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Anno XVI - n. 04 - Aprile 2024

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I princìpi regolatori dell’azione amministrativa fra diritto nazionale ed eurounitario.

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I princìpi regolatori dell’azione amministrativa fra diritto nazionale ed eurounitario.

Claudio Contessa

(Presidente di Sezione del C.g.a.)

Sommario: 1. Aspetti generali della questione. All’origine dei princìpi generali dell’attività amministrativa – 2. I princìpi generali dell’attività amministrativa nell’elaborazione costituzionale – 2.1. Non annullabilità del provvedimento amministrativo illegittimo e principio di legalità. – 3. I princìpi generali dell’attività amministrativa nella legge sul procedimento del 1990 fra previsioni espresse e canoni impliciti – 3.1. (In particolare): i princìpi di proporzionalità, di conoscibilità, di semplificazione e di certezza del tempo nell’azione amministrativa – 3.2. (in particolare): I princìpi della l. 241/1990 e il rapporto con la legislazione regionale – 4. Esiste un principio di sostanziale equiparazione fra le norme del diritto pubblico e del diritto privato nell’esercizio dell’attività amministrativa? - 5. I princìpi fondamentali desumibili dall’Ordinamento eurounitario – 5.1. (in particolare): il principio di proporzionalità – 5.2. (segue): il principio di tutela del legittimo affidamento.

 

  1. 1. Aspetti generali della questione. All’origine dei princìpi generali dell’attività amministrativa.

 

I princìpi generali dell’attività amministrativa hanno rappresentato oggetto di una (peraltro cospicua) elaborazione dottrinale e giurisprudenziale ben prima che il Legislatore del 1990 vi dedicasse (e del tutto comprensibilmente) l’articolo di apertura della legge generale sul procedimento amministrativo.

Basti pensare che la prima enunciazione generale del principio di proporzionalità dell’azione amministrativa (che troppo spesso si fa risalire all’influenza del diritto eurounitario, senza rendere adeguata ragione all’elaborazione nazionale) può farsi più correttamente risalire al secondo decennio del XIX secolo e, in particolare, agli studi di Gian Domenico Romagnosi[1].

Dal canto suo, già sul finire del XVIII Gaetano Filangieri aveva enunciato con ineguagliabile sintesi il principio stesso di efficacia - nell’azione amministrativa così come nell’esercizio dell’attività normativa atta a definirne le regole – (“(…) non può mai dirsi buona una legge, quando non è atta a produrre l’effetto che il legislatore vuol conseguire; e l’inutilità non è stata mai una circostanza indifferente, per una legge.

Che se il giudicare dagli effetti è un cattivo sistema, questa regola può avere luogo in tutto, fuorché nella legislazione (…)”)[2].

L’individuazione dei princìpi generali dell’attività amministrativa non si presta in alcun modo ad essere esaminata attraverso un criterio enumerativo e sfugge evidentemente a qualunque tentativo di definitiva riconduzione ad unità.

Ed infatti, così come è polimorfa e cangiante la nozione stessa di amministrazione pubblica e così come è estremamente variegato il catalogo delle modalità e delle forme attraverso cui le attività amministrative dei soggetti pubblici possono in concreto esplicarsi, così anche il novero dei princìpi cui tale attività risulta ispirata è quanto mai ampio, diversificato e insuscettibile di una sistemazione unitaria (a meno di non ricorrere ad arbitrarie forme di semplificazione).

E’ sufficiente osservare al riguardo che, quando il Legislatore del 1990 (sulla scia dell’elaborazione di Mario Nigro)[3] scelse di selezionare – peraltro, in modo consapevolmente incompleto - alcuni fra i princìpi in questione (in numero di tre), esso limitò in maniera espressa la propria attenzione alla sola disciplina dell’attività procedimentale dell’amministrazione (coerentemente, del resto, all’originaria impostazione della l. 241 del 1990)[4], omettendo – in modo parimenti consapevole – qualunque rifermento ai princìpi che regolano l’esercizio dell’attività amministrativa nella sua declinazione provvedimentale.

Né un maggiore sforzo di completezza (inevitabilmente destinato al fallimento) può essere individuato nei successivi interventi legislativi del 2005[5], del 2009[6] e del 2012[7] i quali, agendo sul testo dell’articolo 1 della l. 241 in modo non sempre perspicuo, hanno incrementato il catalogo positivo dei princìpi generali dell’attività amministrativa senza tuttavia pervenire a una compiuta (e, oltretutto, pressoché impossibile) definizione degli stessi.

Prima che la Costituzione repubblicana del 1947 fornisse alcuni elementi testuali idonei a risolvere su basi positive la questione dell’individuazione dei princìpi generali dell’attività amministrativa, l’enucleazione di tali princìpi era stata demandata al lavorio della dottrina e della giurisprudenza le quali avevano rinvenuto un limitatissimo conforto nelle scarne previsioni delle leggi Rattazzi di unificazione amministrativa del 1859 e della legge sugli espropri n. 2359 del 1865.

Nel corso dell’esperienza pre-repubblicana, quindi, l’assenza di una disciplina positiva dell’atto, del procedimento e del provvedimento amministrativo (e, naturalmente, dei relativi principi ispiratori) comportò che, quand’anche fossero enucleabili nell’ambito del sistema amministrativo regole di bonne administration e di moralité administrative, non fosse agevole riconoscere a tali regole il rango di princìpi giuridici regolatori della materia ed elevare tali canoni a parametro di verifica in sede giurisdizionale dell’attività amministrativa.

Vero è che gli studi di Massimo Severo Giannini avevano chiarito sin dal terzo decennio del Novecento che l’attività amministrativa non risulta conformata unicamente a regole giuridiche (bensì anche a regole morali, sociali, di buona amministrazione e di correttezza amministrativa); tuttavia fu necessario attendere il decennio successivo perché la giurisprudenza del Consiglio di Stato chiarisse che il complesso di quelle regole svolgeva un ruolo fondamentale nell’applicazione – anche giudiziale – delle regole propriamente giuridiche.

E’ del resto evidente che, quando la grande giurisprudenza del Consiglio di Stato dei primi tre decenni del Novecento enucleò le principali forme sintomatiche della figura dell’eccesso di potere, essa introdusse al contempo un metodo di sindacato dal quale erano nei fatti agevolmente desumibili i princìpi (di matrice giurisprudenziale) regolatori della materia amministrativa.

Così, quando la giurisprudenza del Consiglio di Stato affinò gli strumenti di indagine sulla motivazione dell’atto amministrativo (svincolando il relativo obbligo dall’esistenza di una disposizione che espressamente lo imponesse e quindi generalizzandone la portata), evidentemente finì per elevare al rango di principio generale quella che inizialmente era stata configurata solo come una forma tipica di violazione di legge[8] e che da ultimo è stata positivizzata con l’articolo 3 della legge generale sul procedimento del 1990.

Allo stesso modo, quando la giurisprudenza del Consiglio di Stato estese le forme di vaglio sull’eccesso di potere per travisamento dei fatti (superando il pregresso orientamento che limitava tale possibilità ai soli casi di assoluta insussistenza degli stessi)[9], finì a ben vedere per enucleare una delle principali declinazioni del principio di ragionevolezza (nel cui ambito vengono tradizionalmente compendiati i canoni dell’imparzialità, della neutralità e del buon andamento dell’azione amministrativa).

In modo analogo, quando la giurisprudenza amministrativa enunciò in modo più ampio l’obbligo per le amministrazioni di salvaguardare il diritto di difesa e di garanzia del contraddittorio in favore dei justiciables (ampliandone il campo di applicazione – originariamente limitato ai soli procedimenti disciplinari -), essa anticipò nella sostanza il contenuto essenziale del principio del giusto procedimento amministrativo (un principio di cui, dopo alterne vicende, la Corte costituzionale ha infine riconosciuto – e senza ulteriori riserve - la valenza generale nell’ambito del sistema costituzionale)[10].

In definitiva, con l’enucleazione stessa delle figure sintomatiche dell’eccesso di potere il Consiglio di Stato contribuì in modo determinante a definire i princìpi generali del diritto amministrativo passando da una fase di enucleazione dottrinale a una di definizione giurisprudenziale e fissando uno dei caratteri di fondo (in seguito non più modificato) dello stesso sistema nazionale di diritto amministrativo.

Pertanto, nella fase conclusiva dell’esperienza statutaria (e nella sostanziale assenza di una disciplina positiva di carattere compiuto), fu il Consiglio di Stato a enucleare i princìpi generali dell’attività amministrativa e provvedimentale attraverso un’elaborazione che in massima parte conserva ancora oggi valore e attualità.

Per quanto riguarda in particolare l’attività amministrativa in senso lato furono in tal modo delineati – fra gli altri - il principio del contraddittorio nei procedimenti sanzionatori e il generale principio di ragionevolezza[11], mentre per quanto riguarda l’attività stricto sensu provvedimentale furono enucleati princìpi parimenti fondamentali quale l’obbligo di motivazione, nonché i princìpi che regolano l’esercizio dell’attività amministrativa di secondo grado.

Risulta quindi del tutto giustificata (pur se enfatica nella sua enunciazione) l’affermazione dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato secondo cui il diritto amministrativo nel suo complesso non risulta composto soltanto da norme positive, ma anche da “princìpi che dottrina e giurisprudenza hanno elevato a dignità di sistema” (sent. 28 gennaio 1961, n. 3)[12].

Nel sostanziale silenzio della legge, quindi, i princìpi fondamentali dell’attività amministrativa - di matrice dottrinale e giurisprudenziale - assurgono al rango di elementi costitutivi del diritto amministrativo sostanziale, collocandosi in una posizione del tutto centrale nell’ambito del sistema.

