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Anno XVII - n. 05 - Maggio 2025

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L'Adunanza Plenaria si esprime sul bilanciamento tra interesse generale e diritti fondamentali della persona e sul rapporto tra ius superveniens e legittimo affidamento.

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Consiglio di Stato, Ad. Plen., sent. del 5 agosto 2022, n. 9.

Il comma 458 dell’articolo 1 della legge di stabilità del 2014 è connotata da retroattività impropria perché: a) considera un fatto generatore di un rapporto giuridico – la cessazione dall’incarico di consigliere c.d. laico del C.S.M. – che si è verificato anteriormente alla sua entrata in vigore; b) quel rapporto giuridico era disciplinato da una previgente disciplina alla quale le parti sono state sottoposte per un certo periodo; c) introduce una nuova disciplina cui le parti sono sottoposte a partire dalla sua entrata in vigore; e trova applicazione anche nei confronti dei professori universitari eletti componenti c.d. laici del C.S.M. che alla cessazione dell’incarico siano rientrati nei ruoli dell’università di provenienza.

Ricorre, pertanto, una cesura tra due diverse discipline che corrisponde al momento di entrata in vigore della nuova norma, per cui uno stesso rapporto, per il tempo della sua durata, è regolato prima in un modo e poi in altro.

Quel che più conta, però, è che la nuova regola del rapporto comporta per il periodo successivo alla sua entrata in vigore un peggioramento del trattamento economico (e giuridico) del dipendente pubblico; essa, cioè, incide negativamente sui diritti in godimento.

Che essa valga a ridefinire immediatamente il trattamento dei professori universitari trova conferma nel richiamo contenuto nel comma 459 all’art. 8, comma 5, l. n. 370 del 1999 che, come in precedenza si è esposto, prevedeva una analoga regola per il rientro nei ruoli universitari per l’aver svolto incarichi diversi da quello qui in esame.

Per questo motivo, se ne deve accertare l’eventuale contrasto con il principio del legittimo affidamento del dipendente pubblico.

Il principio del legittimo affidamento nella certezza delle situazioni giuridiche costituisce un limite alla scelta del legislatore ordinario di introdurre discipline che modificano rapporti giuridici in corso di svolgimento.

Visto nell’ottica dei rapporti amministrativi, esso tutela l’aspettativa della parte privata a poter conservare – per tutto il periodo di spettanza e nell’originaria entità – l’utilità legittimamente acquisita in forza di un atto della pubblica amministrazione; così inteso vale per ogni norma retroattiva, nelle due accezioni, propria e impropria, prima esposte (e con specifico riguardo alle leggi di interpretazione autentica).

Non essendo impedito da specifiche disposizioni costituzionali – salvo, come noto, in materia penale dall’art. 25, comma 3, Cost. – il legittimo affidamento quale limite all’adozione di norme retroattive ha fondamento nell’art. 3 Cost. e nel divieto di introdurre ingiustificate disparità di trattamento (oltre che nei principi connaturati allo Stato di diritto, quale l’indispensabile coerenza dell’ordinamento giuridico e la certezza del diritto, cfr. Corte cost., 5 novembre 2021, n. 210; 23 marzo 2021, n. 46; 30 gennaio 2018, n. 12; 4 luglio 2014, n. 191). Esso non è, però, limite assoluto, né inderogabile.

La giurisprudenza costituzionale, ha infatti precisato che: “nel nostro sistema costituzionale non è interdetto al legislatore di emanare disposizioni le quali modifichino sfavorevolmente la disciplina dei rapporti di durata, anche se il loro oggetto sia costituito da diritti soggettivi perfetti, salvo, qualora si tratti di disposizioni retroattive, il limite costituzionale della materia penale (art. 25, secondo comma, Cost.). Dette disposizioni però, al pari di qualsiasi precetto legislativo, non possono trasmodare in un regolamento irrazionale e arbitrariamente incidere sulle situazioni sostanziali poste in essere da leggi precedenti, frustrando così anche l'affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica, che costituisce elemento fondamentale e indispensabile dello Stato di diritto” (così Corte cost. 12 dicembre 1985, n. 349, nonché, più recentemente, Corte cost. 22 ottobre 2010, n. 302; 24 luglio 2009, n. 236; 9 luglio 2009, n. 206).

