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Anno XVI - n. 07 - Luglio 2024

  Giurisprudenza Penale



NOTA A CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONI UNITE PENALI, SENTENZA 23 OTTOBRE 2020, n. 29541.

Di Daniela Sciacchitano
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NOTA A CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONI UNITE PENALI,

SENTENZA 23 OTTOBRE 2020, n. 29541

 

I reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni hanno natura di reato proprio non esclusivo;

il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone e quello di estorsione si differenziano tra loro in relazione all’elemento psicologico, da accertarsi secondo le ordinarie regole probatorie;

il concorso del terzo nel reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone è configurabile nei soli casi in cui questi si limiti ad offrire un contributo alla pretesa del creditore, senza perseguire alcuna diversa ed ulteriore finalità.

Di DANIELA SCIACCHITANO

 

 

Sommario: 1. Premessa – 2. La vicenda – 3. L’ordinanza di rimessione alle S.U. – 4. I reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni: reati esclusivi di mano propria?  –  5. Il controverso rapporto tra l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni e l’estorsione – 6. Il concorso dell’extraneus nel delitto di cui all’art. 393 c.p. – 7. Conclusioni.

 

  1. Premessa

Gli articoli 392 e 393 del codice penale incriminano la condotta di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, rispettivamente con violenza sulle cose e alle persone.

Più nel dettaglio, viene punita la condotta di “chiunque, al fine di esercitare un preteso diritto, potendo ricorrere al giudice, si fa arbitrariamente ragione da sé medesimo” con violenza sulle cose o alle persone.

Alla luce del tenore letterale della norma, appare, dunque, evidente come la fattispecie di cui all’art. 392 c.p. possa concorrere con il reato di danneggiamento di cui all’art. 635 c.p. e che la consequenziale ipotesi di cui all’art. 393 c.p. possa concorrere con il delitto di violenza privata cui all’art. 610 c.p.; pertanto, il rilievo letterale che funge da discrimine tra le predette incriminazioni – oltre alla perseguibilità a querela – è il fine perseguito dall’agente, che nei reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni persegue l’esercizio di un preteso diritto senza ricorrere all’Autorità Giudiziaria.

Non altrettanto chiara in dottrina e giurisprudenza risulta essere, invece, la questione relativa alla possibilità che la condotta di cui all’art. 393 c.p. concorra formalmente con il reato di estorsione di cui all’art. 629 c.p., il quale punisce la condotta di “chiunque, con violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con l’altrui danno”.

Da questi interrogativi e premesse prende le mosse la questione sottoposta al vaglio del Suprema Corte con l’ordinanza di rimessione della Seconda Sezione Penale della Corte si Cassazione n. 50696 del 25 Settembre 2019.

  1. La vicenda

Tanto premesso in via preliminare e prima di procedere alla disamina delle questioni sottoposte al vaglio del Supremo Organo, appare opportuna una breve ricostruzione dei fatti occorsi nel caso di specie.

La società Alfa Costruzioni s.r.l. del titolare Tizio stipulava un contratto di permuta con Caio e Sempronio, in forza del quale Sempronio avrebbe ceduto alla società un suolo edificabile libero da vincoli al fine di realizzare un complesso residenziale formato da più villette. La società si obbligava, altresì, a cedere a Sempronio una parte degli immobili edificati sui terreni di sua proprietà.

Nelle more, Caia, sorella di Sempronio, agiva in sede civile contro la Alfa Costruzioni s.r.l. e Caio, vantando vari diritti reali sul fondo permutato. Pertanto, la società chiamava in causa Sempronio e, in attesa dell’esito del giudizio, non provvedeva a trasferire a quest’ultimo le villette pattuite.

A seguito di ciò, Sempronio si presentava senza preavviso presso il cantiere della società convenuta in compagnia di Caietto e Tizietto. In quell’occasione, Caietto riferiva a Tizio e Caio che Sempronio gli era debitore di una somma ingente e li invitava, dunque, ad intestare a quest’ultimo le villette promesse. Sempronio confermava, quindi, l’esistenza del debito e insisteva, a sua volta, per il trasferimento delle villette. Cionondimeno, Tizio e Caio replicavano asserendo che, in pendenza del giudizio civile, non sarebbe stato possibile operare alcun trasferimento.

