tutte le altre clausole del contratto o di un altro contratto da cui esso dipende.

  1. La valutazione del carattere abusivo delle clausole non verte né sulla definizione dell’oggetto principale del contratto, né sulla perequazione tra il prezzo e la remunerazione, da un lato, e i servizi o i beni che devono essere forniti in cambio, dall’altro, purché tali clausole siano formulate in modo chiaro e comprensibile».

Ai sensi dell’articolo 5, prima frase, di tale direttiva, «[n]el caso di contratti di cui tutte le clausole o talune clausole siano proposte al consumatore per iscritto, tali clausole devono essere sempre redatte in modo chiaro e comprensibile».

L’articolo 6, paragrafo 1, della stessa direttiva recita: «Gli Stati membri prevedono che le clausole abusive contenute in un contratto stipulato fra un consumatore ed un professionista non vincolano il consumatore, alle condizioni stabilite dalle loro legislazioni nazionali, e che il contratto resti vincolante per le parti secondo i medesimi termini, sempre che esso possa sussistere senza le clausole abusive».

L’articolo 7, paragrafo 1, così dispone: «Gli Stati membri, nell’interesse dei consumatori e dei concorrenti professionali, provvedono a fornire mezzi adeguati ed efficaci per far cessare l’inserzione di clausole abusive nei contratti stipulati tra un professionista e dei consumatori».

A termini dell’articolo 8: «Gli Stati membri possono adottare o mantenere, nel settore disciplinato dalla presente direttiva, disposizioni più severe, compatibili con il trattato, per garantire un livello di protezione più elevato per il consumatore».

I fatti di causa hanno ad oggetto un contratto di finanziamento individuale a tasso variabile ai fini dell’acquisto di un veicolo. Tale contratto era espresso in franchi svizzeri e le rate mensili da rimborsare erano convertite in fiorini ungheresi. Al momento della stipula di tale contratto, il compratore ha sottoscritto una dichiarazione di conoscenza del rischio, che precisava, da un lato, che l’esistenza del rischio di cambio gravava sul consumatore e, dall’altro, che l’andamento futuro del corso delle valute era imprevedibile. Pertanto, le mensilità erano fissate in franchi svizzeri, poi convertite in fiorini ungheresi e il divario di cambio, calcolato al momento di tale conversione, doveva essere sopportato dal finanziato. Da tale documento risultava altresì che, quando il corso della valuta rispetto al fiorino ungherese alla data della scadenza variava rispetto al tasso di cambio di riferimento definito al momento della stipula del contratto, anche il divario tra i corsi venditore e acquirente era a carico del finanziato.

Nel corso dell’esecuzione del contratto, poiché il consumatore mostrava ritardi nel pagamento delle rate mensili, il venditore gli ha comunicato che, in caso di mancato pagamento, tale contratto sarebbe stato risolto con effetto immediato. Il consumatore non ha ottemperato e il venditore ha risolto unilateralmente il contratto, intimando al consumatore di pagare l’importo residuo dovuto.

Il venditore ha quindi adito il giudice di primo grado, chiedendo che il contratto di finanziamento in questione fosse dichiarato valido, con effetto retroattivo, e che il consumatore fosse condannato al pagamento di una somma in conto capitale, oltre agli interessi moratori.

Il consumatore, a sua volta, ha invocato il carattere abusivo delle clausole contenute nel contratto di finanziamento in questione, che mettevano integralmente a suo carico il rischio di cambio: il foglietto informativo sul rischio di cambio non sarebbe stato chiaro e comprensibile. In via riconvenzionale, egli ha chiesto, in particolare, che il venditore fosse condannato a rimborsargli una somma a titolo di arricchimento senza causa derivante dall’invalidità di tale contratto.

Il giudice ungherese di primo grado ha deciso che, sebbene la clausola del contratto di finanziamento in questione, secondo la quale il rischio di cambio doveva essere sopportato dal consumatore, fosse abusiva, tale contratto doveva essere considerato valido con effetto retroattivo alla data della sua conclusione, ma come se fosse espresso, a partire da quella stessa data, in fiorini ungheresi.

