Giurisprudenza Civile
Sul preventivo esperimento del procedimento di mediazione come condizione di procedibilità del giudizio
Di Giuseppe Lonero
Corte di Cassazione, sez. II, ordinanza 04 gennaio 2024, n. 205,
Sul preventivo esperimento del procedimento di mediazione come condizione di procedibilità del giudizio
Di Giuseppe Lonero
Riferimenti normativi: artt. 5 e 8, d.lgs. 28/2010
Principio di diritto: In tema di mediazione obbligatoria, ex art. 5, comma 1 bis del decreto legislativo numero 28 del 2010, il preventivo esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda, ma l'improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata dal giudice, non oltre la prima udienza. In grado d'appello, l'esperimento della mediazione costituisce condizione di procedibilità della domanda solo quando è disposta discrezionalmente dal giudice, ai sensi dell'articolo 5, c. 2.
Con l’ordinanza in esame, la Corte di Cassazione si è espressa su una chiamata in giudizio, da parte del proprietario di un complesso immobiliare, al fine di accertare il non avvenuto acquisto del diritto di proprietà o altro diritto reale minore, per intervenuta usucapione da possesso ultraventennale e perché vi fosse la conseguente condanna alla restituzione dell'immobile in questione, con correlativa condanna ai sensi dell'art. 614 bis c.p.c., per ogni giorno di ritardo nell'esecuzione dell'obbligo di restituzione.
Il Tribunale di primo grado, in accoglimento della domanda proposta condannava la parte convenuta alla restituzione del bene, fissando una somma da corrispondere per ogni giorno di ritardo.
La parte convenuta proponeva appello avverso la suddetta sentenza.
La Corte d’Appello, per quel che rileva, rigettava l’eccezione di improcedibilità per mancato o irregolare espletamento della procedura di mediazione, affermando che la questione non era stata sollevata tempestivamente ed era anche infondata in quanto dai verbali di causa e dagli atti emergeva che la procedura di mediazione si era svolta e si era conclusa senza conciliazione e senza che alcuna delle parti avesse svolto nelle sedi opportune o comunque tempestivamente in causa rilievi e/ o eccezioni sulla ritualità della stessa. Infine, in ogni caso, l'improcedibilità per il mancato esperimento della mediazione obbligatoria ex d. lgs 28/2010 doveva essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d'ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza del giudizio di primo grado (Cass. n. 29017/2018).
La Corte di Appello aggiungeva che, peraltro, come affermato dalla Corte di Cassazione con la pronuncia n. 32797 del 13 dicembre 2019, “l’improcedibilità doveva essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d’ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza del giudizio di primo grado (Cass. 13 novembre 2018 n. 29017, 13 aprile 2017, n. 9555, 2 febbraio 2017, n. 2703.)”. Dunque, in mancanza della tempestiva eccezione del convenuto e del rilievo d'ufficio, era precluso al giudice di appello rilevare l'improcedibilità della domanda. Nel caso di specie erano mancati alla prima udienza del giudizio di primo grado sia l’eccezione delle parte che il rilievo d’ufficio da parte del giudice.
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza in esame, si è, quindi, pronunciata sui tre motivi di ricorso promossi dal ricorrente.
Il primo motivo di ricorso è così rubricato: omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione - vizio di motivazione, rectius completa assenza di motivazione, in relazione al capo di impugnazione in appello, ribadito in sede di conclusioni, concernente la liquidazione delle spese oggetto di condanna in solido a carico degli odierni ricorrenti, così come contenuta nella sentenza di primo grado. violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c. La Corte di Appello avrebbe completamente omesso di prendere in considerazione il motivo di impugnazione attinente alle spese, in merito al quale non avrebbe speso alcuna motivazione. Invece, nel caso di specie, come eccepito dagli appellanti, alla luce del valore indeterminabile e dei parametri del D.M. 55 del 2014 (la citazione è del 2015), la somma liquidata dal Tribunale di primo grado avrebbe superato i limiti, senza giustificazione alcuna. Il calcolo dei compensi dovrebbe prendere quale riferimento il decisum e, quindi, nel caso in esame, avendo il Tribunale pronunciato condanna alla restituzione di un immobile, sarebbe corretto riferirsi al valore come indeterminabile. La Corte d’Appello, invece, ha liquidato le spese di giudizio per il grado di appello in € 15.000,00 per compensi, oltre spese forfetizzate, iva e cpa in favore di C s.r.l. e in € 10.000,00 per compensi, oltre spese forfetizzate, iva e cpa, trascurando del tutto il motivo di appello con il quale era stato censurata la liquidazione delle spese del primo grado di giudizio. In effetti, il valore della causa, atteso l'oggetto della domanda di restituzione di beni immobili e mobili con richiesta di pagamento ex art. 614 bis c.p.c. ed una domanda di accertamento di intervenuta usucapione sfuggirebbe ai criteri previsti dall'art. 15 c.p.c. e dovrebbe essere complessivamente valutato come indeterminabile. Pertanto, avrebbe dovuto essere applicato il conteggio indicato nella comparsa conclusionale il cui calcolo finale è ben lontano dall'esito di € 50.000 contenuto in sentenza. In altri termini, vi sarebbe una completa assenza di motivazione sul punto spese.
Per la Cassazione, il primo motivo di ricorso è fondato: la Corte d’Appello, pur dando atto del relativo motivo di appello, ha del tutto omesso di esaminarlo. La Cassazione, in particolare, premette che l'erronea intitolazione del motivo di ricorso per cassazione non osta alla riqualificazione della sua sussunzione in altre fattispecie di cui all'art. 360, comma 1, c.p.c., né determina l'inammissibilità del ricorso, se dall'articolazione del motivo sia chiaramente individuabile il tipo di vizio denunciato (Sez. 6 - 5, Ord. n. 25557 del 27/10/2017). Nel caso di specie, si evidenzia, la censura di parte ricorrente complessivamente considerata è sufficientemente chiara nell’ascrivere alla Corte d’appello l’omessa pronuncia sul suddetto motivo: ricorre, pertanto, il vizio di omessa pronuncia sul motivo di appello in questione.
Il secondo motivo di ricorso è così rubricato: omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione - vizio di motivazione, in relazione al preteso possesso sine titulo, dell'immobile in questione - vizio di motivazione, del tutto insufficiente, in relazione al possesso ad usucapionem dell'immobile in questione. Secondo la Corte d’Appello, vi era occupazione sine titulo di parte dell'immobile e, per l’effetto, la parte occupante è stata legittimamente ritenuta destinataria della pronuncia di condanna al rilascio. L'assunto non è specificamente motivato, se non per relationem (si desume. Tale argomentazione, in effetti, ad una migliore disamina si rivela del tutto insufficiente e contraddittoria, in quanto non vale a fare definitivamente luce sul possesso dell'immobile in questione.
Per la Corte di Cassazione, il secondo motivo è inammissibile: la censura di omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti in presenza di una “doppia conforme” non è ammissibile. Peraltro, aggiunge la Cassazione, in tale ipotesi, il ricorrente in cassazione, per evitare l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c., deve indicare le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. 5528/2014), adempimento non svolto. D’altra parte, ricorda la Cassazione, secondo la giurisprudenza di questa Corte: «Ricorre l'ipotesi di «doppia conforme», ai sensi dell'art. 348 ter, commi 4 e 5, c.p.c., con conseguente inammissibilità della censura di omesso esame di fatti decisivi ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., non solo quando la decisione di secondo grado è interamente corrispondente a quella di primo grado, ma anche quando le due statuizioni siano fondate sul medesimo iter logico-argomentativo in relazione ai fatti principali oggetto della causa, non ostandovi che il giudice di appello abbia aggiunto argomenti ulteriori per rafforzare o precisare la statuizione già assunta dal primo giudice» (Sez. 6 - 2, Ordinanza n. 7724 del 09/03/2022, Rv. 664193 - 01).
Ciò detto, per la Cassazione, anche la censura proposta come vizio di motivazione è inammissibile: in materia, viene citato il precedente delle Sezioni Unite, con il quale è stato chiarito che, dopo la riforma dell’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., operata dalla legge 134/2012, il sindacato sulla motivazione da parte della cassazione è consentito solo quando l'anomalia motivazionale si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all'esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali; in tale prospettiva detta anomalia si esaurisce nella "mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico", nella "motivazione apparente", nel "contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili" e nella "motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile", esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di "sufficienza" della motivazione (cfr. Cass. Sez. un. 8053/2014). Nel caso di specie, chiarisce la Cassazione, la grave anomalia motivazionale non esiste, perché la Corte d’Appello ha sufficientemente motivato le ragioni per le quali non poteva riconoscersi il possesso utile ad usucapire.
Il terzo motivo di ricorso è così rubricato: omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, l'omesso rilievo del fatto che una parte non ha partecipato alla mediazione. Violazione degli articoli 5 e 8 del decreto legislativo numero 28 del 2010. Omesso accertamento della mancata partecipazione di una parte alla mediazione e conseguente omessa declaratoria di inammissibilità della domanda.
Secondo parte ricorrente, perché si verifichi utilmente la condizione di procedibilità prevista dalla legge, occorre che la mediazione sia utilmente esperita con la sostanziale partecipazione delle parti. Ne deriva che, una volta promossa la procedura di mediazione, la condizione di procedibilità non si verifica se la parte instante non compare personalmente, (Sez. 3, n.8473 del 2019). Sotto altro profilo, la decisione della Corte di Appello violerebbe gli artt. 5 e 8 del d.lgs. n.28 del 2010 laddove ha ritenuto che " .. in mancanza della tempestiva eccezione del convenuto, ove il giudice di primo grado non abbia provveduto al relativo rilievo d'ufficio, è precluso al giudice di appello rilevare l'improcedibilità della domanda ... " Tale norma sarebbe applicabile nel caso di "mancato esperimento della mediazione obbligatoria", ma non nel caso in cui l'attore onerato abbia esperito l'incombente senza poi utilmente parteciparvi personalmente e delegando la presenza al difensore privo dei necessari poteri di legge la decadenza di cui all'articolo otto del decreto legislativo numero 28 del 2010 (mancata eccezione di parte convenuta, ovvero messo rilievo d'ufficio da parte del giudice entro la prima udienza) non sia applicherebbe al caso della mediazione esperita, ma del tutto irregolare nella partecipazione necessaria delle parti.
Per la Corte di Cassazione, il terzo motivo è manifestamente infondato: la Corte d'Appello ha correttamente motivato sul punto rigettando l’eccezione di improcedibilità per mancato o irregolare espletamento della procedura di mediazione. La questione, infatti, non era stata sollevata tempestivamente.
In particolare, il Collegio intende dare continuità al seguente principio di diritto: in tema di mediazione obbligatoria ex art. 5, comma 1 bis del decreto legislativo numero 28 del 2010, il preventivo esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda, ma l'improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata dal giudice, non oltre la prima udienza. La Corte precisa anche che, in grado d'appello, l'esperimento della mediazione costituisce condizione di procedibilità della domanda solo quando è disposta discrezionalmente dal giudice, ai sensi dell'articolo 5, comma 2 (sezione III, ord. n. 25155 del 10/11/ 2020).