Vero è che negli anni più recenti (e in particolare a partire dagli anni Novanta del Novecento) la normativa in materia amministrativa ha raggiunto livelli di ampiezza e analiticità impensabili agli albori del diritto amministrativo, ma è altresì vero che tale modificazione in senso strutturale della normativa di settore non ha apportato significativi cambiamenti per ciò che riguarda l’enucleazione dei princìpi generali dell’attività amministrativa, che resta ancora oggi affidata a un numero piuttosto limitato di disposizioni (a partire dall’articolo 1 della l. 241 del 1990), in tal modo lasciando all’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale il compito di integrare e comporre l’ordito normativo nel suo complesso.

Allo stesso modo, la richiamata modificazione strutturale non ha alterato il carattere essenzialmente giurisprudenziale della nomopoiesi dei princìpi in questione.

Non si è quindi registrato nell’Ordinamento nazionale un fenomeno analogo a quello riscontrabile in Germania, ove la legge generale sul procedimento amministrativo del 1976 (Verwaltungsverfahrensgesetz) ha fornito un catalogo piuttosto analitico e compiuto dei princìpi regolatori dell’azione amministrativa[13], in tal modo palesando un’accentuata tendenza alla positivizzazione di tale ambito oggettuale (basti pensare alla compiuta disciplina che la VwVfG offre del principio di informalità del procedimento amministrativo - Nichtförmlichkeit des Verwartungsverfahrens -, del principio inquisitorio – Untersuchungsgrundsatz -, nonché dei princìpi di semplicità, opportunità e rapidità)[14].

 

 

 

  1. I princìpi generali dell’attività amministrativa nell’elaborazione costituzionale.

 

Con l’entrata in vigore della Carta costituzionale non viene alterato in modo determinante il pregresso impianto normativo e sistematico relativo ai princìpi generali dell’attività amministrativa.

Si perpetuano, al contrario, i caratteri di fondo di un impianto normativo estremamente sintetico e nel cui ambito i princìpi regolatori della materia sono enunciati in modo piuttosto scarno, in tal modo lasciando all’interprete il compito di operare una lettura integrativa della materia.

All’Ordinamento e all’organizzazione della pubblica amministrazione viene dedicata la Sezione II del Titolo III, peraltro composta di due soli articoli (97 e 98).

Manca nel testo costituzionale una qualunque definizione di ‘pubblica amministrazione’ e il primo comma dell’articolo 97 (il cui ambito disciplinare è dichiaratamente limitato ai soli aspetti di organizzazione) si limita ad enunciare soltanto tre principi: i) quello di legalità in materia organizzativa, ii) quello di buon andamento, nonché iii) quello di imparzialità.

Massimo Severo Giannini ebbe ad affermare che solo apparentemente l’endiadi costituzionale (‘buon andamento e imparzialità’) fosse composta di due termini, atteso che il richiamo al secondo di essi risulterebbe a ben vedere ‘pleonastico’, risultando il canone dell’imparzialità ricompreso – e senza residui – nella nozione stessa di buon andamento[15].

Ma anche a non voler condividere una siffatta impostazione – per così dire – ‘monistica’, si osserva in ogni caso che il sostrato positivo risultante dal testo costituzionale risulta troppo esiguo per ritenere (pur volendo riconoscere la massima valenza semantica ai relativi enunciati) che esso risulti idoneo ad esaurire i princìpi fondamentali di ordine costituzionale nella materia amministrativa.

All’indomani dell’entrata in vigore del testo costituzionale, quindi, la dottrina intraprese un intenso lavorio al fine di ampliare la valenza dei princìpi fondamentali dell’attività amministrativa desumibili dalla Carta fondamentale e di superarne la valenza apparentemente confinata in ambiti oltremodo limitati.

Tale lavorio si è mosso essenzialmente su due linee direttrici.

In primo luogo si è inteso superare il limite rappresentato dall’esclusivo riferimento che l’articolo 97 opera alla dimensione organizzativa dell’amministrazione («i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge (…)»).

Si è osservato al riguardo che il disegno costituzionale relativo all’attività amministrativa non contempla soltanto le disposizioni in materia di organizzazione, bensì – e più in generale – tutte le altre norme che hanno la funzione di garanzia nei confronti della pubblica amministrazione (intesa quale ideale controparte dei cittadini)[16] o che tendono ad assicurare il diritto alla legalità[17], nonché le numerose altre disposizioni che indicano in via generale lo scopo o la destinazione dell’attività amministrativa.

La seconda linea direttrice del richiamato lavorio dottrinale è andata nel senso di superare il mero riferimento ai canoni del buon andamento e dell’imparzialità (qualunque ne sia la latitudine sistematica) e di individuare nell’ambito dell’ordito costituzionale un più ampio novero di princìpi fondamentali.

Sotto tale aspetto si è osservato che la disciplina costituzionale della pubblica amministrazione non dovrebbe essere desunta dai soli due articoli che compongono la Sezione II del Titolo III, bensì dall’intera Costituzione[18].

Al riguardo Carlo Esposito ebbe ad osservare che, a ben vedere, l’intero testo della Carta fondamentale esprimerebbe un generale principio democratico, il quale permea il complesso delle funzioni pubblicistiche (e segnatamente – ai fini che qui rilevano – quelle amministrative).

Si è poi osservato che l’esigenza di conseguire una più ampia partecipazione democratica all’attività amministrativa non può che passare attraverso il coinvolgimento dei privati nell’ambito dei procedimenti amministrativi (il che vale ad ipostatizzare il principio della partecipazione procedimentale e a collocarlo nell’alveo costituzionale in quanto declinazione del più generale principio della partecipazione popolare al potere pubblico)[19].

Dal canto suo, anche la Corte costituzionale ha in più occasioni sottolineato l’esigenza di un’adeguata procedimentalizzazione dell’attività amministrativa – attraverso la maggiore valorizzazione dell’intervento e della collaborazione dei privati – al fine di garantirne in massimo grado la democraticità in senso sostanziale (in tal senso: Corte cost., sentt. 13/1962; 234/1985 e 143/1989).

Nei primi decenni successivi all’entrata in vigore del testo costituzionale la dottrina concentrò la propria attenzione sull’endiadi ‘buon andamento e imparzialità’ e dalla stessa tentò di desumere il complesso dei princìpi che devono ispirare l’attività dell’amministrazione pubblica.

Per quanto riguarda la distinzione fra i due canoni in questione si è osservato che il buon andamento opera essenzialmente nel campo della tecnica e dell’efficienza amministrativa[20] mentre l’imparzialità – secondo una lettura di carattere sostanziale, peraltro non pacifica – sarebbe riconducibile all’ambito di applicazione del principio di eguaglianza[21].

Con specifico riguardo al principio di imparzialità la dottrina sottolineò che essa si configura come “canone di condotta dell’amministrazione”, nonché – al contempo – come “regola di svolgimento della funzione” il cui rispetto è assicurato non solo da mezzi di tutela giurisdizionale, ma da ulteriori strumenti di garanzia, da ricercare nell’ambito della stessa struttura organizzativa dell’amministrazione[22].

In giurisprudenza, poi, si giunse ad affermare che l’imparzialità si configura come “principio immanente dell’intero Ordinamento giuridico” (Cass. Civ., sent. 3773 del 1982).

La giurisprudenza amministrativa, dal canto suo, ha rilevato come l’imparzialità rappresenti “una declinazione, sul versante ordinamentale, del principio di uguaglianza, scolpito dall’art. 3 della Costituzione. Del principio di imparzialità sono dunque predicabili l’immanenza e la pervasività, di guisa che la violazione del canone costituzionale può venire in rilievo anche in fattispecie sprovviste di tipizzazione normativa[23].

Sempre per quanto riguarda il canone dell’imparzialità va qui ricordato che una ormai consolidata elaborazione ha sottolineato la profonda differenza che sussiste fra

  • da un lato, il canone dell’imparzialità di giudizio (che costituisce un tipico canone dell’esercizio di qualunque attività amministrativa ai sensi dell’articolo 97, Cost. anche se espletata attraverso una tipica compagine ministeriale). La nozione di imparzialità descrive l’obbligo della P.A. di valutare complessivamente tutti gli interessi pubblici e privati (primari e secondari) coinvolti nella fattispecie posta al suo esame, per il raggiungimento del miglior interesse pubblico, fermo restando il valore primario rivestito proprio dall’interesse pubblico affidato alla cura dell’amministrazione procedente;
  • dall’altro, il canone della piena neutralità (che invece caratterizza il solo operato delle Autorità amministrative indipendenti e che descrive un ben diverso stato di piena indifferenza rispetto all’assetto degli interessi oggetto di regolazione e di altrettanto piena equidistanza fra le posizioni dei vari soggetti o gruppi interessati)[24].

Per quanto riguarda poi la giurisprudenza costituzionale, essa si mostrò in un primo momento piuttosto riluttante a dichiarare l’illegittimità costituzionale di leggi o atti aventi forza di legge in relazione all’idoneità di assicurare il buon andamento e l’imparzialità (il che è come dire che, nel corso di tale fase, la Corte ascrisse i canoni in questione all’ambito delle categorie non giuridiche - in tal senso: Corte cost., sent. 9/1959; id., sent. 7/1965 -).

In una fase successiva, invece, la Corte costituzionale ebbe ad utilizzare n modo piuttosto frequente i richiamati princìpi, intendendoli in senso proprio quali canoni giuridici ai quali informare il vaglio di costituzionalità.

Tale revirement ha dato l’avvio a un filone giurisprudenziale estremamente cospicuo.