Il venditore professionista ha proposto appello contro tale sentenza dinanzi al giudice del rinvio, la Fővárosi Törvényszék (Corte di Budapest, Ungheria), contestando la decisione in base alla quale il contratto di finanziamento in questione doveva essere considerato, dalla data della sua conclusione, espresso in fiorini ungheresi. L’appellante sostiene, in particolare, che la dichiarazione di validità di detto contratto non può avere la conseguenza di perturbare l’equilibrio contrattuale tra le parti in una misura e in un modo tali che subentri uno squilibrio nel rapporto giuridico tra i valori rispettivi della prestazione e del corrispettivo.

La Fővárosi Törvényszék ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte di Giustizia le seguenti questioni pregiudiziali: 1) se, qualora la clausola contrattuale abusiva si riferisca all’oggetto principale del contratto (mancata conformità dell’informazione riguardo al rischio legato al tasso di cambio), con la conseguenza che il contratto non può sussistere e non vi è accordo tra le parti, la piena efficacia della direttiva 93/13 sia garantita dal fatto che, in mancanza di una disposizione integrativa del diritto nazionale, una presa di posizione dell’organo giurisdizionale supremo, che tuttavia non vincola i giudici di grado inferiore, fornisca orientamenti per dichiarare il contratto valido o efficace; 2) in caso di risposta negativa alla prima questione pregiudiziale, se sia possibile ripristinare la situazione originaria qualora il contratto non possa sussistere a causa della clausola abusiva relativa al suo oggetto principale, non vi sia accordo tra le parti e non possa neppure trovare applicazione la predetta presa di posizione; 3) in caso di risposta affermativa alla seconda questione pregiudiziale, se, nel caso di una domanda di dichiarazione di invalidità dell’oggetto principale del contratto, in relazione a [tale] tipo di contratti, la legge possa imporre il requisito secondo cui il consumatore debba presentare, unitamente a tale domanda, anche una domanda diretta a far dichiarare la validità o l’efficacia del contratto; 4) in caso di risposta negativa alla seconda questione pregiudiziale, nel caso in cui non sia possibile ripristinare la situazione originaria, se i contratti possano essere dichiarati validi o efficaci per via legislativa a posteriori, al fine di garantire l’equilibrio tra le parti.

 

 

  1. Le argomentazioni della Corte di Giustizia

La Corte di Giustizia, pronunciandosi sulla prima questione, ricorda che, sebbene dall’articolo 288, terzo comma, TFUE risulti, certamente, che gli Stati membri, in sede di trasposizione di una direttiva, dispongono di un ampio margine discrezionale quanto alla scelta delle modalità e dei mezzi destinati a garantirne l’attuazione, tale libertà lascia inalterato l’obbligo, per ciascuno di tali Stati, di adottare tutti i provvedimenti necessari per garantire la piena efficacia della direttiva di cui trattasi, conformemente all’obiettivo che essa persegue. La Corte cita, in tal senso, un suo precedente, la sentenza del 29 luglio 2019, Fashion ID, C‑40/17.

Ancora, la Corte sostiene che la direttiva 93/13 impone agli Stati membri di prevedere mezzi adeguati ed efficaci per far cessare l’inserzione di clausole abusive nei contratti stipulati tra un professionista e dei consumatori, citando in tal senso un proprio precedente, la sentenza del 14 giugno 2012, Banco Español de Crédito, C‑618/10.