Caietto, nondimeno, reiterava la propria pretesa, aggiungendo che, se non avessero adempiuto, “qualcuno si sarebbe fatto male” e alludendo, peraltro, alla propria affiliazione ad ambienti malavitosi. In conclusione, inoltre, si rivolgeva a Caia con tono intimidatorio affermando “che belle villette che state costruendo”, e invitava Tizio a chiudere subito la faccenda.

Il giorno seguente a quanto sin qui descritto, Tizio e Caio decidevano di recarsi dalle forze dell’ordine per denunciare l’accaduto.[1]

  1. L’ordinanza di rimessione alle S.U.

Così denunciati i fatti occorsi, il procedimento, dopo il primo grado di giudizio, giungeva fino alla Corte d’appello di Potenza che, con sentenza emessa in data 22.02.2018, confermava integralmente il precedente provvedimento del 23 Gennaio 2015 emanato in sede di udienza preliminare dal Tribunale di Potenza, con il quale Sempronio, Caietto e Tizietto venivano condannati per il reato di estorsione aggravata, commessa da più persone riunite e con metodo mafioso, in danno di Tizio e Caio.

Gli imputati proponevano, quindi, ricorso avverso il decisum della Corte d’appello. Tra le varie ragioni poste a fondamento dell’impugnazione del provvedimento di secondo grado, giova, in particolare, menzionare il motivo con il quale veniva contestata la violazione dell’art. 629 c.p. nella misura in cui si asseriva che la Corte d’appello avesse aderito all’orientamento che valorizza, ai fini della distinzione tra i reati di cui agli artt. 629 e 393 c.p., l’intensità della violenza esercitata. A dire della difesa, tale primo indirizzo sarebbe stato, infatti, validamente contrastato da un secondo che fonda, invece, il discrimine sulla tutelabilità o meno dinanzi all’Autorità Giudiziaria del diritto vantato.

Altro motivo degno di particolare nota è quello per mezzo del quale si lamentava l’erronea qualificazione giuridica dei fatti. Più nel dettaglio, la difesa affermava che non sarebbe stata configurabile una minaccia o una violenza sproporzionata o gratuita, atta ad integrare il reato di tentata estorsione in luogo del tentativo di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone. A sostegno di tale assunto, venivano posti gli orientamenti giurisprudenziali inerenti ai rapporti tra i reati di cui agli artt. 629 e 393 c.p. ritenendo preferibile quello che privilegiava il profilo psicologico.

Il ricorso veniva, dunque, assegnato alla Seconda Sezione penale della Corte di Cassazione, che, il 25.09.2019, emetteva l’ordinanza di rimessione n. 50696 ai sensi dell’art. 618 comma 1 c.p.p., rilevando l’esistenza di contrasti interpretativi in ordine alla distinzione tra i reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e di estorsione, alla natura giuridica (di reato comune o proprio) dei primi ed alla configurabilità del concorso in essi del terzo non titolare del diritto azionato.

Con decreto del 27 dicembre 2019, preso atto dell’esistenza e della rilevanza ai fini della decisione dei contrasti giurisprudenziali ravvisati nell’ordinanza di rimessione, il predetto ricorso veniva assegnato alla Sezioni Unite.

Più nel dettaglio, al Supremo Consesso, venivano rimesse le seguenti questioni di diritto:

  • se i delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e quello di estorsione siano differenziabili sotto il profilo dell’elemento materiale ovvero dell’elemento psicologico”;
  • in caso si ritenga che l’elemento che li differenzia debba essere rinvenuto in quello psicologico, se sia sufficiente accertare, ai fini della sussumibilità nell’uno o nell’altro reato, che la condotta sia caratterizzata da una particolare violenza o minaccia, ovvero se occorra accertare quale sia lo scopo perseguito dall’agente”;
  • se il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni debba essere qualificato come reato comune o di mano propria e, quindi, se e in che termini sia ammissibile il concorso del terzo non titolare della pretesa giuridicamente tutelabile”.[2]

L’ordinanza di rimessione evidenzia, infatti, l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale in ordine ai rapporti tra i reati di cui agli artt. 393 e 629 c.p., peraltro circoscritto ai casi in cui l’aggressione alla persona è funzionale alla soddisfazione di un diritto tutelabile innanzi all’autorità giudiziaria.