Ad esempio, è stato ritenuto che si pongano in contrasto con i richiamati canoni costituzionali di buon andamento ed imparzialità (intesi quale regulae iuris in senso proprio e non quali mere regole comportamentali di carattere metagiuridico):

  • le norme di legge che fissano modalità procedimentali tali da ostacolare l’ordinato esercizio delle funzioni di taluni organi amministrativi (Corte cost., sent. 645/1988);
  • le norme che non assicurano la parità dei gruppi chiamati a partecipare ad organi collegiali (Cosrt cost., sent. 25/1966);
  • l’irrazionale distribuzione del personale fra le diverse carriere (Cosrt cost., sent. 8/1967).

Per quanto riguarda poi il generale principio di legalità nell’esercizio della funzione amministrativa, esso è espressamente richiamato nella sua dimensione teleologica dall’articolo 1 della l. 241/1990 (secondo cui «l’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge (…)»), mentre è meno pacifico che lo stesso goda di un’espressa copertura al livello costituzionale.

Secondo una parte degli osservatori, infatti, tale fondamento sarebbe desumibile dall’articolo 97, II, Cost., (secondo cui «i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge (…)»), la cui valenza non sarebbe limitata ai soli profili organizzativi, ma assumerebbe una portata di sistema.

Secondo altra parte degli osservatori, invece, pur essendo vano lo sforzo di rinvenire nel testo costituzionale un espresso fondamento testuale del principio di legalità, sarebbe comunque innegabile l’esistenza di tale principio e la sua idoneità ad orientare in via generale l’esercizio dell’attività amministrativa.

E’ stato poi osservato che il fondamento costituzionale del principio di legalità potrebbe rinvenirsi nelle previsioni di cui agli articoli 24 e 113, Cost. i quali, nel sancire l’immanente canone del judicial review avverso l’attività dell’amministrazione, testimonierebbero l’implicita sussistenza dell’obbligo di esercitare tale attività in senso conforme alla legge[25].

I principali corollari applicativi del principio di legalità sarebbero rinvenibili: nel crisma della tipicità e nominatività dei provvedimenti amministrativi, nonché nel carattere eccezionale delle ipotesi di esecutorietà di tali atti[26].

 

 

 

2.1. Non annullabilità del provvedimento amministrativo illegittimo e principio di legalità.

 

Una volta appurata l’esistenza del generale principio di legalità nell’esercizio dell’attività amministrativa e la sua valenza costituzionale occorre domandarsi se il principio in questione resti in qualche misura derogato (o quanto meno attenuato nella sua valenza generale) per effetto dell’istituto della c.d. ‘illegittimità non invalidante’ (o dell’‘irregolarità non viziante’) di cui all’articolo 21-octies della l. 241 del 1990 (per come introdotto ad opera della legge Cerulli Irelli del 2005).

Ai ben limitati fini che qui rilevano va qui ricordato che, ai sensi della richiamata disposizione, il mancato rispetto di alcune regole dell’agire amministrativo (con particolare riguardo a quelle sul procedimento o sulla forma degli atti), laddove non influente sul risultato sostanziale dell’azione amministrativa, risulta irrilevante ai fini dell’annullabilità del provvedimento finale[27].

Una parte degli interpreti ha infatti ritenuto che la previsione di cui all’articolo 21-octies, in quanto idonea ad impedire l’annullamento in sede giurisdizionale di un provvedimento comunque difforme rispetto al paradigma legale, risulterebbe di fatto idonea a dequotare il principio di legalità in quanto tale.

La tesi in questione, pur se suggestivamente prospettata, non può essere condivisa, qualunque sia l’approccio che si intenda serbare in relazione alla questione delle ragioni sistematiche poste a sostegno dello stesso articolo 21-octies.

Come è noto, infatti, un primo percorso concettuale atto a giustificare l’esito non annullabilità di cui alla disposizione in esame muove dalla riconosciuta natura sostanziale dei suoi enunciati. Secondo tale approccio, la non annullabilità del provvedimento deriverebbe infatti dalla mera irregolarità non viziante che deriverebbe dalla violazione di regole procedimentali e relative alla forma degli atti.

Impostati in tal modo i termini della questione si dovrebbe concludere che l’articolo 21-octies non esprimerebbe una deroga al principio di legalità, costituendo piuttosto un corollario della mera irregolarità che caratterizza i provvedimenti adottati in violazione delle richiamate regole procedimentali.

Si è altrove avuto modo di osservare che l’approccio in questione non può essere condiviso in quanto l’irregolarità è categoria che opera ex ante e in astratto, nel senso che resta collegata a una classificazione dei requisiti di validità e di regolarità dell’atto giuridico condotta a priori[28]. Al contrario, la previsione di cui all’articolo 21-octies, comma 2, prevede un meccanismo di operatività in forza del quale soltanto a seguito dell’esito positivo delle valutazioni richieste dalla norma - effettuate ex post dal giudice - è preclusa l’annullabilità del provvedimento.

Si è altresì osservato che la tesi in esame non risulta del tutto persuasiva laddove sembra postulare una piena assimilabilità fra le violazioni di carattere formale e procedimentale (che comunque comportano un contrasto con specifici parametri normativi che potrebbe presentarsi con carattere di gravità) e la pura e semplice irregolarità dell’atto, che è categoria posta al confine con la piena irrilevanza giuridica.

Si è infine osservato che la tesi in parola non appare convincente laddove sembra confinare all’ambito della mera irregolarità qualunque violazione delle regole formali e procedimentali, senza apparentemente considerare che la diposizione richiede – al fine della non annullabilità – anche una considerazione in ordine alla natura vincolata del provvedimento e all’impossibilità di adottarne uno di contenuto diverso[29].

E’ in ogni caso evidente che – a prescindere dalla condivisibilità o meno della richiamata giustificazione sistematica – la stessa non presupponga in alcun modo una deroga al principio di legalità in senso formale.

Venendo al secondo percorso concettuale atto a giustificare la previsione di cui all’art. 21-octies, comma 2, è noto che esso muova dalla riconosciuta valenza processuale della disposizione[30].

Secondo tale impostazione concettuale – ad avviso di chi scrive, maggiormente persuasiva - l’articolo 21-octies, comma 2, non pone alcuna eccezione alla qualificazione sostanziale del provvedimento in termini di illegittimità, ma opera sul piano degli esiti processuali, all’esito di una valutazione in concreto operata dal giudice nel singolo caso.

Tale ricostruzione, ad oggi maggioritaria, si fonda sulla c.d. regola del conseguimento dello scopo mutuata dalla previsione dell’art. 156, terzo comma, c.p.c., a norma del quale «la nullità non può mai essere pronunciata, se l’atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato».

Vero è che la disposizione processuale appena richiamata fa riferimento all’invalidità dell’atto processuale (e non a quello sostanziale), ma essa sembra costituire comunque il corollario di un più generale principio di ordine sostanzialistico ispirato ai canoni della conservazione degli atti, della strumentalità delle forme e del contrasto da parte dell’Ordinamento a ipotesi di annullamento che preluderebbero in via necessaria all’adozione di atti di identico contenuto.

Pertanto, nelle ipotesi di cui all’articolo 21-octies, comma 2, l’invalidità dell’atto, pur se sussistente in astratto, risulterebbe in concreto irrilevante all’esito di un’indagine operata ex post dal Giudice in relazione al raggiungimento dello scopo. In ogni caso, del resto, l’eventuale annullamento dell’atto non arrecherebbe alcun effettivo vantaggio al ricorrente, atteso che l’amministrazione non potrebbe far altro che adottare un nuovo provvedimento di identico contenuto.

Accogliendo la ricostruzione da ultimo prospettata e ammettendo che anche nelle ipotesi di cui all’articolo 21-octies, comma 2, il privato sia, comunque, titolare di un interesse legittimo inteso questo quale “potere di pretendere un’utilità derivante dal legittimo esercizio d’una potestà[31] si dovrebbe, invero, ritenere che la l. 241 del 1990 neghi la facoltà stessa di un’utile reazione processuale.

Ci si potrebbe domandare se l’interpretazione in tal modo offerta dell’articolo 21-octies, comma 2 risulti conforme con il principio della pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale (articolo 24, Cost.), nonché con il principio della piena giustiziabilità avverso gli atti dell’amministrazione (articolo 113, Cost.).

Ad avviso di chi scrive al quesito deve essere fornita risposta affermativa atteso che il testo costituzionale mira, appunto, a una tutela giurisdizionale di carattere effettivo, ma non sembra giustificare un riconoscimento indistinto di qualunque iniziativa giurisdizionale, pur se priva in concreto di una qualsiasi idoneità di far conseguire alla parte attrice l’utilità finale cui mira l’iniziativa giudiziaria.

Il giudice amministrativo sembra comunque orientato a fornire un’interpretazione restrittiva della disposizione in esame: il provvedimento non è annullabile quando è certo e provato che il ricorrente non possa attendersi dalla rinnovazione del procedimento, conseguente all’annullamento, una decisione diversa da quella già adottata dall’amministrazione.

In tal senso, dal riconoscimento della valenza meramente processuale della disposizione consegue che il provvedimento non è annullabile non già perché assoggettato ad un diverso regime di invalidità o irregolarità ma, semplicemente, perché l’impossibilità di ottenere una statuizione conclusiva di contenuto diverso, priva il ricorrente dell’interesse ad intraprendere un giudizio da cui non potrebbe ricavare alcuna concreta utilità.