Dunque, chiarisce la Corte, in mancanza della tempestiva eccezione del convenuto, ove il giudice di primo grado non abbia provveduto al relativo rilievo d'ufficio, è precluso al giudice di appello rilevare l'improcedibilità della domanda. La Corte d'Appello correttamente ha evidenziato che, nel caso di specie, alla prima udienza del giudizio di primo grado erano mancati sia l'eccezione della parte che il rilievo d'ufficio da parte del giudice. Del tutto priva di fondamento, per la Cassazione, è la tesi secondo cui i suddetti principi riguarderebbero solo l’omesso espletamento della procedura di mediazione e non l’irregolare tenuta della mediazione perché l'attore onerato ha esperito l'incombente senza poi utilmente parteciparvi personalmente e delegando la presenza al difensore privo dei necessari poteri di legge. Infine, il ricorrente non si confronta neanche con l’ulteriore ratio decidendi della sentenza nella parte in cui la Corte d'Appello ha affermato che l’eccezione proposta dagli appellanti era anche infondata in quanto dai verbali di causa e dagli atti emergeva che la procedura di mediazione si era svolta e si era conclusa senza conciliazione e senza che alcuna delle parti avesse svolto nelle sedi opportune, o comunque tempestivamente in causa, rilievi e/ o eccezioni sulla ritualità della stessa.
- Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza 7 febbraio 2024, n. 3452, sull’ambito applicativo della condizione di procedibilità della mediazione, ex art, 5, decreto legislativo n. 28 del 2010
Riferimenti normativi: artt. 5, 6, 7 e 8, d.lgs. 28/2010
Principio di diritto: La condizione di procedibilità prevista dall’art. 5 d.lgs. n. 28 del 2010 sussiste per il solo atto introduttivo del giudizio e non per le domande riconvenzionali, fermo restando che al mediatore compete di valutare tutte le istanze e gli interessi delle parti ed al giudice di esperire il tentativo di conciliazione, per l’intero corso del processo e laddove possibile.
I fatti di causa vedono il ricorso al Tribunale di primo grado per l’accertamento della risoluzione di un contratto di locazione per avveramento della condizione risolutiva pattuita, per la perdita dei requisiti soggettivi ex l. n. 203 del 1991 o per scadenza del termine, con la condanna al rilascio del bene. Il resistente ha chiesto il rigetto delle domande o, nel caso di loro accoglimento ed in via riconvenzionale, la condanna di controparte alla restituzione del deposito cauzionale, con gli interessi legali. La procedura di mediazione si è svolta regolarmente sulle domande principali, ma non sulla riconvenzionale ed il Tribunale ha ritenuto quindi di operare il rinvio alla Suprema Corte, ai sensi dell’art. 363- bis c.p.c., in ordine alla proponibilità della domanda riconvenzionale, quando la causa rientri tra quelle a mediazione obbligatoria ex art. 5 d.lgs. n. 28 del 2010 e la mediazione sia stata già effettuata, anteriormente alla prima udienza, in relazione alla domanda di parte attrice. La Prima Presidente ha assegnato la questione sollevata con l’ordinanza di rinvio pregiudiziale alle Sezioni Unite civili per l’enunciazione del principio di diritto. Il Pubblico Ministero ha depositato requisitoria scritta, chiedendo di enunciare il principio di diritto secondo cui anche la domanda riconvenzionale è sottoposta all’obbligo di mediazione, salvo risulti prima facie inammissibile o non in grado, comunque, di incidere sulle rispettive posizioni sostanziali della vicenda oggetto di lite.
L’ordinanza di rinvio pregiudiziale ex art. 363-bis c.p.c. in particolare, pone la questione di diritto se, ai sensi dell’art. 5 del d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, sussista l’obbligo di provvedere alla mediazione nel caso di proposizione di una domanda riconvenzionale, ove la mediazione sia stata già ritualmente effettuata, anteriormente alla prima udienza, in relazione alla sola domanda principale.
Le Sezioni Unite hanno reputato di risolvere tale questione escludendo che il tentativo obbligatorio di conciliazione sia condizione di procedibilità della proposizione della domanda riconvenzionale, alla stregua delle considerazioni che seguono.
Innanzi tutto, le argomentazioni delle Sezioni Unite si fondano sulla diversa natura delle domande riconvenzionali astrattamente proponibili in giudizio. La Corte rileva che gli interpreti sogliono distinguere tra domanda riconvenzionale collegata all’oggetto della lite e domanda riconvenzionale ad essa “eccentrica”. La prima tipologia emerge dal sistema positivo processuale, come interpretato nel c.d. diritto vivente, secondo cui l’ammissibilità delle domande riconvenzionali, avanzate dal convenuto nel giudizio introdotto in via principale dall’attore, è subordinata alla comunanza del titolo già dedotto in giudizio dall’attore o da quello che appartiene alla causa come mezzo di eccezione – come recita l’art. 36 c.p.c. – ma al solo fine di ritenerle devolute al medesimo in quanto rientrino nella sua competenza per materia o per valore. Analoga “comunanza” della lite si richiede, peraltro, al fine di reputare ammissibile la domanda riconvenzionale, che pure non importi lo spostamento di competenza: invero, evidenziano le Sezioni Unite, del pari, in tal caso la giurisprudenza di legittimità esige «un qualsiasi rapporto o situazione giuridica in cui sia ravvisabile un collegamento obbiettivo tra domanda principale e domanda riconvenzionale, tale da rendere consigliabile e opportuna la celebrazione del simultaneus processus» (già Cass. 19 ottobre 1994, n. 8531; nonché, tra le tante, Cass. 14 gennaio 2005, n. 681; Cass. 4 luglio 2006, n. 15271; Cass. 15 gennaio 2020, n. 533; Cass. 4 marzo 2020, n. 6091). Tale collegamento oggettivo, che rende opportuno il simultaneus processus, prosegue la Corte, viene rimesso alla valutazione discrezionale del giudice di merito, al quale è richiesto unicamente di motivare al riguardo, in particolare ove ritenga la riconvenzionale inammissibile. Il Collegio ricorda che resta, però, fermo in entrambi i casi ricordati – domanda riconvenzionale che ecceda, oppure no, la competenza del giudice della causa principale – il detto principio circa la necessaria esistenza di un “collegamento oggettivo con l’oggetto” che già appartiene al giudizio. Dall’altra parte, per la Corte, si pone la seconda tipologia di domande afferente alla nozione di riconvenzionale c.d. eccentrica: la quale, per sottrazione, indica quella in nessun modo “obiettivamente ricollegabile all’oggetto” della causa. La genericità dei termini, alla luce dei precedenti di merito editi e di legittimità, ha reso, però, tutt’altro che rara l’estensione della lite fra le parti, proprio sul profilo se debba ritenersi sussistente un tale “collegamento oggettivo”; mentre poi una pluralità di indici positivi, presenti nell’ordinamento, conduce a non differenziare affatto le due tipologie indicate, quanto agli effetti, che ora interessano, della sottoposizione all’obbligo della preventiva mediazione, quale condizione di proponibilità della domanda riconvenzionale.
Circa le ragioni dell’esclusione della mediazione obbligatoria per le domande riconvenzionali, le Sezioni Unite ricordano che, con l’art. 5, comma 1-bis, d.lgs. n. 28 del 2010 è stata reintrodotta nell’ordinamento – dopo la declaratoria d’illegittimità costituzionale dell’art. 5, comma 1, del decreto legislativo ad opera di Corte cost. n. 272 del 2012 per eccesso di delega – la mediazione civile, quale condizione di procedibilità delle domande giudiziali relative a talune materie. Si prevede quindi che «[c]hi intende esercitare in giudizio un’azione relativa a una controversia in materia di (…) è tenuto preliminarmente a esperire il procedimento di mediazione», quale «condizione di procedibilità della domanda giudiziale». È altresì disposto che l’improcedibilità sia «eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d’ufficio dal giudice non oltre la prima udienza. Il giudice, quando rileva che la mediazione non è stata esperita o è già iniziata, ma non si è conclusa, fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine di cui all’articolo 6» ossia, tre mesi, più tre su accordo delle parti (così i commi 1 e 2, a seguito della sostituzione dell’intero art. 5 ad opera dell’art. 7, comma 1, lett. d, d.lgs. n. 149 del 2022). Dunque, chi intenda esercitare una di simili liti è tenuto, preliminarmente, a tentare la composizione stragiudiziale della controversia mediante l’esperimento del procedimento disciplinato dal d.lgs. medesimo, il cui svolgimento è affidato ad appositi organismi di mediazione. Tale condizione di procedibilità della domanda giudiziale, ricorda la Corte, è un presupposto processuale, il cui difetto è sanabile retroattivamente, qualora il giudice rilevi il mancato esperimento del tentativo o la sua pendenza, per permetterne la conclusione. La Corte, ancora, precisa che non si parla di “sospensione” in senso tecnico, trattandosi di un mero rinvio, ma questo comporta pur sempre un differimento della trattazione della causa; il quale, inoltre, non necessariamente sarà contenuto nei pochi mesi indicati dal legislatore, essendo «dopo la scadenza» previsione relativa solo al termine minimo, non massimo, il quale ultimo invece necessariamente seguirà le esigenze del calendario del giudice.
Quanto alla riconvenzionale c.d. non eccentrica, le Sezioni Unite evidenziano che la lettera e la ratio della disposizione inducono a ritenerla non sottoposta alla condizione della mediazione obbligatoria, in quanto si collega all’oggetto del processo già introdotto dall’attore. Infatti, la legge non prevede espressamente né che la riconvenzionale sia sottoposta a mediazione obbligatoria, né le modalità processuali di tale eventualità; ed il legislatore, pur intervenuto anche recentemente sul tema quando la questione in esame era ampiamente emersa, nulla ha ritenuto di disporre al riguardo. L’istituto processuale in questione, precisa il Collegio, si inserisce in un contesto riformatore che esprime la ratio di costituire «una reale spinta deflattiva e contribuire alla diffusione della cultura della risoluzione alternativa delle controversie» (così la relazione illustrativa al d.lgs. n. 28 del 2010). Ciò, al fine di preservare la “risorsa” della giurisdizione, nella «consapevolezza, sempre più avvertita, che, a fronte di una crescente domanda di giustizia, anche in ragione del riconoscimento di nuovi diritti, la giurisdizione sia una risorsa non illimitata e che misure di contenimento del contenzioso civile debbano essere messe in opera» (Corte cost. 19 aprile 2018, n. 77). Da ciò l’adozione degli istituti processuali diretti, in via preventiva, a favorire la composizione della lite in altro modo, quali le misure di Adr (Alternative dispute resolution), cui sono riconducibili le procedure di mediazione, la negoziazione assistita, il trasferimento della lite alla sede arbitrale; nella stessa linea è la previsione generale del codice di rito civile, con gli artt. 185 e 185- bis c.p.c., relativi al tentativo di conciliazione ed alla formulazione della proposta di conciliazione da parte del giudice.
