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Anno XVI - n. 04 - Aprile 2024

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Rimesse all'Adunanza Plenaria alcune questioni sulla consumazione dei mezzi di impugnazione e, in pendenza dei termini di impugnazione, la rinnovazione della notifica o la proposizione di nuovi motivi.

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Consiglio di Stato, Sez. IV, ord. del 25 ottobre 2021, n. 7138.

Sono rimesse all’Adunanza plenaria le questioni: a) se nel processo amministrativo trovi applicazione e in che limiti il principio di consumazione dei mezzi di impugnazione; b) più in particolare, se alla medesima parte processuale sia consentito rinnovare la notificazione al solo scopo di emendare vizi dell’atto che ne determinano la nullità o la tardività del suo deposito, oppure se il rinnovo in questione sia consentito anche a prescindere dall’emenda di un vizio e senza apparente ragione, purché sia ancora pendente il termine per impugnare e non sia stata emessa dal giudice una pronuncia di irricevibilità o di improcedibilità dell’impugnazione; c) se alla parte sia consentito proporre nuovi motivi di impugnazione - al di là dei casi previsti di proposizione dei motivi aggiunti – purché sia ancora pendente il termine per impugnare e non sia stata emessa dal giudice una pronuncia di irricevibilità o di improcedibilità dell’impugnazione; d) quale sia la corretta interpretazione del combinato disposto di cui agli artt. 94, comma 1, e 45, comma 1, c.p.a., e se cioè - quando si stabilisce che “il ricorso deve essere depositato nella segreteria del giudice adito, a pena di decadenza, entro trenta giorni dall’ultima notificazione ai sensi dell’art. 45…” e che “Il ricorso e gli altri atti processuali soggetti a preventiva notificazione sono depositati nella segreteria del giudice nel termine perentorio di trenta giorni, decorrente dal momento in cui l’ultima notificazione dell’atto stesso si è perfezionata anche per il destinatario” – essi vadano interpretati nel senso che - purché sia ancora pendente il termine per impugnare e non sia stata emessa dal giudice una pronuncia di irricevibilità o di improcedibilità dell’impugnazione – il ricorso possa essere oggetto di nuova notificazione (ai fini di individuare ‘l’ultima notificazione dell’atto che si è perfezionata anche per il destinatario’) solo per emendare vizi dell’atto o della sua notificazione o del suo deposito, ovvero se, al contrario, sia possibile per la medesima parte prescindere dalla suddetta emenda.