Tuttavia, ai fini della presente disamina rileva che, anche impostando i termini della questione secondo l’approccio qui divisato, non emerge alcuna dequotazione del principio di legalità in senso formale: la scelta normativa nel senso della non annullabilità del provvedimento illegittimo deriva in modo sostanzialmente coerente dal combinato operare della normativa sostanziale in tema di illegittimità degli atti e di quella sostanziale in tema di interesse al ricorso.

In nessun caso, però, la giustificazione concettuale dell’articolo 21-octies, comma 2 sembra passare attraverso una deroga al generale principio di legalità.

 

 

 

  1. I princìpi generali dell’attività amministrativa nella legge sul procedimento del 1990 fra previsioni espresse e canoni impliciti

 

La legge generale sul procedimento amministrativo del 1990 dedica il solo articolo 1 (peraltro, dalla formulazione piuttosto sintetica) all’individuazione dei princìpi generali dell’attività amministrativa.

Il testo originario della disposizione (prima della novella del 2005) si limitava a richiamare i soli princìpi di economicità, di efficacia e di pubblicità.

La formulazione della disposizione (che evidentemente non risultava idonea ad esaurire l’intero novero dei princìpi informatori dell’attività amministrativa) appariva piuttosto un tributo alle tendenze alla ‘taylorizzazione’ del procedimento amministrativo (secondo un’impostazione tipica della legislazione degli inizi degli anni Novanta)[32] che non un tentativo organico di enucleazione in via sistematica dei richiamati princìpi.

Le novella legislativa del 2005 ha arricchito (ma solo in parte) il catalogo di cui all’articolo 1 aggiungendovi un riferimento espresso – e probabilmente non necessario – al principio di trasparenza, nonché all’indistinto novero dei principi dell’Ordinamento eurounitario (anche se la l. 15 del 2005 non si è curata di chiarire se la valenza di tale ultimo novero di princìpi resti limitata ai soli procedimenti di matrice eurounitaria ovvero se esprima una tendenza alla comunitarizzazione anche dell’attività amministrativa di valenza puramente nazionale)[33].

La l. 15 del 2005 ha altresì introdotto nell’ambito dell’articolo 1 il comma 1-bis, a tenore del quale l’amministrazione pubblica, nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme del diritto privato, «salvo che la legge non disponga diversamente».

Ci si domanderà nel prosieguo del presente contributo se la disposizione in questione abbia davvero introdotto nell’Ordinamento interno (come da più parti si è ritenuto) un principio di sostanziale fungibilità delle categorie del diritto privato rispetto a quelle del diritto pubblico nell’esercizio dell’attività amministrativa[34].

Sempre per quanto riguarda le modifiche apportate nel corso del tempo all’articolo 1 della l. 241 del 1990, mette qui conto segnalare l’ulteriore novella di cui alla l. 69 del 2009 (c.d. legge di ‘mini-riforma’ del processo civile) la quale ebbe ad aggiungere al novero dei princìpi generali dell’attività amministrativa il richiamo al canone di imparzialità.

Si tratta ancora una volta – e in questo caso a maggior ragione – di un intervento sostanzialmente pleonastico dal momento che il generale principio di imparzialità - non solo nell’organizzazione ma anche nella gestione dell’attività amministrativa - rappresenta un generale ed espresso canone di matrice costituzionale (articolo 97 della Carta fondamentale), ragione per cui non emerge alcuna ragione evidente a sostegno della scelta legislativa di ribadirne la valenza anche al livello di normativa primaria.

E’ tuttavia evidente che (indipendentemente dall’enfatica autoqualificazione dell’articolo 1 della l. 241 del 1990 come disposizione ricognitiva dell’intero novero dei princìpi generali regolatori dell’attività amministrativa) tale novero non si esaurisca nel catalogo di cui al medesimo articolo, atteso che ulteriori e diversi princìpi generali sono rinvenibili sia da altre - e parimenti espresse - previsioni della stessa legge del 1990, sia dall’ordito normativo nel suo complesso.

E’ rimasta invece invariata nel corso del tempo la previsione di cui al comma 2 dell’articolo 1, espressiva del principio di divieto di aggravamento dell’attività procedimentale («la pubblica amministrazione non può aggravare il procedimento se non per straordinarie e motivate esigenze imposte dallo svolgimento dell’istruttoria»)

 

Nel presente paragrafo si svolgeranno quindi alcune considerazioni sui princìpi regolatori dell’azione amministrativa per come desumibili dall’intero testo della l. 241/1990 (scil: anche al di fuori del campo di applicazione del divisato articolo 1), mentre nel successivo paragrafo 3.2. si esaminerà la questione dei rapporti fra la normativa di principio contenuta nella legge generale del 1990 e gli ambiti di legislazione regionale.

Quanto al primo aspetto, all’indomani dell’entrata in vigore della legge del 1990 Alberto De Roberto osservò che dall’intero corpus normativo fossero enucleabili tre linee ispiratrici aventi valenza di principio[35]:

  • la comprensibilità dell’azione amministrativa (secondo cui l’obiettivo di democratizzazione dell’agĕre amministrativo passa necessariamente attraverso una piena conoscibilità ex ante delle regole e dei princìpi informatori della materia e attraverso il superamento di qualunque – più o meno esplicita – perpetuazione della logica degli arcana iuris);
  • la semplificazione dei procedimenti (al fine di garantire un più spedito e razionale svolgimento dell’azione amministrativa, in coerenza con il canone costituzionale del buon andamento);
  • la migliore gestione della funzione amministrativa (in specie per quanto riguarda la predeterminazione dei criteri orientativi della discrezionalità amministrativa, al fine di garantirne la prevedibilità e, in via mediata, il controllo democratico).

Dal canto suo Vittorio Italia aveva rilevato sin dagli anni Settanta del Novecento un’evoluzione – che potrebbe definirsi in senso pragmatico - della legislazione di principio in materia di procedimento amministrativo: una legislazione che sempre più tende a discostarsi dal tradizionale canone della mera individuazione delle linee programmatiche di intervento per assumere una valenza più immediatamente prescrittiva e una più accentuata idoneità ad orientare qui ed ora l’attività dell’amministrazione[36].

Secondo l’Autore, in tale nuova configurazione le norme di principio “non hanno più quell’alone di mistero, per non dire di mito, di cui i tradizionali princìpi generali erano circondati e non consentono quel ricorso indiscriminato allo spirito, alla finalità del diritto, che dava la possibilità di avallare ex post soluzioni irrazionali (…)[37].

Queste affermazioni risultano quanto mai pertinenti nel caso dei princìpi dell’attività amministrativa desumibili dalla legge 241/1990: si tratta di princìpi che – per un verso – palesano una stretta derivazione dai canoni di matrice costituzionale (basti pensare all’espresso richiamo al dovere di imparzialità di cui all’articolo 1, comma 1) ma che – per altro verso – presentano una più immediata valenza precettiva e operativa (basti penare al principio della certezza del tempo dell’azione amministrativa che si è tradotto nelle concrete e misurabili prescrizioni di cui agli articoli 2 e 2-bis della legge).

Qui di seguito si svolgeranno quindi (senza pretesa alcuna di esaustività, anche in ragione dei necessari limiti dimensionali del presente contributo) alcune considerazioni su un limitato novero di princìpi impliciti in tema di esercizio dell’attività amministrativa desumibili dalla legge 241/1990 e che presentano particolari aspetti di interesse sistematico.

 

 

 

3.1. (In particolare): i princìpi di proporzionalità, di conoscibilità, di semplificazione e di certezza del tempo nell’azione amministrativa

 

Va in primo luogo richiamato il principio di proporzionalità nell’esercizio dell’attività amministrativa, il quale non rinviene un fondamento positivo nell’ambito della legge generale sul procedimento (contrariamente a quanto avviene nel diritto tedesco attraverso la previsione del paragrafo 40 della vWVfG tedesca)[38].

Si esamineranno nel prosieguo le conseguenze derivanti dall’applicazione in ambito nazionale del principio di proporzionalità nella sua declinazione eurounitaria (in specie nelle ipotesi di esercizio congiunto di funzioni amministrative di matrice sovranazionale)[39].

Ciò che invece si ritiene qui di sottolineare è che, pur nel silenzio della legge, gli interpreti hanno individuato nell’ambito della l. 241/1990 molteplici conferme in senso sostanziale del principio in esame.

In particolare, puntuali conferme di tale principio sarebbero rinvenibili dal divieto di aggravamento del procedimento di cui all’articolo 1, comma 2 della legge, nonché dal favor legislativo per il differimento dell’accesso in luogo del suo radicale diniego (articolo 25, comma 3)[40].

Va in secondo luogo richiamato il principio della piena e adeguata conoscibilità dell’azione amministrativa (o principio di pubblicità degli atti amministrativi) che è desumibile dal complesso di disposizioni che disciplinano gli istituti della pubblicazione degli atti e dell’accesso ai documenti amministrativi (non a caso, del resto, il comma 5 dell’articolo 27, l. proc. fa espresso riferimento «[al] principio di piena conoscibilità dell’attività della pubblica amministrazione»)[41].

Il principio in parola, del resto, costituisce a propria volta una declinazione del più generale principio di democraticità nell’esercizio delle funzioni pubblicistiche.

Va in terzo luogo richiamato il generale principio della semplificazione dell’azione amministrativa (al quale è dedicato l’intero Capo IV, parimenti rubricato), il quale si traduce nell’enucleazione di alcuni istituti di semplificazione procedimentale (come la segnalazione certificata di inizio di attività, il silenzio-assenso o la conferenza di servizi) e conduce ad esiti concreti il più generale principio del buon andamento dell’azione amministrativa.