Sul punto, si sono consolidati nel tempo due macro-orientamenti;

  • Il discrimine tra i due reati in questione viene rinvenuto valorizzando le differenze esistenti sotto il profilo della materialità;
  • Il discrimine tra i due reati in questione viene rinvenuto valorizzando le differenze esistenti sotto il profilo dell’elemento psicologico.

Prendendo le mosse dal caso di specie, inoltre, la Seconda Sezione Penale evidenzia un ulteriore contrasto giurisprudenziale avente ad oggetto la configurabilità del concorso di persone nel reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni.

Da ultimo, la giurisprudenza ha, infatti, collocato tale reato nel novero dei cosiddetti reati esclusivi o di mano propria. Pertanto, qualora la condotta tipica fosse posta in essere da un terzo estraneo al rapporto obbligatorio fondato sulla pretesa civilistica asseritamente vantata nei confronti della persona offesa, non potrebbe mai integrare il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, ma soltanto diversa fattispecie.

Al contrario, nell’ipotesi in cui la condotta tipica sia posta in essere da chi intenda “farsi ragione da sé medesimo” sarebbe configurabile il concorso dei terzi estranei alla pretesa civilistica vantata dall’agente nei confronti della persona offesa secondo i dettami di cui all’art. 393 c.p.

Ebbene, il Collegio remittente si dissocia da tale considerazione che ritiene qualificabile il fatto come reato di estorsione ogniqualvolta la condotta violenta venga realizzata da un terzo, anche se su mandato del titolare del diritto. A fondamento di tale assunto, si argomenta affermando che l’art. 393 c.p. indica il soggetto attivo del reato con il termine “chiunque” e ciò comporterebbe la categorizzazione di tale fattispecie nel novero dei reati comuni. Tale considerazione sarebbe, inoltre, avvalorata dal fatto che gli elementi costitutivi del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni non fanno riferimento alla qualifica o alla qualità del soggetto agente.

  1. I reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni: reati esclusivi di mano propria?

Le Sezioni Unite, così adite, hanno deciso di dare inizio alla loro trattazione prendendo le mosse dalla questione riguardante l’individuazione del soggetto attivo dei reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni di cui agli artt. 392 e 393 c.p.

A tal proposito, giova, preliminarmente, ricordare che, come noto, la maggior parte dei reati rientra nella categoria dei reati comuni ovvero quelle fattispecie che possono essere commesse da “chiunque”. Esistono, tuttavia, alcuni reati che possono essere commessi solo da un soggetto che possegga determinate qualità o si trovi in determinate relazioni con altre persone e tali ipotesi sono definite reati propri.

Pertanto, dalle qualità o relazioni richieste per la configurazione del soggetto attivo nel reato proprio dipende la circostanza che il fatto commesso possa costituire un’offesa a un bene giuridico. Il soggetto attivo ha, infatti, un particolare rapporto con il bene giuridico tutelato dalla norma penale, che lo mette nella condizione di essere l’unico a poter arrecare direttamente l’offesa.

Con riferimento, invece, alla natura delle qualità o delle relazioni del soggetto attivo che concorrono a integrare il fatto nei reati propri si rileva che può trattarsi sia di qualità o relazioni di fatto (es. l. 22 Maggio 1978, n. 194, art. 19 co. 3 e 4 - “aborto autoprocuratosi dalla donna oltre i 90 giorni dall’inizio della gravidanza senza osservare le condizioni fissate dalla legge”) sia di qualità o relazioni giuridiche (es. art. 323 c. p. - “abuso d’ufficio”).[3]

A tale riguardo, la Suprema Corte, avvalorando la posizione consolidata da tempo in dottrina, rileva che il soggetto acquisisce la “legittimazione al reato” in quanto la sua particolare qualifica, alternativamente:

  • lo pone in rapporto con il bene protetto, consentendogli di arrecarvi l’offesa incriminata;
  • gli conferisce la possibilità di porre in essere la condotta offensiva incriminata;
  • rende opportuna l’incriminazione di fatti altrimenti non ritenuti meritevoli di pena;
  • limita la meritevolezza di un trattamento sanzionatorio di favore.

