Giurisprudenza Penale
Per la Corte Costituzionale, la misura della quarantena obbligatoria è istituto che limita la libertà di circolazione e non la libertà personale.
Di Anna Laura Rum
NOTA A CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 26 MAGGIO 2022, N. 127
Per la Corte Costituzionale, la misura della quarantena obbligatoria è istituto che limita la libertà di circolazione e non la libertà personale.
DI ANNA LAURA RUM
Sommario: 1. I fatti di causa 2. Le argomentazioni della Corte Costituzionale 3. Il dispositivo
- I fatti di causa
La sentenza della Corte Costituzionale in commento ha ad oggetto il giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 6, e 2, comma 3, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33 (Ulteriori misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 14 luglio 2020, n. 74.
In particolare, la questione di legittimità costituzionale è stata sollevata dal Tribunale ordinario di Reggio Calabria, nel corso di un giudizio in cui all’imputato è stato contestato, in concorso con altri reati, di essere uscito dalla propria abitazione, dopo che ne era stata accertata la positività al virus COVID-19.
Il giudice a quo ha reputato il combinato disposto delle norme censurate difforme dall’art. 13 Cost., perché esse non prevedono che il provvedimento dell’autorità sanitaria, con il quale il malato è sottoposto alla cosiddetta quarantena obbligatoria, sia convalidato entro 48 ore dall’autorità giudiziaria.
Prendendo in esame il quadro normativo, l’art. 1, comma 6, censurato stabilisce che «[è] fatto divieto di mobilità dalla propria abitazione o dimora alle persone sottoposte alla misura della quarantena per provvedimento dell’autorità sanitaria in quanto risultate positive al virus COVID-19, fino all’accertamento della guarigione o al ricovero in una struttura sanitaria o altra struttura allo scopo destinata».
L’art. 2, comma 3, censurato aggiunge che «[s]alvo che il fatto costituisca reato punibile ai sensi dell’articolo 452 del codice penale o comunque più grave reato, la violazione della misura di cui all’articolo 1, comma 6, è punita ai sensi dell’articolo 260 del regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265».
Secondo il giudice rimettente, la quarantena obbligatoria implicherebbe una limitazione positiva legata alla persona, anziché negativa in relazione ai luoghi: essa «non impone un divieto di recarsi in determinati luoghi», ma «un divieto di muoversi a determinati soggetti».
Nell’ordinanza di rimessione si conclude che il provvedimento di adozione del divieto comporti una restrizione della libertà personale, anziché della libertà di circolazione tutelata dall’art. 16 Cost. e che quindi esso debba essere adottato dall’autorità giudiziaria, o soggetto a convalida di quest’ultima.
Il giudice rimettente, dunque, escluso che la lettera delle disposizioni impugnate permetta in via interpretativa di ritenere che il provvedimento sia soggetto a convalida dell’autorità giudiziaria, ha dubitato della legittimità costituzionale del divieto di mobilità e del regime penale che ne accompagna la violazione, per lesione della riserva di giurisdizione prevista dall’art. 13 Cost.
Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha chiesto che la questione fosse dichiarata inammissibile o non fondata, in quanto la misura alla quale è sottoposto chi si ammala deve essere ricondotta alla sfera della libertà di circolazione, anziché all’art. 13 Cost., deducendone l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale e ciò sulla base sia del criterio cosiddetto quantitativo, sia del criterio cosiddetto qualitativo, elaborati dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale: la restrizione, nel caso di specie, avrebbe carattere lieve e non comprometterebbe la dignità della persona, sottoponendola ad un trattamento degradante.
Per il Presidente del Consiglio dei ministri, tali considerazioni, che sottraggono al campo proprio dell’art. 13 Cost. i trattamenti sanitari obbligatori, varrebbero anche per i «cordoni sanitari» istituiti per contenere il contagio, anche se con provvedimenti diretti nei confronti di singoli individui: il divieto di mobilità per cui è causa sarebbe perciò una misura limitativa della libertà di circolazione, di natura provvisoria, e subordinata al «mero accertamento della positività al virus Covid-19».
In questa prospettiva, si aggiunge che l’assenza di ogni carattere coercitivo renderebbe improprio il riferimento operato dal giudice rimettente agli istituti degli arresti domiciliari e della detenzione domiciliare, che invece comportano «forme di coazione fisica», quale l’applicazione del regime carcerario, in caso di inosservanza delle misure.