La dottrina[42] ha evidenziato come nell’esperienza italiana la semplificazione dei procedimenti si sia mossa essenzialmente in tre direzioni:

  1. verso la semplificazione della struttura dei procedimenti stessi (attraverso gli strumenti della conferenza di servizi e degli accordi tra amministrazioni; attraverso la fissazione del termine di conclusione del procedimento; nonché attraverso l’abilitazione dell’amministrazione a procedere indipendentemente da pareri obbligatori e valutazioni tecniche non rese entro un determinato termine);
  2. verso la limitazione delle conseguenze negative dell’inerzia della amministrazione e la semplificazione/liberalizzazione dell’avvio di determinate attività e infine
  • verso la semplificazione dell’attività del cittadino che viene in contatto con la pubblica amministrazione (ad esempio attraverso lo strumento dell’autocertificazione).

Nonostante l’esigenza della semplificazione dell’attività amministrativa sia noto all’esperienza italiana sin dagli inizi del XX Secolo[43], il principio in esame ha conosciuto una consacrazione in termini normativi solo nel corso degli anni Novanta (dapprima con la l. 241/1990 e, di lì a poco, con la l. 537/1993 e con la c.d. ‘legge Bassanini-1’ n. 59/1997).

In tempi più recenti, poi, il richiamo al principio di semplificazione amministrativa è divenuto una sorta di costante pressoché obbligata nella disciplina dei più diversi settori dell’Ordinamento e può affermarsi che nessuno degli interventi normativi che negli ultimi decenni più hanno contribuito a rendere inestricabili le discipline di settore fosse privo nel suo incĭpit di un doveroso richiamo al generale principio di semplificazione[44].

Si tratta pertanto di un principio che, nei primi tre decenni circa dall’entrata in vigore della legge generale sul procedimento, risulta più predicato in via di principio che non praticato nell’esercizio concreto dell’attività amministrativa (così come nella sua disciplina normativa).

Si ritiene qui di tralasciare - per evidenti ragioni di brevità - qualunque richiamo al principio della semplificazione della disciplina normativa (materia che evoca i temi della delegificazione e della codificazione di settore), limitandosi a rilevare che troppo spesso i due piani della questione vengano sovrapposti, se non confusi (come se la scelta di demandare alla fonte regolamentare la disciplina di una determinata attività amministrativa comporti ex se una semplificazione delle modalità concrete del suo esercizio).

Concentrandosi invece sui rapporti fra principio di semplificazione e attività amministrativa in senso proprio va qui osservato che, nell’ambito della legge sul procedimento del 1990, sono individuabili sia interventi che mirano a semplificare dell’organizzazione pubblica nel suo complesso (attraverso il criterio della non duplicazione di funzioni e strutture, della riduzione del ricorso a concerti e intese non indispensabili e della razionalizzazione dei metodi per acquisirli – nuovo articolo 17-bis -); sia interventi che mirano ad agevolare i rapporti fra amministrazione e cittadino e ad agevolare le attività di interesse amministrativo dei singoli (sotto tale aspetto, il principio di non aggravamento del procedimento di cui all’articolo 1, comma 2 rappresenta una vera e propria chiave di volta del sistema, rappresentando al contempo una declinazione del generale principio di semplificazione e un autonomo canone di esercizio dell’attività pubblicistica).

Sotto tale aspetto è stato affermato che la semplificazione amministrativa attiene (rectius: dovrebbe attenere) “[alla] formazione di relazioni più semplici, più chiare e più certe fra amministrazione e cittadino[45] e può essere realizzata attraverso interventi che incidono su determinati aspetti del procedimento oppure attraverso la diffusione di strumenti informativi e telematici[46].

Si tratta in definitiva di riconoscere al cittadino un vero e proprio diritto alla semplicità dell’azione amministrativa, che appartiene (secondo la definizione di Sabino Cassese) alla categoria dei cc.dd. ‘diritti strumentali’, tutelabili attraverso vari strumenti che vanno dalla promozione del ricorso alla conferenza di servizi alla richiesta di indennizzo per il pregiudizio patito i ragione dell’inerzia dell’amministrazione[47].

Più in generale, si è condivisibilmente osservato che, affinché le semplificazioni non si traducano in meri manifesti politici (ma al contrario risultino attuabili e misurabili e soprattutto producano vantaggi per i destinatari), occorre definire chiaramente esigenze e obiettivi, programmarne gli interventi - anche per calibrare gli sforzi di misurazione - e rivalutarne periodicamente gli esiti attraverso tecniche ormai piuttosto consolidate di misurazione degli obiettivi ed analisi degli scostamenti[48].

Si ritiene a questo punto di svolgere alcune notazioni conclusive sul principio  (non enunciato in modo espresso dalla legge generale sul procedimento, ma desumibile da numerose fra le sue disposizioni) della certezza del tempo nell’esercizio dell’azione amministrativa.

Il tema (che rinviene numerosi addentellati nell’ambito della l. 241/1990) evoca la questione più generale della qualificabilità del tempo come bene della vita e delle forme e metodi della relativa tutela nell’ambito dei rapporti pubblicistici[49].

Il primo aspetto nel quale emerge con piena evidenza l’attenzione dedicata dal Legislatore alla dinamica temporale in relazione ai fenomeni amministrativi è certamente quello relativo alla fissazione dei termini massimi per la conclusione dei singoli procedimenti ai sensi dell’articolo 2 della legge sul procedimento.

La dottrina ha osservato al riguardo che la fissazione in sede legislativa e regolamentare dei termini del procedimento presuppone la ricerca di un delicato punto di equilibrio fra le esigenze (potenzialmente antinomiche) della garanzia della certezza delle posizioni giuridiche e della semplificazione procedimentale[50].

Si è altresì osservato che la previsione normativa di un specifico termine di conclusione del procedimento mira a contemperare legalità, efficienza e garanzia delle pretese dei terzi, “sottraendo la possibilità all’amministrazione di dilatare i tempi del provvedere per il perseguimento del pubblico interesse, con minor sacrificio possibile per le pretese giuridiche dei cittadini toccati dall’azione amministrativa[51].

Impostati in tal modo i termini della questione, la predeterminazione cronologica della scansione procedimentale costituisce una declinazione del principio stesso di buon andamento dell’azione amministrativa.

Tale predeterminazione sottende infatti (per un verso) l’adeguata ponderazione degli interessi coinvolti nell’attività procedimentale e (per altro verso) la certezza e stabilità dei rapporti giuridici, così come la conoscibilità ex ante dei metodi e dei tempi dell’azione amministrativa (il che rappresenta ex se un presidio di controllo democratico di tale azione).

La predeterminazione legale dei tempi di conclusione del procedimento (così come la determinazione ex ante della scansione delle relative fasi e l’esatta identificazione degli organi e dei soggetti coinvolti) mira quindi a contemperare legalità, efficienza e garanzia nell’azione dell’amministrazione[52].

Il secondo aspetto dal quale emerge con evidenza la tensione normativa verso la qualificazione del tempo come dimensione rilevante per le categorie procedimentali è rappresentato dal tentativo di predeterminazione legale delle conseguenze per il ritardo della P.A. nella conclusione del procedimento (si tratta, come è noto, di un tema disciplinato dall’articolo 2-bis, l. proc., per come introdotto ad opera della legge n. 69/2009).

Lo scarno disposto del comma 1 di tale articolo (secondo cui «le pubbliche amministrazioni e i soggetti di cui all'articolo 1, comma 1-ter, sono tenuti al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell'inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento») non chiarisce in modo adeguato – e nonostante alcune ‘fughe in avanti’ da parte della giurisprudenza – se il superamento del termine procedimentale sia ex se foriero di un obbligo risarcitorio, ovvero se – come ritenuto da un orientamento del tutto prevalente – tale dato rappresenti solo un elemento della possibile fattispecie foriera di danno, nell’assenza di un qualunque automatismo.

La questione maggiormente dibattuta in giurisprudenza è se la richiamata disposizione abbia introdotto nell’ambito dell’Ordinamento nazionale un’ipotesi di risarcibilità del danno da mero ritardo, indifferente rispetto al favorevole esito della vicenda procedimentale (ipotesi che, sotto il profilo concettuale, passa evidentemente attraverso la previa qualificazione del tempo come bene della vita in quanto tale, sì da connettere l’obbligo risarcitorio al superamento del termine procedimentale e da svincolarlo dalla previa verifica della c.d. ‘spettanza del bene della vita’ – secondo una dicitura piuttosto abusata ma certamente pregnante -)[53].

Già nel 2005 (si badi: prima dell’introduzione nell’ambito della l. 241/1990 del richiamato articolo 2-bis) l’Ad. Plen. aveva escluso in modo piuttosto stentoreo la configurabilità di forme di responsabilità dell’amministrazione per il c.d. ‘mero ritardo’ (“il sistema di tutela degli interessi pretensivi (…) consente il passaggio a riparazioni per equivalente solo quando l'interesse pretensivo, incapace di trovare realizzazione con l'atto, in congiunzione con l'interesse pubblico, assuma a suo oggetto la tutela di interessi sostanziali e, perciò, la mancata emanazione o il ritardo nella emanazione di un provvedimento vantaggioso per l'interessato (suscettibile di appagare un ‘bene della vita’)”)[54].

All’indomani della novella del 2009 una parte della giurisprudenza si è mossa nella direzione del riconoscimento di tale forma di pregiudizio, talvolta ricorrendo alla formula del ‘danno biologico da mero ritardo[55]; talvolta – più semplicemente – richiamando l’immanente ristorabilità del pregiudizio derivante dalla tardiva conclusione di un procedimento (pur se negativo), in quanto incidente sulla libera disponibilità del ‘bene-tempo’ e sull’immanente dimensione diacronica di ogni operazione di investimento e di finanziamento[56].