Premesso quanto sopra, le Sezioni Unite procedono ad individuare il soggetto attivo nel reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle cose o alle persone, rilevando, in particolare, che nel tempo si sono contrapposti due indirizzi dottrinale sul punto.

Un primo orientamento, più tradizionale e valorizzato nell’ordinanza di rimessione, qualifica i reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni come reati comuni, che possono essere commessi da chiunque agisca come privato e non abbia il possesso del bene conteso. Tale indirizzo rileva, altresì, che insieme a colui che agisce per esercitare un preteso diritto possono concorrere persone che non abbiano alcun preteso diritto da far valere. Costoro, nondimeno, rispondono dello stesso titolo delittuoso, in base alle norme generali sulla compartecipazione criminosa.

Un secondo orientamento, fatto proprio dalla dottrina più recente, considera i reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni quali reati propri. A fondamento di tale definizione, viene posta la ragione che tali delitti possono essere commessi unicamente dal titolare del preteso diritto, dal soggetto che esercita legittimamente in sua vece tale diritto e dal negotiorum gestor. In tal senso si evidenzia, inoltre, che il terzo non titolare del preteso diritto che ne reclami arbitrariamente soddisfazione deve avere un particolare legame con il creditore ed essere assolutamente privo di un interesse proprio; l’agente deve, dunque, comportarsi come se fosse il titolare della situazione giuridica e ne esercitasse le tipiche facoltà.

Orbene, preso atto del contrasto, le Sezioni Unite si sono espresse a favore della natura di reato proprio del delitto di cui all’art. 393 c.p., sull’assunto che lo scopo della norma è quello di impedire la violenta sostituzione dell’attività individuale all’attività degli organi giudiziari, violando così la pubblica pace. L’oggetto di tutela è, dunque, costituito dall’interesse pubblico e, in particolare, nell’interesse dell’autorità giudiziaria all’esercizio esclusivo dei suoi poteri.

Pertanto, tale interesse può essere leso solo dal soggetto che si trova nella condizione di poter far valere una pretesa potenzialmente legittima o presunta tale.

La natura di reato proprio di tale fattispecie si evince, altresì, dal fatto che l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni assume rilevanza penale nell’ipotesi in cui sia commesso con violenza sulle cose o con violenza o minaccia alle persone. Infatti, sia nel caso nel caso in cui si ravvisi la fattispecie di cui all’art. 392 c.p. che quando si versi nell’ipotesi di cui all’art. 393 c.p. l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni è punito meno gravemente rispetto al danneggiamento o alla violenza privata che potrebbero, altresì, ravvisarsi qualora il soggetto attivo non abbia agito con il convincimento di esercitare un diritto. È proprio tale convincimento, infatti, che viene avvertito come socialmente rilevante al punto da erigerlo a motivo di attenuazione della pena.

La Suprema Corte conclude, pertanto, affermando che: “i reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni si caratterizzano, quindi, per il fatto che il soggetto che vanta la titolarità di un preteso diritto, e per tale ragione potrebbe ricorrere al giudice, acquisisce la c.d. legittimazione al reato in quanto la sua qualifica limita la meritevolezza di un trattamento processuale e sanzionatorio indiscutibilmente di favore; detto trattamento di favore non si pone in contrasto con il principio costituzionale di uguaglianza (art. 3 Cost.), trovando ragionevole giustificazione nella tutela di un interesse che lo legittima”.[4]

A ciò deve aggiungersi che la denominazione “chiunque” contenuta all’interno degli artt. 392 e 393 c.p. non è da sola sufficiente ad annoverare tali incriminazioni tra i reati comuni poiché, come la Sezioni Unite ricordano, in numerosi reati pacificamente considerati “propri” il soggetto attivo è indicato con il termine “chiunque” (a titolo di esempio, si veda l’art. 372 c.p. – “falsa testimonianza”). Pertanto, l’indicazione del termine “chiunque” nei reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni definisce, di fatto, solo colui che potrebbe ricorrere al giudice al fine di esercitare un preteso diritto.