La Corte nota come anche il giudice delle leggi abbia avvicinato, quanto alla ratio di indurre le parti a conciliarsi nell’intento di economizzare la risorsa giustizia, gli strumenti c.d. alternativi, quale la mediazione, all’attività del giudice stesso nel processo: il quale, in adempimento di un suo compito essenziale, conoscendo gli atti e le parti, ha tutto l’agio e le competenze per tentare la conciliazione lungo tutto il corso del processo, così come ora prevede l’art. 185-bis c.p.c., «fino al momento in cui fissa l’udienza di rimessione della causa in decisione» (non solo «alla prima udienza, ovvero sino a quando è esaurita l’istruzione», come recitava la norma prima delle modifiche apportate dal d.lgs. n. 149 del 2022). La mediazione rientra tra le disposizioni «finalizzate, unitamente alle altre adottate in materia di giustizia, alla realizzazione dei comuni e urgenti obiettivi – a loro volta preordinati al rilancio dell’economia – del miglioramento dell’efficienza del sistema giudiziario e dell’accelerazione dei tempi di definizione del contenzioso civile» (Corte cost. 18 aprile 2019, n. 97). «Si è al cospetto, pertanto, di un procedimento contraddistinto dall’obbligatorietà, che deve essere espletato, pena l’improcedibilità della domanda, prima dell’instaurazione di una lite giudiziaria.
Esso, di conseguenza, condiziona, in determinate materie, l’esercizio del diritto di azione» (Corte cost. 20 gennaio 2022, n. 10). L’istituto pone una condizione di procedibilità della domanda giudiziale, specificamente «con finalità deflattiva» (Corte cost. 20 gennaio 2022, n. 10 e 18 aprile 2019, n. 97, citt.).
La mediazione, evidenzia il Collegio, con l’auspicata conciliazione delle controversie mira a transigere le liti, evitando, in tal modo, che il soggetto debba ottenere soddisfazione attraverso gli organi di giustizia, con elevati costi e tempi, che nocciono alla parte, come al sistema giudiziario nel suo complesso. Il fine, dunque, è l’auspicata non introduzione della causa, risolta preventivamente innanzi all’organo apposito, in via stragiudiziale. Ciò induce a ritenere, secondo il Collegio, che la riconvenzionale c.d. non eccentrica non sia sottoposta alla condizione della mediazione obbligatoria. Nel caso di specie, si evidenzia che la mediazione è stata già esperita senza esito positivo, prima del processo o nel termine concesso dal giudice, dall’attore: onde la condizione di procedibilità è soddisfatta e la lite pende ormai innanzi ad un giudice, che ne resta investito. La mediazione obbligatoria si collega non alla domanda sic et simpliciter, ma al processo, che ormai è pendente, onde, essendo la causa insorta, la funzione dell’istituto viene meno, non avendo avuto l’effetto di prevenzione per la instaurazione del processo: in quanto essa si collega alla causa, non alla domanda come tale, in funzione deflattiva del processo. Pertanto, una volta che la domanda principale sia stata regolarmente proposta dopo che la mediazione abbia già fallito l’obiettivo, una nuova mediazione obbligatoria relativa alla domanda riconvenzionale – pur volendo trascurare ogni previsione sulle sue possibilità di successo, che non rilevano a questi fini interpretativi – non realizzerebbe, in ogni caso, il fine di operare un «filtro» al processo innanzi ad un organo della giurisdizione. Il giudice è già investito della controversia introdotta dall’attore, di cui non verrebbe ormai spogliato, neppure se il tentativo sulla domanda del convenuto avesse esito positivo, dovendo il processo proseguire per la decisione sulla domanda principale e, dunque, al più, con una mera “riduzione” del suo oggetto.
Posto che l’istituto ha esclusive finalità di economia processuale ricorda la Corte, nel senso di evitare il proliferare di cause iscritte innanzi all’organo giudiziario, imporre un successivo, o più successivi ad ogni ulteriore domanda proposta nel giudizio, tentativi obbligatori di conciliazione, nel contempo differendo la trattazione della causa per mesi ad ogni nuova domanda proposta in giudizio, è un effetto eccessivo non voluto dalla norma rispetto allo scopo deflattivo perseguito.
Quindi, le Sezioni Unite considerano il caso della proposizione della riconvenzionale c.d. eccentrica alla lite, che allarga l’oggetto del giudizio senza connessione con quello già introdotto dalla parte attrice. Qui, ad escludere la condizione di procedibilità concorrono – accanto alla ratio normativa di deflazione dei processi richiamata – ulteriori criteri d’interpretazione: quali il principio della certezza del diritto, che si oppone alla causazione di ulteriore contenzioso sul punto, e quello della ragionevole durata del processo.
Per la Corte, sotto il primo profilo, occorre rilevare l’inadeguatezza di soluzioni intermedie, al fine di preservare il bene della certezza del diritto. Viene ricordato come nei precedenti relativi alle controversie agrarie, ai sensi dell’art. 46 l. 3 maggio 1982, n. 203, la Cassazione ritiene che il tentativo di conciliazione debba precedere anche la domanda riconvenzionale da parte del convenuto (cfr. Cass. 11 novembre 2022, n. 33379; Cass. 26 maggio 2014, n. 11644; Cass. 23 agosto 2013, n. 19501, in motivazione; Cass. 14 novembre 2008, n. 27255; Cass. 15 luglio 2008, n. 19436; Cass. 16 novembre 2007, n. 23816; Cass. 18 gennaio 2006, n. 830; Cass. 28 luglio 2005, n. 15802; Cass. 2 agosto 2004, n. 14772, ove non è massimato questo punto; Cass. 22 ottobre 2002, n. 14900; Cass. 19 febbraio 2002, n. 2388; Cass. 8 giugno 1999, n. 5613; Cass. 1° dicembre 1998, n. 12196; Cass. 7 marzo 1992, n. 2753). Peraltro, il Collegio evidenzia come l’immanente insoddisfazione per la soluzione, attesi tutti gli inconvenienti sopra indicati e che vengono all’evidenza avvertiti dai giudici, ha indotto a compiere una serie di distinguo: i quali, se riescono a scongiurare alcuni di quegli inconvenienti, sono forieri poi di un pregiudizio assai più rilevante all’ordinamento nel suo complesso, ossia la compromissione del principio fondante della certezza del diritto, il quale, come è noto, non è un principio come gli altri, ma è essenziale espressione dello Stato costituzionale di diritto, a fini anche di uguaglianza. Così, si afferma che il convenuto in riconvenzionale sia onerato dal tentativo di conciliazione, ma solo se: i) «la domanda riconvenzionale vada ad ampliare l’ambito della controversia rispetto ai limiti posti alla stessa in sede di esperimento del tentativo di conciliazione di cui alla domanda principale» (Cass. 26 maggio 2014, n. 11644; Cass. 23 agosto 2013, n. 19501, in motivazione; Cass. 14 novembre 2008, n. 27255; Cass. 19 febbraio 2002, n. 2388; Cass. 4 aprile 2001, n. 4982; Cass., 26 febbraio 1998, n. 2117); ii) «la riconvenzionale investa aspetti nuovi della controversia, che se conosciuti e valutati dalle parti unitamente a quelli per i quali vi è già vertenza giudiziaria, potrebbero condurre ad una definizione bonaria della lite, evitando l’intervento del giudice» (Cass. 27 aprile 1995, n. 4651), in quanto «si espongono aspetti nuovi della controversia che, se conosciuti anticipatamente, avrebbero potuto condurre ad una definizione bonaria della controversia» (Cass. 14 novembre 2008, n. 27255, la quale reputa, sulla base di tale premessa, non ampliati i confini della controversia dalla domanda riconvenzionale di risarcimento del danno, ove lo sforzo di affermare che «la domanda principale era diretta a sentire dichiarare la validità ed efficacia del contratto di soccida inter partes e, pertanto, implicitamente, la verifica che nessun inadempimento si era verificato da parte dell’attore»; ivi i giudici del merito avevano ritenuto, al fine di dimostrare come per effetto della riconvenzionale si sia avuto un ampliamento della materia del contendere, rilevante che si fosse posta l’esigenza di espletamento della c.t.u. riconnessa proprio alla domanda riconvenzionale e non a quella di pagamento formulata dalla soccidaria; Cass. 1° dicembre 1999, n. 13359; Cass. 8 giugno 1999, n. 5613); iii) «la domanda stessa [non] si ricolleghi direttamente al contrasto tra le parti ed alle pretese fatte valere dall’attore che abbia esperito la procedura in questione» (Cass. 8 agosto 1995, n. 8685); iv) «il convenuto [non] abbia già dedotto le relative richieste nella procedura di conciliazione sperimentata dall’attore» (Cass. 16 novembre 2007, n. 23816; Cass. 14 luglio 2003, n. 10993; Cass. 17 gennaio 2001, n. 593; Cass. 8 agosto 1995, n. 8685; Cass. 5 ottobre 1995, n. 10447).
Dunque, precisa la Corte, la tesi in esame afferma la necessità del tentativo anche per la domanda riconvenzionale, ma con distinzioni casistiche. Peraltro, i tanti distinguo rivelano l’imbarazzo, percepito dalle stesse decisioni che li propongono, di ritardare il processo con ulteriori oneri, quando le parti comunque non siano addivenute ad un accordo bonario palesando una indisponibilità al riguardo: onde si palesa trattarsi di un adempimento non conforme al parametro di ragionevolezza, in quanto non funzionale allo scopo di evitare l’intervento della giurisdizione mediante un componimento bonario della lite. In tal modo, essa è foriera di eccessiva incertezza del diritto.
