ISSN 2039 - 6937  Registrata presso il Tribunale di Catania
Anno XVI - n. 04 - Aprile 2024

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Il Consiglio di Stato si esprime sulla natura dell'atto plurimo e sul sindacato giurisdizionale del giudice amministrativo.

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Consiglio di Stato, Sez. II, sent. del 4 aprile 2024 n. 3105.

L’atto a contenuto plurimo si caratterizza per la concentrazione delle finalità che normalmente connotano atti distinti in un unico contesto, spesso anche motivazionale, giusta la stretta interconnessione e talvolta conseguenzialità, fra le (diverse) scelte operate dall’Amministrazione. Esso non necessariamente ha anche una pluralità di destinatari, come avviene invece per l’atto plurimo stricto sensu inteso, ove la pluralità dei provvedimenti nasce dalla loro omogeneità di contenuto, che ne rende inutilmente dispendiosa la moltiplicazione in ragione del numero dei soggetti nella cui sfera giuridica si va ad incidere. Tale fattispecie, come noto, è stata oggetto di approfondimento in giurisprudenza in particolare con riferimento agli effetti di un possibile annullamento giurisdizionale, per regola efficace solo nei confronti di coloro che hanno impugnato l’atto, che può essere scomposto in tanti provvedimenti individuali quanti ne sono i destinatari (Cons. Stato, sez. V, 10 settembre 2014, n. 4587).

Va evidenziato come non sussista alcuna pregiudiziale sistematica alla legittimità della confluenza in un unico provvedimento di scelte normalmente riconducibili ad atti distinti. È indubbio infatti che l’ordinamento contempli la categoria degli atti a contenuto plurimo, caratterizzati da un’unitarietà solo formale, non anche sostanziale, essi pure scindibili in molteplici atti, ma diversi per oggetto, e non in relazione ai soggetti cui si rivolgono (cfr. Cons. Stato, sez. II, 28 agosto 2020, n. 5288). Una simile esplicazione dell’agire amministrativo risponde del resto quanto meno astrattamente, ai fondamentali canoni di economicità e di efficacia di cui all’art. 1, comma 1, della l. 7 agosto 1990, n. 241, potendosi per tal via – analogamente a quanto avviene attraverso la conferenza di servizi – tramite unico ed organico atto sintetizzare valutazioni e incidere su situazioni tra loro funzionalmente intrecciate, ancorché teleologicamente distinte. Ciò soprattutto quando i profili valutativi in gioco si trovino in stretta interrelazione reciproca, tale per cui l’incidenza positiva o negativa dell’uno si rifletta inevitabilmente sull’apprezzamento dell’altro.

Le considerazioni svolte non possono non valere anche in relazione all’esercizio del potere di autotutela. Il principio generale della libertà di forma, infatti, in mancanza di una norma che imponga espressamente l’adozione di tanti provvedimenti di annullamento quante sono le determinazioni da porre nel nulla, non osta a che tale potere sia esercitato con un unico atto a contenuto plurimo; pertanto, è astrattamente legittimo il provvedimento che dispone l’annullamento d’ufficio di più titoli riferiti ai medesimi soggetti.

Né si può dire che l’atto a contenuto plurimo, proprio in quanto contiene più atti, viola i principi di nominatività e tipicità dei poteri e dei provvedimenti amministrativi, che comunque non impongono di scindere necessariamente il contenuto di ciascuno di essi. Quanto detto purché evidentemente esso sia fondato su una completa ponderazione di tutti gli interessi pubblici emergenti e sia presidiato da tutte le forme e le garanzie procedimentali previste dalla legge in relazione alle sue singole componenti.

L’atto a contenuto plurimo, che per lo più ha un unico destinatario (nel caso di specie, due, in ragione della condivisa qualifica di proprietari delle strutture), prima ancora che nelle sue specifiche disposizioni, deve essere esaminato nella sua declinazione contestuale.

Con riferimento allo stesso, il giudice amministrativo, nell’esercizio del sindacato giurisdizionale, è quindi chiamato ad assumere quale oggetto la valutazione in termini concreti della coesistenza di tali molteplici e distinti atti nel provvedimento che li compendia, ovvero la possibilità che ciascuna delle determinazioni assunte dall’Amministrazione conservi, pur se inserita in un unico contenitore, l’idoneità ad esplicare la finalità che vi è sottesa, ex se e in relazione con le altre, ai cui contenuti non può attingere, a fortiori quante volte le stesse risultino eterogenee nei presupposti. In altre parole, egli deve quindi innanzi tutto esprimersi sulla compatibilità della compresenza di ogni singolo atto in quello che li riunisce e solo successivamente sulla correttezza di ciascuno di essi in relazione alla mantenuta possibilità di esplicare le proprie potenzialità, senza doverle obbligatoriamente ricavare dai contenuti degli altri.

Tale compatibilità deve essere apprezzata anche con riferimento al principio della necessaria chiarezza e intellegibilità degli atti amministrativi, che trova nel combinato disposto in particolare degli artt. 1, che richiede la trasparenza dell’agire amministrativo, oltre che la sua economicità e efficacia, e 3, sull’obbligo di motivazione, della l. n. 241 del 1990, la sua espressione più tipica. A tale proposito, va altresì ricordato come con l’art. 12, comma 1, lett. 0a), della l. n. 120 del 2020, il richiamato art. 1 della l. n. 241 del 1990 è stato implementato del comma 2-bis al fine di arricchire in maniera espressa l’ordinamento di una norma di principio che vuole i rapporti tra il cittadino e la pubblica amministrazione improntati ai princìpi della collaborazione e della buona fede. La disposizione, evidentemente inapplicabile ratione temporis, non può non ispirare la lettura della precedente cornice giuridica, avendo dato continuità al consolidato e preesistente canone giurisprudenziale per cui la tutela dell’affidamento e il principio della buona fede in via generale devono essere osservati anche dalla P.A. (Cons. Stato, Ad. Plen., 30 agosto 2018, n. 12).

L’applicazione del principio di trasparenza, quale strumento di verifica del rispetto dell’obbligo di motivazione, impone all’Amministrazione di rendere una pronuncia non solo espressa (ex art. 2 della l. n. 241 del 1990) e motivata, ma anche conoscibile, ovvero, in un’accezione più caratterizzante, comprensibile, sia per il suo contenuto (positivo o negativo), che in relazione alle ragioni che lo hanno determinato. Il che non si risolve certo in un obbligo di motivazione integrale, ma di clare loqui, rispettato anche laddove vengano messi in evidenza i motivi autosufficienti considerati più significativi, purché ne risulti, appunto, accessibile la portata dispositiva (cfr. ex plurimis Cons. Stato, sez. V, 3 giugno 2010, n. 3487).

Quanto più numeroso e variegato è il contenuto di un provvedimento, tanto maggiore deve essere lo sforzo di renderlo intellegibile al destinatario, rifuggendo da semplicistici raggruppamenti motivazionali che finiscono per operare un’indebita commistione osmotica tra le differenti decisioni adottate, seppure esplicitate in un atto formalmente unico.