I tentativi giurisprudenziali in questione si sono però confrontati con un dato normativo (quello dell’articolo 2-bis, cit.) che non sembra confortare in alcun modo l’enucleabilità di ipotesi di responsabilità del danno da mero ritardo.

La previsione normativa in questione, infatti, lungi dall’aver introdotto e generalizzato – in modo evidentemente innovativo – una siffatta nuova forma di responsabilità, sembra piuttosto testimoniare (e con valenza meramente ricognitiva) che la violazione delle regole sul tempo dell’azione procedimentale rappresenta uno soltanto degli elementi costitutivi della fattispecie foriera del danno ingiusto, la quale assume valenza necessaria ma certamente non sufficiente nell’ambito di una possibile vicenda risarcitoria.

E’ determinante osservare al riguardo che, nel corso dell’iter parlamentare cha ha condotto all’approvazione della l. 69 del 2009, è stato espunto dall’articolato l’inciso «indipendentemente dalla spettanza del beneficio derivante dal provvedimento richiesto» (i.e.: l’inciso che avrebbe expressis verbis sancito l’ingresso nell’Ordinamento interno di forme di responsabilità del danno da mero ritardo, indipendentemente da qualunque giudizio prognostico in ordine al favorevole esito del procedimento.

L’approccio in questione (in una sorta di fattispecie normativa a formazione progressiva) è stato confermato con l’ulteriore novella di cui al decreto-legge n. 69 del 2013 il quale ha, sì, previsto forme di ristoro economico per il ritardo c.d. ‘mero’, ma le ha confinate in una dimensione indennitaria (in tal modo svincolando tali forme di ristoro sia dalla puntuale commisurazione rispetto al danno subito, sia dall’indagine sui presupposti e condizioni dell’azione risarcitoria, sia – infine - dalle problematiche inerenti l’alveo risarcitorio in quanto tale)[57].

 

 

 

3.2. (in particolare): I princìpi della l. 241/1990 e il rapporto con la legislazione regionale

 

Una volta individuati (sia pure con i limiti dimensionali propri della presente disamina) i princìpi generali dell’attività amministrativa sanciti in modo espresso dalla l. 241 del 1990 (ovvero desumibili dal suo articolato) occorre domandarsi se tali princìpi trovino incondizionata attuazione nei confronti di tulle le pubbliche amministrazioni e segnatamente nei confronti delle amministrazioni regionali.

E’ qui appena il caso di ricordare che, nell’originaria formulazione della legge, l’articolo 29 qualificava in modo indistinto le regole nella stessa contenute come “princìpi generali dell’Ordinamento giuridico”, riconoscendo alle regioni a statuto ordinario la potestà di regolare in modo autonomo le medesime materie nel rispetto di tali princìpi.

Nonostante la disposizione non lo chiarisse in modo espresso, essa riconduceva le materie disciplinate dalla l. 241 del 1990 all’ambito della potestà legislativa ripartita o concorrente, conformemente alle previsioni di cui all’articolo 117, Cost. (scil.: nella formulazione anteriore alla riforma di cui alla legge costituzionale n 3 del 2001).

Allo stesso modo, il comma 2 dell’articolo 29 regolava i rapporti fra la legge generale sul procedimento e la potestà legislativa delle regioni a statuto speciale imponendo a queste ultime di adeguare i rispettivi ordinamenti «alle norme fondamentali contenute nella legge medesima». In tal modo veniva evocata (sia pure indirettamente) la figura delle norme fondamentali di riforma economico sociale[58] che, secondo consolidati orientamenti della giurisprudenza costituzionale, mira a garantire “l’esigenza di unità sotto il profilo delle scelte politiche fondamentali della Repubblica, alla difesa della quale tale limite è preordinato: [l’]esigenza cioè che le grandi scelte riformatrici poste con la legge dello Stato non siano contraddette da orientamenti diversamente ispirati del legislatore regionale[59].

In ambo i casi emergeva dall’ellittica formula utilizzata dal Legislatore la voluntas di elevare le norme della legge generale sul procedimento al rango di princìpi generali ma – allo stesso tempo – l’evidente difficoltà di individuare una formula qualificatoria idonea ad ascrivere senza residui il complesso delle materie disciplinate dalla legge del 1990 al limitato catalogo di cui all’articolo 117, Cost.

Il quadro di riferimento muta totalmente con la riforma del Titolo V, Cost. e con la legge n. 15 del 2005 la quale (nel riscrivere integralmente l’articolo 29 al fine di collocarlo in modo corretto nel nuovo quadro di riferimento costituzionale) tenta di porre su nuove basi la questione dei rapporti fra princìpi della legge 241/1990 e ambiti di legislazione regionale.

Va in primo luogo osservato al riguardo che il nuovo articolo 29 abbandona il tentativo di tenere distinte le posizioni delle regioni a statuto ordinario rispetto a quelle a statuto speciale. Ciò, nella consapevolezza per cui il nuovo quadro concettuale introdotto dalla riforma costituzionale del 2001 aveva fortemente attenuato le distinzioni fra le forme di potestà legislativa riconosciute ai due diversi gruppi di regioni, riconoscendo a quelle a statuto ordinario spazi di potestà legislativa talvolta persino superiori rispetto a quelli riconosciuti alle regioni a statuto ordinario prima della novella costituzionale[60].

Va in secondo luogo osservato che il nuovo articolo 29, comma 2 riconosce ancora una volta valenza di principio alle previsioni della legge n. 241 del 1990 e demanda al contempo alle regioni (a statuto ordinario e speciale) il compito di regolare le materie ivi contemplate «nel rispetto del sistema costituzionale e delle garanzie del cittadino nei riguardi dell’azione amministrativa, così come definite dai princìpi stabiliti dalla presente legge».

Anche in questo caso il Legislatore richiama l’evocativa valenza di principio delle norme della l. 241 del 1990 ma rinunzia a definire in termini sistematici tale qualificazione (è qui appena il caso di osservare che la figura dei princìpi fondamentali regolatori della materia sopravvive anche all’indomani della riforma del Titolo V, Cost., ma solo in relazione alle materie di potestà legislativa concorrente, laddove la stragrande maggioranza della disposizioni della legge del 1990 risulta invece riferibile agli ambiti della potestà legislativa esclusiva statale di cui all’articolo 117, secondo comma, Cost.).

Il principale limite connesso al testo dell’articolo 29 (nella riformulazione del 2005) consiste quindi nella rinunzia da parte del Legislatore a qualunque tentativo di operare una distinzione fra i diversi ambiti disciplinari recati dalla legge del 1990 e, conseguentemente, nella rinunzia ad operare le necessarie distinzioni fra i diversi ambiti di potestà legislativa in relazione ai diversi ambiti oggettuali.

I limiti connessi alla formulazione normativa del 2005 vengono in gran parte superati con l’ulteriore novella di cui alla legge n. 69 del 2009 la quale riscrive ancora una volta – e in modo pressoché integrale – l’articolo 29, ponendo su nuove basi concettuali la questione dei rapporti fra la disciplina di principio contenuta nella legge del 1990 e l’esercizio della potestà legislativa regionale.

Indubbiamente coraggiosa è la scelta operata con l’ultimo periodo del comma 1, secondo cui si applicano a tutte le amministrazioni pubbliche le disposizioni di cui agli articoli 2-bis (in tema di Conseguenze per il ritardo dell’amministrazione nella conclusione del procedimento), 11 (Accordi integrativi o sostitutivi del provvedimento), 15 (Accordi fra pubbliche amministrazioni), 25 (Modalità di esercizio del diritto di accesso), nonché quelle del Capo IV-bis (Efficacia ed invalidità del provvedimento amministrativo. Revoca e recesso).

La scelta in questione risulta coraggiosa (anche se ad avviso di chi scrive corretta) in quanto essa non prende le mosse dalla qualificazione delle disposizioni ivi richiamate come norme di principio bensì – sia pure in modo implicito e in assenza di qualunque auto-qualificazione espressa – dalla riconosciuta riconduzione dei relativi ambiti oggettuali a materie di potestà legislativa esclusiva statale (e in particolare alle materie «giurisdizione e norme processuali; Ordinamento civile e penale; giustizia amministrativa» di cui all’articolo 117 secondo comma, lettera l), Cost.).

Viene in tal modo scelto (sia pure in via solo implicita) di supportare la devoluzione degli ambiti materiali in parola alla potestà legislativa esclusiva statale senza fare ricorso alle categorie – enucleate dalla Corte costituzionale – delle cc.dd. ‘materie trasversali’ o delle ‘materie implicite[61].

Maggiore chiarezza caratterizza invece le previsioni di cui ai nuovi commi 2-bis e 2-ter i quali ascrivono al genus dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali (articolo 117, secondo comma, lettera m), Cost.) un gran novero di previsioni della legge del 1990 (fra cui quelle in tema di obblighi per la P.A. di garantire la partecipazione dell'interessato al procedimento, di individuarne un responsabile, di concluderlo entro il termine prefissato e di assicurare l’accesso alla documentazione amministrativa, nonché quelle relative alla durata massima dei procedimenti ed ancora quelle concernenti la presentazione di istanze, segnalazioni e comunicazioni, la dichiarazione di inizio attività, il silenzio assenso e la conferenza di servizi)[62].

Naturalmente, il rischio insito nella descritta manovra normativa è connesso all’autoqualificazione operata dal Legislatore delle disposizioni dallo stesso poste e dal connesso rischio che tale qualificazione non sia condivisa dalla Consulta in sede di giudizio di costituzionalità.