Per il Collegio, è facile, invero, prevedere code e sviluppi contenziosi allorché, proposta la domanda riconvenzionale senza mediazione, si sostenga dall’una e dall’altra parte, secundum commoda, che la domanda riconvenzionale “amplia l’ambito”, si “ricollega al contesto”, concerne questioni “intorno alle quali il tentativo si è svolto”, “si ricolleghi direttamente al contrasto tra le parti ed alle pretese fatte valere dall’attore”, che nella domanda di conciliazione “erano già esposti tutti i fatti, nonché la valutazione giuridica degli stessi” o “il convenuto abbia già dedotto le relative richieste nella procedura di conciliazione sperimentata dall’attore” o che, con la sua nuova domanda, “espone aspetti nuovi della controversia che, se conosciuti anticipatamente, avrebbero potuto condurre ad una definizione bonaria della controversia”. Ed invero, molti possono essere i profili e le questioni dubbie, se il linguaggio resta vago ed i concetti controvertibili. Non questo è il senso del tentativo obbligatorio di mediazione o di conciliazione, precisa la Corte, ma proprio il fine opposto deflattivo delle liti giudiziarie, nell’an e nel tempus. Imporre di valutare se la domanda riconvenzionale «investa aspetti nuovi che se conosciuti e valutati dalle parti unitamente a quelli per i quali vi è già vertenza, giudiziaria, potrebbero condurre ad una definizione bonaria della lite, evitando l’intervento del giudice» (Cass. 27 aprile 1995, n. 4651) è ancora più arduo: impingendo così il criterio, invero, in una valutazione dello stato psicologico e dell’intendimento soggettivo presunto o ricostruito ex post (analogamente es. agli artt. 1419 e 1424 c.c.: dove però la scelta del legislatore ha ben altra ratio di conservazione degli atti giuridici e sicurezza dei traffici). Con evidenti forzature, volta a volta, da parte del giudicante, cui neppure la stessa Corte è rimasta immune: come quando (Cass. 14 novembre 2008, n. 27255) ha ritenuto che, proposta domanda diretta a sentir dichiarare la validità ed efficacia del contratto di soccida inter partes, la domanda riconvenzionale di risoluzione per inadempimento e di risarcimento del danno fosse ricompresa nella prospettazione attorea, avente ad oggetto «implicitamente, la verifica che nessun inadempimento si era verificato da parte dell’attore», nonché fosse «irrilevante, al fine di pervenire ad una diversa conclusione, [è] la circostanza che solo nella riconvenzionale si invochino i danni assertivamente patiti dalla società convenuta a causa del comportamento di quella attrice, atteso – da una parte – che la richiesta di danni è consequenziale alla pronunzia di risoluzione, dall’altra, che … non è sufficiente un mero ampliamento del petitum perché sorga l’obbligo, per il convenuto in via riconvenzionale, di sollecitare un nuovo tentativo di conciliazione ai sensi della l. 3 maggio 1982, n. 203, art. 46»; e che neppure, «al fine di dimostrare come per effetto della riconvenzionale si sia avuto un ampliamento della materia del contendere è sufficiente considerare che l’esigenza di espletamento della c.t.u. si riconnette proprio alla domanda riconvenzionale e non a quella di pagamento formulata dalla soccidaria», come invece reputato dal giudice di merito. Ulteriore complicazione, per la Corte, induce la tesi in discorso, laddove compaia il difensore in sede conciliativa, ove pure si fosse trattata ogni questione, e tuttavia ovviamente egli non avesse il mandato degli attori al riguardo (cfr. Cass. 23 agosto 2013, n. 19501).
Sotto il secondo profilo, per il Collegio, sussistono limiti, individuati dallo stesso legislatore positivo e dal giudice delle leggi, contro l’allungamento dei tempi dovuti alla mediazione obbligatoria ed altri simili istituti, in ossequio al principio di ragionevole durata del processo.
In particolare, specifica la Corte, l’esigenza di non cadere in soluzioni controproducenti emerge con chiarezza, invero, dalle regole positive dettate dal legislatore, nel testo normativo in esame ed il altri similari, sul piano della interpretazione teleologica e avuto riguardo allo scopo perseguito dal legislatore medesimo. i) Anzitutto, nell’art. 23, secondo comma, d.lgs. n. 28 del 2010 è stabilito che «Restano ferme le disposizioni che prevedono i procedimenti obbligatori di conciliazione e mediazione, comunque denominati, nonché le disposizioni concernenti i procedimenti di conciliazione relativi alle controversie di cui all’art. 409 del codice di procedura civile. I procedimenti di cui al periodo precedente sono esperiti in luogo di quelli previsti dal presente decreto». In tal modo, si è voluto escludere il concorso di analoghi istituti. Del pari, l’art. 3, primo comma, secondo periodo, d.l. n. 132 del 2014, conv. nella l. n. 162 del 2014 (Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile) prevede la convenzione di negoziazione assistita per chi intende proporre in giudizio una domanda di pagamento a qualsiasi titolo di somme non eccedenti cinquantamila euro, ma «fuori dei casi previsti … dall’articolo 5, comma 1-bis, del decreto legislativo 4 marzo 2010 n. 28». Infine, la medesima prospettiva restrittiva emerge dai commi 3 e 6 dell’art. 5 d.lgs. n. 28 del 2010, rispettivamente concernenti altre specifiche procedure e peculiari esclusioni. Dunque, l’“eccesso di mediazione” è stato temuto e scongiurato dal legislatore mediante le riportate previsioni, ed altre analoghe, che escludono l’ipotesi del concorso di diverse procedure di conciliazione o mediazione obbligatoria, o altre condizioni di procedibilità «comunque denominat[e]»: dettando una disciplina che risolve, in tal modo, il concorso tra la mediazione obbligatoria e le altre condizioni di procedibilità della domanda giudiziale, escludendo un doppio e contemporaneo “filtro alla giurisdizione”, ma optando, invece, per l’alternatività di procedure. Una diversa soluzione, invero, secondo la Corte, avrebbe determinato una gravosa duplicazione di costi superflui per le parti, attesa la necessità di assistenza difensiva in tutte le procedure, onde avrebbe finito per costituire, piuttosto, un serio ostacolo al raggiungimento di una soluzione conciliativa e causa di ritardo nella soluzione della lite insorta. ii) A ciò si aggiunga il disposto dell’art. 5, comma 2, secondo periodo, d.lgs. n. 28 del 2010, secondo cui «L’improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d’ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza». Il legislatore, conclude il Collegio, ha dunque, pur nel favor per la soluzione alternativa delle controversie, circoscritto la condizione di improcedibilità al rilievo d’ufficio o all’eccezione di parte entro un limite processuale assai ristretto (la prima udienza). iii) Nella stessa direzione milita la generale previsione di una durata massima del procedimento di mediazione – fissata in tre mesi, prorogabile di ulteriori tre mesi dopo la sua instaurazione e prima della sua scadenza con accordo scritto delle parti – ai sensi dell’art. 6 d.lgs. n. 28 del 2010, termine, inoltre, neppure soggetto a sospensione feriale: a confermare che per il legislatore il tentativo è utile e necessario, ma solo se esperito in tempi definiti e non foriero, invece, di ulteriori ritardi. iv) Ancora, espressamente l’art. 7 d.lgs. n. 28 del 2010 si preoccupa del principio della ragionevole durata del processo: stabilendo che «Il periodo di cui all’articolo 6 e il periodo del rinvio disposto dal giudice ai sensi dell’articolo 5, comma 2 e dell’articolo 5-quater, comma 1, non si computano ai fini di cui all’articolo 2 della legge 24 marzo 2001, n. 89». Ricorda il Collegio che, al di là dell’intervento restrittivo di Corte cost. 6 dicembre 2012, n. 272, come delle perplessità in dottrina sollevate circa la reale precettività della disposizione ai fini del computo del termine ragionevole di cui all’art. 6 Cedu (quanto alla possibilità di escludere il tempo utilizzato per il procedimento di mediazione, ove questo costituisca, in virtù del diritto interno, un presupposto indispensabile per l’accesso alla tutela giurisdizionale), il punto è che il conflitto con il fondamentale principio della ragionevole durata è avvertito chiaramente dallo stesso legislatore.
In ordine alla costanza, da parte del giudice delle leggi, nel ritenere non violato dalla mediazione obbligatoria l’art. 24 Cost., laddove questo tutela il diritto di azione, in quanto detto principio «non comporta l’assoluta immediatezza del suo esperimento, ben potendo la legge imporre oneri finalizzati a salvaguardare ”interessi generali”, con le dilazioni conseguenti», interessi individuati nell’evitare «che l’aumento delle controversie attribuite al giudice ordinario… provochi un sovraccarico dell’apparato giudiziario, con conseguenti difficoltà per il suo funzionamento» e nel favorire «la composizione preventiva della lite, che assicura alle situazioni sostanziali un soddisfacimento più immediato rispetto a quella conseguita attraverso il processo» (Corte cost. 13 luglio 2000, n. 276; e già sent. n. 46 del 1974; n. 47 del 1964; nn. 56, 83 e 113 del 1963; n. 40 del 1962), per le Sezioni Unite resta tuttavia il rilievo del principio generale di ragionevolezza delle restrizioni a tale diritto, in ispecie in comparazione con un reale effetto positivo dell’istituto conciliativo: ossia per gli scopi, ora ricordati, di non investire affatto il giudice della lite e di dare presto a questa soluzione stragiudiziale, nei limiti, quindi, in cui tale effetto positivo verosimilmente sussista, e non sia, invece, irragionevolmente ed inevitabilmente soppiantato da ritardi non più giustificabili, perché non idonei a realizzare détti scopi. Le previsioni ricordate ai punti precedenti, specifica la Corte, hanno un’indubbia valenza sistematica, al fine dell’individuazione di un «appropriato meccanismo di coordinamento, ispirato alla considerazione necessariamente unitaria della vicenda sostanziale dedotta in giudizio e all’esigenza di salvaguardare la ragionevole durata del processo (art. 111, secondo comma, Cost.), senza vanificare, con inutili intralci, l’effettività della tutela giurisdizionale (art. 24 Cost.)», secondo l’esigenza ravvisata dalla Corte costituzionale (Corte cost. 12 dicembre 2019, n. 266, nel dichiarare inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, commi 1, secondo e terzo periodo, e 5, d.l. n. 132 del 2014). La Corte costituzionale da tempo rileva che, se simili strumenti «tendono, infatti, ad evitare l’abuso del diritto alla tutela giurisdizionale, nondimeno l’adempimento di un onere, lungi dal costituire uno svantaggio per il titolare della pretesa sostanziale, rappresenta il modo di soddisfazione della posizione sostanziale più pronto e meno dispendioso»: proprio lo scongiurare «l’abuso… della giurisdizione, in vista di un interesse della stessa funzione giurisdizionale, è stato sovente la ratio espressa della “giurisdizione condizionata”.