Inoltre, la Corte aggiunge che dalla giurisprudenza della stessa Corte di Giustizia risulta che non si può escludere che, nel loro ruolo di armonizzazione nell’interpretazione del diritto e in un intento di certezza giuridica, gli organi giurisdizionali supremi di uno Stato membro possano, nel rispetto della direttiva 93/13, elaborare taluni criteri alla luce dei quali i giudici di grado inferiore devono esaminare il carattere abusivo delle clausole contrattuali e, in tal senso, ricorda la propria sentenza del 7 agosto 2018, Banco Santander e Escobedo Cortés, C‑96/16 e C‑94/17: da essa risulta altresì che gli orientamenti promananti da tali organi giurisdizionali supremi e contenenti siffatti criteri non possono tuttavia avere l’effetto di impedire al giudice nazionale competente, da un lato, di garantire la piena efficacia della direttiva 93/13 disapplicando, se necessario di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contraria della legislazione nazionale, anche posteriore, compresa qualsiasi prassi giudiziaria contraria, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione per via legislativa, giudiziaria o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale e, dall’altro, di rivolgersi alla Corte in via pregiudiziale, come affermato, anche nella sentenza del 14 marzo 2019, Dunai, C‑118/17. In quest’ultima, è stato dichiarato che la direttiva 93/13, letta alla luce dell’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, non osta a che la giurisdizione suprema di uno Stato membro adotti, nell’interesse di una uniforme interpretazione del diritto, decisioni vincolanti in merito alle modalità di attuazione di tale direttiva, purché queste ultime non impediscano al giudice competente né di garantire il pieno effetto delle norme contenute in tale direttiva e di mettere a disposizione del consumatore un ricorso effettivo a i fini della tutela dei diritti che esso può trarne, né di adire la Corte sottoponendole una domanda di pronuncia pregiudiziale a tale titolo.

La Corte nota, però, che l’esistenza di un parere non vincolante di un organo giurisdizionale supremo di uno Stato membro, che consenta così ai giudici di grado inferiore, chiamati a seguirlo, di discostarsene liberamente, non può essere considerata idonea a garantire l’effetto utile della direttiva 93/13, garantendo alle persone lese dalla clausola abusiva di essere pienamente protette; ed, infatti, è vero che dalla giurisprudenza della Corte risulta che, sebbene un contratto concluso tra un professionista e un consumatore debba in linea di principio essere nullo nella sua interezza dopo che il giudice nazionale ha stabilito che una clausola contrattuale abusiva deve essere soppressa, l’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13 non osta a che il giudice nazionale, in applicazione di principi del diritto contrattuale, sopprima la clausola abusiva sostituendola con una disposizione di diritto nazionale di natura suppletiva in situazioni in cui l’invalidazione della clausola abusiva obbligherebbe il giudice ad annullare il contratto nella sua interezza, esponendo così il consumatore a conseguenze particolarmente pregiudizievoli, sicché quest’ultimo ne sarebbe penalizzato In questo senso la Corte si è pronunciata, con la sentenza del 3 marzo 2020, Gómez del Moral Guasch, C‑125/18.

Per la Corte di Giustizia, si deve considerare che un parere non vincolante di un organo giurisdizionale supremo di uno Stato membro non possa essere assimilato a una siffatta disposizione di diritto nazionale di natura suppletiva chiamata a sostituirsi ad una clausola di un contratto di finanziamento giudicata abusiva.

Alla luce di tutte le considerazioni che precedono, la Corte risponde alla prima questione, dichiarando che la direttiva 93/13 dev’essere interpretata nel senso che l’effetto utile delle disposizioni di quest’ultima non può essere garantito, in mancanza di una norma di diritto nazionale di natura suppletiva che disciplini una situazione siffatta, dal solo parere non vincolante dell’organo giurisdizionale supremo dello Stato membro interessato che indichi ai giudici di grado inferiore l’approccio da seguire per dichiarare che un contratto sia valido o abbia prodotto i suoi effetti tra le parti, nel caso in cui tale contratto non possa sussistere a causa del carattere abusivo di una clausola relativa al suo oggetto principale.

Sulla seconda questione, poi, la Corte di Giustizia ricorda che, ai sensi dell’articolo 4, paragrafo 2, della direttiva 93/13, la valutazione del carattere abusivo delle clausole non verte sulla definizione dell’oggetto principale del contratto, purché tali clausole siano formulate in modo chiaro e comprensibile.

Tuttavia, l’articolo 8 di tale direttiva prevede la possibilità per gli Stati membri di adottare o mantenere, nel settore da essa disciplinato, disposizioni più severe, compatibili con il trattato, per garantire un livello di protezione più elevato per il consumatore.

La Corte richiama un proprio precedente, la sentenza del 3 giugno 2010, Caja de Ahorros y Monte de Piedad de Madrid C‑484/08, ove, dopo aver constatato che le clausole di cui all’articolo 4, paragrafo 2, della direttiva 93/13 rientrano nel settore disciplinato da quest’ultima e che, pertanto, l’articolo 8 della stessa si applica anche a detto articolo 4, paragrafo 2, ha dichiarato che queste due disposizioni non ostano a una normativa nazionale che consente un controllo giurisdizionale del carattere abusivo di siffatte clausole che garantisce al consumatore un livello di tutela più elevato di quello stabilito da tale direttiva.

Per giurisprudenza consolidata della Corte, in tal contesto, l’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13 deve essere interpretato nel senso che una clausola contrattuale dichiarata abusiva deve essere considerata, in linea di principio, come se non fosse mai esistita, cosicché non può sortire effetti nei confronti del consumatore. Pertanto, l’accertamento giudiziale del carattere abusivo di una clausola del genere, in linea di massima, deve produrre la conseguenza di ripristinare, per il consumatore, la situazione di diritto e di fatto in cui egli si sarebbe trovato in mancanza di detta clausola. In questo senso, la Corte si è pronunciata, in precedenza, con la sentenza del 21 dicembre 2016, Gutiérrez Naranjo e a., C‑154/15, C‑307/15 e C‑308/15.

La Corte ricorda avere, nei suoi precedenti, anche dichiarato che l’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13 tende a sostituire all’equilibrio formale, che il contratto determina tra i diritti e gli obblighi dei contraenti, un equilibrio reale, finalizzato a ristabilire l’uguaglianza tra questi ultimi.

Per la Corte di Giustizia, in relazione all’incidenza di una dichiarazione di abusività delle clausole contrattuali sulla validità del contratto in questione, occorre sottolineare che, ai sensi dell’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13, detto contratto resta vincolante per le parti secondo i medesimi termini, sempre che esso possa sussistere senza le clausole abusive e afferma che in tale contesto, i giudici nazionali che accertano il carattere abusivo delle clausole contrattuali sono tenuti, in forza di suddetto articolo, da un lato, a trarre tutte le conseguenze che ne derivano secondo il diritto nazionale affinché il consumatore non sia vincolato da dette clausole e, dall’altro, a valutare se il contratto in esame possa sussistere senza tali clausole abusive.

Ancora, la Corte ricorda che l’obiettivo perseguito dal legislatore dell’Unione, con la direttiva 93/13 consiste proprio nel ripristinare l’equilibrio tra le parti, salvaguardando al contempo, in linea di principio, la validità del contratto nel suo complesso, e non nell’annullare qualsiasi contratto contenente clausole abusive.

La Corte ha già più volte dichiarato che, sebbene spetti agli Stati membri, mediante le loro legislazioni nazionali, definire le modalità per dichiarare il carattere abusivo di una clausola contenuta in un contratto, nonché le modalità con cui si realizzano i concreti effetti giuridici di tale dichiarazione, rimane nondimeno il fatto che tale dichiarazione deve consentire di ripristinare, per il consumatore, la situazione di diritto e di fatto in cui egli si sarebbe trovato in mancanza di tale clausola abusiva, dando, in particolare, fondamento ad un diritto alla restituzione dei benefici che il professionista ha indebitamente acquisito a discapito del consumatore, avvalendosi di tale clausola abusiva.

