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Anno XVII - n. 07 - Luglio 2025

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Rimessa alla Corte di Giustizia Ue questione relativa ai contratti a tempo determinato dei ricercatori universitari.

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Conssiglio di Stato, Sez. VI, ord., 10 gennaio 2020, n. 240.

Sono rimesse alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea le questioni:

1) se la clausola 5) dell’accordo quadro di cui alla direttiva n. 1999/70/CE (Direttiva del Consiglio relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, d’ora in avanti «direttiva»), intitolata «Misure di prevenzione degli abusi», letta in combinazione coi considerando 6) e 7) e con la clausola 4) di tal Accordo («Principio di non discriminazione»), nonché alla luce dei principi di equivalenza, d’effettività e dell’effetto utile del diritto eurounitario, osta a una normativa nazionale, nella specie l’art. 24, comma 3, lett. a) e l’art. 22, comma 9, l. n. 240 del 2010, che consenta alle Università l’utilizzo, senza limiti quantitativi, di contratti da ricercatore a tempo determinato con durata triennale e prorogabili per due anni, senza subordinarne la stipulazione e la proroga ad alcuna ragione oggettiva connessa ad esigenze temporanee o eccezionali dell’Ateneo che li dispone e che prevede, quale unico limite al ricorso di molteplici rapporti a tempo determinato con la stessa persona, solo la durata non superiore a dodici anni, anche non continuativi;

2) se la citata clausola 5) dell’Accordo quadro, letta in combinazione con i considerando 6) e 7) della direttiva e con la citata clausola 4) di detto Accordo, nonché alla luce dell’effetto utile del diritto eurounitario, osta ad una normativa nazionale (nella specie, gli artt. 24 e 29, comma 1, l. n. 240 del 2010), laddove concede alle Università di reclutare esclusivamente ricercatori a tempo determinato, senza subordinare la relativa decisione alla sussistenza di esigenze temporanee o eccezionali senza porvi alcun limite, mercé la successione potenzialmente indefinita di contratti a tempo determinato, le ordinarie esigenze di didattica e di ricerca di tali Atenei;

3) se la clausola 4) del medesimo Accordo quadro osta ad una normativa nazionale, quale l’art. 20, comma 1, d.lgs. n. 75 del 2017 (come interpretato dalla citata circolare ministeriale n. 3 del 2017), che, nel mentre riconosce la possibilità di stabilizzare i ricercatori a tempo determinato degli Enti pubblici di ricerca —ma solo se abbiano maturato almeno tre anni di servizio entro il 31 dicembre 2017—, non la consente a favore dei ricercatori universitari a tempo determinato solo perché l’art. 22, comma 16, d.lgs. n. 75 del 2017 ne ha ricondotto il rapporto di lavoro, pur fondato per legge su un contratto di lavoro subordinato, al “regime di diritto pubblico”, nonostante l’art. 22, comma 9, l. n. 240 del 2010 sottoponga i ricercatori degli Enti di ricerca e delle Università alla stessa regola di durata massima che possono avere i rapporti a tempo determinato intrattenuti, sotto forma di contratti di cui al successivo art. 24 o di assegni di ricerca di cui allo stesso art. 22, con le Università e con gli Enti di ricerca;

4) se i principi di equivalenza e di effettività e quello dell’effetto utile del diritto UE, con riguardo al citato Accordo quadro, nonché il principio di non discriminazione contenuto nella clausola 4) di esso ostano ad una normativa nazionale (l’art. 24, comma 3, lett. a, l. n. 240 del 2010 e l’art. 29, commi 2, lett. d e 4, d.lgs. 81 del 2015) che, pur in presenza d’una disciplina applicabile a tutti i lavoratori pubblici e privati da ultimo racchiusa nel medesimo decreto n. 81 e che fissa (a partire dal 2018) il limite massimo di durata d’un rapporto a tempo determinato in 24 mesi (comprensivi di proroghe e rinnovi) e subordina l’utilizzo di rapporti a tempo determinato alle dipendenze della Pubblica amministrazione all’esistenza di «esigenze temporanee ed eccezionali», consente alle Università di reclutare ricercatori grazie ad un contratto a tempo determinato triennale, prorogabile per due anni in caso di positiva valutazione delle attività di ricerca e di didattica svolte nel triennio stessa, senza subordinare né la stipulazione del primo contratto né la proroga alla sussistenza di tali esigenze temporanee o eccezionali dell’Ateneo, permettendogli pure, alla fine del quinquennio, di stipulare con la stessa o con altre persone ancora un altro contratto a tempo determinato di pari tipologia, al fine di soddisfare le medesime esigenze didattiche e di ricerca connesse al precedente contratto;