Le Sezioni Unite precisano che il principio di economia processuale, inteso come più efficace e pronta soluzione dei conflitti, ha solitamente fondato la rispondenza dei condizionamenti censurati alla previsione costituzionale del diritto di azione» (Corte cost. 4 marzo 1992, n. 82). In altre occasioni, la giurisprudenza costituzionale ha affermato la legittimità di quelle regole, che subordinano «l’esercizio dei diritti a controlli o condizioni, purché non vengano imposti oneri o modalità tali da rendere impossibile o estremamente difficile l’esercizio del diritto di difesa o lo svolgimento dell’attività processuale» (sent. 13 aprile 1977, n. 63), in particolare stabilendo che il tentativo di conciliazione riguardo alle cause agrarie non costituisce «adempimento vessatorio di difficile osservanza né un’insidiosa complicazione processuale tale da ledere il diritto di difesa dell’attore» (Corte cost. 21 gennaio 1988, n. 73). Per la Corte costituzionale, dunque, la mediazione obbligatoria non viola il diritto di azione, sancito dalla Costituzione, soltanto laddove risulti idoneo a produrre il risultato vantaggioso del c.d. effetto deflattivo, senza mai divenire tale da provocare un inutile prolungamento dei tempi del giudizio. Le indicazioni del giudice delle leggi additano, in sostanza, una linea di equilibrio fra il principio di azione di ordine costituzionale e le deroghe che possono esservi apportate in funzione di interessi di estrema rilevanza, ma confermano il carattere eccezionale delle ipotesi limitative: ne deriva che le condizioni di procedibilità stabilite dalla legge non possono essere aggravate da una interpretazione che conduca ad estenderne la portata (Cass. 21 gennaio 2004, n. 967, con riguardo alla conciliazione lavoristica). Analogamente, come ricorda anche la relazione del Massimario, il principio della tutela giurisdizionale effettiva costituisce un principio generale del diritto comunitario, derivante dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, sancito dagli artt. 6 e 13 della CEDU (intitolati, rispettivamente, “Diritto a un equo processo” e “Diritto a un ricorso effettivo”), oltre ad essere stato ribadito anche dall’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 (intitolato “Diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale”). Viene in rilievo anche l’art. 67, par. 4, TFUE, secondo il quale “l’Unione facilita l’accesso alla giustizia, in particolare attraverso il principio del reciproco riconoscimento delle decisioni giudiziali ed extragiudiziali in materia civile”. Con sentenza del 18 marzo 2010, C-317, C-318, C-319 e C320, la Corte di giustizia dell’Unione europea ha escluso che il tentativo obbligatorio di conciliazione di cui all’art. 1, comma 11, della l. n. 249/1997 confligga col diritto comunitario (in particolare, con l’art. 34 della direttiva 2002/22/CE, relativa al servizio universale e ai diritti degli utenti in materia di reti e di servizi di comunicazione elettronica), rimarcando come la conseguente restrizione ai diritti fondamentali degli utenti sia legittima, in quanto tesa al perseguimento di obiettivi di interesse generale e non sproporzionata rispetto a questi ultimi.
Per il Collegio, dunque, tutto quanto esposto indica l’esistenza un bilanciamento degli interessi, già operato dal legislatore positivo e confermato come legittimo dal giudice delle leggi: in quanto, se è vero che anche un ripetuto strumento conciliativo extragiudiziale potrebbe condurre, a volte, ad una soluzione favorevole della lite al secondo, al terzo o ulteriore tentativo, è pur vero che così si finirebbe per contraddire l’intento di rendere più rapida e meno onerosa per tutti la risoluzione della controversia, quando questa sia ormai comunque instaurata. Effetto deflattivo, ragionevole durata e divieto di inutili intralci sono, dunque, principî ampiamente presenti anche innanzi al giudice delle leggi. L’art. 5 d.lgs. n. 28 del 2010 estende a numerose materie la mediazione obbligatoria, al fine di evitare l’introduzione della lite ed assicurare una maggiore celerità al processo, non di ostacolarla oltre il ragionevole. Dovendosi dunque, piuttosto, secondo il legislatore pervenire – è la ratio sottesa – al processo ordinario, una volta infruttuosamente esperito il tentativo di mediazione in via obbligatoria senza che esso sia andato a buon fine, quale condizione di procedibilità da applicare al solo atto introduttivo, non a tutte le “domande” proposte nel processo.
Con il fine di auspicata riduzione dei generali tempi di definizione del contenzioso civile, rileva, ancora, il Collegio, si porrebbe in irrimediabile contrasto l’effetto di estendere alla domanda riconvenzionale un ulteriore e ripetuto analogo tentativo. Invero, l’art. 5, comma 2, terzo periodo, d.lgs. n. 28 del 2010 prevede che il giudice, quando rileva che la mediazione non è stata esperita o conclusa, fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine di tre mesi (più tre, su accordo delle parti) di cui all’art. 6: con un inevitabile, ma dal legislatore ponderato, allungamento dei tempi processuali. In tal modo, se si reputasse obbligato anche il convenuto in riconvenzionale ad esperire la mediazione, i tempi si allungherebbero, però, in modo non prevedibile. Il differimento della trattazione, previsto dal legislatore quale strumento per contrastare l’elusione della condizione di procedibilità prescritta per la domanda introduttiva, si dilaterebbe oltre ogni modo: il rinvio necessariamente riguarderebbe non soltanto la trattazione della domanda riconvenzionale, ma l’intero giudizio, ivi compresa la domanda introduttiva, sebbene ormai procedibile, onde pure il pericolo di abusi ad opera del convenuto. La mediazione obbligatoria, affermano le Sezioni Unite, svolge un ruolo proficuo, solo se non si presti ad eccessi o abusi. La mediazione, più che accertamento di diritti, è “contemperamento di interessi”, con semplicità di forme e rapidità di trattazione, anche senza verifiche fattuali: è una sorta di “esperimento” finalizzato ad un accordo negoziale, che va certamente tentato, nella prospettiva assunta dal legislatore, ma prima di intraprendere la causa in funzione di scongiurare la originaria iscrizione a ruolo, e che non avrebbe senso diluire e prolungare oltre misura., Ma la soluzione che volesse sottoporre la domanda riconvenzionale a mediazione obbligatoria, proseguono, ancora le Sezioni Unite, dovrebbe – per coerenza – essere estesa ad ogni altra domanda fatta valere in giudizio, diversa ed ulteriore rispetto a quella inizialmente introdotta dall’attore: non solo, quindi, la domanda riconvenzionale, ma anche la riconvenzionale a riconvenzionale (c.d. reconventio reconventionis), la domanda proposta da un convenuto verso l’altro, oppure da e contro terzi interventori, volontari o su chiamata. Del pari, potrebbero esperirsi tante successive mediazioni non simultanee, con una assai poco efficiente gestione separata dei conflitti, che difficilmente condurrebbe ad un proficuo ed unitario accordo fra tutte le parti; mentre il processo necessariamente vedrebbe una trattazione disordinata e disarticolata, in attesa dell’esperimento di tanti tentativi di conciliazione stragiudiziali.
In definitiva, affermano le Sezioni Unite, la mediazione obbligatoria ha la sua ratio nelle dichiarate finalità di favorire la rapida soluzione delle liti e l’utilizzo delle risorse pubbliche giurisdizionali solo ove effettivamente necessario: posta questa finalità, l’istituto non può essere utilizzato in modo disfunzionale rispetto alle predette finalità ed essere trasformato in una ragione di intralcio al buon funzionamento della giustizia, in un bilanciamento dal legislatore stesso operato, secondo una lettura costituzionale della disposizione in esame, affinché, da un lato, non venga obliterata l’applicazione dell’istituto, e dall’altro lo stesso non si determini una sorta di “effetto boomerang” sull’efficienza della risposta di giustizia. Per ogni altro profilo, sussiste il compito generale del giudice, a fini di risparmiare risorse giurisdizionali e non emettere la sentenza, di tentare e proporre egli stesso la conciliazione (artt. 185, 185-bis c.p.c.), dove il tentativo di conciliazione potrà avere svolgimento con maggiore probabilità di esito positivo. Va anche precisato che spetta al mediatore, nel diligente adempimento del suo incarico professionale, esortare le parti a mettere ogni profilo “sul tappeto”, ivi comprese altre richieste del convenuto. Ciò, ai sensi dell’art. 8, comma 3, d.lgs. n. 28 del 2010: «Il mediatore si adopera affinché le parti raggiungano un accordo amichevole di definizione della controversia», dunque l’intera lite tra di loro. L’accordo sarà ricompreso nella proposta di conciliazione ex art. 11 del d.lgs., secondo cui, se è raggiunto un accordo amichevole, il mediatore forma processo verbale al quale è allegato il testo dell’accordo medesimo, mentre, quando l’accordo non è raggiunto, il mediatore può formulare una proposta di conciliazione; in ogni caso, il mediatore formula una proposta di conciliazione se le parti gliene fanno concorde richiesta in qualunque momento del procedimento. Piuttosto, la trattazione congiunta di più interessi di cui le varie parti siano portatrici sarà possibile all’interno dell’unico procedimento di mediazione: situazione che in diritto è ammessa ed in fatto è auspicabile, come è proprio delle funzioni di un bonario componimento degli interessi, affidato ad un terzo preparato ed estraneo alle parti. La mediazione torna un modo attraverso il quale le parti provano a risolvere la lite, anche in maniera diversa dall’applicazione rigorosa delle norme che regolano la vicenda, ricercando un equilibrio tra i rispettivi interessi, purché questi vengano peraltro adeguatamente ponderati e non ridotti forzatamente “a pari merito”, il tutto innanzi ad un organo apposito, per scongiurare l’introduzione della lite innanzi ad un giudice.
Le Sezioni Unite, all’esito dell’iter argomentativo, enunciano il seguente principio di diritto: «La condizione di procedibilità prevista dall’art. 5 d.lgs. n. 28 del 2010 sussiste per il solo atto introduttivo del giudizio e non per le domande riconvenzionali, fermo restando che al mediatore compete di valutare tutte le istanze e gli interessi delle parti ed al giudice di esperire il tentativo di conciliazione, per l’intero corso del processo e laddove possibile».
- Corte di Cassazione, sez. III, ordinanza 14 febbraio 2024, n. 4133, sulla non perentorietà del termine di quindici giorni disposto dal giudice per dar corso alla mediazione delegata e sull’onere di promuovere la procedura di mediazione nelle materie sottoposte a mediazione obbligatoria, i cui giudizi vengano introdotti con decreto ingiuntivo
Riferimenti normativi: artt. 5, d.lgs. 28/2010
Principi di diritto:
- a) Non è perentorio il termine di quindici giorni disposto dal giudice per dar corso alla mediazione delegata; è soddisfatta la condizione di procedibilità di cui all’art. 5 del d.lgs. n. 28/2010 se, entro l'udienza di rinvio fissata dal giudice, vi sia stato il primo incontro delle parti innanzi al mediatore conclusosi senza l'accordo
- b) Nelle materie sottoposte a mediazione obbligatoria, i cui giudizi vengano introdotti con decreto ingiuntivo, una volta instaurato il relativo giudizio di opposizione e decise le istanze di concessione o sospensione del decreto, l’onere di promuovere la procedura di mediazione è a carico della parte opposta, ove questa non si attivi alla pronuncia di improcedibilità deve conseguire la revoca del decreto ingiuntivo opposto, tale principio dovrebbe trovare applicazione anche nelle ipotesi di mediazione delegata, perché l’art. 5, comma 2, d.lgs. n. 28/2010 fa salvo quanto previsto dal comma 1 bis
I fatti oggetto di causa vedono la dichiarazione da parte del Tribunale di primo grado di improcedibilità dell’opposizione promossa dagli eredi avverso il decreto ingiuntivo per una somma dovuta a titolo di penale contrattuale per l’ingiustificato recesso dal contratto di spandimento fanghi di depurazione agricola; segnatamente, il Tribunale riteneva non rispettato il termine di quindici giorni assegnato con ordinanza, per il deposito dell’istanza di avvio della mediazione delegata.