La disposizione va, dunque, sottoposta a scrutinio di ragionevolezza il quale sempre si risolve nella verifica del corretto bilanciamento tra le opposte esigenze: dell’una, sempre uguale, s’è detto ed è l’aspettativa del privato a conservare quel che ha acquisito, l’altra, mutevole, è ciò che giustifica l’intervento in senso peggiorativo del preesistente assetto di interessi deciso dal legislatore.

È quel che si definisce la “causa normativa adeguata” (così in Corte cost. 2016, n. 203; 12 marzo 2015, n. 34; 2013, n. 92); a sua volta consistente ad un interesse pubblico sopravvenuto (o anche in una “inderogabile esigenza”) di rilievo costituzionale (o che abbia riscontro in principio, diritto o bene di rilevo costituzionale).

7.4. Per la Corte costituzionale lo scrutinio di ragionevolezza della norma sopravvenuta che appaia suscettibile di lesione del legittimo affidamento va svolto in tre momenti successivi; se è superato positivamente l’uno, è possibile passare all’altro.

Preliminarmente è da verificare se l’aspettativa del privato nella conservazione inalterata della sua situazione soggettiva per l’intera durata del rapporto sia giustificata al momento in cui sopravviene la modifica normativa (e, per questo motivo, appunto legittima).

Lo è se si tratta posizione adeguatamente consolidata per essersi protratta per un tempo ragionevolmente lungo (Corte cost. 9 maggio 2019 n. 108; 26 aprile 2018 n. 89; 1° dicembre 2017, n. 250; 20 maggio 2016, n. 108; 31 marzo 2015, n. 56) e se la modifica peggiorativa non era prevedibile; ciò che accade quanto la situazione soggettiva è sorta in un contesto giuridico atto a far sorgere nel destinatario una ragionevole fiducia nel suo mantenimento (cfr. Corte cost. 24 gennaio 2017, n. 16; 31 marzo 2015, n. 56).

Se l’affidamento è realmente legittimo, occorre accertare se ricorra la “causa normativa adeguata” di cui s’è già detto; si tratta della ragione dell’intervento legislativo che vale a giustificare la ripercussione della nuova norma su di uno stabile assetto di interessi.

Infine, è pur sempre necessario – se anche ricorra una “causa normativa adeguata” – che sia rispettato il limite della proporzionalità, nel senso che l’intervento normativo deve essere coerente rispetto all’obiettivo perseguito dal legislatore.

7.5. La suesposta elaborazione trova concordi la Corte costituzionale e Corte europea dei diritti dell’uomo.

L’intervento normativo modificativo può risultare lesivo dei principi costituzionali interni, nel senso in precedenza esposto, ma anche dell’art. 1 del Protocollo n.1 addizionale alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, ove è stabilito, nella prima parte del par. 1, che “Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni” – qui da intendersi in senso ampio, non solo quale res materiale, ma come ogni attività che possa essere qualificata come “diritto patrimoniale” fino a comprendere anche la “aspettativa legittima” della sua acquisizione. Anche un diritto di credito rientra, pertanto, tra i beni protetti.

Il par. 1 continua con la previsione per la quale: “Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale”.

Il par. 2 stabilisce che: “Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di porre in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o altri contributi o delle ammende”.

Il pacifico godimento dei beni è tutelato dall’ingerenza dell’autorità pubblica; ingerenza che può avvenire anche mediante esercizio della funzione legislativa.