Ha chiarito la Sezione che sussiste un contrasto di giurisprudenza nell’interpretazione e nell’applicazione del suddetto principio limitatamente, per quanto qui di interesse ai fini del decidere, alla questione della necessità (o meno) che la ‘duplicazione’ dei gravami (mediante rinnovazione o ripetizione della notifica) sia motivata in senso assoluto dall’esigenza di riparare a vizi di nullità dell’atto che inevitabilmente conducono alla declaratoria di irricevibilità o di improcedibilità, ovvero se, al contrario, il principio trova applicazione anche ai casi in cui la ripetizione della notificazione rimedia ad inerzie processuali della parte ovvero si fonda su strategie difensive della parte medesima, anche non palesate in atti.
​​​​​​​Secondo un orientamento la ratio - che giustificherebbe (pendente il termine per l’appello e in assenza di una declaratoria giudiziale di irricevibilità o improcedibilità) la possibilità per la medesima parte di riproporre la stessa impugnazione - sarebbe quella di emendare un vizio, sostituendo un atto valido ad uno invalido. In quest’ottica, la ri-notificazione è, da un punto di vista classificatorio, un procedimento di rinnovazione, anziché di mera ripetizione, di un atto giuridico già esistente nel mondo giuridico, sebbene non validamente formato o improduttivo di effetti. Anzi, per la precisione, l’ultima pronuncia citata, sembra ancorare il concetto ad un criterio - se si vuole - ancora più severo della semplice irritualità, esigendosi “un atto integralmente nullo”. Sotto quest’angolo prospettico, si potrebbe anzi cogliere un ulteriore aspetto, e cioè che – opinando nel senso che occorra necessariamente l’esistenza di un vizio da emendare - la situazione processuale di colui il quale ripropone il medesimo appello al solo scopo di depositarlo in termini, parrebbe essere trattata in modo più severo rispetto a quella di colui il quale compie la medesima attività, magari anche determinata dalla necessità di riparare ad una colpa, imperizia o negligenza professionale nella redazione o notificazione o deposito dell’atto medesimo.
​​​​​​​Altro orientamento si è occupato del caso in cui la sentenza di primo grado era stata appellata per due volte dalla medesima parte, ma - differentemente rispetto alle sentenze finora considerate – tramite due autonomi ricorsi che, depositati entrambi nel termine di cui all’art. 94 c.p.a., avevano dato vita a due autonome iscrizioni nel Registro di segreteria. Va inoltre precisato che, sebbene i due atti di appello si presentavano in modo formalmente diverso tra di loro (perché il primo ricorso era affidato ad un unico articolato motivo, mentre il secondo si articolava in due motivi), la Sezione: a) valutava la sostanziale equivalenza delle due impugnazioni proposte; b) prendeva atto che la parte si era determinata a questo comportamento processuale “senza evidenziare le ragioni di tale duplicazione”; c) riuniva le due impugnazioni proposte (perché aventi identico contenuto) e le accoglieva entrambe, riformando la sentenza impugnata. La Sezione osserva che, nel caso pratico appena considerato, entrambe le impugnazioni erano state ritualmente notificate e depositate, mentre nel caso all’esame la prima impugnazione difetta del deposito dell’atto nella Segreteria del giudice. Pur con questa distinzione fattuale, la Sezione ritiene che la circostanza decisiva, sul piano argomentativo, si potrebbe individuare nei termini che di seguito si espongono. Il Consiglio di giustizia amministrativa non ha dichiarato sic et simpliciter inammissibile la seconda impugnazione, sebbene identica e ripetitiva rispetto alla prima, e senza la benché minima efficacia sanante o sostitutiva di vizi della prima.
​​​​​​​In altre parole, il Consiglio di giustizia amministrativa – nel riunire e nell’esaminare nel merito entrambe le impugnazioni provenienti dalla medesima parte processuale – sembra avere aperto alla riflessione sul contenuto e sui limiti all’applicazione del principio di consumazione dell’impugnazione. A tale riguardo, può osservarsi in linea di principio che: a) il disposto di cui agli artt. 358 e 387 c.p.c. è circoscritto ai soli casi di appello e ricorso in cassazione già dichiarati inammissibili o improcedibili, dove cioè la consumazione della seconda impugnazione deriva non dal mero fatto della proposizione della prima impugnazione, ma – e ciò va decisamente rimarcato sotto il profilo testuale delle disposizioni - dall’esservi già stata una decisione di inammissibilità o improcedibilità della prima impugnazione; b) rispetto al diritto all’azione (art. 24 Cost.), è coerente sostenere che non sia la prima impugnazione, ma la decisione su di essa, che impedisce la riproposizione dell’impugnazione, a maggiore ragione nelle ipotesi in cui i termini (per l’appello o il ricorso per cassazione) non sono ancora scaduti (ciò che nel processo amministrativo può accadere non solo quando si tratti del termine lungo di impugnazione, ma anche quando vi sia una decisione in forma semplificata all’esito della fase cautelare); c) le disposizioni che escludono, limitano o introducono condizioni più restrittive per l’esercizio dei diritti – anche in sede processuale – di per sé si dovrebbero interpretare in senso restrittivo e comunque col divieto di applicazione analogica, a maggior ragione nei casi in cui – come quello all’esame – il principio di cui si intende fare applicazione non è sancito in maniera espressa dalla legge ed è perimetrato, quanto al suo contenuto materiale, dall’esegesi giurisprudenziale; d) l’art. 39 c.p.a., per quanto non disciplinato dal codice medesimo, rinvia all’applicazione delle disposizioni del codice di procedura civile, in quanto compatibili o espressione di principi generali; e) è ragionevole porsi la questione se sia compatibile con il sistema processuale amministrativo una interpretazione del principio di consumazione delle impugnazioni, come ritraibile dagli artt. 358 e 387 c.p.c., nel senso che si possa estendere a casi non contemplati, quale è quello delle plurime tempestive impugnazioni della stessa parte, prima che una di esse sia dichiarata inammissibile o improcedibile, con la conseguenza che l’effetto consumativo deriverebbe non già da una decisione giudiziale, bensì dalla impugnazione di parte; f) nel c.p.a. sono dettati principi generali sulle impugnazioni: mentre non è espressamente menzionato il principio di consumazione dell’impugnazione, e di converso l’art. 96, che regola le più impugnazioni proposte avverso la medesima sentenza, non distingue a seconda che siano (o meno) proposte dalla medesima parte processuale, essendo la disposizione posta a presidio del solo divieto di frazionamento delle impugnazioni; g) ai sensi dell’art. 45, comma 1, c.p.a., l’iter notificatorio si intende completato con il deposito nella segreteria del giudice del ricorso e degli atti soggetti a preventiva notificazione “nel termine perentorio di trenta giorni, decorrente dal momento in cui l’ultima notificazione dell’atto stesso si è perfezionata anche per il destinatario”. Di conseguenza, va chiarito se la rinnovazione della notificazione, se eseguita entro il termine di impugnazione e anteriormente alla declaratoria giudiziale di irricevibilità o improcedibilità dell’impugnazione, si possa qualificare come ‘elusiva’, perché comporta lo ‘spostamento in avanti’ del termine perentorio di deposito del ricorso rispetto alla prima notificazione non andata a buon fine (o comunque sia non seguita dal deposito del relativo atto anche per mera inerzia della parte), ovvero se, trattandosi di notificazione valida rispetto al termine di impugnazione, non sia ravvisabile il suddetto ‘effetto elusivo’ e il termine di deposito vada calcolato ai sensi dell’art. 45 c.p.a.