La Corte d’appello, investita del gravame, ha accolto l’impugnazione principale, ha, quindi, revocato il decreto ingiuntivo, ha rigettato la domanda degli eredi di condanna ex art. 96 cod.proc.civ. ha respinto l’appello incidentale di quest’ultimo ed ha regolato le spese di lite, secondo il principio della soccombenza; segnatamente la Corte d’appello ha ritenuto non corretta la statuizione del Tribunale che aveva dichiarato improcedibile la opposizione al decreto ingiuntivo in ragione del fatto che era stata proposta tardivamente, rispetto al termine di 15 giorni assegnato, l’istanza ad un organismo di mediazione abilitato, in quanto: a) il termine di 15 giorni era ordinatorio, ai sensi dell’art. 152 cod.proc.civ.; b) per l’avveramento della condizione di procedibilità non bastava che il termine ordinatorio non fosse stato rispettato, occorrendo che il primo intervento di mediazione non avesse avuto luogo prima della data dell’udienza di rinvio; c) l’istanza del 4 marzo di revoca dell’avvio della mediazione avrebbe potuto essere interpretata come istanza di proroga del termine ordinatorio, ex art. 154 cod.proc.civ.; ha ritenuto che non meritasse accoglimento l’eccezione di incompetenza del Tribunale di primo grado, basata sull’inefficacia, ex art. 1341 cod.civ., della clausola derogatoria di cui al contratto, perché non vi erano i presupposti per ritenere applicabile la disciplina relativa alle clausole vessatorie; ha rilevato che: il contratto di spandimento di fanghi da parte di sui terrenti dell’azienda era sottoposto alla condizione sospensiva del rilascio dell’autorizzazione provinciale a cura e spese di detta condizione si era verificata e, quindi, il contratto aveva assunto efficacia; dal 16 novembre 2000 fino al 25 aprile 2001(data del decesso del proprietario dell’azienda non avendo avuto la disponibilità di fanghi da spandere, non aveva subito alcun danno; dopo la morte di questi la autorizzazione provinciale non era stata volturata e pertanto la prestazione non poteva essere più eseguita, con conseguente insussistenza di alcun inadempimento da parte degli eredi non vi era stata la violazione del patto di esclusiva, perché lo spandimento dei fanghi era stato autorizzato a favore di una società di cui era socio insieme con i suoi fratelli; ricorre avverso detta sentenza, formulando quattro motivi.
Con il primo motivo sono denunciate la violazione e falsa applicazione dell’art. 5.2 del d.lgs. n. 28/2010 e dell’art. 12 disp. legge in generale, ai sensi dell’art. 360, 1° comma, n. 3, n. 4 e n. 5, cod.proc.civ. ; secondo il ricorrente, il giudice a quo avrebbe erroneamente applicato la giurisprudenza della Corte di Cassazione relativa all’ipotesi di adempimento dell’iscrizione a ruolo, con la velina in attesa del ritorno dell’originale con la relata di notifica, pervenendo così all’erronea decisione di ritenere il termine assegnato dal giudice non solo ordinatorio, ma anche fungibile con quello di conclusione del procedimento di mediazione.
Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 111 Cos. e degli artt. 125 e 132cod.proc.civ., per motivazione inesistente o meramente apparente, ai sensi dell’art. 360, 1° comma, n. 3 e n. 5, cod.proc.civ.; il giudice a quo avrebbe stravolto il contenuto del provvedimento n. 1064/2005 della Corte di Cassazione, avendo ritenuto ordinatorio il termine di quindici giorni, assegnato con l’ordinanza, senza verificare se la perentorietà, pur non espressamente affermata dal d.lgs. n. 28/2010, non potesse discendere dallo scopo e dalla funzione adempiuta, e senza motivare la ragione per cui ha ritenuto di modificare la statuizione del Tribunale che aveva ritenuto perentorio il termine proprio in via interpretativa, cioè tenendo conto dello scopo e delle funzioni ad esso assegnabili.
Per la Cassazione, i primi due motivi sono infondati; la stessa Corte ha già affrontato questa specifica questione con la pronuncia n. 40035 del 14/12/2021, negando carattere di perentorietà al termine di quindici giorni disposto dal giudice per dar corso alla mediazione delegata e ritenendo soddisfatta la condizione di procedibilità di cui all’art. 5 del d.lgs. n. 28/2010 se, entro l'udienza di rinvio fissata dal giudice, vi sia stato il primo incontro delle parti innanzi al mediatore e conclusosi senza l'accordo; tale conclusione che il Collegio condivide e intende ribadire si basa sul rilievo che deve essere attribuito al tenore letterale della prescrizione di cui all’art. 5, comma 2 bis, del d.lgs. n. 28/2010, a mente del quale "quando l'esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale la condizione si considera avverata se il primo incontro dinanzi al mediatore si conclude senza l'accordo"; ciò, per il Collegio, è segno che il legislatore non ha collegato la dichiarazione di improcedibilità al mancato rispetto del termine di presentazione della domanda, bensì al solo evento dell'esperimento del procedimento di mediazione;. Per il Collegio, tale lettura – come già chiarito dalla Corte – risulta: i) “coerente con la riconosciuta natura non perentoria del termine di quindici giorni, fissato dal giudice ai sensi del D.Lgs. n. 28 del 2010, art. 5, comma 2, e tale rimasto anche nella disciplina risultata a seguito della riforma legislativa del 2013, che non è intervenuta sul punto”; ii) ha il conforto dell’art. 152, 2° comma, cod.proc.civ. , posto che il termine di quindici giorni non è stato qualificato come perentorio; iii) è confermata dalla necessità che il giudice fissi una successiva udienza tenendo conto della scadenza del termine massimo della durata della mediazione; iv) è compatibile con la ratio legis sottesa alla mediazione obbligatoria ope iudicis, consistente nella ricerca della soluzione migliore possibile per le parti, dato un certo stato di avanzamento della lite e certe sue caratteristiche che poco si concilierebbero con la tesi della natura perentoria del termine, atteso che finirebbe per frustrare l'operatività del generale principio del raggiungimento dello scopo; v) è coerente con il principio della ragionevole durata del processo, perché la verifica all'udienza fissata D.Lgs. n. 28 del 2010, ex art. 5, comma 2, è già ricompresa nell'intervallo temporale delimitato dalla previsione del D.Lgs. n. 28 del 2010, art. 7, a mente del quale "Il periodo di cui all'art. 6 e il periodo del rinvio disposto dal giudice ai sensi dell'art. 5, commi 1-bis e 2, non si computano ai fini di cui della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2".
Con il terzo motivo, il ricorrente imputa alla Corte d’appello la violazione e falsa applicazione degli artt. 111 Cost., 125 e 132 cod.proc.civ., per motivazione inesistente o meramente apparente; attinta da censura è la statuizione con cui la Corte d’Appello ha interpretato l’istanza di revoca dell’invio della mediazione come istanza di proroga chiesta tempestivamente; l’interpretazione attribuitale dal giudice a quo sarebbe errata, secondo il ricorrente, perché contrasterebbe con il tenore letterale dell’istanza da cui era dato evincere che la richiesta degli eredi non era quella di prorogare un termine in scadenza, bensì quella di ottenere una modifica del contenuto dispositivo del provvedimento del giudice.
Per la Cassazione, il terzo motivo è inammissibile e non v’è ragione di scrutinarlo, atteso che il giudice a quo ha enunciato una ratio decidendi ulteriore a sostegno della riforma della pronuncia del Tribunale (Cass. 18/04/2019, n. 18015); l’impugnazione di una sentenza basata, come in questa caso, su più rationes decidendi, deve essere tale da attingerle tutte ed utilmente, giacché se anche una sola delle dette ragioni non formi oggetto di censura, ovvero che sia respinta la censura relativa anche ad una sola delle dette ragioni, non vi è interesse all’impugnazione dell’altra o delle altre; quand’anche le censure mosse ad una delle rationes decidendi dovesse ritenersi fondata l’impugnazione non potrebbe conseguire alcun risultato pratico, restando il provvedimento impugnato autonomamente giustificato dall’altra o dalle altre argomentazioni non efficacemente censurate. (così, ex plurimis, Cass. 11/05/2018, n. 11493 e successiva giurisprudenza conforme).
Con il quarto motivo, il ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione degli artt. 125 e 132 cod.proc.civ., per motivazione inesistente o meramente apparente; la sentenza impugnata non avrebbe dato conto delle ragioni per cui ha escluso che nel periodo di vigenza dell’autorizzazione provinciale - segnatamente dal 17 novembre 2000 al 25 aprile 2001 - avesse subito un danno; avrebbe fatto riferimento a quanto verificato dal CTU e cioè che non aveva la disponibilità di fanghi da spandere, ma lo avrebbe fatto senza considerare le censure mosse all’elaborato del CTU, formulate in primo grado e reiterate nel giudizio di appello.
Per la Cassazione, il motivo non merita accoglimento; le critiche mosse alla CTU di cui il giudice non avrebbe tenuto conto, essendosi limitato a recepire la CTU, per portare alla cassazione della sentenza impugnata devono essere precise, circostanziate e decisive, cioè tali che, se esaminate dal giudice, avrebbero portato ad una statuizione diversa. Il Collegio, sul punto, afferma che nessuna delle ragioni poste a fondamento delle censure mosse al CTU è in grado di incrinare la statuizione della Corte d’Appello.
Proseguendo con l’esame del ricorso incidentale condizionato, con il primo motivo i ricorrenti lamentano la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 112 cod.proc.civ. , in combinato disposto con l’art. 5, comma 1 bis e comma 2, del d.lgs. n. 28/2010, in relazione all’art. 360, 1° comma, n. 4 cod.proc.civ.; secondo i ricorrenti il Tribunale di primo grado non aveva il potere di rilevare e dichiarare l’improcedibilità della domanda giudiziale oltre la prima udienza successiva all’esperimento del procedimento di mediazione obbligatoria.
Con il secondo motivo i ricorrenti imputano alla Corte d’appello di aver violato l’art. 112 cod.proc.civ., in combinato disposto con l’art. 5, comma 1 bis e comma 2, d.lgs. n. 28/2010, in combinato disposto con gli artt. 633 e ss., 640 e 645 cod.proc.civ., in relazione all’art. 360, 1° comma, n. 4, cod.proc.civ.
La Corte di Cassazione rileva che, atteso che la pronuncia della stessa Cassazione, a Sezioni Unite n. 19956/2020 ha enunciato il principio, a mente del quale, nelle materie sottoposte a mediazione obbligatoria, i cui giudizi vengano introdotti con decreto ingiuntivo, una volta instaurato il relativo giudizio di opposizione e decise le istanze di concessione o sospensione del decreto, l’onere di promuovere la procedura di mediazione è a carico della parte opposta, ove questa non si attivi alla pronuncia di improcedibilità deve conseguire la revoca del decreto ingiuntivo opposto, tale principio dovrebbe trovare applicazione anche nelle ipotesi di mediazione delegata, perché l’art. 5, comma 2, d.lgs. n. 28/2010 fa salvo quanto previsto dal comma 1 bis.
In definitiva, la Cassazione rigetta il ricorso principale: ne consegue l’assorbimento del ricorso incidentale condizionato.