- Le argomentazioni della Corte Costituzionale
La Corte Costituzionale, preliminarmente, considera che nella fase iniziale della pandemia il decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6 (Misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 5 marzo 2020, n. 13, aveva approntato una risposta penale per ogni violazione delle «misure di contenimento» attuate, sulla base di tale fonte primaria, a mezzo di decreti del Presidente del Consiglio dei ministri; tuttavia, fin dall’entrata in vigore del decreto-legge 25 marzo 2020, n. 19 (Misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito con modificazioni, nella legge 22 maggio 2020, n. 35, il legislatore ha preferito riservare la sanzione penale alla trasgressione ritenuta più grave, nell’ottica del contenimento del contagio, ovvero alla violazione del «divieto assoluto di allontanarsi dalla propria abitazione o dimora per le persone sottoposte alla misura della quarantena, applicata dal sindaco quale autorità sanitaria locale, purché risultate positive al virus», a condizione che tale misura fosse stata attivata con gli strumenti di cui all’art. 2 di tale testo normativo, ovvero d.P.C.m. o ordinanze del Ministro della salute (art. 1, comma 2, lettera e, del d.l. n. 19 del 2020).
La Consulta osserva che con le disposizioni censurate è direttamente la legge, senza la successiva intermediazione di un d.P.C.m., a porre il «divieto di mobilità dalla propria abitazione o dimora alle persone sottoposte alla misura della quarantena per provvedimento dell’ autorità sanitaria in quanto risultate positive al virus COVID-19, fino all’accertamento della guarigione o al ricovero in una struttura sanitaria o altra struttura allo scopo destinata» (art. 1, comma 6, del d.l. n. 33 del 2020, come convertito), nonché a stabilire che «salvo che il fatto costituisca reato punibile ai sensi dell’articolo 452 del codice penale o comunque più grave reato, la violazione della misura di cui all’articolo 1, comma 6, è punita ai sensi dell’articolo 260 del regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265» (art. 2, comma 3, del d.l. n. 33 del 2020).
Si nota che tale figura contravvenzionale di reato mantiene analoga forma, quanto agli elementi costitutivi della fattispecie e alla pena comminata, con il sopravvenuto art. 4, comma 1, del decreto-legge 24 marzo 2022, n. 24 (Disposizioni urgenti per il superamento delle misure di contrasto alla diffusione dell’epidemia da COVID-19, in conseguenza della cessazione dello stato di emergenza), che «a decorrere dal 1° aprile 2022» introduce l’art. 10-ter nel testo del decreto-legge 22 aprile 2021, n. 52 (Misure urgenti per la graduale ripresa delle attività economiche e sociali nel rispetto delle esigenze di contenimento della diffusione dell’epidemia da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 17 giugno 2021, n. 87.
Secondo la Corte, quest’ultima disposizione, saldandosi all’art. 13, comma 2-bis, del d.l. n. 52 del 2021, come introdotto a propria volta dall’art. 11, comma 1, lettera b), del d.l. n. 24 del 2022, continua a comportare che sia incriminato, con la medesima pena, il fatto descritto dalle disposizioni del d.l. n. 33 del 2020, in forza delle quali l’imputato viene giudicato nel processo principale.
Si conclude, quindi, che è palese che lo ius superveniens non interferisce con l’attuale questione di legittimità costituzionale, che la Corte dichiara, nel merito, non fondata.
Infatti, si osserva come sia evidente che la facoltà di autodeterminarsi quanto alla mobilità della propria persona nello spazio, in linea di principio, costituisce una componente essenziale sia della libertà personale, sia della libertà di circolazione: tuttavia, i criteri che il rimettente suggerisce per qualificare la fattispecie ai sensi dell’art. 13 Cost., anziché in base all’art. 16 Cost., non hanno mai trovato corrispondenza nella ormai pluridecennale giurisprudenza maturata dalla Corte sul punto controverso.
Per la Corte Costituzionale, non si può negare che un cordone sanitario volto a proteggere la salute nell’interesse della collettività (art. 32 Cost) possa stringersi di quanto è necessario, secondo un criterio di proporzionalità e di adeguatezza rispetto alle circostanze del caso concreto, per prevenire la diffusione di malattie contagiose di elevata gravità.
