Ultimissime

Rimesse alla CGUE alcune questioni relative al principio del ne bis in idem e alle sanzioni derivanti da pratiche commerciali scorrette.
Consiglio di Stato, Sez. VI, ord. del 7 gennaio 2022, n. 68.
Sono rimesse alla Corte di Giustizia UE le questioni: a) se le sanzioni irrogate in tema di pratiche commerciali scorrette, ai sensi della normativa interna attuativa della direttiva 2005/29/Ce, siano qualificabili alla stregua di sanzioni amministrative di natura penale; b) se l’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea vada interpretato nel senso che esso osta ad una normativa nazionale che consente di confermare in sede processuale e rendere definitiva una sanzione amministrativa pecuniaria di natura penale nei confronti di una persona giuridica per condotte illecite che integrano pratiche commerciali scorrette, per le quali nel frattempo è stata pronunciata una condanna penale definitiva a suo carico in uno stato membro diverso, laddove la seconda condanna sia divenuta definitiva anteriormente al passaggio in giudicato dell’impugnativa giurisdizionale della prima sanzione amministrativa pecuniaria di natura penale; c) se la disciplina di cui alla Direttiva 2005/29, con particolare riferimento agli artt. 3 paragrafo 4 e 13 paragrafo 2 lett. e), possa giustificare una deroga al divieto di “ne bis in idem” stabilito dall’art. 50 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (successivamente incorporata nel Trattato sull’Unione Europea dall’ art. 6 TUE) e dell’art. 54 della convenzione di Schengen.
Ha chiarito la Sezione che sul versante della disciplina europea rilevante, in linea generale assumono rilievo le seguenti norme di principio: l’art. 50 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, a mente del quale “nessuno può essere perseguito o condannato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato nell'Unione a seguito di una sentenza penale definitiva conformemente alla legge”; l’art. 54 della convenzione di Schengen, a mente del quale “una persona che sia stata giudicata con sentenza definitiva in una Parte contraente non può essere sottoposta ad un procedimento penale per i medesimi fatti in un’altra Parte contraente a condizione che, in caso di condanna, la pena sia stata eseguita o sia effettivamente in corso di esecuzione attualmente o, secondo la legge dello Stato contraente di condanna, non possa più essere eseguita”.
In linea particolare, a fronte della natura della sanzione irrogata con il provvedimento impugnato in prime cure, assume rilievo la normativa di cui alla direttiva 200529: sia ex art. 3 paragrafo 4 secondo cui “In caso di contrasto tra le disposizioni della presente direttiva e altre norme comunitarie che disciplinino aspetti specifici delle pratiche commerciali sleali, prevalgono queste ultime e si applicano a tali aspetti specifici”; sia ex art. 13 paragrafo 2, laddove statuisce che “Stati membri assicurano che, ai fini dell'irrogazione delle sanzioni, si tenga conto dei seguenti criteri, non esaustivi e indicativi, ove appropriati: …e) sanzioni inflitte al professionista per la stessa violazione in altri Stati membri in casi transfrontalieri in cui informazioni relative a tali sanzioni sono disponibili attraverso il meccanismo istituito dal regolamento (UE) 2017/2394 del Parlamento europeo e del Consiglio”.
Per ciò che concerne il contenuto delle disposizioni nazionali rilevanti nel caso di specie, la disciplina applicata dall’Autorità, fa riferimento alle cc.dd. "pratiche commerciali scorrette", che designa le condotte che formano oggetto del divieto generale sancito dall'art. 20 del d.lgs. 6 settembre 2005 n. 206 (Codice del consumo), in attuazione della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 11 maggio 2005, n. 2005/29/Ce. La finalità perseguita dalla direttiva europea consiste nel garantire, a termini del suo considerando 23, un elevato livello comune di tutela dei consumatori procedendo ad un'armonizzazione completa delle norme relative alle pratiche commerciali sleali delle imprese, ivi compresa la pubblicità sleale, nei confronti dei consumatori.
Per "pratiche commerciali" - assoggettate al titolo III della parte II del Codice del consumo - si intendono tutti i comportamenti tenuti da professionisti che siano oggettivamente "correlati" alla "-promozione, vendita o fornitura-" di beni o servizi a consumatori, e posti in essere anteriormente, contestualmente o anche posteriormente all'instaurazione dei rapporti contrattuali. La condotta tenuta dal professionista può consistere in dichiarazioni, atti materiali, o anche semplici omissioni.
Quanto ai criteri in applicazione dei quali deve stabilirsi se una determinata pratica commerciale sia o meno "scorretta", il comma 2 dell'art. 20 del Codice del consumo stabilisce in termini generali che una pratica commerciale è scorretta se "è contraria alla diligenza professionale" ed "è falsa o idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico, in relazione al prodotto, del consumatore medio che raggiunge o al quale è diretta o del membro medio di un gruppo qualora la pratica commerciale sia diretta a un determinato gruppo di consumatori".