Così definiti i reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, il Supremo Consesso si è soffermato sulla questione relativa al fatto che tali delitti siano o meno configurabili come reato proprio esclusivo o reato esclusivo di mano propria.

Sul punto, appare opportuno richiamare le distinzioni già operanti da tempo in dottrina circa la triplice ripartizione tra:

  • reati propri esclusivi o di mano propria: si definiscono in tal modo i reati per i quali la qualifica del soggetto agente determina l’offensività del fatto poiché qualora commesso da un altro soggetto lo stesso fatto sarebbe da considerarsi lecito o inoffensivo;
  • reati propri semiesclusivi: si considerano in tal senso i reati per i quali la qualifica del soggetto agente determina la specificazione dell’offensività del fatto, per cui quest’ultimo, commesso da un altro soggetto, configurerebbe un reato comune;
  • reati propri non esclusivi: si determinano così i reati nei quali la qualifica del soggetto agente non determina l’offensività del fatto; gli stessi, commessi da un altro soggetto, costituirebbero un illecito extrapenale.[5]

Con specifico riferimento ai reati di cui agli artt. 392 e 393 c.p., l’orientamento consolidato della Corte di Cassazione era quello di considerarli reati propri esclusivi, o di mano propria, sulla base del fatto che la condotta tipica dovesse essere posta in essere dal soggetto qualificato e che, pertanto, non potesse essere tollerata l’intromissione di un terzo estraneo che si sostituisca allo Stato esercitando l’amministrazione della giustizia.[6] Sulla scia di quanto consolidato in giurisprudenza, la dottrina ha da sempre considerato in modo pleonastico il riferimento normativo al fatto di “farsi ragione da sé” attribuendo a tale determinazione il significato di realizzazione dello scopo al cui soddisfacimento è preordinato il diritto che si vanta. Un indirizzo dottrinale più recente ha, invece, considerato tale definizione in un’ottica oggettivistica, collegando ad essa la materialità dei reati, evocando o l’arbitraria realizzazione di una situazione di fatto corrispondente al preteso diritto oppure l’impiego della forza privata per realizzare la pretesa.

Le Sezioni Unite, nell’affrontare le questioni loro sottoposte, hanno ritenuto di doversi distaccare dall’orientamento giurisprudenziale precedente. In particolare, ricostruendo la genesi dell’espressione “farsi ragione da sé” a partire dal codice Zanardelli del 1889, che richiamava il concetto di “ragion fattasi” di cui all’art. 146 del codice toscano del 1853 – secondo il quale tale assunto descriveva la situazione di colui crede di avere una pretesa giuridica e sostituisce la sua forza al potere del giudice – si conclude propendendo per il carattere chiaramente pleonastico di tale determinazione.

A sostegno di tali considerazioni si pone lo studio dei lavori preparatori al codice penale del 1889 e a quello del 1930, che nulla rilevano circa l’attribuzione di un differente significato all’espressione “farsi ragione da sé”. Una simile conclusione, non può, pertanto, permettere di porre il concetto in questione a fondamento delle argomentazioni in ordine alla natura giuridica di reati propri esclusivi, o di mano propria, dei reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni.

  1. Il controverso rapporto tra l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni e l’estorsione

Così ricostruita la natura giuridica dei reati de quibus, il Supremo Organo si concentra sulla questione relativa ai rapporti tra il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone e quello di estorsione.

In dottrina e giurisprudenza si sono delineati, sul punto, due orientamenti contrapposti.

Secondo un primo indirizzo, il criterio differenziale tra il reato di cui all’art. 393 c.p. e quello di cui all’art. 629 c.p. consiste nell’elemento intenzionale poiché nel primo il soggetto agente è mosso dalla volontà di conseguire un’utilità utile che gli spetta senza adire l’Autorità giudiziaria, mentre, nel secondo caso, la volontà dell’agente è quella di procurarsi un ingiusto profitto.