Ancora, si dice che a seconda dei casi e sempre alla luce della evoluzione della pandemia, il legislatore potrà orientarsi, sia nel senso di prescrivere un divieto generalizzato a recarsi in determinati luoghi, per esempio quando il fattore di contagio alberghi solo in questi ultimi (ciò che il rimettente definisce «limitazioni negative» legate al luogo, attribuendole all’art. 16 Cost.), sia nel senso di imporre un divieto di spostarsi a determinate persone, specie quando queste ultime, in ragione della libertà di circolare, siano, a causa della contagiosità, un pericoloso vettore della malattia (ciò che il giudice a quo, per la Corte, sostiene erroneamente comportare una «limitazione positiva» prescritta all’individuo, come tale in ogni caso presidiata dall’art. 13 Cost.).
Quindi, per i giudici costituzionali, si tratta di stabilire, anzitutto, se le modalità con le quali una simile, gravosa misura siano state adottate non trasmodino, in concreto, in restrizione della libertà personale. Poi, una volta che si sia giunti alla conclusione che la limitazione introdotta dal legislatore appartenga, a buon titolo, al campo governato dall’art. 16 Cost., e si sia quindi potuto escludere ogni rilievo all’art. 13 Cost., ugualmente occorre valutare la conformità della misura adottata ai limiti costituzionali che il legislatore incontra in tema di compressione della libertà di circolazione e quest’ultima, pur priva della riserva di giurisdizione, resta assistita da garanzie consone al fondamentale rilievo costituzionale che connota la facoltà di locomozione, anche quale base fattuale per l’esercizio di numerosi altri diritti di primaria importanza.
La Corte ricorda che nella giurisprudenza costituzionale, il nucleo irriducibile dell’habeas corpus, tutelato dall’art. 13 Cost. e ricavabile per induzione dal novero di atti espressamente menzionati dallo stesso articolo (detenzione, ispezione, perquisizione personale), comporta che il legislatore non possa assoggettare a coercizione fisica una persona, se non in forza di atto motivato dell’autorità giudiziaria, o convalidato da quest’ultima entro quarantotto ore, qualora alla coercizione abbia invece provveduto l’autorità di pubblica sicurezza: l’impiego della forza per restringere la capacità di disporre del proprio corpo, purché ciò avvenga in misura non del tutto trascurabile e momentanea (sentenze n. 30 del 1962 e n. 13 del 1972), è quindi precluso alla legge dalla lettera stessa dell’art. 13 Cost., se non interviene il giudice, la cui posizione di indipendenza e imparzialità assicura che non siano commessi arbitri in danno delle persone.
Si aggiunge che, qualora il legislatore intervenga sulla libertà di locomozione, l’indice certo per assegnare tale misura all’ambito applicativo dell’art. 13 Cost. (e non dell’art. 16 Cost.) è che essa sia non soltanto obbligatoria (tale, vale a dire, da comportare una sanzione per chi vi si sottragga), ma anche tale da richiedere una coercizione fisica.
Quindi, la Corte precisa che qualora sia previsto il ricorso alla forza fisica al fine di instaurare o mantenere in essere, con apprezzabile durata, una misura restrittiva della facoltà di libera locomozione, allora la circostanza che la legge abbia introdotto tale misura in via generale per motivi di sanità non comporta che essa vada assegnata alla garanzia costituzionale offerta dall’art. 16 Cost., e sfugga così alla riserva di giurisdizione, posto che detto elemento coercitivo implica necessariamente che sia l’autorità giudiziaria ad applicare la restrizione, o a convalidarne l’esecuzione provvisoria.
Si riporta, poi, quanto affermato dalla stessa Corte, con sentenza n. 22/2022, ovvero che la garanzia di cui all’art. 13 Cost. raggiunge certamente misure disposte o protratte coattivamente, anche se sorrette da finalità di cura, perché «quanto meno allorché un dato trattamento sia configurato dalla legge non soltanto come “obbligatorio” – con eventuale previsione di sanzioni a carico di chi non si sottoponga spontaneamente ad esso, ma anche come “coattivo” – potendo il suo destinatario essere costretto con la forza a sottoporvisi, sia pure entro il limite segnato dal rispetto della persona umana – le garanzie dell’art. 32, secondo comma, Cost. debbono sommarsi a quelle dell’art. 13 Cost., che tutela in via generale la libertà personale, posta in causa in ogni caso di coercizione che abbia ad oggetto il corpo della persona».