5) se la clausola 5) del citato Accordo Quadro osta, anche alla luce dei principi di effettività e di equivalenza e della predetta clausola 4), a che una normativa nazionale (l’art. 29, commi 2, lett. d e 4, d.lgs. 81 del 2015e l’art. 36, commi 2 e 5, d.lgs. n. 165 del 2001) precluda ai ricercatori universitari assunti con contratto a tempo determinato di durata triennale e prorogabile per altri due (ai sensi del citato art. 24, comma 3, lett. a, l. n. 240 del 2010), la successiva instaurazione di un rapporto a tempo indeterminato, non sussistendo altre misure all’interno dell’ordinamento italiano idonee a prevenire ed a sanzionare gli abusi nell’uso d’una successione di rapporti a termine da parte delle Università (1).

(1) Analoga questione è stata rimessa dalla Sez. con ord. 10 gennaio 2020, n. 246.

Ha affermato la Sezione che c’è un serio dubbio che il superamento del precariato anche nell’ambito del lavoro nelle Pubbliche amministrazioni e il mantenimento tout court delle due qualifiche dei ricercatori a tempo determinato confliggano tra loro e, per l’effetto, producano risultati in violazione della clausola 5), punto 1) dell’Accordo quadro. Tanto perché, almeno a prima lettura, i richiesti criteri “oggettivi e trasparenti” non si ritrovano nell’art. 24, comma 1, l. n. 240 del 2010, che si limita a porre la condizione che il contratto a termine sia compatibile con le risorse disponibili per la programmazione. Se ci si sofferma al mero dato testuale, appare una sorta d’inversione logica della previsione che vorrebbe prima l’emersione dell’esigenza oggettiva (purché non strutturale e permanente) dell’Università a stipulare un contratto a tempo determinato per esigenze di ricerca e poi, una volta emersa siffatta esigenza, il (necessario) reperimento delle risorse necessarie alla copertura finanziaria. Su tal punto, è ben noto l’avviso della Corte per cui eventuali esigenze di bilancio, che tendano a negare la tutela conservativa del posto di lavoro, possano costituire sì il fondamento delle scelte di politica sociale di uno Stato membro e possano influenzare la natura ovvero la portata delle misure che esso intende adottare. Ma esse non costituiscono di per sé un obiettivo perseguito da tale politica e, pertanto, non sono in grado di giustificare l’assenza di qualsiasi misura di prevenzione del ricorso abusivo a una successione di contratti di lavoro a tempo determinato ai sensi della citata clausola 5), punto 1) (cfr., oltre alla giurisprudenza Mascolo e a., pure CGUE, ord.za del 21 settembre 2016, C- 614/15 – Popescu, punto 63).

Parimenti, neppure la soggezione del possibile rinnovo biennale ad una semplice «positiva valutazione delle attività didattiche e di ricerca svolte» consente di ritenere soddisfatta la necessità che l’Università stabilisca e segua «criteri oggettivi e trasparenti al fine di verificare se il rinnovo di siffatti contratti risponda effettivamente ad un’esigenza reale, se esso sia idoneo a conseguire l’obiettivo perseguito e sia necessario a tal fine».

Anche in questo caso, inoltre, il rinnovo soffre del contrasto con i suddetti principi comunitari della stipulazione del primo contratto a tempo determinato, che ne costituisce l’indefettibile antecedente logico necessario. Pertanto, anche la previsione dell’art. 24, co. 3 della legge n. 240 comporta un rischio concreto di ricorso abusivo a tale tipo di contratti, non risultando così compatibile con lo scopo e l’effetto utile dell’Accordo quadro