Nella trama normativa, la definizione generale si scompone tuttavia in due diverse categorie di pratiche scorrette: le pratiche ingannevoli (di cui agli art. 21 e 22) e le pratiche aggressive (di cui agli art. 24 e 25).
Il legislatore ha inoltre analiticamente individuato una serie di specifiche tipologie di pratiche commerciali (le c.d. "liste nere") da considerarsi sicuramente ingannevoli e aggressive (art. 23 e 26, cui si aggiungono le previsioni "speciali" di cui ai commi 3 e 4 dell'art. 21 e all'art. 22-bis), senza che si renda necessario accertare la sua contrarietà alla "diligenza professionale" nonché dalla sua concreta attitudine "a falsare il comportamento economico del consumatore".
Il carattere ingannevole di una pratica commerciale dipende dalla circostanza che essa non sia veritiera in quanto contenente informazioni false o che, in linea di principio, inganni o possa ingannare il consumatore medio, in particolare, quanto alla natura o alle caratteristiche principali di un prodotto o di un servizio e che, in tal modo, sia idonea a indurre detto consumatore ad adottare una decisione di natura commerciale che non avrebbe adottato in assenza di tale pratica. Quando tali caratteristiche ricorrono cumulativamente, la pratica è considerata ingannevole e, pertanto, deve essere vietata.
La condotta omissiva - per essere considerata ingannevole - deve avere ad oggetto "informazioni rilevanti di cui il consumatore medio ha bisogno" per prendere una decisione consapevole (art. 22). Al riguardo, va rimarcato che, in tutte le ipotesi in cui la pratica commerciale integri gli estremi di un "invito all'acquisto" - locuzione che comprende le comunicazioni commerciali - debbono considerarsi sempre e comunque "rilevanti" le informazioni relative alle "caratteristiche principali del prodotto" (art. 22, comma 4, lettera "; cfr. anche l'articolo 7, paragrafo 4, della direttiva europea). In assenza di tali informazioni, un invito all'acquisto si considera quindi ingannevole (Corte giust.comm.ue, 12 maggio 2011, Ving Sverige, C-122/10, EU:C:2011:299, punto 24).
Quanto ai principi vigenti espressi in ordine al principio del ne bis in idem di cui alla normativa di principio sopra riportata, secondo la giurisprudenza europea (Corte giust.comm.ue, grande sezione, 20 marzo 2018, n. 537), l’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea dev'essere interpretato nel senso che esso osta ad una normativa nazionale che consente di celebrare un procedimento riguardante una sanzione amministrativa pecuniaria di natura penale nei confronti di una persona per condotte illecite che integrano una manipolazione del mercato, per le quali è già stata pronunciata una condanna penale definitiva a suo carico, nei limiti in cui tale condanna, tenuto conto del danno causato alla società dal reato commesso, sia idonea a reprimere tale reato in maniera efficace, proporzionata e dissuasiva.
Nel caso di specie, se la sanzione penale tedesca risulta integrare gli estremi della seconda tipologia di pronuncia, quella oggetto della presente controversia parrebbe qualificabile in termini di sanzione amministrativa pecuniaria di natura “penale” nei confronti di una persona per condotte illecite che integrano una manipolazione del mercato. A quest’ultimo riguardo, infatti, secondo la giurisprudenza europea la sanzione amministrativa ha natura penale laddove, come nel caso di specie, sia proporzionata non al solo danno da risarcire, avendo non soltanto lo scopo di risarcire il danno causato dall'illecito, ma perseguendo anche una finalità repressiva e presenta, pertanto, natura “penale”.
La stessa Corte edu, al fine di evitare quella che è stata definita la “truffa delle etichette”, impone di guardare al di là dell’inquadramento formale e di cercare la realtà della procedura in questione (Cedu 27 febbraio 1980, caso Deweer); assume dunque rilievo la circostanza che la previsione sanzionatoria si rivolga ad una generalità di soggetti, non sia quindi una sanzione disciplinare, e che abbia contenuto afflittivo ed una funzione deterrente.
In linea generale, infatti, la giurisprudenza europea ha già evidenziato che il principio del ne bis in idem, quale sancito all’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, si applica a violazioni del diritto della concorrenza e vieta che un'impresa sia condannata o perseguita nuovamente a causa di un comportamento anticoncorrenziale per il quale è stata sanzionata o per il quale è stata dichiarata non responsabile da una precedente decisione non più impugnabile. Per contro, tale principio non trova applicazione quando un'impresa è perseguita e sanzionata separatamente e in modo indipendente da un'autorità garante della concorrenza di uno Stato membro e dalla Commissione europea per violazioni dell' articolo 102 TFUE relative a mercati di prodotto o mercati geografici distinti o quando un'autorità garante della concorrenza di uno Stato membro è privata della sua competenza in applicazione dell' art. 11, par. 6, prima frase, del regolamento (CE) n. 1/2003 (Corte giust.comm.ue, sez. VIII, 25 febbraio 2021, n. 857 e sez. IV, 4 marzo 2020, n. 10). Lo stesso principio mira quindi ad evitare che un'impresa sia nuovamente condannata o perseguita, il che presuppone che tale impresa sia stata condannata o dichiarata non responsabile da una precedente decisione non più impugnabile.