La Corte Costituzionale, allora, afferma che l’obbligo, per chi è sottoposto a quarantena per provvedimento dell’autorità sanitaria, in quanto risultato positivo al virus COVID-19, di non uscire dalla propria abitazione o dimora, non restringe la libertà personale, anzitutto perché esso non viene direttamente accompagnato da alcuna forma di coercizione fisica, né in fase iniziale, né durante la protrazione di esso per il corso della malattia: il destinatario del provvedimento è infatti obbligato ad osservare l’isolamento, a pena di incorrere nella sanzione penale, ma non vi è costretto ricorrendo ad una coercizione fisica, al punto che la normativa non prevede neppure alcuna forma di sorveglianza in grado di prevenire la violazione.
In definitiva, secondo la Corte, chiunque sia sottoposto alla “quarantena” e si allontani dalla propria dimora incorrerà nella sanzione prevista dalla disposizione censurata, ma non gli si potrà impedire fisicamente di lasciare la dimora stessa, né potrà essere arrestato in conseguenza di tale violazione.
La Corte rammenta anche che fin dagli esordi della sua giurisprudenza, ha riconosciuto che l’art. 13 Cost. deve trovare spazio non soltanto a fronte di restrizioni mediate dall’impiego della forza fisica, ma anche a quelle che comportino l’«assoggettamento totale della persona all’altrui potere», con le quali, vale a dire, viene compromessa la «libertà morale» degli individui, imponendo loro «una sorta di degradazione giuridica». Così si è pronunciata con le sentenze nn. 30/1962 e 11/1956.
La Corte ha tenuto ferma la necessità che simili restrizioni, ove implicanti «degradazione giuridica», fossero assistite dalle piene garanzie dell’habeas corpus offerte dallo statuto della libertà personale.
Per la Corte, ove la restrizione sia ottenuta mediante coercizione fisica, essa continua ad afferire alla libertà personale, quand’anche non rechi degradazione giuridica: nel caso opposto, prescrizioni restrittive degradanti per la persona, per quanto previste dalla legge e necessarie a perseguire il «fine costituzionalmente tracciato» che le giustifica (sentenza n. 219 del 2008), non possono sfuggire alla riserva di giurisdizione, perché esse, separando l’individuo o un gruppo circoscritto di individui dal resto della collettività, e riservando loro un trattamento deteriore, portano con sé un elevato tasso di potenziale arbitrarietà, al quale lo Stato di diritto oppone il filtro di controllo del giudice, quale organo chiamato alla obiettiva applicazione della legge in condizioni di indipendenza e imparzialità.
La Corte Costituzionale evidenzia come possa essere complicato, talvolta, distinguere, tra le incisioni della facoltà di locomozione, quelle che convergono, in quanto degradanti, verso la libertà personale, e quindi di competenza dell’autorità giudiziaria, e quelle che, invece, afferiscono alla libertà di circolazione e conclude che, sulla base dei principi richiamati, nel caso di specie, è palese che la misura della cosiddetta quarantena obbligatoria recata dall’art. 1, comma 6, censurato non determina alcuna degradazione giuridica di chi vi sia soggetto e quindi non incide sulla libertà personale.
Infatti, la Consulta afferma che in questo caso si è in presenza di un virus respiratorio altamente contagioso, diffuso in modo ubiquo nel mondo e che può venire contratto da chiunque, quali siano lo stile di vita e le condizioni personali e sociali, dunque, dinnanzi a tali presupposti, la misura predisposta dal legislatore concerne una vasta ed indeterminata platea di persone.
Si aggiunge che la natura del virus, la larghissima diffusione di esso, l’affidabilità degli esami diagnostici per rilevarne la presenza, sulla base di test scientifici obiettivi, fugano ogni pericolo di arbitrarietà e di ingiusta discriminazione, tale da chiamare in causa il giudice, affinché la misura dell’isolamento sia disposta, o convalidata tempestivamente; ciò, fermo restando che il malato può sottrarsi alla misura obbligatoria, ma non coercitiva (pur sostenendone le conseguenze penali), ma può altresì far valere le proprie ragioni, in via di urgenza, innanzi al giudice comune, perché ne sia accertato il diritto di circolare, qualora difettino i presupposti per l’isolamento.
- Il dispositivo
La Corte Costituzionale, in definitiva, dichiara non fondata la questione di legittimità degli artt. 1, comma 6, e 2, comma 3, del d.l. n. 33 del 2020 sollevata, in riferimento all’art. 13 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Reggio Calabria, ritenendo che la misura della cosiddetta quarantena obbligatoria è istituto che limita la libertà di circolazione, anziché restringere la libertà personale.