La Corte nota, poi, che qualora il giudice nazionale ritenga che il contratto di finanziamento nella causa su cui è chiamato a statuire non possa, conformemente al diritto dei contratti, sussistere giuridicamente dopo la soppressione delle clausole abusive di cui trattasi e qualora non esista alcuna disposizione di diritto nazionale di natura suppletiva o alcuna disposizione applicabile in caso di accordo tra le parti contraenti che possa sostituirsi a dette clausole, si deve considerare che, nella misura in cui il consumatore non ha espresso il proprio intento di mantenere le clausole abusive e l’annullamento del contratto esporrebbe tale consumatore a conseguenze particolarmente dannose, il livello elevato di tutela del consumatore, che deve essere garantito conformemente alla direttiva 93/13, richiede che, al fine di ripristinare l’equilibrio reale tra i diritti e gli obblighi reciproci delle parti contraenti, il giudice nazionale adotti, tenendo conto dell’insieme del suo diritto interno, tutte le misure necessarie per tutelare il consumatore dalle conseguenze particolarmente dannose che l’annullamento del contratto di finanziamento in questione potrebbe provocare, in particolare a causa dell’esigibilità immediata del credito del professionista nei suoi confronti. In questo senso, la Corte si è già pronunciata con la sentenza del 25 novembre 2020, Banca B., C‑269/19.

Pertanto, dalle considerazioni che precedono, secondo la Corte risulta che se, in una situazione come quella di cui al procedimento principale, il giudice nazionale ritiene che non sia possibile rimettere le parti nella situazione in cui si sarebbero trovate se tale contratto non fosse stato concluso, a lui spetta vigilare che il consumatore si trovi, in definitiva, nella situazione in cui si sarebbe trovato se la clausola giudicata abusiva non fosse mai esistita.

La Corte specifica che gli interessi del consumatore potrebbero quindi essere salvaguardati mediante un rimborso a suo favore delle somme indebitamente percepite dal finanziatore sulla base della clausola giudicata abusiva, avvenendo siffatto rimborso a titolo di arricchimento senza causa.

Infine, la Corte ricorda che la competenza del giudice non può andare al di là di quanto è strettamente necessario per ripristinare l’equilibrio contrattuale tra le parti contraenti e quindi per tutelare il consumatore dalle conseguenze particolarmente dannose che l’annullamento del contratto di finanziamento in questione potrebbe provocare.

Alla luce di tutte le considerazioni che precedono, la Corte di Giustizia risponde alla seconda questione dichiarando che la direttiva 93/13 dev’essere interpretata nel senso che essa non osta a che il giudice nazionale competente decida di rimettere le parti di un contratto di finanziamento nella situazione in cui si sarebbero trovate se tale contratto non fosse stato stipulato per il fatto che una clausola di detto contratto relativa al suo oggetto principale deve essere dichiarata abusiva in forza di tale direttiva, fermo restando che, se tale ripristino si rivela impossibile, a lui spetta vigilare affinché il consumatore si trovi in definitiva nella situazione in cui si sarebbe trovato se la clausola giudicata abusiva non fosse mai esistita.

Le questioni terza e quarta vengono, invece, ritenute dalla Corte irricevibili.

 

  1. I principi di diritto

Alla luce delle argomentazioni svolte, la Corte di Giustizia, Sesta Sezione, ha dichiarato i seguenti principi di diritto:

1) La direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, dev’essere interpretata nel senso che l’effetto utile delle disposizioni di quest’ultima non può essere garantito, in mancanza di una norma di diritto nazionale di natura suppletiva che disciplini una situazione siffatta, dal solo parere non vincolante dell’organo giurisdizionale supremo dello Stato membro interessato che indichi ai giudici di grado inferiore l’approccio da seguire per dichiarare che un contratto sia valido o abbia prodotto i suoi effetti tra le parti, nel caso in cui tale contratto non possa sussistere a causa del carattere abusivo di una clausola relativa al suo oggetto principale.

2) La direttiva 93/13/CEE dev’essere interpretata nel senso che essa non osta a che il giudice nazionale competente decida di rimettere le parti di un contratto di finanziamento nella situazione in cui si sarebbero trovate se tale contratto non fosse stato stipulato per il fatto che una clausola di detto contratto relativa al suo oggetto principale deve essere dichiarata abusiva in forza di tale direttiva, fermo restando che, se tale ripristino si rivela impossibile, a lui spetta vigilare affinché il consumatore si trovi in definitiva nella situazione in cui si sarebbe trovato se la clausola giudicata abusiva non fosse mai esistita”.