Anche in questo caso, poi, l’attribuzione di tali ambiti di legislazione alla potestà legislativa esclusiva dello Stato non prende le mosse dalla riconosciuta valenza di principio delle corrispondenti previsioni della legge n. 241 del 1990, bensì dall’espressa riconduzione di tali previsioni a taluni ambiti riconducibili all’articolo 117, secondo comma, lettera m), Cost. (e conseguentemente alla potestà legislativa esclusiva statale).

Di indubbio interesse sistematico è poi la previsione di cui al comma 2 dell’articolo 29 il quale – con evidente funzione ‘di chiusura’ di questo settore dell’Ordinamento stabilisce che «le regioni e gli enti locali, nell'ambito delle rispettive competenze, regolano le materie disciplinate dalla presente legge nel rispetto del sistema costituzionale e delle garanzie del cittadino nei riguardi dell'azione amministrativa, così come definite dai principi stabiliti dalla presente legge».

L’operazione sistematica in tal modo realizzata dal Legislatore risulta certamente di notevole interesse sistematico in quanto in questo caso (unico nell’ambito della vigente formulazione dell’articolo 29) l’applicabilità delle norme della legge n. 241 del 1990 nei confronti delle regioni passa attraverso il percorso concettuale – per così dire ‘classico’ – del riconoscimento di una specifica valenza di principio alle sue disposizioni.

Va tuttavia osservato al riguardo che (al netto del gran numero di previsioni richiamate dai commi 1, 2-bis e 2-ter dell’articolo 29, i quali occupano pressoché per intero l’intero spatium disciplinare della legge) non è neppure ben chiaro a quali ulteriori previsioni della legge n. 241 risulti applicabile la previsione di chiusura di cui al richiamato comma 2.

Va ancora osservato che l’operazione in tal modo realizzata non passa attraverso l’utilizzo della nota categoria dei princìpi fondamentali regolatori delle materie di potestà legislativa concorrente, bensì attraverso la figura – in parte nuova – dei princìpi posti a tutela delle garanzie del cittadino nei riguardi dell’azione amministrativa.

Viene in tal modo portata a compimento un’opera di sostanziale monopolizzazione da parte del Legislatore statale dell’intero ambito materiale rappresentato dalla disciplina del procedimento, dell’atto e del provvedimento amministrativo: un’opera che, dal punto di vista concettuale, prende le mosse dall’immediata e diretta riconduzione degli ambiti materiali disciplinati dalla legge alle previsioni di cui all’articolo 117, secondo comma, Cost. e che lascia alla figura dei princìpi generali una valenza (per così dire) di carattere interstiziale e completivo.

 

 

 

  1. Esiste un principio di sostanziale equiparazione fra le norme del diritto pubblico e del diritto privato nell’esercizio dell’attività amministrativa?

 

E’ ben noto (e non può che essere ricordato qui solo en passant) che la l. 15 del 2005 ha introdotto nell’ambito dell’articolo 1 della legge generale sul procedimento (i.e.: nell’ambito dell’articolo dedicato all’individuazione dei princìpi generali dell’attività amministrativa) un nuovo comma 1-bis, a tenore del quale «la pubblica amministrazione, nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente».

Al di là del carattere stentoreo della disposizione non ne è del tutto chiara l’effettiva portata sistematica.

Parte della dottrina[63] ha ritenuto (invero, in modo piuttosto enfatico) che la disposizione in parola testimonierebbe il definitivo superamento del modello autoritativo inteso quale modalità esclusiva per il raggiungimento dell’interesse pubblico e che la stessa determinerebbe una sostanziale equiparazione fra lo strumento unilaterale-autoritativo e quello consensuale-paritetico nella cura dell’interesse pubblico, in tal modo generalizzando nei fatti il principio della privatizzazione dell’attività amministrativa[64].

La prima affermazione può essere sostanzialmente condivisa mentre la seconda merita alcuni distinguo e risulta tutt’altro che pacifica nella sua formulazione.

Come si vedrà fra breve, infatti, nonostante l’inclusione della disposizione in esame nell’ambito dell’articolo 1 della l. 241 del 1990, essa non sembra suffragare l’affermarsi nell’Ordinamento interno di un principio di sostanziale equiparazione fra le categorie del diritto pubblico e quelle del diritto privato nell’esercizio dell’attività amministrativa.

Va osservato al riguardo che, ben prima che la legge generale sul procedimento individuasse i principi generali dell’attività amministrativa e che generalizzasse la possibilità per l’amministrazione di ricorrere a moduli privatistici per il perseguimento di finalità di interesse pubblico (quanto meno nell’ambito dell’attività non autoritativa), la dottrina e la giurisprudenza avevano già affermato che la possibilità di fare ricorso ai moduli privatistici di cui al libro IV del cod. civ. costituisse null’altro se non un corollario della generale capacità di diritto privato riconosciuta generaliter alle amministrazioni pubbliche.

Ad esempio, non si era mai dubitato che, in materia di contratti passivi dell’amministrazione (e in disparte gli aspetti relativi alla scelta del contraente), la stessa operasse con i poteri e le prerogative del contraente privato (fatte salve le ipotesi – residuali – dei poteri propri del c.d. ‘diritto privato speciale’).

In una determinata fase storica ci si era poi domandati se il carattere privatistico proprio degli atti paritetici dell’amministrazione venisse meno in ragione del fatto che, in taluni casi, anche nella propria attività di diritto privato la P.A. esercita poteri di stampo discrezionale (il caso tipico era rappresentato dagli atti di gestione dei rapporti di lavoro privatizzati, nel cui ambito l’amministrazione opera con i poteri tipici del privato datore di lavoro, pur se nell’ambito di un rapporto sotto ogni aspetto paritetico).

Ebbene, anche per queste ipotesi la giurisprudenza aveva affermato che il carattere paritetico dell’attività non autoritativa della P.A. non venisse comunque meno.

La questione è stata affrontata e risolta nel 2000 dalle Sezioni unite, chiamate a pronunciarsi sulla questione di legittimità costituzionale relativa all’articolo 29 del decreto legislativo n. 80 del 1998 (il quale – come è noto - aveva devoluto al G.O. l’intero novero degli atti di gestione dei rapporti di lavoro privatizzati anche laddove la gestione di tali rapporti fosse finalizzata alla cura di un interesse pubblico e si estrinsecasse attraverso l’adozione di atti discrezionali).

Al riguardo le Sezioni unite (con l’ordinanza n. 41 del 2000)[65] dichiararono la questione manifestamente infondata e chiarirono che la disposizione censurata non comportasse in alcun modo la devoluzione al G.O. della cognitio in ordine ad interessi legittimi (contra: articolo 103, Cost.).

Ed infatti – a giudizio della S.C. - l'evoluzione normativa sul rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni ne avrebbe sancito il fondamento su base paritetica, restando estranea ogni connotazione autoritativamente discrezionale.

Pertanto, “quand’anche la lesione lamentata dal prestatore di lavoro derivasse dall’esercizio di poteri discrezionali della P.A. datrice di lavoro, la situazione soggettiva lesa dovrebbe qualificarsi come interesse legittimo di diritto privato, da riportare, quanto alla tutela giudiziaria, all'ampia categoria dei ‘diritti’ di cui all’art. 2907 c.c.[66].

In definitiva, già prima della l. 15/2005:

  • veniva pacificamente riconosciuta alle amministrazioni pubbliche la possibilità, nell’esercizio dell’attività non autoritativa, di ricorrere a moduli privatistici (scil.: salvo che un’espressa disposizione di legge non impedisse tale possibilità – come da ultimo sancito dall’articolo 1, comma 1-bis della l. 241 -)[67];
  • la richiamata possibilità non richiedeva di volta in volta l’adozione di un’espressa disposizione abilitante ma rappresentava un corollario del possesso da parte delle amministrazioni pubbliche di una generale capacità di diritto privato (capacità peraltro riconosciuta agli Enti pubblici in via generale dall’art. 11 cod. civ.);
  • anche a fronte di attività di carattere discrezionale non veniva meno la possibilità per la P.A. di ricorrere ai moduli privatistici (pur dovendosi in ogni caso tenere ben distinte - da un lato - l’autonomia che caratterizza i negozi di diritto privato e - dall’altro - la discrezionalità che caratterizza l’esercizio di attività finalizzate alla cura del pubblico interesse).

Come si è già osservato, la dottrina successiva all’entrata in vigore della l. 15/2005 ha talvolta enfatizzato in modo eccessivo la portata innovativa dell’articolo 1, comma 1-bis, giungendo a ritenere che essa avrebbe posto un nuovo principio generale dell’attività amministrativa, ponendo su un piano di sostanziale equiordinazione l’esercizio dell’attività pubblicistica della P.A. e l’esplicazione delle ordinarie capacità di diritto privato comunque spettanti agli Enti pubblici ai sensi dell’articolo 11 cod. civ.

In realtà, invece, la disposizione in questione non ha introdotto alcun principio realmente innovativo ma si è limitata a confermare (in modo più limitato e in linea di sostanziale continuità con il passato) che, nell’esercizio delle sole attività di carattere non autoritativo, le amministrazioni pubbliche agiscono secondo le norme del diritto privato, anche in assenza di una specifica norma abilitante.

Essa in definitiva, opera nell’ambito della tipizzazione delle fattispecie e non incide sul piano delle relazioni fra le regole del diritto pubblico e quelle del diritto privato.

Pertanto, mentre per ciò che riguarda l’attività amministrativa di carattere autoritativo continua ad operare il principio della tipicità e nominatività (nonché il concomitante principio delle competenze di attribuzione) al contrario, per ciò che riguarda l’attività paritetica delle amministrazioni pubbliche, la novella del 2005 ha sortito un effetto pan-tipizzante in ragione del riconoscimento di una generale capacità di diritto privato in capo alle amministrazioni pubbliche.