Sulla scia di questo orientamento, la Suprema Corte ha, in epoca successiva[7], distinto i due delitti in considerazione dell’elemento psicologico ove, “nel primo, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella convinzione ragionevole, anche se in ipotesi infondata, di esercitare un suo diritto giudizialmente azionabile; nell’estorsione, invece, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella consapevolezza di non averne diritto”.[8]

Un secondo orientamento[9] ritiene, invece, opportuno valorizzare la materialità del fatto poiché nel reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni la condotta violenta o minacciosa non è fine a sé stessa, ma, invero, legata alla finalità di far valere il preteso diritto. In questo caso, quindi, la violenza o minaccia si pongono come elementi accidentali al fine, per cui non possono mai consistere in manifestazioni sproporzionate e gratuite di violenza. Pertanto, tale indirizzo esplicita che “quando la minaccia o la violenza si estrinsechino in forme di forza intimidatoria e sistematica pervicacia tali da eccedere ogni ragionevole intento di far valere un diritto, la coartazione dell’altrui volontà è finalizzata a conseguire un profitto che assume ex se i caratteri dell’ingiustizia ed, in determinate circostanze e situazioni, anche la minaccia dell’esercizio di un diritto, di per sé ingiusta, può diventare tale, se le modalità in cui essa risulti formulata denotino una prava volontà ricattatoria che le facciano assumere connotazioni estorsive”.[10]

All’interno di quest’ultimo filone è, altresì, ravvisabile un sottorientamento per il quale si configurerebbe il delitto di estorsione quando la condotta minacciosa o violenta, anche se finalizzata al soddisfacimento di un preteso diritto, si estrinsechi nella costrizione della vittima annullando la sua capacità volitiva. Al contrario, si verserebbe nell’ipotesi di esercizio arbitrario delle proprie ragioni qualora un diritto giudizialmente azionabile venisse soddisfatto attraverso attività violente o minatorie che non abbiano i caratteri costrizione, ma siano piuttosto riconducibili alla persuasione.

L’opinione dottrinale certamente prevalente è quella per la quale le due fattispecie si distinguono in base al fine perseguito dall’agente.

A seguito dell’analisi dei vari indirizzi emersi in dottrina e giurisprudenza, la Corte di Cassazione ha deciso, con la sentenza in commento, di aderire all’orientamento per il quale il reato di cui all’art. 393 c.p. e quello di cui all’art. 629 c.p. si differenziano in relazione all’elemento psicologico.

La materialità dei reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e di estorsione non appare, infatti, esattamente sovrapponibile.

Si arriva a tale conclusione ritenendo che solo ai fini dell’integrazione del reato di estorsione è normativamente richiesto il verificarsi di un effetto di “costrizione” della vittima, conseguente alla violenza o minaccia. L’evento psicologico di “costrizione” deve essere causato direttamente dalla condotta del soggetto attivo del reato; qualora, infatti, l’effetto di coazione trovasse nell’azione o nell’omissione dell’autore solo uno dei tanti antecedenti non potrebbe mai parlarsi di estorsione.

Il Collegio rileva, inoltre, che il riferimento all’effetto “costrittivo” della condotta appare, nella sistematica codicistica, piuttosto finalizzato a distinguere il reato di estorsione da quello di rapina.

In particolare, si evidenzia che “ai fini della distinzione tra i reati di cui agli artt. 393 e 629 c.p. assume, pertanto, decisivo rilievo l’esistenza o meno di una pretesa in astratto ragionevolmente suscettibile di essere giudizialmente tutelata: nel primo, il soggetto agisce con la coscienza e la volontà di attuare un proprio diritto, a nulla rilevando che il diritto stesso sussista o non sussista, purché l’agente, in buona fede e ragionevolmente, ritenga di poterlo legittimamente realizzare; nell’estorsione, invece, l’agente non si rappresenta, quale impulso del suo operare, alcuna facoltà di agire in astratto legittima, ma tende all’ottenimento dell’evento di profitto mosso dal solo fine di compiere un atto che sa essere contra ius, perché privo di giuridica legittimazione, per conseguire un profitto che sa non spettargli”.[11]

Giunti a tali conclusioni, i giudici di Cassazione rappresentano, da ultimo, che per accertare l’elemento psicologico del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone e quello di estorsione devono essere utilizzate le ordinarie regole probatorie. Procedendo, quindi, in tal senso sarà possibile riconoscere la valenza di elemento sintomatico del dolo di estorsione alla “speciale veemenza del comportamento violento o minaccioso” del soggetto agente.