La Corte considera l’ingerenza dei poteri pubblici nel godimento dei beni compatibile con l’art. 1 del Protocollo n. 1 se soddisfa il principio di legalità, se necessaria per una ragione legittima di pubblica utilità o per un interesse generale e sempre che abbia luogo mediante mezzi ragionevolmente proporzionati al fine che si intende realizzare (sentenza Béláné Nagy c. Ungheria, 13 dicembre 2013).

Disposizioni retroattive sono ritenute conformi al requisito di legalità (sentenze Maggio e altri c. Italia, 31 maggio 2011 e sentenza Arras e altri c. Italia, 14 febbraio 2012).

Le finalità per le quali l’ingerenza può essere giustificata poiché rispondente ad una ragione di pubblica utilità o ad un interesse generale sono varie: in ogni caso, quando si tratta di misure generali di strategia economica o sociale la Corte riconosce allo Stato un ampio margine di apprezzamento (sentenza Wallishauser c. Austria (n.2), 20 giugno 2013,§ 65), poiché, per la conoscenza diretta della loro società e delle sue esigenze, le autorità nazionali sono in linea di massima in una posizione migliore del giudice internazionale per decidere cosa sia nel “pubblico interesse” (sentenza Azienda agricola Silverfunghi e altri c. Italia, 24 giugno 2014, § 103).

L’eliminazione delle disposizioni discriminatorie e il controllo della spesa pubblica sono considerati fini legittimi per meglio garantire la giustizia sociale e tutelare il benessere economico dello Stato (così sentenza Stefanetti e altri c. Italia, 15 aprile 2014, § 56).

Ribadisce, inoltre, la Corte che è necessario vi sia il giusto equilibrio (fair balance) tra le esigenze dell’interesse generale e l’obbligo di proteggere i diritti fondamentali della persona; ciò che non sussiste se l’interessato sopporta un “onere individuale eccessivo” (cfr. Sporrong e Lonnroth c. Svezia, 23 settembre 1982, § 69-74; Vékony c. Ungheria, 13 gennaio 2015 § 35).

Per le chiare indicazioni della Corte costituzionale, in consonanza con la Corte EDU, può escludersi ogni dubbio di contrasto con il principio del legittimo affidamento (come corollario del principio di certezza dei rapporti giuridici) della normativa qui in esame.

Pur volendo dire legittimamente maturata l’aspettativa dei consiglieri c.d. laici alla conservazione del favorevole trattamento economico in godimento all’entrata in vigore dei commi 458 e 459 dell’articolo 1 della l. n. 147 del 2013, è certo che le nuove regole rispondano ad interessi generali (che hanno cioè “causa normativa adeguata”); ciò che rende ragionevole la decisione in punto di loro immediata applicazione.

La nuova disciplina del trattamento economico del dipendente pubblico alla cessazione dell’incarico risponde ad un’esigenza di contenimento della spesa pubblica, poiché porta alla soppressione di quel surplus di retribuzione (l’assegno ad personam) – non correlata all’attività svolta al rientro presso l’amministrazione di appartenenza né conseguente all’anzianità maturata – percepita per il solo fatto del pregresso svolgimento dell’incarico.

Ragioni di contenimento della spesa pubblica, come detto, possono giustificare l’immediata modifica della disciplina dei rapporti in corso di svolgimento, dovendo il legislatore fronteggiare subito l’avvertito eccessivo dispendio di denaro pubblico.

In secondo luogo, attraverso l’innovativa disposizione sono eliminate ragioni di differenziazione dei trattamenti economici all’interno della stessa amministrazione: prevedendo che alla cessazione dell’incarico sia corrisposto al dipendente “un trattamento pari a quello attribuito al collega di pari anzianità” il legislatore riconosce che il tempo della durata dell’incarico c.d. esterno valga ai fini dell’anzianità di servizio – a sua volta rilevante, per quel che si ricava dalla norma, ai fini economici – come la continuativa attività lavorativa che per lo stesso periodo sia svolta all’interno dell’amministrazione, dando così alle due carriere – quella che per un tratto si svolge fuori dall’amministrazione e l’altra integralmente al suo interno – pari dignità quanto alla maturazione del trattamento economico.