- Corte di Appello di Napoli, sez. VII, sentenza 24 aprile 2024, n. 1860, sulla comparizione personale delle parti nel procedimento di mediazione e sulla procura speciale necessaria per la sostituzione
Riferimenti normativi: art. 5, d.lgs. 28/2010
Principio di diritto: La parte che non voglia o non possa partecipare personalmente alla mediazione può farsi liberamente sostituire, da chiunque e quindi anche dal proprio difensore, ma deve rilasciare a questo scopo una procura sostanziale, che non rientra nei poteri di autentica dell’avvocato neppure se il potere è conferito allo stesso professionista
La sentenza in esame attiene, fra le altre, alla materia della procedibilità del gravame in esito alla mediazione ex art. 5 d.lgs. 28/2010.
Nel caso di specie, stante il mancato accordo senza proposta all’incontro ex art. 5, c. 2, il mediatore dichiarava l’esito negativo del procedimento.
La Corte, in particolare, a seguito del rilievo d’ufficio sollevato in ordine alla questione della improcedibilità della mediazione, ha invitato le parti a svolgere le proprie difese in ordine al corretto esperimento della mediazione ai fini della decisione con riguardo alla procedibilità dell’appello, evidenziando che la Corte di Cassazione, con sentenza n. 8473 del 2019, ha chiarito che, con riguardo all’esperimento della mediazione quando la stessa è condizione di procedibilità ex lege, “Nel procedimento di mediazione obbligatoria disciplinato dal d.lgs. 28/2010, quale condizione di procedibilità per le controversie nelle materie indicate dall’art. 5 c. 1 bis, del medesimo decreto (come introdotto dal d.l. 69/2013, conv. Con modif., in l. 98/2013), è necessaria la comparizione personale delle parti, assistite dal difensore, pur potendo le stesse farsi sostituire da un loro rappresentante sostanziale, dotato di apposita procura, in ipotesi coincidente con lo stesso difensore che le assiste. La condizione di procedibilità può ritenersi, inoltre, realizzata qualora una o entrambe le parti comunichino al termine del primo incontro davanti al mediatore la propria indisponibilità a procedere oltre”.
Quindi, la Corte d’Appello dichiara l’improcedibilità dell’impugnazione e ciò sulla base delle considerazioni che seguono.
In linea di diritto, la Corte aderisce ai principi affermati dalla Cassazione, la quale, in tema di mediazione, quale condizione di procedibilità della domanda, ha indicato alcune soluzioni interpretative.
In primo luogo, la Cassazione ha evidenziato come, dalla lettura sistematica della disciplina della mediazione emerge che “il successo dell’attività di mediazione è riposto nel contatto diretto fra le parti e il mediatore professionale, il quale può, grazie alla interlocuzione diretta ed informale con esse, aiutarle a ricostruire i loro rapporti pregressi ed aiutarle a trovare una soluzione che, al di là delle soluzioni in diritto della eventuale controversia, consenta loro di evitare l’acuirsi della conflittualità e definire amichevolmente una vicenda potenzialmente oppositiva con reciproca soddisfazione, favorendo al contempo la prosecuzione dei rapporti commerciali” (Cass., sez. III, sent. 27/3/2019, n. 8473; 5/7/2019 n. 18068). In questa prospettiva, “il legislatore ha previsto e voluto la comparizione personale delle parti dinanzi al mediatore, perché solo nel dialogo informale e diretto fra le parti e mediatore, conta che si possa trovare quella composizione degli opposti interessi satisfattiva al punto da evitare la controversia ed essere più vantaggiosa per entrambe le parti”; in particolare, all’art. 8 d.lgs. 28/2010, è stato previsto espressamente che “al primo incontro davanti al mediatore debbano essere presenti sia le parti che i loro avvocati”. E “la previsione della presenza sia delle parti sia degli avvocati comporta che, ai fini della realizzazione delle condizioni di procedibilità, la parte non possa evitare di presentarsi davanti al mediatore, inviando soltanto il proprio avvocato” (Cass. 8473/2019 cit.).
Tuttavia, secondo la Suprema Corte, “la necessità della comparizione personale non comporta che si tratti di attività non delegabile. In mancanza di una previsione espressa in tal senso e non avendo natura di atto strettamente personale, deve ritenersi che si tratti di attività delegabile ad altri” e “non è previsto, né escluso che la delega possa essere conferita al proprio difensore” (Cass. 8473/2019 cit.).
La Corte di Appello ricorda anche che, sul punto, la Cassazione chiarisce che “allo scopo di validamente delegare un terzo alla partecipazione alle attività di mediazione, la parte deve conferirgli tale potere mediante una procura avente lo specifico oggetto della partecipazione alla mediazione e il conferimento del potere di disporre dei diritti sostanziali che ne sono oggetto (ovvero, deve essere presente un rappresentante a conoscenza dei fatti e fornito dei poteri per la soluzione della controversia..). Quindi, il potere di sostituire a sé stesso qualcun altro per la partecipazione alla mediazione può essere conferito con una procura speciale sostanziale” (Cass. 8473/2019 cit.). A ciò consegue che “sebbene la parte possa farsi sostituire dal difensore nel partecipare al procedimento di mediazione, in quanto ciò non è auspicato, ma non è neppure escluso dalla legge, non può conferire tale potere con la procura conferita al difensore e da questi autenticata, benché possa conferirgli con essa ogni più ampio potere processuale. Per questo motivo, se sceglie di farsi sostituire dal difensore, la procura speciale rilasciata allo scopo non può essere autenticata dal difensore, perché il conferimento del potere di partecipare in sua sostituzione alla mediazione non fa parte dei possibili contenuti della procura alle liti autenticabili direttamente dal difensore” (Cass, 8473/2019).
In conclusione, “la parte che non voglia o non possa partecipare personalmente alla mediazione può farsi liberamente sostituire, da chiunque e quindi anche dal proprio difensore, ma deve rilasciare a questo scopo una procura sostanziale, che non rientra nei poteri di autentica dell’avvocato neppure se il potere è conferito allo stesso professionista” (Cass, 8473/2019 cit.).
La Corte d’Appello, quindi, evidenzia che nello stesso senso si è espressa la stessa, ribadendo, con riferimento alla procura sostanziale, che “la ratio è da rivenirsi nel fatto che l’attività di mediazione è finalizzata a verificare se sia possibile instaurare fra le parti – innanzi al mediatore – un dialogo tale da consentire in quella sede la risoluzione alternativa della controversia. Ebbene tale condizione non può ritenersi soddisfatta dal conferimento della procura processuale conferita al difensore e da questi autenticata (neppure se ivi vi sia il riferimento dell’informazione alla parte dello svolgimento del procedimento di mediazione), posto che la procura processuale conferisce al difensore il potere di rappresentanza in giudizio della parte ma non gli conferisce la facoltà di sostituirsi ad esso in un’attività esterna al processo – quale è appunto il procedimento di mediazione” (Corte App. Napoli, sent. 29/9/2020, n. 3227).
Afferma la Corte, ancora, che appare chiaro come non possa ritenersi “la sufficienza della comune procura alle liti, ancorché accordata con facoltà di compiere ogni più ampio potere processuale” (App. Napoli, sent. 3227/2020 cit.), considerato che “l’attivazione della mediazione delegata non costituisce peraltro attività giurisdizionale”, trattandosi di una “parentesi non giurisdizionale all’interno del processo” (Cass., sez. II, sent. 14/12/2022, n. 40035).
La Corte d’Appello menziona anche la più recente sentenza della Cassazione, n. 13029 del 2022, con la quale è stato ribadito come, nella comparizione obbligatoria davanti al mediatore, la parte può anche farsi sostituire da un proprio rappresentante sostanziale, eventualmente nella persona dello stesso difensore che l’assiste nel procedimento di mediazione, purché dotato di apposita procura sostanziale e che questi principi, stabiliti per la mediazione obbligatoria, sono applicabili allo stesso modo alla mediazione discrezionale disposta dal giudice d’appello (art. 5, c. 2 d.lgs. 28/2010).
A questo punto, la Corte d’Appello tratta dell’ulteriore problema di individuare chi necessariamente debba garantire la genuinità e verità della sottoscrizione apposta dalla parte rappresentata sulla procura speciale. Sul punto, viene richiamata la giurisprudenza di legittimità che si è espressa nel senso che “l’atto di conferimento di potere pur avendo la forma della procura notarile fosse in realtà una semplice, benché ampia, procura alle liti, comprensiva di ogni potere giudiziale e stragiudiziale ed ance del potere di conciliare la controversia (da qui il richiamo corretto all’art. 1185 c.p.c.) ma comunque una procura dal valore meramente processuale, che non attribuiva all’avvocato la rappresentanza sostanziale della parte”.
La Corte ricorda che, sul punto, sia in dottrina che in giurisprudenza si registrano opinioni discordanti, ma in numerose pronunce di merito si è rilevata l’inidoneità della procura speciale prodotta nel procedimento di mediazione laddove il delegante che ha proceduto all’autenticazione della firma non rivesta la qualifica di pubblico ufficiale o di soggetto comunque abilitato dalla legge all’autenticazione di sottoscrizioni apposte alla sua presenza. Questa conclusione, a dire della Corte, sembra avvalorata dalla sentenza della Cassazione sopra citata secondo la quale se la parte sceglie di farsi sostituire dal difensore, “la procura speciale rilasciata allo scopo non può essere autenticata dal difensore, perché il conferimento del potere di partecipare in sua sostituzione alla mediazione non fa parte dei possibili contenuti della procura alle liti autenticabili direttamente dal difensore”.
Difatti, prosegue la Corte, la precisazione relativa all’autentica della procura, è stata espressa dalla Suprema Corte in via generale, senza distinguo a seconda del tipo di atto alla cui stipula la procura è finalizzata e, peraltro, in una fattispecie relativa ad un’azione di risoluzione di un contratto di locazione immobiliare, sicché non appare conforme al principio affermato in detta sentenza l’interpretazione secondo la quale la Cassazione avrebbe sostenuto la necessità dell’autentica (notarile) soltanto nel caso in cui il procuratore debba comparire per conto della parte atti che abbiano ad oggetto il trasferimento di diritti reali o altri atti per i quali sia richiesta la forma ad substantiam ex art. 1350 c.c.
La Corte, quindi, osserva che anche parte della dottrina ha rilevato, in sede di prima interpretazione della sentenza de qua, che la sostituzione è ammessa non sulla scorta di una procura alle liti, ex art. 185 c.p.c., perché si rende indispensabile una procura speciale sostanziale autenticata dal notaio che assicura il mezzo più appropriato per conferire lo specifico potere i partecipare alla mediazione disponendo dei relativi diritti. In tal senso, la stessa disposizione di carattere generale di cui all’art. 1392 c.c. non sembra funzionale, secondo questa dottrina, a dirimere tale questione, attesa la diversità insita nella ratio legis cui tende il fine enunciato nella suddetta norma codicistica, riferito ad una procura inerente squisitamente la conclusione di un negozio giuridico e non alla partecipazione ad un procedimento di mediazione ad una controversia civile o commerciale, rilevante, quanto agli effetti, sul piano dell’accesso condizionato alla giurisdizione.
