ISSN 2039 - 6937  Registrata presso il Tribunale di Catania
Anno XVI - n. 04 - Aprile 2024

  Unione Europea



Osservatorio sulla Giurisprudenza dell'Unione Europea aggiornato al 30 giugno 2016. A cura di Maria Novella Massetani

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  • Sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea nelle cause C – 358 / 14, C – 477/14, C – 547/14 Polonia / Parlamentoi e Consiglio, Limited / Secretary of State for Health, Philip Morris Brands SARL e a. / Secretary of State for Health

    La fattispecie in questione riguarda la materia dei prodotti del tabacco di cui si occupa la direttiva 2014/40/Ue. 

    La Polonia si rivolge alla Corte di Giustizia per chiedere ai giudici comunitari se le disposizioni della direttiva sopra citata, in particolare, il divieto delle sigarette al mentolo, la standardizzazione dell’etichettatura e del confezionamento di prodotti del tabacco e il regime applicabile alle sigarette elettroniche siano valide.

    La direttiva ha la finalità di favorire il buon funzionamento del mercato interno dei prodotti del tabacco e dei prodotti correlati, sulla base di un elevato livello di protezione della salute umana. Inoltre, si prefigge di adempiere agli obblighi dell’Unione Europea previsti dalla Convenzione quadro dell’Organizzazione mondiale della sanità per la lotta al tabagismo sottoscritta a Ginevra in data 21.05.2003. Tale direttiva dal maggio 2020 vieta l’immissione sul mercato di prodotti del tabacco contenenti un aroma caratterizzante nonché la standardizzazione dell’etichettatura e del confezionamento dei prodotti del tabacco, inoltre prevede un regime specifico per le sigarette elettroniche.

    La Corte di Giustizia, investita della questione, afferma la validità delle disposizioni della direttiva.

    Più precisamente, la Corte dispone che i prodotti del tabacco contenenti un aroma al mentolo o altro aroma presentano caratteristiche analoghe e effetti simili sull’avviamento al consumo del tabacco e sul mantenimento del tabagismo. Il mentolo per la sua gradevolezza rende i prodotti in esame più attraenti per i consumatori e la riduzione della desiderabilità può contribuire a diminuire la diffusione del tabagismo. 

    La Corte conclude, affermando che il legislatore comunitario poteva legittimamente, nell’esercizio del suo potere discrezionale, imporre un tale divieto poiché le misure meno vincolanti previste dalla Polonia non sembrano idonee a realizzare l’obiettivo perseguito. 

    Per quanto riguarda la dell’etichettatura e del confezionamento di prodotti del tabacco gli Stati membri hanno la facoltà di mantenere o introdurre ulteriori disposizioni soltanto per il confezionamento dei prodotti non armonizzati dalla direttiva. La Corte afferma che il divieto di apporre sull’etichettatura delle confezioni, sull’imballaggio esterno nonché sul prodotto qualsiasi elemento che possa contribuire a promuovere il prodotto, sia idoneo a tutelare la salute dei consumatori contro i rischi collegati al tabagismo e non ecceda i limiti di quanto è necessario alla realizzazione dello scopo perseguito. La Corte di Giustizia sottolinea che le sigarette elettroniche presentano caratteristiche oggettive diverse da quelle dei prodotti del tabacco, pertanto il legislatore dell’Unione europea non ha violato il principio di parità di trattamento, in quanto tali sigarette hanno un regime giuridico meno restrittivo di quello applicabile ai prodotti del tabacco.

    La Corte dichiara che non è sproporzionato richiedere che le confezioni delle sigarette elettroniche e i contenitori di liquido di ricarica rechino un foglietto separato e non è sproporzionato vietare le comunicazioni commerciali e la sponsorizzazione a favore di tale tipologia di sigarette e delle ricariche. La Corte conclude che il regime specifiche applicabile alle sigarette elettroniche non viola il principio di sussidiarietà e non pregiudica nemmeno il diritto di proprietà e la libertà di impresa.

  • Sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea nella causa C – 308 / 14 Commissione / Regno Unito

    Nella fattispecie la Corte si occupa di un ricorso della Commissione, che ha ricevuto molte denunce di cittadini dell’Unione non britannici residenti nel Regno Unito, i quali lamentavano il fatto che le autorità britanniche avessero negato la concessione di certe prestazioni sociali perché essi non erano titolari di un diritto di soggiorno in tale paese.

    La Commissione ha, quindi, proposto ricorso poiché la normativa britannica violava, a suo parere, le disposizioni del regolamento sul coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale.

    Il regolamento citato, n. 883/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio, fissa una serie di principi comuni che devono essere rispettati dagli Stati membri affinché non sia recato pregiudizio da parte dei sistemi nazionali ai soggetti che esercitino il diritto di libera circolazione e di soggiorno all’interno dell’Unione. Nell’ambito di sicurezza sociale il principio di uguaglianza si traduce nel divieto di qualsiasi discriminazione in base alla cittadinanza.

