Ultimissime

Indennità di trasferta per i magistrati ordinari in servizio presso l’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione.
Consiglio di Stato, Sez. V, sent. del 16 marzo 2020, n. 1896.
I magistrati ordinari in servizio, in qualità di vincitori di concorso, presso l’Ufficio del Massimario e del Ruolo della Corte di Cassazione con funzioni di “assistente di studio” non hanno diritto all’indennità di trasferta, prevista dall’art. 3, comma 79, l. 24 dicembre 2003, n. 350 per i magistrati “che esercitano effettive funzioni di legittimità presso la Corte di Cassazione e la relativa Procura Generale” nel caso di residenza fuori dal distretto della Corte d’appello di Roma (1).
1) Ha ricordato la Sezione che l’art. 79, comma 3, l. 24 dicembre 2003, n. 350, prevede, ai fini del riconoscimento del diritto a percepire l’indennità di trasferta, due condizioni, e cioè: a) l’esercizio “effettivo delle funzioni di legittimità” presso la Corte di Cassazione e la relativa Procura generale; b) la residenza fuori del distretto della Corte d’appello di Roma.
Per definire il requisito sub a) (cioè l’esercizio effettivo di funzioni di legittimità presso la Cassazione e la relativa Procura generale) occorre riferirsi alle previsioni dell’art. 65, comma 1, r.d. 30 gennaio 1941, n. 12 e dell’art. 10, comma 6, d.lgs. 5 aprile 2006, n. 160.
Il primo stabilisce che “La Corte Suprema di Cassazione, quale organo supremo della giustizia, assicura l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni; regola i conflitti di competenza e di attribuzione ed adempie gli altri compiti ad essa conferiti dalla legge”; il secondo dichiara che “Le funzioni giudicanti di legittimità sono quelle di consigliere presso la Corte di cassazione; le funzioni requirenti di legittimità sono quelle di sostituto procuratore generale presso la Corte di cassazione”).
Dal coacervo di tali disposizioni si ricava che le “funzioni di legittimità” sono quelle svolte dai magistrati presso la Corte di Cassazione, che si compendiano nella specifica attività rivolta a garantire “l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni”, a regolare “i conflitti di competenza e di attribuzione” e ad adempiere tutti gli altri compiti attribuiti dalla legge all’ufficio giudiziario della Corte di Cassazione.
L’effettività di tali funzioni ne implica il concreto svolgimento e che non ricorra una causa di temporanea sospensione dal loro esercizio (Cons. Stato, sez. IV, 7 dicembre 2006, n. 7210).
Gli “assistenti di studio” non compongono il collegio chiamato a decidere la controversia e non possono partecipare in alcun modo alla formazione della volontà della decisione, limitandosi piuttosto a svolgere un’attività (sia pur di particolare rilevanza) preparatoria e preliminare alla decisione giudiziale in senso stretto ed alla quale non prendono parte: essi pertanto non svolgono alcuna attività di jus dicere.
L’attività di “assistenza di studio” costituisce piena attuazione dei compiti propri dei magistrati addetti all’Ufficio del massimario e del ruolo della Corte di Cassazione che, come avviene mediante la redazione delle “massime”, sono d’ausilio e supporto all’esercizio della funzione giurisdizionale: non vale a farla qualificare diversamente o addirittura a mutarne la natura giuridica il mero fatto che essa sia svolta direttamente presso - e a servizio di - una specifica sezione giudicante della Corte di Cassazione.
Non conduce a conclusioni diverse la circostanza che detti assistenti, nel periodo di svolgimento dell’attività, non si limitino a redigere le relazioni preliminari con il contenuto indicato dalla delibera del CSM, ma di aver anche predisposto veri e propri “schemi di sentenze”, che, deliberati ed approvati dal collegio giudicante, sono divenuti, poi, il testo ufficiale e definitivo della sentenza (circostanza ulteriormente comprovata dal fatto, attestato da apposita produzione documentale, che tali sentenze siano state accompagnate dalla dicitura“redatta con la
collaborazione dell’assistente di studio”, che darebbe conto dell’effettivo svolgimento della funzione propria del magistrato giudicante e quindi di quella di legittimità).
Sul punto è sufficiente osservare che lo “schema di sentenza” è solo una modalità, alternativa alla “relazione preliminare”, che dà conto dell’attività di studio e approfondimento della causa.
Il fatto che il contenuto della bozza sia più o meno integralmente trasfuso nel testo della sentenza non qualifica il redattore come un decisore: il trasferimento del contenuto della bozza nella sentenza non è l’effetto di una mera attività formale e materiale, ma implica un momento volitivo - la decisione - alla quale il redattore della bozza è assolutamente estraneo non solo in punto di fatto, ma anche dal punto di vista giuridico perché egli non fa (e non può far) parte del collegio giudicante.
Insomma è solo l’approvazione del collegio che trasforma lo “schema di sentenza” in “sentenza”, ovvero l’attività preparatoria in attività decisoria; per di più quell’approvazione è l’in sé della funzione di ius dicere e ad essa non è immediatamente riferibile l’attività preliminare e preparatoria dell’assistente di studio.