Alla luce della predetta considerazione, viene, inoltre, affrontata la questione satellite dell’applicabilità o meno dell’aggravante del metodo mafioso di cui all’art. 416-bis 1c. 1 c.p. In materia, si è, nel tempo, radicato un orientamento per il quale dovesse sempre ravvisarsi la fattispecie di estorsione aggravata dal c.d. “metodo mafioso” nel caso in cui la minaccia e la violenza perpetrate a danno di un debitore da parte del presunto creditore o di un correo fossero effettuate invocando l’appartenenza ad un’organizzazione malavitosa di tipo mafioso.

Nondimeno, la Suprema Corte si discosta da tale assunto poiché la formulazione dell’art. 416-bis 1c. 1 c.p. non esclude di per sé la compatibilità con il reato di cui all’art. 393 c.p. e, dunque, al massimo sarà possibile valorizzare il c.d. “metodo mafioso” quale elemento sintomatico del dolo di estorsione insieme ad altri elementi caratterizzanti una simile volontà.

  1. Il concorso dell’extraneus nel delitto di cui all’art. 393 c.p.

All’esito di quanto convenuto in ordine alle prime due questioni affrontate, le Sezioni Unite giungono ad analizzare un terzo tema controverso, relativo alle connotazioni del concorso di persone nei reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e di estorsione.

A tal riguardo, è stata sancita in sentenza l’adesione all’orientamento tradizionale della giurisprudenza cassazionista, ritenendo che risulta determinante il fatto che i terzi concorrenti del preteso creditore abbiano, o meno, perseguito un interesse proprio.

Pertanto, qualora i concorrenti (creditore compreso) abbiano perseguito un interesse proprio risponderanno di concorso in estorsione; al contrario, nell’ipotesi in cui gli stessi abbiano perseguito proprio e soltanto l’interesse del creditore, nei limiti in cui esso sarebbe stato in astratto giudizialmente tutelabile, tutti risponderanno di concorso in esercizio arbitrario delle proprie ragioni.

  1. Conclusioni

Le Sezioni Unite si sono spinte ben oltre le questioni dubbie riassunte in premessa e sono giunte a ritenere il concorso tra le fattispecie di cui agli artt. 392, 393 e 629 c.p. come più apparente che formale.

Nell’operazione di discernimento, il Supremo Consesso non ha solo fornito agli operatori del diritto gli strumenti per distinguere tali fattispecie, ma ha, altresì, definito le basi di qualsivoglia valutazione giuridica in merito alla natura dei reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e alla possibilità di un eventuale concorso dell’extraneus negli stessi.

 

NOTE:

[1] Cass. Pen. S.U., 23 ottobre 2020, n. 29541, pp. 33-34

[2] Cass. Pen., Sez. II., ord. 25 settembre 2019, n.50696 p.5

[3] MARINUCCI – DOLCINI, Manuale di Diritto Penale, Parte Generale, Milano, 2017, pp. 232-233

[4] Cass. Pen. S.U., 23 ottobre 2020, n. 29541 p.12

[5] GAROFOLI, Manuale di Diritto Penale, Parte Generale, 2016/2017, Roma, p. 470

[6] Sul punto, Cass. Pen. Sez. II, 28 giugno 2016, n. 46288

[7] Ex multis, Cass. Pen., Sez. II, 4 dicembre 2013, n. 51433

[8] Cass. Pen. S.U., 23 ottobre 2020, n. 29541 p.16

[9] Tra le varie, v. Cass. Pen., Sez. VI, 25 marzo 2015, n. 17785

[10] Cass. Pen. S.U., 23 ottobre 2020, n. 29541 p.17

[11] Cass. Pen. S.U., 23 ottobre 2020, n. 29541 p. 23