Il superamento di disparità di trattamento tra situazioni (identiche o) assimilabili, più di ogni altra ragione, giustifica interventi legislativi di immediata applicazione: ove il legislatore del tempo presente rilevi l’esistenza di ragioni di disparità è tenuto per imperativo costituzionale (art. 3 Cost.) a porvi immediatamente rimedio senza attendere oltre – fissando, cioè, un momento futuro per l’efficacia delle nuove regole, e così, però, consentendo che tale ingiusta situazione si perpetui ancora.

Ciò naturalmente fatti salvi i diritti quesiti e consumati, ossia quei diritti che siano entrati nella loro interezza nella sfera giuridica del destinatario in ragione di un fatto generatore verificatosi nel passato e i cui effetti nel passato si sono integralmente prodotti (cfr. Cons. Stato, sez. I, 28 dicembre 2021, n. 1984, che si occupa di tale problema in relazione alle sentenze che dichiarano l’illegittimità costituzionale di una norma, ma con argomenti di portata generale).

Le considerazioni da ultimo svolte valgono ancor più per lo specifico caso qui in esame del trattamento riservato ai consiglieri c.d. laici del C.S.M. al rientro nella amministrazione di appartenenza; l’effetto abrogativo del comma 458 come precedentemente ricostruito infatti porta a definire un unico trattamento dei consiglieri eletti dal Parlamento alla cessazione dell’incarico a fronte delle differenti discipline prima esistenti in ragione della categoria di provenienza al momento dell’elezione.

Occorre, infatti, considerare che il secondo comma dell’art. 3, l. n. 312 del 1971 prevede che “L’attribuzione dell’assegno personale di cui al comma precedente esclude la concessione dell’indennità di cui all’articolo 1 della presente legge”; a sua volta l’articolo 1 richiamato prevede che: “Ai componenti del Consiglio superiore della magistratura eletti dal Parlamento è corrisposta, all’atto della cessazione dalla carica per decorso del quadriennio un’indennità di importo complessivo pari all’ultimo assegno mensile corrisposto moltiplicato per dodici”.

Essendo i professori universitari destinatari dell’assegno personale di cui al primo comma dell’art. 3 l. n. 312 del 1971, quest’ultima indennità era riconosciuta agli avvocati eletti consiglieri del C.S.M. dal Parlamento; essi, infatti, alla cessazione dell’incarico non potevano godere dell’assegno ad personam.

Il trattamento differenziato – evidentemente più favorevole per i professori che per un lungo periodo avrebbero potuto godere di ulteriori somme per essere stati consiglieri del C.S.M . – è ora superato, spettando ad entrambe le figure professionali che per dettato costituzionale possono essere eletti dal Parlamento componenti del C.S.M., la medesima indennità alla cessazione dalla carica.

Tale indennità, poi, garantisce agli uni e agli altri il giusto compenso stabilito dalla legge per il particolare sacrificio sostenuto per lo svolgimento dell’incarico di particolare rilevanza costituzionale, come precedentemente rammentato.

La misura è infine proporzionata: l’appellato, proprio in quanto privato di un surplus di retribuzione riferita ad un incarico ormai passato, non supporta alcun “onere individuale eccessivo”, di modo che si può ben dire raggiunto il giusto bilanciamento (fair balance) tra interesse generale e diritti fondamentali della persona.

In conclusione, al secondo quesito posto dalla Sezione rimettente può darsi risposta nel senso che le nuove disposizioni si applicano ai ratei da corrispondersi a partire dal 1°febbraio 2014, anche se il conferimento dell’incarico di componente c.d. laico del C.S.M. sia avvenuto antecedentemente alla data di entrata in vigore della l. n. 147 del 2003 e senza che ciò comporti lesione del legittimo affidamento maturato dal consigliere.