    La Corte, chiamata a pronunciarsi, respinge il ricorso della Commissione, affermando che le prestazioni di cui trattasi sono prestazioni di sicurezza sociale e rientrano nell’ambito di applicazione del regolamento. Secondo i giudici comunitari il regolamento non organizza un regime comune di sicurezza sociale, ma lascia sussistere regimi nazionali distinti. Esso non stabilisce le condizioni sostanziali per la sussistenza del diritto alle prestazioni, poiché spetta alla normativa di ciascuno Stato membro stabilire tali requisiti. I giudici comunitari accertano che le autorità nazionali procedono alla verifica delle regolarità del soggiorno conformemente alle condizioni previste dalla direttiva sulla libera circolazione dei cittadini. Tale controllo viene effettuato dalle autorità britanniche soltanto in casi di dubbio. Emerge, dunque, che la condizione non va al di là di quanto necessario per conseguire lo scopo legittimo perseguito dal Regno Unito, cioè la necessità di proteggere le proprie finanze.

  • Sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea nella causa C - 15 / 15 New Valmar BVBA / Global Pharmacies Partner Health Srl

    La fattispecie che ha dato origine alla pronuncia della Corte di Giustizia prende inizio da una controversia riguardante alcune fatture rimaste insolute tra una società con sede nella regione fiamminga del Belgio e una società con sede in Italia. Quest’ultima ha eccepito la nullità delle fatture per violazione delle norme linguistiche che sarebbero disposizioni di ordine pubblico nel diritto belga, secondo cui le imprese con sede nella regione devono utilizzare la lingua olandese per redigere atti e documenti. La società belga non nega che le fatture violino la normativa linguistica, ma che tale normativa è contraria al diritto dell’Unione europea, in particolare al principio di libera circolazione delle merci.

    La Corte di Giustizia, investita della questione, dichiara che la normativa linguistica costituisce una restrizione alla libera circolazione delle merci nell’Unione. L’obbligo, quindi, di emettere fatture transfrontaliere esclusivamente in una specifica lingua, a pena di nullità, viola il diritto comunitario; le parti, infatti, devono avere la opportunità di redigere i documenti in un’altra lingua che conoscano e che faccia fede, come la lingua imposta. Privando gli interessati della possibilità di scegliere la lingua per la redazione delle fatture e imponendo una lingua che non corrisponde a quella che le parti hanno convenuto di utilizzare nei rapporti contrattuali, aumenta il rischio di contestazioni e di mancato pagamento delle fatture. Lo stesso può dirsi nel caso di una fattura redatta in una lingua diversa da quella olandese: il destinatario, tenuto conto della nullità assoluta della fattura, potrebbe contestarne la validità. 

    La Corte di Giustizia afferma che la normativa fiamminga consente di conservare l’uso della lingua olandese per la redazione dei documenti e di facilitarne i controlli. La normativa, però, deve essere proporzionata agli obiettivi.

    La Corte dispone che le disposizioni che impongano l’uso della lingua ufficiale di uno Stato membro per la redazione di documenti e consentano di redigere le fatture anche in una lingua conosciuta da tutte le parti interessate, sarebbero meno lesive del principio di libera circolazione delle merci rispetto a quella in esame.

  • Sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea nella causa C –486 / 14 Piotr Kossowski

    La Corte di Giustizia è stata chiamata a pronunciarsi sul principio del ne bis in idem. La Germania, infatti, ha contestato ad un soggetto di aver commesso ad Amburgo un’estorsione aggravata a fini di rapina. Il Tribunale, però, ha deciso di non procedere poiché vi osta il principio del ne bis in idem. Secondo tale principio, infatti, una persona non può essere perseguita o condannata due volte per lo stesso reato. Nel caso di specie, la procura polacca aveva già avviato nei confronti del medesimo soggetto un procedimento istruttorio per i medesimi fatti e lo aveva chiuso per mancanza di prove sufficienti, poiché il soggetto interessato si era rifiutato di deporre e non era stato possibile sentire la vittima e i testimoni. Il Tribunale regionale si rivolge, allora, alla Corte di Giustizia per chiarire la portata del principio di cui sopra.

    La Corte afferma che il principio del ne bis in idem è volto a garantire che una persona, che è stata condannata e ha scontato la sua pena o che è stata definitivamente assolta in uno Stato Schengen, possa circolare all’interno dello spazio Schengen senza dover paventare di essere perseguita per gli stessi fatti in un altro Stato Schengen. 

    I giudici comunitari dispongono che applicare tale principio a una decisione di conclusione delle indagini adottata dalle autorità competenti dei uno Stato Schengen in assenza di un esame approfondito del comportamento illecito addebitato all’accusato sarebbe in contrato con la lotta alla criminalità. Si conclude, pertanto, che una decisione del pubblico ministero che pone termine all’azione penale e conclude definitivamente il procedimento penale condotto nei confronti di una persona non può considerarsi una decisione definitiva ai fini dell’applicazione del principio del ne bis in idem, qualora dalla motivazione emerga che il procedimento è stato chiuso senza che sia stata condotta un’istruttoria approfondita. 

    Un sospettato, pertanto, può essere nuovamente sottoposto a indagini in uno Stato Schengen qualora le precedenti indagini in un altro Stato Schengen siano state concluse in mancanza di un’approfondita istruttoria.