Ancora in linea generale, la giurisprudenza europea (Corte giust.comm.ue, grande sezione, 20 marzo 2018, n. 537) ha statuito che il principio del ne bis in idem, garantito dall'art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, conferisce ai soggetti dell'ordinamento un diritto direttamente applicabile nell'ambito di una controversia come quella oggetto del procedimento principale. Tale principio non è infatti accompagnato da alcuna condizione ed è perciò immediatamente applicabile.
È stato quindi evidenziato come l’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea osti ad una normativa nazionale che consente di celebrare un procedimento riguardante una sanzione amministrativa pecuniaria di natura penale nei confronti di una persona per condotte illecite che integrano una manipolazione del mercato, per le quali è già stata pronunciata una condanna penale definitiva, nei limiti in cui tale condanna, tenuto conto del danno causato alla società, sia idonea a reprimere tale reato in maniera efficace, proporzionata e dissuasiva.
L' art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea dovrebbe essere interpretato nel senso che esso osta ad una normativa nazionale che consente di celebrare un procedimento riguardante una sanzione amministrativa pecuniaria di natura penale nei confronti di una persona per condotte illecite che integrano una manipolazione del mercato, per le quali è già stata pronunciata una condanna penale definitiva a suo carico, nei limiti in cui tale condanna, tenuto conto del danno causato alla società dal reato commesso, sia idonea a reprimere tale reato in maniera efficace, proporzionata e dissuasiva.
Nel caso di specie peraltro, se per un verso la sanzione amministrativa italiana risulta irrogata (ben) prima di quella penale tedesca, per un altro verso la seconda è divenuta definitiva anteriormente alla prima.
Peraltro, per ciò che concerne il dato temporale appena richiamato, peculiare della presente controversia, se per un verso la sanzione penale tedesca è divenuta definitiva anteriormente a quella qui controversa, stante la pendenza della presente impugnativa, per un altro verso la giurisprudenza della Cedu ha statuito che “l’articolo 4 del Protocollo n. 7 non precludeva lo svolgimento di più procedimenti concorrenti prima della pronuncia della decisione definitiva. Vi sarebbe stata tuttavia violazione se un procedimento fosse proseguito successivamente alla data in cui l’altro procedimento si era concluso con decisione definitiva” (Cedu sentenza 27 novembre 2014, Lucky dev vs Svezia cit.).
Inoltre, emergono dubbi sull’idoneità, quantomeno in parte qua, della sanzione penale irrogata in Germania ad essere efficace, proporzionata e dissuasiva anche in relazione alle condotte sanzionate in Italia.
In proposito, la giurisprudenza europea adita dal Giudice italiano (Corte giust.comm.ue, grande sezione, 20 marzo 2018, n. 524) ha già avuto modo di statuire che l' articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea , letto alla luce dell'art. 4 del protocollo n. 7 Cedu, che afferma il principio del ne bis in idem, non è di ostacolo a una normativa nazionale, come quella italiana, in virtù della quale è possibile avviare procedimenti penali a carico di una persona per omesso versamento Iva, qualora a tale persona sia già stata inflitta, per i medesimi fatti, una sanzione amministrativa definitiva, qualificata come penale alla luce del medesimo art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea. Ciò vale però a condizione che tale normativa sia volta ad un obiettivo di interesse generale tale da giustificare un simile cumulo di procedimenti e di sanzioni, nonché preveda norme che consentano di garantire che la severità del complesso delle sanzioni imposte sia limitata a quanto strettamente necessario rispetto alla gravità del reato di cui si tratti. Questo è quanto affermato dalla Corte di giustizia dell'Unione europea che ipotizza, dunque, in ambito tributario la possibilità del cumulo delle sanzioni amministrative e penali nel caso di omesso versamento di imposte, ma condiziona tale cumulo alla verifica che gli effetti che si determinano non risultino eccessivi rispetto alla gravità del reato commesso e che, perseguendo un interesse generale, non violi il principio di proporzionalità.
La giurisprudenza europea ha altresì dichiarato che una limitazione del principio del ne bis in idem garantito dall'articolo 50 della Carta può essere giustificata sulla base dell'art. 52, paragrafo 1, della medesima.
Ai sensi dell'art. 52, paragrafo 1, primo periodo, della Carta, eventuali limitazioni all'esercizio dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla stessa Carta devono essere previste dalla legge e rispettare il contenuto essenziale di detti diritti e libertà. A termini del secondo periodo del suddetto paragrafo, nel rispetto del principio di proporzionalità, possono essere apportate limitazioni a tali diritti e libertà solo qualora siano necessarie e rispondano effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall'Unione o all'esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui.