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Anno XVI - n. 04 - Aprile 2024

  Temi e Dibattiti



La discrezionalità tecnica della PA: evoluzione storica e avvento della sindacabilità giurisdizionale alla luce del passaggio dallo Stato autoritario allo Stato di diritto.

Di Chiara Andreini
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La discrezionalità tecnica della PA: evoluzione storica e avvento della sindacabilità giurisdizionale alla luce del passaggio dallo Stato autoritario allo Stato di diritto.

 

Di Chiara Andreini*

Abstract

Fra i temi che hanno più affascinato e affaticato la dottrina e la giurisprudenza in ambito amministrativo vi è, senza alcun dubbio, il tema relativo alla natura e ai limiti di sindacabilità delle attività tecniche della pubblica amministrazione, attività a cui ci si suole riferire con il termine “discrezionalità tecnica”. È la stessa vivacità del dibattito a dimostrare l’importanza cruciale del tema, posto che l’analisi dei limiti del sindacato del giudice amministrativo sulle attività tecnico-discrezionali della p.a. non è una questione evanescente, ma coinvolge le questioni fondamentali di tutto il diritto amministrativo. Per certi versi potrebbe addirittura dirsi che la questione rappresenta l’essenza stessa del diritto amministrativo, in quanto è esemplificativa di una questione essenziale, quella del rapporto fra Stato-potere e cittadini. In questo senso, l’approfondimento della discrezionalità tecnica non può prescindere da una disamina storica. Nel secolo scorso, quando in Italia vigeva lo Stato-totalitario, l’attività della PA non era sottoposta a limiti e al giudice amministrativo non era riconosciuto il potere di pronunciarsi sulle scelte della PA. Il rigido principio di “riserva di amministrazione” è andato affievolendosi nel corso del tempo, a favore della nuova forma di Stato liberal-democratica in ragione della quale si è trasformato il ruolo della pubblica amministrazione ed è mutato, di conseguenza, il livello di tutela offerto ai consociati e quindi il ruolo di controllo del giudice amministrativo.

 

Among the topics that have most fascinated and fatigued doctrine and jurisprudence in the administrative sphere is, without a doubt, the issue relating to the nature and limits of the public administration's technical activities, activities that are usually referred to by the term 'technical discretion'. It is the very liveliness of the debate that demonstrates the crucial importance of the topic, given that the analysis of the limits of the administrative judge's review of the technical- discretionary activities of the public administration is not an evanescent issue, but involves the fundamental points of debate of all administrative law. In some ways, it could even be said that the issue represents the very essence of administrative law, as it exemplifies an essential question, that of the relationship between State-power and citizens. In this sense, an in-depth examination of technical discretion cannot be separated from a historical examination. In the last century, when the totalitarian State was in force in Italy, the PA's activity was not subject to limits and the administrative judge was not recognised as having the power to pronounce on the PA's choices. The rigid principle of 'reservation of administration' faded over time, in favour of the new liberal- democratic form of State, as a result of which the role of the public administration was transformed and, consequently, the level of protection offered to citizens and, therefore, the supervisory role of the administrative judge changed.

 

  1. CONNESSIONE FRA PRINCIPIO DI LEGALITA’ E DISCREZIONALITA’.

Prima di affrontare il cruciale e complesso tema della discrezionalità amministrativa, occorre quantomeno accennare al principio di legalità in ambito amministrativo e alle evoluzioni che hanno caratterizzato tale principio nel corso del tempo. Infatti, che tutta l’attività della pubblica

 amministrazione sia subordinata ai dettami della legge, è oggi un’affermazione laconica e che racchiude in sé uno degli assi portanti del diritto amministrativo moderno.

Il diritto amministrativo, perlomeno nel modo in cui lo intendiamo oggi, non può esistere senza che sia riconosciuto un rapporto di necessaria conseguenza fra l’esercizio del potere e la legge[1]. In passato, tale principio, pur essendo teorizzato, era ridotto ad un mero simulacro formale ed era quindi privo di effetti concreti. La ragione si rinveniva nel fatto che il fondamento del potere amministrativo non era altro che la naturale e necessaria superiorità dell’interesse pubblico, finalità che giustificava l’assenza di eccessivi vincoli e limiti, compresi quelli legali. In questo senso, al riconoscimento in capo alla PA di una funzione di cura dell’interesse pubblico non sono state corrispondentemente riconosciute effettive ed adeguate garanzie in capo ai soggetti amministrati[2]. I rapporti fra PA e cittadino cominciano a subire un mutamento nel corso del 1800, in ragione del delinearsi di un nuovo assetto statale nell’ambito del quale l’individuo viene visto non più come suddito, ma come individuo e, soprattutto, cittadino. È proprio a partire da questo periodo storico che il principio di legalità comincia ad assumere un ruolo autentico, non solo quale strumento di organizzazione della funzionalità della macchina amministrativa, ma come specifica tutela delle libertà e diritti del cittadino[3]. Grazie al riconoscimento del principio di legalità avviene che, accanto all’espansione delle funzioni della PA, che è chiamata a pronunciarsi in situazioni sempre più complesse al fine di gestire gli interessi della comunità tutta[4], emerge la forte esigenza di protezione delle situazioni giuridiche degli individui “colpiti” da tale potestà[5].  Sul piano operativo tale esigenza si manifesta subordinando l’attività amministrativa al più rigido rispetto di specifiche disposizioni di legge, le quali individuano sia i soggetti deputati all’esercizio del potere, sia il fine pubblico perseguito, sia i presupposti e requisiti dell’attività che dev’essere svolta[6]. Ebbene, il legislatore, proprio nel fissare i limiti positivi dell’attività amministrativa, ha la facoltà di modulare il margine di apprezzamento della PA decidendone l’ampiezza: è proprio in base a tale ampiezza che l’attività viene definitiva vincolata o discrezionale. Anzitutto, quando parliamo di attività amministrativa vincolata, ci riferiamo a quella situazione che si configura nel caso in cui la legge attributiva del potere è una legge dettagliata, che stabilisce ex ante presupposti ed effetti del potere. In questo modo, la legge non concede alcuno spazio di manovra alla PA, ma solo una concreta verifica dei presupposti di fatto, a cui consegue l’emissione del provvedimento indicato. I casi in cui la PA esercita un’attività di tipi vincolato sono, in effetti, molto rari. Di attività vincolata si parla, per esempio, in merito alla verifica dei presupposti in capo ad un soggetto al fine dell’iscrizione ad un albo professionale. Infatti, quando l’amministrazione deve procedere all’iscrizione ad un albo professionale non deve compiere alcuna valutazione discrezionale, ma deve limitarsi ad eseguire regole predeterminate dalla legge, che indicano quali sono le condizioni necessarie affinchè l’iscrizione possa avvenire. In questo senso, al verificarsi di alcuni presupposti individuati ex lege, l’amministrazione è vincolata ad emanare un determinato provvedimento amministrativo. Ciò detto, se si volesse seguire un’interpretazione del principio di legalità in senso “forte”, sarebbe auspicabile la presenza di una legge che indichi sempre in modo puntuale i caratteri e i limiti del potere amministrativo; quindi, sarebbe preferibile un potere sempre vincolato. Eppure, la pretesa di una legge rigida e puntuale che sia in grado di prevedere ogni circostanza e quindi ogni presupposto sulla base del quale l’amministrazione dovrebbe comportarsi, oltre che essere materialmente impossibile in un contesto economico-sociale complesso come è certamente quello vigente, non è affatto augurabile. Gli effetti negativi sarebbero molteplici, fra questi una “sclerotizzazione” dell’attività legislativa che priverebbe la PA di necessaria flessibilità, caratteristica che consente all’Amministrazione di manifestare il proprio potere adeguandolo alle circostanze di volta in volta da considerare. È proprio per questa ragione che il legislatore non concede alla PA un potere sempre uguale e vincolato, ma talvolta le concede la possibilità di valutare in maniera autonoma, in base alle opportunità e le circostanze, le migliori modalità di espressione ed attuazione di quel potere. Si parla, in questo senso, di discrezionalità amministrativa, che può essere definita come la facoltà delle pubbliche amministrazioni, nel rispetto dei limiti generali fissati dalla legge, di compiere scelte che siano le più idonee a realizzare l’interesse pubblico specifico di cui sono portatrici[7]. Ciò detto, l’attività discrezionale non dev’essere vista come un’eccezione, anzi, l’attività amministrativa è per sua stessa natura discrezionale[8]. Infatti, affinchè la PA ponga in essere l’attività di cura dell’interesse pubblico che le è propria, deve necessariamente essere concessa la libertà di individuare la scelta più utile al raggiungimento degli scopi individuati dalla legge. In altre parole, essendo la pubblica amministrazione deputata alla cura degli interessi pubblici, la sua essenza emerge indubbiamente nei casi in cui la legge le concede facoltà di esprimere tale migliore scelta; per converso l’attività vincolata è insignificante nel fare emergere il ruolo di cura dell’interesse pubblico. In effetti, proprio in base a questo ragionamento, alcuni in dottrina hanno sostenuto che l’atto vincolato sarebbe “avulso dal potere” e pertanto non collocabile entro l’attività amministrativa. Secondo questi orientamenti sarebbe, piuttosto, un mero atto di “ricognizione”[9]. Invece, l’attività amministrativa si rappresenta pienamente attraverso la discrezionalità, attraverso cui la PA compie un’attività di bilanciamento di tutti gli interessi in gioco. La cura dell’interesse pubblico non è, infatti, l’unico obiettivo di cui la PA deve avere contezza, ma questo deve necessariamente bilanciarsi con interessi secondari, appartenenti a privati o agli apparati di altre pubbliche amministrazioni e spesso contrastanti all’interesse pubblico. Ebbene, dalla realizzazione di tale bilanciamento emerge la scelta ritenuta dalla PA “migliore”, ossia quella grazie alla quale si raggiunge l’interesse primario con il minor sacrificio degli interessi secondari contrapposti (si parla, in questo senso, di principio del minor prezzo)[10]. Questo bilanciamento viene posto in essere entro il contesto naturale in cui si colloca il potere amministrativo, ossia quello del procedimento amministrativo che termina con l’adozione dell’atto finale: il provvedimento. La pubblica amministrazione, infatti, all’interno del procedimento assume tutti gli interessi dei soggetti interessati, ne approfondisce e valuta la portata e solo dopo avere compiuto un’attenta ponderazione emana il provvedimento finale all’interno del quale si trova il risultato ultimo di quella ponderazione[11]. Chiaramente, quando l’amministrazione svolge attività discrezionale non è possibile che ci sia sindacato giurisdizionale riguardo alla scelta di merito effettuata. Infatti, se al giudice venisse riconosciuto il potere di sindacare il merito, quindi di imporre un’altra opzione ritenuta più conveniente ed opportuna rispetto a quella scelta, il concetto di discrezionalità diverrebbe un guscio vuoto. Ad essere certamente suscettibile al sindacato giurisdizionale è, invece, l’attività amministrativa illegittima, ossia l’attività in contrasto alle regole stabilite per l’esercizio del potere e quelle scaturenti dai parametri dell’ordinamento[12]. In definitiva, l’unico caso in cui l’attività di discrezionalità amministrativa è sindacabile è quello dell’inosservanza dei parametri legali, che fa configurare un’ipotesi di violazione di legge in grado di viziare il provvedimento emanato. Invece, nel caso in cui la PA abbia assunto una decisione legittima, non le potrà essere rimproverato di avere fatto una scelta semplicemente inopportuna e meno conveniente rispetto ad un’altra. Ciò assodato, è necessario sottolineare che a partire dagli anni ’90 il legislatore ha deciso di introdurre dei criteri generali a cui l’amministrazione dovrebbe fare riferimento nell’esercizio della sua discrezionalità: si parla dell’efficacia, efficienza e l’economicità, imparzialità, trasparenza, pubblicità. Questi criteri, che prima erano delle semplici regole meta-giuridiche, sono oggi veri e propri parametri di legittimità, la cui violazione comporta violazione di legge. In tal modo, queste regole sono state sottratte dal merito amministrativo – ambito in cui pertanto non potevano essere sindacate in sede giurisdizionale – ed inserite entro l’ambito di legittimità. Questa tendenza è d’altronde coerente con la progressiva estensione del controllo giurisdizionale nei confronti della PA. Pur riconoscendo un naturale ed ineludibile spazio di discrezionalità amministrativa, infatti, la tutela degli interessi di cui sono portatori i privati risulta essere sempre più centrale; tutto ciò a riprova dello stretto legame, e soprattutto del sempre necessario bilanciamento, fra principio di legalità e concessione della discrezionalità[13].

 

  1. DISCREZIONALITA’ AMMINISTRATIVA E TECNICA: LE PRIME TEORIZZAZIONI DELLA LORO DIVERGENZA.

Prima di definire il concetto di discrezionalità tecnica nell’accezione che la dottrina moderna le attribuisce, risulta interessante fare un generico riferimento ad alcuni orientamenti che si collocano temporalmente nella prima metà del secolo scorso e che in qualche modo si sono rivelati “premonitori” di quelli attuali. In Italia la questione della discrezionalità, pur svolgendosi in contemporanea a Francia e Germania, si è sviluppata in maniera tanto minuziosa da assumere, per certi versi, una funzione risolutiva generale[14]. Occorre affermare che tutte le moderne ricostruzioni del concetto di discrezionalità nella sua accezione generale muovono sostanzialmente dall’opera risalente al 1939 di Giannini, giurista a cui deve riconoscersi la teorizzazione della distinzione fra discrezionalità amministrativa e discrezionalità tecnica[15]. Prima di quel momento, infatti, la discrezionalità tecnica era assimilata in toto al concetto di discrezionalità amministrativa. In sostanza, prima dei suoi studi tutte le posizioni dottrinali si muovevano sul filo della teoria di origine francese, teoria in base alle quali la discrezionalità era un concetto tout court, all’interno del quale convivevano sia quella tecnica, sia quella amministrativa, entrambe definite come libertà di effettuare la scelta più opportuna, migliore. Ebbene Giannini, attraverso un approfondimento che verrà ricordato come “rivoluzione gianniniana”[16] per la sua rilevanza pratica, aprirà per la prima volta una breccia entro questa definizione unitaria e generale. Egli, in particolare, ritenne che mentre nell’esercizio della discrezionalità amministrativa la PA è chiamata a compiere un vero e proprio bilanciamento degli interessi in gioco[17], ciò non accade nell’esercizio della discrezionalità tecnica, in cui la PA si limita all’applicazione di regole di tipo tecnico-professionale. In verità, è necessario sottolineare che, ben prima dell’opera di Giannini, già lo studioso Enrico Presutti si era discostato dagli orientamenti francesi, rilevando già negli anni dieci del ‘900 la presenza di una radicale differenza fra il concetto di discrezionalità tecnica e amministrativa. L’orientamento del Presutti, pur essendo molto antico e pur non arrivando a tutti gli sviluppi a cui solo la dottrina contemporanea è riuscita ad arrivare, rappresenta un’intuizione ancora oggi significativa. In primo luogo, adottando le interpretazioni giunte da alcuni rami della dottrina tedesca, Presutti ritenne che la distinzione fra i due tipi di discrezionalità consisteva nella presenza o meno di una norma regolatrice del potere. Egli, in altre parole, definì la discrezionalità tecnica come un’interpretazione in attuazione della legge: posto che dall’interpretazione del testo normativo è possibile ricavare una valutazione in termini di precisione e di correttezza della fattispecie, per costui la discrezionalità tecnica consisterebbe in questa corretta applicazione[18]. In altre parole, la discrezionalità tecnica sussiste laddove le norme giuridiche prevedono la produzione di effetti in presenza di fatti che possono presentarsi “in misura infinitamente varia”, con minore o maggiore intensità[19]. Ebbene, dopo avere riconosciuto le peculiarità della discrezionalità tecnica rispetto a quella amministrativa, Presutti non si spinse oltre fino a riconoscere la sindacabilità di questo tipo di discrezionalità – punto d’arrivo cui, come vedremo, si giungerà solo in tempi moderni. Al contrario, egli sostenne – attraverso un ragionamento che verrà poi ripreso da alcuni studiosi degli anni ’80 del secolo scorso[20] - che, data la necessaria supremazia del ruolo dell’amministrazione[21], ci dev’essere una drastica insindacabilità degli apprezzamenti svolti dalla PA[22]. In sostanza, dopo avere definito la discrezionalità tecnica “un modo di essere dell’interpretazione, non un procedimento volontario di scelta” egli ne sostenne la natura insindacabile. Questo ragionamento, che pur in prima battuta potrebbe apparire contraddittorio, si spiega per il fatto che l’insindacabilità era sostenuta da Presutti non tanto per ragioni strutturali-ontologiche, quanto piuttosto per ragioni contingentali, quindi storiche. In altre parole, l’insindacabilità sostenuta dal Presutti derivava dalle manifestazioni dello Stato autoritario di quel tempo, tanto che non si dimostrava affatto assoluta, rigida, definitiva, bensì suscettibile di subire modifiche contestualmente alle modifiche dell’assetto dello Stato[23]. Ebbene, è proprio questa l’intuizione di Presutti e di coloro che ne interpretarono gli studi, che riveste ancora oggi una potenza risolutiva: infatti, proprio con l’evoluzione delle forme dello Stato, tale insindacabilità è oggi stata messa definitivamente in discussione.

 

  1. LA DISCREZIONALITA’ TECNICA OGGI.

Premessa questa breve ricostruzione storica, oggi possiamo definire la discrezionalità tecnica come una figura intermedia fra la discrezionalità amministrativa e l’attività vincolata. Pur condividendo con la discrezionalità amministrativa l’appartenenza alla medesima categoria generale – quella di “discrezionalità” – la discrezionalità tecnica è contrassegnata da alcune caratteristiche che la rendono da questa diversa e in qualche modo più “vincolata”. Infatti, nella discrezionalità tecnica la valutazione dei presupposti per il corretto esercizio dell’attività necessitano il ricorso di nozioni scientifiche, o comunque di tipo tecnico-specialistico. In primo luogo la PA è chiamata ad accertare i fatti rilevanti attraverso delle competenze tecniche, ed in secondo luogo ad individuare il parametro normativo che sia coerente con quelle risultanze. Dopo queste operazioni, la PA dovrà procedere all’applicazione del provvedimento[24]. In questo senso, esattamente come aveva delineato anche Giannini, nella discrezionalità tecnica non avviene un bilanciamento degli interessi primari e secondari, ma vi è un giudizio diverso, che si fonda sulla valutazione di regole tecniche e scientifiche. A ben vedere, la PA non ha, quindi, la libertà di scegliere quale sia la soluzione più congrua ed opportuna dal punto di vista degli interessi da perseguire, poiché tale bilanciamento è posto in essere ab origine e contenuto entro regole tecniche che la PA deve applicare. Occorre però sottolineare che la discrezionalità tecnica, proprio in ragione della sua appartenenza all’attività discrezionale, non è completamente sprovvista di una certa dose di percentuale soggettiva-valutativa. In questo senso, deve necessariamente distinguersi dal cd “accertamento tecnico”, intendendosi con questo termine una valutazione che è oggettiva ed automatica e che quindi non fa residuare in capo all’amministrazione alcun tipo di discrezionalità. La collocazione entro i confini dell’accertamento tecnico o quello della discrezionalità amministrativa dipende, in ultima battuta, dal margine di opinabilità delle regole tecniche che devono applicarsi nel caso di specie. Infatti, laddove si tratti di una scienza esatta, che quindi non residua in capo alla PA alcun margine di valutazione, si tratterà di accertamento tecnico. Ci si riferisce, in definitiva, a quei casi in cui il risultato finale secondo le regole scientifiche, o comunque operative della specificità di quel settore, non può essere diverso: lo sono, per esempio, le analisi di laboratorio sulla presenza di alcool della sostanza analizzata, oppure ancora la misurazione dell’area di un fondo da espropriare, la quale non può essere diversa, se non certamente adducendo degli errori materiali nello svolgimento della misurazione. Invece, la discrezionalità tecnica non è l’applicazione di una scienza esatta e completa, nel senso che, pur facendo riferimento a parametri tecnici e subordinati a valutazioni di individui esperti in un certo settore, tali parametri sono comunque dotati di un certo grado di opinabilità[25]. Per questa ragione, l’esercizio della discrezionalità tecnica può fare emergere dei risultati anche diversificati: in questo senso, la valutazione della prova scritta di un concorso pubblico, pur richiedendo ai commissari delle specifiche conoscenze sulle discipline d’esame, può comportare l’attribuzione di un punteggio diverso secondo i parametri soggettivi di ciascuno. Tali valutazioni scientifiche e tecniche non costituiscono, in definitiva, qualcosa di oggettivo ed indiscutibile in quanto strettamente “collegate al progresso tecnologico e alla rapida modificazione della certezza dei connotati tecnici”[26]. Da ultimo, occorre sottolineare che la discrezionalità tecnica trova spazio in due fasi fra loro differenti: quella del giudizio dell’amministrazione, ossia il momento in cui le norme vengono valutate, e quello dell’acquisizione di fatti ed interessi rilevanti all’esercizio del potere. In sostanza, tale discrezionalità è caratterizzata da un primo momento valutativo, basato su parametri e regole scientifiche, a cui fa seguito il momento della scelta; scelta che però non è libera, ma predeterminata dalla legge in base alle risultanze della valutazione iniziale. In definitiva, dopo avere effettuato le sue valutazione tecniche, la legge prevede che la PA assuma un provvedimento amministrativo. È bene specificare che nella maggior parte dei casi la discrezionalità tecnica si presenta in una forma “mista”, ossia coniugando le caratteristiche della discrezionalità tecnica a quelle della discrezionalità amministrativa. In particolare, ciò accade nel caso in cui vi sia una norma che prevede che la PA, dopo avere effettuato valutazioni tecnico-scientifiche, rimanga libera di adottare il provvedimento che ritiene più opportuno. In altre parole, questa discrezionalità è composta da due segmenti ontologicamente diversi e cronologicamente distinti: un segmento valutativo, quindi di discrezionalità tecnica, ed in fine quello decisorio, quindi di discrezionalità amministrativa[27]

 

  1. LA SINDACABILITA’ DELLA DISCREZIONALITA’ TECNICA.

La difficile qualificazione ontologica della discrezionalità tecnica ha comportato difficoltà circa la possibilità di sindacare l’azione amministrativa. Infatti, è dal modo di essere della discrezionalità amministrativa che si può statuire sull’ampiezza del giudicato. Nei primi anni del secolo scorso, ad esclusione di alcuni orientamenti giurisprudenziali eccezionali[28], la giurisprudenza aveva sostenuto l’assoluta insindacabilità della discrezionalità tecnica[29]. La ragione è da rinvenirsi nel fatto che quest’ultima era considerata per lo più coincidente all’area della scelta di merito, pertanto si riteneva che la PA, anche nell’ambito della discrezionalità tecnica, effettuasse la scelta secondo valutazioni di pubblico interesse[30]. Si può quindi affermare che lo stesso giudice era restio a riconoscere un proprio sindacato nei casi di discrezionalità tecnica dell’amministrazione. Questo approccio è risultato granitico fino agli anni ’90[31], periodo a partire dal quale comincia ad esserci una progressiva erosione dell’area strettamente riservata al merito amministrativo. In questo modo, attraverso un’operazione di assimilazione fra il concetto di discrezionalità tecnica e amministrativa, la dottrina maggioritaria si apre ad un’interpretazione più possibilista e si consolidano gli orientamenti che militavano per la sindacabilità, anche se limitatamente ai casi di eccesso di potere[32]. L’assimilazione fra discrezionalità tecnica ed amministrativa aveva trovato un supporto anche da parte della giurisprudenza che, già a partire dagli ultimi anni ‘80[33], pur escludendo la possibilità di un sindacato pieno ed effettivo, ne aveva invece riconosciuto la necessità nei casi di irragionevolezza delle valutazioni tecniche effettuate. D’altronde, questo spiraglio di apertura alla sindacabilità appariva in perfetta aderenza con i nuovi principi su cui tutto il procedimento amministrativo cominciava ad essere imperniato. In quegli stessi anni ‘90, infatti, si assiste ad un progressivo potenziamento delle garanzie e dei diritti del singolo, a cui consegue la necessità di dotare il giudice amministrativo di adeguati poteri di controllo. Questi poteri devono essere finalizzati a far sì che gli apparati amministrativi interpretino ed applichino le regole tecniche conformemente ai criteri di logicità, ragionevolezza congruità e apprezzamento corretto dei fatti. Tale orientamento sarà confermato anche nei primi anni 2000, periodo in cui si consolida ancora di più il principio secondo cui, sebbene insindacabili dal punto di vista giurisdizionale, le valutazioni tecniche sono invece sindacabili quando siano state fatte in modo manifestamente illogico e fondato su insufficienti motivazioni o errori di fatto[34]. Ebbene, gli orientamenti fino qui considerati non sembrano affatto riconoscere le intuizioni gianniniane e prim’ancora presuttiane che, come sopra evidenziato, avevano già all’inizio del secolo scorso sostenuto l’autonomia della discrezionalità tecnica. In verità, che quegli orientamenti fossero una mera eccezione entro il complesso contesto dottrinale e giurisprudenziale del ‘900, non deve affatto stupire. L’orientamento che assimilava discrezionalità tecnica e amministrativa rinveniva la sua ratio entro le fila del principio di “riserva di amministrazione”, a sua volta corollario del più significativo principio di separazione dei poteri. In sostanza, dalla riserva di amministrazione deriverebbe che tutte le attività poste in essere dalla PA sono di competenza esclusiva della stessa, quindi al Giudice è assolutamente precluso sostituirsi all’amministrazione, se non limitatamente ai casi di controllo estrinseco della logicità e ragionevolezza, quindi alle figure di eccesso di potere[35]. Ebbene, la grande maggioranza della giurisprudenza del secolo scorso si è uniformata per tempo a siffatta impostazione, ritenendo necessario limitarsi alla verifica, tutt’al più documentale ed effettuata solo all’esterno, dell’iter logico seguito per l’adozione del provvedimento sottoposto a sindacato. Essendo il controllo limitato alla contraddittorietà motivazionale, all’irragionevolezza del giudizio o all’erroneità dei presupposti fattuali, più in generale ai soli casi in cui tali vizi erano evidenti, gli approfondimenti istruttori effettuati dal Giudice non avrebbero violato la riserva di amministrazione riconosciuta alla PA. Ebbene, non tardarono ad arrivare le critiche a questa impostazione. Anzitutto, ed in generale, l’impostazione dell’insindacabilità non sembrava essere più rappresentativa degli sviluppi democratici della fine del secolo. Infatti, la convinzione in base alla quale la discrezionalità tecnica era una competenza specialistica insindacabile, poggiava sulla convinzione della posizione di supremazia che la PA vantava rispetto al privato[36]. Soprattutto, data la limitazione alla funzione di controllo del giudice amministrativo, alcune contestazioni cominciarono a levarsi in ordine alla violazione del principio di “effettività della tutela”. In sostanza, secondo tale critica una siffatta riserva a favore dell’amministrazione privava il giudice del potere di intervenire nei casi di irragionevolezza, limite che di fatto andava violando il dettato costituzionale[37]. In questo contesto, risulta di particolare rilevanza la pronuncia del Consiglio di Stato 601/1999, che costituisce il primo significativo momento di rottura rispetto all’indirizzo tradizionale circa la sindacabilità solamente estrinseca della discrezionalità tecnica. La Consulta si focalizza sul concetto di “riserva amministrativa” sostenendo che coloro che adoperano questo principio quale limite al sindacato amministrativo, non considerano che tale riserva non può che riguardare i soli casi in cui la PA è chiamata alla valutazione e alla cura dell’interesse pubblico. Ebbene, tale eventualità non si verifica affatto nell’ambito della discrezionalità tecnica. Nell’esercizio delle valutazione tecniche, infatti, la PA non compie un bilanciamento fra interessi, ma svolge delle mere considerazioni di ordine fattuale-tecnico al fine di comprendere quale opzione sia applicabile fra quelle già a monte individuate dal legislatore. In altre parole, quelle valutazioni tecniche non sono affatto valutazioni di opportunità, ossia di merito, quindi ragionevolmente insindacabili. Tutto al contrario, proprio perché vertenti su analisi tecniche e non di mero “merito”, al giudice dovrebbe essere concesso il potere di sindacare le scelte attraverso un controllo diretto dell’attendibilità delle valutazioni effettuate dalla PA. Tale controllo dovrebbe riguardare l’intrinseca correttezza della scelta, naturalmente a condizione che il giudice competente sia munito dei mezzi istruttori sufficienti e di strumenti processuali opportuni per svolgere questo controllo intrinseco. In definitiva, al giudice deve essere permesso non solo il controllo estrinseco-formale, ma la verifica diretta dell’attendibilità delle operazioni tecniche sotto il profilo della correttezza del procedimento applicativo. Non è, quindi, l’opinabilità degli apprezzamenti tecnici dell’amministrazione che ne determina la sostituzione con quelli del giudice, ma la loro inattendibilità per l’insufficienza del criterio o per il vizio del procedimento applicativo[38]. In conclusione, con questa pronuncia viene, per la prima volta, sancita la sindacabilità delle scelte di amministrazione che siano caratterizzate da discrezionalità tecnica. La dottrina ha rilevato che dalla lettura della pronuncia emergerebbe che il potere del giudice può manifestarsi solamente nel caso in cui i criteri applicativi della PA risultino manifestamente inattendibili, e non invece quando l’amministrazione abbia semplicemente ritenuto, correttamente, di aderire ad una delle regole probabilistiche esistenti, seppur non la più opportuna[39]. In ogni caso, proprio a partire dalle contestazioni sviluppatesi in dottrina e giurisprudenza, è sorta la necessità di riconoscere al giudice amministrativo la possibilità di un sindacato effettivo, quindi “intrinseco” sugli atti discrezionali, esattamente come era già previsto in capo al giudice penale e a quello contabile. A poco a poco si è quindi andata realizzando una maggiore aderenza al principio di effettività della tutela giurisdizionale, e a partire dagli anni ’80 si è aderito ad un giudizio più ampio sulle scelte tecnico-valutative effettuate dall’amministrazione[40]. In questo senso diviene del tutto irrilevante che il fatto sia un fatto semplice o un fatto complesso che richiede una valutazione più articolata, poiché si tratta pur sempre di un fatto su cui la PA non ha alcun tipo di “monopolio” nella scelta tecnica, e che può essere sindacato dal giudice amministrativo, che ne può avere una piena conoscenza[41]. A sostegno del pieno accoglimento della teoria della sindacabilità dell’attività discrezionale-tecnica appare opportuno citare l’art. 16 della l. 205/2000, il quale ha aggiunto al comma 1 dell’art. 44 del R.D. n. 1054/1924 le parole “ovvero disporre la consulenza tecnica”. Attraverso l’introduzione di tale strumento processuale, è stato consentito al giudice di verificare l’attendibilità e la correttezza delle valutazioni tecniche la cui assenza, in passato, ha costituito un solido argomento a sostegno dell’inammissibilità del sindacato intrinseco. A ben vedere il riconoscimento di una sindacabilità, in contrapposizione alla convinta idea di insindacabilità sostenuta da Presutti nella sua opera dei primi anni del 1900, non fa altro che confermare quegli orientamenti che avevano descritto la presa di posizione del Presutti non come ontologica, bensì come scelta meramente connessa a contingenze storiche.

 

  1. ESTENSIONE DEL SINDACATO: FRA POTERE SOSTITUTIVO E POTERE DEBOLE.

Una volta riconosciuta la possibilità di esercitare un sindacato sull’attività discrezionale della PA, la giurisprudenza si è interrogata sul tipo di sindacato esercitabile dal giudice amministrativo. In particolare, l’alternativa verteva su un sindacato di tipo forte, quindi sostitutivo dell’attività amministrativa, o un sindacato debole[42]. I sostenitori del sindacato forte sostenevano la possibilità, per il Giudice amministrativo, di eseguire una vera e propria sostituzione tout court del provvedimento amministrativo emanato; ciò anche nel caso di valutazione della PA legittima, ma opinabile[43]. Al contrario, per i fautori del sindacato debole, al giudice amministrativo sarebbe permesso effettuare una mera censura di quelle valutazioni tecniche che appaiono manifestamente inattendibili sul piano metodologico[44].  Ebbene, la prevalente giurisprudenza ha riconosciuto in capo al giudice amministrativo un sindacato di tipo debole, ammettendo così solo la possibilità di verificare il rispetto dei limiti imposti dalla norma attributiva del potere[45]. Per l’effetto, nel caso in cui la valutazione tecnica sia solamente opinabile, il giudice non può in alcun modo sostenere l’illegittimità del provvedimento[46]. Ciò è chiaro in ragione del fatto che non avrebbe alcuna ratio concedere al giudice amministrativo il potere di far prevalere la propria soluzione, ricavata dalla ripetizione della valutazione tecnica (opinabile!), su quella, (altrettanto opinabile!), e non rivelatasi “illegittima”, della pubblica amministrazione, ed annullare per ciò solo il provvedimento. In altre parole, potendo la valutazione svolgersi con modalità diverse, il giudice non può sostituire il proprio criterio a quello adottato dall’Amministrazione[47]. La discrezionalità tecnica è contrassegnata dalla cd “unicità dell’interesse”, nel senso che la valutazione dell’amministrazione dei canoni scientifici e tecnici esclude la considerazione di interessi diversi e quindi l’individuazione di una scelta più opportuna e conveniente. La scelta conveniente, insomma, è già stata fatta dal legislatore a monte e all’amministratore non resta che adeguarsi, modulando adeguatamente l’intensità del proprio intervento specialistico[48]. Non è permesso quindi all’autorità giudiziaria di sostituirsi alla PA, ma solo di verificare la correttezza nell’attuazione delle regole tecniche e la correttezza nella fase della contestualizzazione della norma, ossia in quel momento in cui avviene il raffronto fra i fatti accertati ed il parametro[49]. In definitiva, “il giudice penetra nel momento conoscitivo dell’autorità e ne vaglia l’esito, ma solo allo scopo di accertarne l’attendibilità scientifica, arrestandosi di fronte alla sfera di opinabilità che sostanzia il nucleo forte del concetto giuridico indeterminato[50]. Peraltro, come sopra già rammentato, è raro che nella discrezionalità tecnica si tratti di “hard sciences”, ossia di scienze perfette e complete, oggettivamente quantificabili e controllabili – che invece vengono in rilievo nell’ambito dell’accertamento tecnico – ma piuttosto di “soft sciences”. Con questo termine si intendono parametri che, sebbene tecnico-scientifici, conservano una certa soggettività e suscettibilità all’interpretazione e che pertanto possono comportare risultati diversi. Per questo motivo, posta la sindacabilità delle scelte discrezionali-tecniche, il giudice non può di certo spingersi fino ad elaborare un suo autonomo giudizio, poiché ciò sarebbe in contrasto con il principio di separazione di poteri[51]. Una volta ritenuto esistente il limite dell’opinabilità, occorre interrogarsi quale sia il limite intrinseco di tale concetto. In altre parole, occorre interrogarsi su quali siano i casi in cui si esorbita dal concetto di opinabilità, quindi si cessa dall’essere in un territorio per così dire “neutro” e “incensurabile”, “immune”, per entrare in uno spazio che è sottoposto al sindacato correzionale del giudice amministrativo. Ebbene, secondo l’interpretazione maggioritaria, il giudice deve valutare che la PA abbia mancato di rispettare i tre parametri di ragionevolezza, congruenza e proporzionalità[52].  In sostanza, una volta accertati i fatti ed il processo valutativo della PA, il giudice potrà esercitare un controllo estrinseco o intrinseco a differenza delle circostanze del caso concreto. Infatti, nel caso in cui già dalle analisi documentali siano emerse delle ipotesi sintomatiche di eccesso di potere, non occorrerà esercitare alcun sindacato intrinseco, essendo pienamente attivabile il controllo estrinseco mai posto in discussione. Invece, quanto al controllo intrinseco, questo potrà essere esercitabile solo nel caso la scelta tecnica assunta dall’amministrazione si dimostri irragionevole. Nel caso in cui il giudice valuti che la scelta assunta dall’amministrazione è stata ragionevole, nel senso di congrua e quindi rispettosa del canone di proporzionalità, essendo l’attività tecnico-discrezionale certamente opinabile, non potrà affatto annullare il provvedimento. Se così non fosse, d’altronde, si realizzerebbe una trasformazione da giudice amministrativo a giudice di amministrazione, non affatto concessa nel nostro ordinamento se non nei casi in cui vi sia una specifica previsione di giurisdizione nel merito[53]

 

  1. CONCLUSIONE

A questo punto, emerge chiaramente la centralità che il tema della discrezionalità tecnica riveste entro il contesto di tutto il diritto amministrativo. Soprattutto, è ora possibile compiere una valutazione complessiva sull’intuizione di Enrico Presutti circa il concetto di alterità fra discrezionalità amministrativa e tecnica e sul concetto di insindacabilità connesso a ragioni meramente storico-contingentali. Quelle intuizioni, infatti, risultano essere pienamente in coerenza con le risultanze dei nostri tempi. A poco a poco si è assistito ad un radicale superamento del principio di riserva amministrativa, prima passando attraverso il riconoscimento del sindacato giurisdizionale quivi affrontato, infine passando all’elaborazione di altri e numerosi istituti che concedono ai privati di produrre direttamente degli effetti giuridici prima riservati in via esclusiva alla PA. Ebbene, sia il sindacato giurisdizionale, sia lo sviluppo di questi nuovi istituti, sono la complessiva dimostrazione del passaggio dallo Stato autoritario a quello odierno. Infatti, oggi viene data particolare rilevanza a certificazioni emesse da privati – specialmente di tipo ambientale, finanziario, agro-alimentare – chiamate a provare realtà fattuali anche caratterizzate da una notevole complessità[54]. In definitiva, se un tempo era solo ed esclusivamente in capo alla PA che si riconosceva la possibilità di verificare la sussistenza di determinati presupposti e condizioni, oggi la PA non ha il potere di incidere sui contenuti delle certificazioni e la competenza è “traslata” in capo ai cittadini, con un complessivo effetto di sburocratizzazione e semplificazione[55]. Queste sono solo alcune delle evidenze dell’avvenuto passaggio da una visione propria dello Stato sociale-assistenziale (che integrava una evoluzione dello Stato di polizia al quale Presutti si riferiva) ad una visione liberale da Stato di diritto, nelle forme ancor più attuali di Stato regolatore[56]. In questo senso, il passaggio dal controllo ex ante al controllo ex post rispetto alle attività dei privati (che restano) sottoposte ad una disciplina amministrativa generalmente densa di valutazioni tecniche, appare una dimostrazione davvero interessante di quanto oltre un secolo fa sostenuto da Presutti. Un esempio di questo passaggio è rappresentato dalla formulazione dell’art. 19 l. 241/1990, da cui, così come ridefinita dalla legge n. 537 del 24 dicembre 1993, risultavano esclusi dall’ambito di applicazione della denuncia di inizio attività i casi in cui vi erano “valutazioni tecnico-discrezionali”. L’idea che stava alla base di una siffatta disciplina si fondava sulla insostituibilità delle scelte dell’amministrazione, in base a cui il privato, così come il giudice, non poteva in alcun modo sostituirsi alle valutazioni amministrative ed elaborare delle interpretazioni differenti. Ebbene, a poco a poco, fino alle modifiche avvenute nel 2010 in base a cui l’intera SCIA è affidata al cittadino, questa concezione sembra essere stata definitivamente superata. Ebbene, l’idea di discrezionalità tecnica insindacabile è, ad oggi, completamente evaporata in coerenza con l’avvenuta trasformazione dei rapporti fra cittadino e amministrazione e al venire meno del principio di “riserva di amministrazione”. In definitiva, se la forma di stato autoritario al tempo di Presutti rappresentava un vero e proprio limite per il riconoscimento della sindacabilità dell’attività discrezionale della PA, oggi conferisce la piena legittimità[57].

 

*Dott.ssa in Giurisprudenza

[1] F. MERUSI, I sentieri interrotti della legalità, Bologna, Il Mulino, 2007, 30.

[2] N. BASSI, Principio di legalità e poteri amministrativi impliciti, Milano, Giuffré, 2001, 139 ss.

[3] F. SATTA, Principio di legalità e pubblica amministrazione nello Stato democratico, Padova, Cedam, 1969,19.

[4] M.S. GIANNINI, Diritto amministrativo, Milano, 1993, II, 7.

[5] N. BASSI, Principio di legalità e poteri amministrativi impliciti, Milano, Giuffré, 2001, 40-41.

[6] F. CARINGELLA, Manuale ragionato di diritto amministrativo, ed. IV, Dike, 2023, 277.

[7] A. M. SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, XIV ed., Napoli 1984, I, 571 ss; R. VILLATA, L’atto amministrativo, in Diritto Amministrativo (a cura di MAZZAROLLI, PERICU, ROMANO, ROVERSI-MONACO, SCOCA), V ed., Bologna 2005, I, 770 ss.

[8] È necessario sottolineare che il concetto di “attività discrezionale”, che pure useremo in questo trattato, non era affatto caro a Giannini, che preferiva l’uso del termine “potere discrezionale” posto che, l’attività discrezionale non è altro che la parte di quell’attività nella quale il potere esercitato è discrezionale: M.S. GIANNINI, Il potere discrezionale della pubblica amministrazione, Giuffrè, Milano, 1939, 12 ss.

[9] A. ORSI BATTAGLINI, Autorizzazione, cit., 1199 e ss.

[10] F. CARINGELLA, Manuale ragionato di diritto amministrativo, IV ed., Dike, 2022, 279.

[11] Si ricorda che ex art.1, comma 1, della legge 241/1990 (come modificato dall’art.7, comma 1, lett.a), numero 1), della 69/2009) «L’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta da criteri di economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità e di trasparenza secondo le modalità previste dalla presente legge e dalle altre disposizioni che disciplinano singoli procedimenti, nonché dai principi dell’ordinamento comunitario».

[12] F. CARINGELLA, ivi, 280 ss.

[13] Ivi, 281.

[14] Sull’impatto della ricostruzione di Giannini, dominante in Italia, sugli studi francesi e tedeschi, v. F.G. SCOCA, La discrezionalità nel pensiero di Giannini e nella dottrina successiva, in Riv. trim. dir. pubbl., 2000, n. 4, 1045, 1068.

[15] M. D’ALBERTI, Prefazione, in A. MOLITERNI (a cura di), Le valutazioni tecnico-scientifiche tra amministrazione e giudice, Napoli, Jovene, 2021.

[16] F. LIGUORI, La discrezionalità tecnica nel pensiero di Errico Presutti: una categoria “a tempo”, in Nomos, Le attualità nel diritto, Convegni, 1-2022.

[17] M.S. GIANNINI, Il potere discrezionale della pubblica amministrazione, Milano, Giuffrè, 1939.

[18] E. PRESUTTI, Discrezionalità pura e discrezionalità tecnica, in Giur. it., 1910, IV, 44 ss., nonché al volume I limiti del sindacato di legittimità, Roma-Milano-Napoli, Società Editrice Libraria, 1911.

[19] E. PRESUTTI, Discrezionalità, cit., 47.

[20] C. MARZUOLI, Potere amministrativo e valutazioni tecniche, Milano, Giuffrè, 1985; D. DE PRETIS, Valutazione amministrativa e discrezionalità tecnica, Padova, CEDAM, 1995.

[21] Questa visione di supremazia della pubblica amministrazione è stata oggi radicalmente superata. In tema, tra i tanti, V. CERULLI IRELLI, Principi del diritto amministrativo, II, Torino, Giappichelli, 2005,184 ss.; A. CONTIERI, Il riesame del provvedimento amministrativo alla luce della legge n.15/2005, in Nuove autonomie, 2005, 300 ss.; S. PERONGINI, Teoria e dogmatica del provvedimento amministrativo, Torino, Giappichelli, 2016, 324 ss.; R. VILLATA-M. RAMAJOLI, Il provvedimento amministrativo, II ed., Torino, Giappichelli, 2017, 356 ss e 621 ss.

[22] E. PRESUTTI, I limiti del sindacato di legittimità, Soc. ed. libraia, Milano, 1911, 5-18.

[23] E. PRESUTTI, I limiti, 16, 62.

[24] F. CARINGELLA, cit., 287.

[25] Parte della dottrina sostiene che la discrezionalità tecnica è destinata a sconfinare nella discrezionalità pura laddove l’organo decidente deve compiere una scelta aderendo all’una o all’altra valutazione tecnica. Al riguardo si veda G. CLEMENTE DI SAN LUCA-R. SAVOIA, Manuale di diritto dei beni culturali, Jovene, Napoli, 2005, 198 ss.

[26] G. PERULLI, La consulenza tecnica d’ufficio nel processo amministrativo, Cedam, 2002, 8.

[27] R. VILLATA, L’atto amministrativo, in AA.VV., Diritto amministrativo, I, Bologna, 1998, 1401.

[28] Cons. Stato, Sez. IV, 13/06/1902, commentata in F. CAMMEO, La competenza di legittimità della IV Sezione e l’apprezzamento dei fatti valutabili secondo criteri tecnici, in Giur. it., III, 1902.

[29] Cons. Stato. Sez. VI, 7 aprile 1997, n. 559, in Foro amm., 1997, 1124; Cons. giust. Amm. Sicilia, 29 dicembre 1997, n. 579, in Cons. Stato, 1997, I, 1743; Cons. St., Sez. VI, 15 aprile 1996, n. 492, in Foro amm., 1996, 1175.

[30] V. BACHELET, L’attività tecnica della pubblica amministrazione, Milano, 1967,39.

[31] L. R. PERFETTI, Ancora sul sindacato giudiziale sulla discrezionalità tecnica, in Foro Amm., 2000, 2, 422.

[32] O. RANELLETTI, Principi di diritto amministrativo, Napoli, 1912, 353; F. CARINGELLA, cit., 290.

[33] Cons. Stato, Sez. V, 22 gennaio 1982, n. 55 in Foro Amm., 1982, I, 54; Cons. Stato, Sez. V, 18 febbraio 1991 n. 160; [33] Cons. St., Sez. V, 4 ottobre 1993, n. 978, in Foro amm., 1993, 2072; Cons. St., Sez. VI, 5 novembre 1993, n. 801, in Cons. Stato, 1993, I, 1459; T.A.R. Emilia Romagna, Sez. Parma, 16 gennaio 1995, n. 13, in Foro amm., 1995, 1057; T.A.R. Molise, 3 febbraio 1995, n. 28, in Trib. Amm. Reg., 1995, I, 1825.

[34] Cons. Stato, sez. IV, n. 3554/2004.

[35] F. CARINGELLA, cit., 291.

[36] A.M. SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1984, 573 ss.; F. SALVIA, Attività amministrativa e discrezionalità tecnica, in Diritto Processuale Amministrativo, 1992, 685.

[37] F. G. SCOCA, Sul trattamento giurisprudenziale della discrezionalità, in Potere discrezionale e controllo giudiziario, Milano, 1998, 115.

[38] Consiglio di Stato, Sez. VI, 9 aprile 1999, n. 601, con nota di M. DELSIGNORE, Il sindacato del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche: nuovi orientamenti del Consiglio di Stato, nota a Cons. Stato 9 aprile 1999, n. 601, in Diritto Processuale Amministrativo. In materia, v. P. LAZZARA, Autorità indipendenti e discrezionalità, Padova, 2001, 199 ss.

[39] D. DE PRETIS, Discrezionalità tecnica e incisività del controllo giurisdizionale, in Giorn. dir. amm., 1999, 1179.

[40] Cons. Stato, sez. VI, n. 4635/2007: “Tramontata l’equazione discrezionalità tecnica-merito insindacabile, il sindacato giurisdizionale sugli apprezzamenti tecnici della p.a. può oggi svolgersi in base non al mero controllo formale ed estrinseco dell’iter logico seguito dall’autorità amministrativa, bensì, alla verifica diretta dell’attendibilità delle operazioni tecniche sia sotto il profilo della loro correttezza sia con riguardo al criterio tecnico ed al relativo procedimento applicativo, dovendosi intendere, oramai, per merito amministrativo solo i profili di opportunità e di convenienza(…)”.

[41] F. CARINGELLA, cit., 293.

[42] Una precisazione dei concetti di sindacato “forte” e “debole” sono stati effettuati dalla pronuncia Consiglio di Stato n. 5287 del 6 ottobre 2001, la Sez. IV.

[43] G. VACIRCA, Prime riflessioni sul nuovo regime delle prove in materia di pubblico impiego, in Foro amm., 1987, 1344.

[44] F. CARINGELLA, cit., 294.

[45] Cons. St., sez. VI, 23 aprile 2002, n.2199; Cons. St., sez. VI, 1 ottobre 2002, n. 5156; Cons. Stato, sez. VI, 11 dicembre 2001 n. 6217. In senso contrario, una apertura al sindacato sostitutivo si può leggere in Cassazione civile, Sez. Un., 17 febbraio 2012, n. 2312, commentata in dottrina in M. ALLENA, Il sindacato del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche complesse: orientamenti tradizionali versus obblighi internazionali, in Dir. proc. amm., 4, 2012, pag. 1602; A. FALCHI DELITALIA, La soggettività della valutazione di affidabilità ex art. 381, c.1, lett. f del D. Lgs 163/2006 come limite al sindacato del giudice amministrativo, in Foro Amministrativo - C.d.S. (Il), fasc.12, 2012, pag. 3143; F. VOLPE, Il sindacato sulla discrezionalità tecnica tra vecchio e nuovo rito (considerazioni a margine della sentenza Cass. SS. UU., 17 febbraio 2012, n. 2312), in www.giustamm.it.

[46] In senso contrario si segnala la sentenza del Consiglio di Stato, sez. VI, n. 4658/2000 in cui si afferma: “in sede di imposizione di vincolo storico-artistico ai sensi della L. 1 giugno 1939, n. 1089, l’amministrazione esercita un potere tecnico-discrezionale censurabile in sede di giurisdizione di legittimità solo per manifesta illogicità”.

[47] Cons. St., Sez. VI, n. 1213/2004.

[48] F. CARINGELLA, cit., 294.

[49] Cons. Stato, Sez. IV, n. 1274/2010, in www.giustizia-amministrativa.it.

[50] F. CARINGELLA-M. PROTTO, Il nuovo processo amministrativo, Giuffrè, Milano, 2001, 924.

[51] F. CARINGELLA, cit., 295.

[52] Con. Stato, sez. VI, n. 3893/2012; Con. di Stato, sez. VI, n. 3663/2021; Consiglio di Stato, Sez. VI, 165/2016.

[53] F. CARINGELLA, cit., 298.

[54] A. BENEDETTI, Certificazioni private e pubblica fiducia, in F. FRACCHIA-M. OCCHIENA (a cura di), I sistemi di certificazione tra qualità e certezza, Milano, Egea, 2006, 3 ss.

[55] M. OCCHIENA, Le certificazioni nei processi decisionali pubblici e privati, in F. FRACCHIA-M. OCCHIENA (a cura di), I sistemi di certificazione tra qualità e certezza, cit., 96.

[56] F. LIGUORI, La segnalazione certificata di inizio attività, in A. CONTIERI (a cura di), Approfondimenti di diritto amministrativo, Napoli, Editoriale scientifica, 2021.

[57] Ivi, 13.