In sostanza, precisa la Corte, la parte delegata agisce in sostituzione di quella rappresentata sul piano sostanziale, non al mero fine di esaudirne la volontà in ordine alla conclusione di un determinato atto negoziale, ma in ragione di quello volto alla definizione di una controversia, precipuamente attraverso la difesa di interessi di parte, sia pure in un ottica volta a favorire la conciliazione, attraverso la mediazione fra i contrapposti interessi.
La Corte conclude aggiungendo che l’assenza in mediazione di un legittimo rappresentante della parte appellante non può condurre a soluzioni diverse dall’improcedibilità. Infatti, nel solco dell’insegnamento di legittimità, quando venga accertata la mancata partecipazione della parte personalmente al procedimento di mediazione e risultando altresì che il difensore per essa presente non fosse munito di idonea procura speciale, con la conseguenza che lo stesso non può considerarsi validamente delegato a partecipare in sostituzione della parte alle attività di mediazione, “la condizione di procedibilità rappresentata dall’esperimento del procedimento di mediazione (concluso senza accordo) deve considerarsi non avverata” (Cass. sez. III, sent. 5/7/2019, n. 18068).
La Corte d’Appello afferma che i principi sin qui espressi si applicano anche alla mediazione demandata dal giudice, secondo quanto disposto dall’art. 5, c. 2 d.lgs. 28/2010. Invero, sostiene la Corte, il mancato esperimento della mediazione in seguito all’ordine del giudice integra, comunque, una forma di inattività, sanzionata con l’improcedibilità, alla stessa stregua di quanto avviene nell’ipotesi di cui all’art. 348 c.p.c. In altri termini, aggiunge la Corte, l’esperimento della mediazione in appello ha natura di atto d’impulso processuale a carico dell’appellante, il quale ne è onerato a pena di improcedibilità, alla quale consegue la stabilizzazione, ex art. 338 c.p.c. della sentenza di primo grado.
Tale prospettiva, peraltro, secondo la Corte sarebbe in linea con il profilo dell’appello delineato dalle Sezioni Unite della Cassazione, secondo cui, nel vigente ordinamento processuale, il giudizio di appello non può più dirsi, come un tempo, un riesame pieno nel merito della decisione impugnata, ma ha assunto le caratteristiche di una impugnazione a critica vincolata.
Ne consegue che l’appellante assume sempre la veste di attore rispetto al giudizio di appello e su di lui ricade l’onere di dimostrare la fondatezza dei propri motivi di gravame, quale che sia stata la posizione processuale di attore o convenuto assunta nel giudizio di primo grado (Cass. SS.UU. sent. 8/2/2013, n. 3033; Cass. 9/6/2016, n. 11797; Cass. 3/9/2018, n. 21557).
La Corte di Appello già ha precisato in passato come, sulla base di questi principi, debba gravare sullo stesso soggetto l’ulteriore e implicito onere di porre in essere tutte le attività finalizzate a rendere esigibile dal giudice dell’impugnazione quella valutazione di merito delle critiche mosse alla sentenza di primo grado (Corte App. Napoli, sez. VII, sent. 28/2/2019, n. 1189), sebbene la procedura di mediazione in appello non integri “una automatica condizione di procedibilità” ma una “facoltà del giudice di creare tale condizione” (Cass. 30/10/2018, n. 27433; Cass. 13/12/2019, n. 32797).
Secondo la Corte, allora, ne deriva che, con riguardo al giudizio di appello, la sanzione dell’improcedibilità attenga all’impugnazione (e, per ciò stesso, sia all’appello principale sia a quello incidentale) e che ogni mediazione disposta ai sensi dell’art. 5 c. 2 d.lgs 28/2010, non consenta alcun meccanismo di sanatoria una volta verificatasi la decadenza dalla proponibilità della mediazione, a prescindere dalla eccezione di parte o dalla sua rilevazione entro la prima udienza di trattazione (App. Napoli, n. 1152/2019 cit.).
- Corte di Cassazione, sez. III, ord. 8 luglio 2024, n. 18485, sul momento di realizzazione della condizione di procedibilità della mediazione obbligatoria
Riferimenti normativi: artt. 5 e 8, d.lgs. 28/2010
Principio di diritto: La condizione di procedibilità della mediazione obbligatoria, prevista dal d.lgs. n. 28 del 2010 per le controversie nelle materie indicate dall'art. 5, comma 1-bis, del medesimo decreto (come introdotto dal d.l. n. 69 del 2013, conv., con modif., in l. n. 98 del 2013), è realizzata qualora una o entrambe le parti comunichino al termine del primo incontro davanti al mediatore la propria indisponibilità a procedere oltre.
Fra i motivi sottoposti all’esame della Corte di Cassazione, il primo attiene al rigetto dell’eccezione di improcedibilità della domanda, per mancato esperimento della mediazione obbligatoria, con denuncia dell’erronea applicazione del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, nella legge 9 agosto 2013, n. 98, nonché del d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28 (in specie, l’art. 5, comma, 1-bis). Si censura la sentenza impugnata là dove ha escluso la fondatezza del motivo di gravame con il quale era stata eccepita l’improcedibilità della domanda della parte attrice per omesso espletamento della procedura di mediazione obbligatoria. Esito al quale la Corte territoriale è pervenuta sul rilievo che “il procedimento di mediazione – come già evidenziato dal Giudice di primo grado – è stato effettivamente espletato, senza il raggiungimento di un accordo”, e ciò nonostante le parti “avessero partecipato personalmente”, secondo quanto “è possibile evincere dal verbale prodotto in giudizio”. Inoltre, la sentenza impugnata ha pure escluso che tale procedimento sia solo consistito – come sempre sostenuto dall’allora appellante – “nella mera illustrazione dei caratteri dell’istituto, della sua funzione e delle sue modalità di svolgimento”, visto che le parti, invitate “dal mediatore ad esprimersi sulla possibilità di iniziare il procedimento di mediazione”, sarebbero entrate “nel merito della controversia”, senza limitarsi ad affrontare esclusivamente “profili procedurali o formali”.
Assume, per contro, la ricorrente che, nonostante “la formale proposizione dell’istanza di mediazione, il procedimento non è mai stato effettivamente avviato dalle parti”. Difatti, in occasione dell’incontro preliminare, tenutosi innanzi al mediatore, “incontro prodromico all’avvio vero e proprio della mediazione”, il legale rappresentante della parte attrice ebbe a dichiarare “che «non è possibile iniziare la procedura di mediazione»”. Per parte propria, invece, la ricorrente, non soltanto ebbe espressamente a manifestare “la propria disponibilità all’instaurarsi della mediazione, ma ha anche formulato specifica proposta (agli atti) volta alla estinzione del contenzioso”. Di conseguenza, a fronte degli “incontestabili dati di fatto che precedono”, la ricorrente “evidenzia come non sia condivisibile la ricostruzione del Giudicante allorché ha ritenuto effettuato il procedimento di mediazione”. Viene richiamato, sul punto, quell’orientamento della giurisprudenza di merito secondo cui “l’ordine di procedere alla mediazione si potrà considerare correttamente eseguito”, e quindi “la condizione di procedibilità effettivamente verificata, soltanto se: a) la mediazione si svolge con la presenza personale delle parti; b) si sia svolta la mediazione vera e propria”, ovvero “andando oltre il formale incontro preliminare ove vengono semplicemente illustrati i caratteri dell’istituto in parola”, sicché “il primo incontro non può fermarsi alla sola fase informativa, ma deve andare oltre e entrare nel merito della controversia, cercando effettivamente una conciliazione”.
Per la Cassazione, il primo motivo di ricorso non è fondato. In particolare, nello scrutinarlo, afferma il Collegio, occorre muovere dalla constatazione che la Corte d’Appello – nel decidere in merito al motivo di gravame secondo cui il procedimento di mediazione non sarebbe stato “concretamente espletato”, essendo “consistito, invece, nella mera illustrazione dei caratteri dell’istituto, della sua funzione e delle sue modalità di svolgimento” – ha osservato che, invitate dal mediatore “ad esprimersi sulla possibilità di iniziare il procedimento di mediazione, le parti, entrando nel merito della controversia e non certo soffermandosi esclusivamente su profili procedurali o formali, inerenti alle modalità di svolgimento o alla funzione del procedimento di mediazione, hanno illustrato le rispettive posizioni, in relazione alle loro concrete ragioni di doglianza ed alle rispettive pretese”. In particolare, al cospetto della manifestata disponibilità della conduttrice “a sanare la morosità”, la locatrice ebbe, invece, a fare “presente di non avere intenzione di proseguire il rapporto di locazione, considerato che «la disciplina non prevede un termine di grazia e, quindi, la possibilità di purgare la mora» e che «le condizioni», illustrate nella «proposta di controparte», non erano confacenti «all’interesse di parte istante»”. Sicché – prosegue la sentenza impugnata – “il mediatore, preso atto della volontà delle parti e dell’impossibilità di addivenire ad un accordo, ha dichiarato «chiuso» il procedimento di mediazione”. Per il Collegio, tanto basta per considerare espletato il procedimento, e dunque rispettata la condizione di procedibilità di cui all’art. 5, comma, 1-bis, del d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, giacché essa può ritenersi, realizzata “qualora una o entrambe le parti comunichino al termine del primo incontro davanti al mediatore la propria indisponibilità a procedere oltre” (Cass. Sez. 3, sent. 27 marzo 2019, n. 8473, Rv. 653270-01).
Chiamata, difatti, a stabilire quando il tentativo di mediazione obbligatoria possa dirsi utilmente concluso (ovvero, se sia sufficiente “comunicare al mediatore di non aver nessuna intenzione di procedere oltre e di provare a trovare una soluzione”, oppure se sia “necessario che la mediazione sia «effettiva»”, e cioè “che le parti provino quanto meno a discutere per trovare una soluzione, per poi poter dare atto a verbale della impossibilità di addivenire ad una soluzione positiva”), la Corte ha osservato che sia l’argomento letterale, ovvero il testo dell’art. 8 del d.lgs. n. 28 del 2010, che l’argomento sistematico – e cioè “la necessità di interpretare la presente ipotesi di giurisdizione condizionata in modo non estensivo, ovvero in modo da non rendere eccessivamente complesso o dilazionato l’accesso alla tutela giurisdizionale – depongono nel senso che l’onere della parte che intenda agire in giudizio (o che, avendo agito, si sia vista opporre il mancato preventivo esperimento della mediazione e sia stata rimessa davanti al mediatore dal giudice) di dar corso alla mediazione obbligatoria possa ritenersi adempiuto con l’avvio della procedura di mediazione e con la comparizione al primo incontro davanti al mediatore, all’esito del quale, ricevute dal mediatore le necessarie informazioni in merito alla funzione e alle modalità di svolgimento della mediazione, può liberamente manifestare il suo parere negativo sulla possibilità di utilmente iniziare (rectius proseguire) la procedura di mediazione” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. n. 8473 del 2019, cit.). Alla stregua di tali considerazioni, dunque, per la Corte di Cassazione, il motivo di ricorso risulta non fondato.