E’ vero che la disposizione in esame ammette il ricorso a moduli privatistici anche per il perseguimento di interessi pubblici (secondo un’accezione semantica quanto mai vasta) ma essa non può essere intesa nel senso di aver postulato una piena sostituibilità del modulo privatistico rispetto a quello pubblicistico nelle materie in cui venga in rilievo un’attività di carattere autoritativo (e quindi, la spendita di un potere di tipo provvedimentale).

Il preteso carattere innovativo e di principio del più volte richiamato articolo 1, comma 1-bis non deve dunque essere sminuito o sottovalutato ma deve essere certamente ridimensionato rispetto a quanto ritenuto da una parte (peraltro cospicua) della dottrina.

Allo stesso modo, la disposizione in esame non comporta in alcun modo che il ricorso ai moduli privatistici consenta all’amministrazione di perseguire qualunque fine di interesse privato (anche di carattere microsettoriale ed egoistico e a prescindere dalla funzionalizzazione rispetto al perseguimento di un interesse pubblico), ma si limita pur sempre a riconoscere un’autonomia privata di carattere limitato e funzionale al perseguimento di un interesse pubblico.

Anche sotto tale aspetto, quindi, non può in alcun modo affermarsi una sostanziale fungibilità fra i due ambiti, che restano comunque distinti e non equivalenti.

L’impostazione concettuale in questione è stata sostanzialmente trasfusa – per ciò che riguarda il perseguimento delle attività di interesse delle amministrazioni pubbliche attraverso il modello delle società partecipate - nell’articolo 4 del Testo unico n. 175 del 2016[68], a tenore del quale «le amministrazioni pubbliche non possono, direttamente o indirettamente, costituire società aventi per oggetto attività di produzione di beni e servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, né acquisire o mantenere partecipazioni, anche di minoranza, in tali società».

La disposizione in questione (che riprende nella sostanza l’impostazione già propria dell’articolo 3, comma 27 della l. 244 del 2007) richiama la dicotomia fra

  • (da un lato) l’esercizio dell’attività amministrativa in forma privatistica (posta in essere da società che operano per una pubblica amministrazione con effettivo carattere di strumentalità, configurandosi nei fatti quali mere modalità organizzative per l’esercizio di compiti tipici dell’Ente pubblico di riferimento) e
  • (dall’altro) l’esercizio dell’attività di impresa da parte degli enti pubblici (che resta in via generale preclusa, anche al fine di evitare che tale attività possa essere svolta beneficiando dei privilegi dei quali un soggetto può godere in quanto pubblica amministrazione).

Come chiarito dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato nel 2011[69], infatti, mentre la prima tipologia di attività è certamente consentita alle amministrazioni pubbliche (configurandosi ancora una volta quel corollario del riconoscimento di una generale capacità di diritto privato) la seconda resta certamente preclusa, dovendosi in ogni caso tracciare una netta linea di demarcazione fra la nozione di strumentalità (che giustifica l’esercizio di un’attività comunque collegata teleologicamente con le funzioni pubblicistiche) e la mera – quanto generica – compatibilità fra una determinata attività di contenuto privatistico e l’esercizio delle attività proprie di un’amministrazione pubblica.

Concludendo sul punto, se è vero che la l. 15/2005 ha realizzato indubbi passi in avanti nella direzione del generalizzato utilizzo dei moduli privatistici da parte della P.A., non è invece corretto affermare che la novella del 2005 abbia posto su un piano di sostanziale equiordinazione (e con valenza di principio generale dell’attività amministrativa) il ricorso agli strumenti pubblicistici e a quelli privatistici. Allo stesso modo non è corretto affermare che gli enti pubblici possano indistintamente fare ricorso agli strumenti privatistici per il perseguimento di qualunque finalità (anche ulteriore e diversa rispetto a quelle istituzionalmente demandate all’Ente di cui si tratta).

 

 

 

  1. I princìpi fondamentali desumibili dall’Ordinamento eurounitario.

 

L’articolo 1, comma 1 della legge generale sul procedimento (per come modificato ed integrato nel corso del 2005) annovera fra i princìpi generali dell’attività amministrativa l’indistinto novero dei «princìpi dell’Ordinamento comunitario».

Si tratta di una previsione tanto suggestiva nella sua formulazione (giustificata in parte dal grande prestigio di cui godeva l’Ordinamento UE all’indomani della firma a Roma della Costituzione per l’Europa – 29 ottobre 2004 -) quanto di difficile inquadramento sistematico e dai contorni oggettivamente indefiniti.

L’aver elevato i princìpi in questione al rango di canoni fondamentali dell’agĕre amministrativo (sempre che non si voglia riconoscere alla disposizione una valenza meramente formale e – per così dire – ‘di maniera’) rappresenta una scelta tutt’altro che scontata per almeno tre ragioni.

In primo luogo va osservato che, alle origini del processo di integrazione europea, l’attenzione dedicata alle categorie amministrative era stata del tutto marginale (se non sostanzialmente inesistente).

Ed infatti, il carattere estremamente limitato delle competenze riconosciute agli apparati amministrativi comunitari nei primi anni di esistenza della CEE costituiva la coerente declinazione della ben nota definizione di Jean Monnet il quale aveva concepito un’amministrazione europea “che non fa, ma fa fare[70].

Del resto, come osservato da Mario Pilade Chiti, “il tema del procedimento amministrativo europeo è stato inizialmente poco considerato nel quadro giuridico della Comunità europea. Le ragioni della scarsa attenzione sono in parte le medesime che anche negli ordinamenti nazionali hanno a lungo posto in secondo piano il procedimento amministrativo; in altra parte sono connesse agli specifici tratti del sistema comunitario[71].

Solo in una seconda fase si è sviluppata in modo significativo in ambito continentale l’attenzione ai rapporti intersoggettivi fra pubblici poteri, in specie nella prospettiva delle relazioni fra amministrazioni[72].

In tempi ancora più recenti si è affermata in modo maturo l’enucleazione di un setting di regole idonee a definire anche i rapporti amministrativi fra i singoli e le amministrazioni pubbliche, sino ad ispirare la stesura dell’articolo 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (significativamente rubricato ‘Diritto a una buona amministrazione’)[73].

Tale cambio di prospettiva si è sviluppato di pari passo con l’ampiamento delle funzioni affidate all’amministrazione comunitaria, divenuta con il tempo un apparato complesso – al pari delle più articolate amministrazioni nazionali – e chiamata sempre più di frequente a intrattenere rapporti diretti con i privati e ad esercitare una propria sfera di competenze.

Quindi, la scelta di elevare al rango di canoni generali i princìpi che regolano l’operato dell’apparato amministrativo europeo risulta invero peculiare in quanto finisce per ipostatizzare i princìpi e le regole operative di una tecnocrazia tutto sommato di recente istituzione nei confronti degli apparati amministrativi degli Stati membri (talvolta dotati di tradizioni ben più risalenti e decisamente gloriose).

La seconda ragione che rende tutt’altro che scontata la scelta legislativa di elevare i richiamati canoni eurocomuni al rango di princìpi regolatori dell’intera materia discende dal fatto che il diritto europeo definisce un numero (ampio ma) tutto sommato delimitato di procedimenti ed attività amministrative. Al contrario, l’amplissima formulazione dell’articolo 1, comma 1, cit. sembra deporre nel senso che i princìpi di matrice UE assurgono al rango di canoni informatori dell’intera attività amministrativa, indipendentemente dalla loro riconducibilità all’Ordinamento UE.

La terza ragione che rende peculiare (e comunque non scontata) la scelta del Legislatore del 2005 deriva dalla particolare genesi dei princìpi (amministrativi e non) del diritto eurocomune: si tratta di princìpi che non sono stati fissati con i Trattati fondamentali o con il diritto UE derivato ma che, in gran parte, derivano essi stessi dalle tradizioni giuridiche comuni agli Stati membri.

Si determina in tal modo una sorta di movimento ciclico nella genesi di tali princìpi: essi vengono inizialmente enucleati nell’ambito di esperienze giuridiche nazionali (si pensi al generale principio del legittimo affidamento, che prende le mosse dalla figura del Vertrauensschutz, propria del diritto tedesco); vengono poi fatti propri dall’Ordinamento UE (attraverso un processo di selezione e metabolizzazione) e vengono infine – in qualche misura – ‘restituiti’ agli Ordinamenti nazionali nella forma di princìpi di valenza generale.

In definitiva, nonostante l’Ordinamento UE non nasca riconoscendo centralità all’esperienza amministrativa (il cui dispiegarsi richiede evidentemente la previa fissazione di un quadro comune di regole), risulta oggi del tutto giustificata la definizione di Jurgen Schwarze il quale ebbe a definire l’Ordinamento (illo tempore) comunitario come una “Community based on administrative law[74].

Allo stesso modo risulta del tutto giustificata la tesi di Riccardo Monaco che, già nel 1975, aveva individuato nel diritto amministrativo il cuore stesso dell’intero sistema giuridico comunitario, in quanto idoneo a realizzarne in concreto gli obiettivi assicurando la connessione fra le sue diverse branche[75].

L’enucleazione di un novero comune di princìpi regolatori dell’azione amministrativa al livello continentale ha rappresentato allo stesso tempo causa ed effetto del processo (ormai avanzato) di progressiva convergenza tra i principali sistemi di diritto amministrativo[76].

Dando quindi per acquisita l’esistenza di princìpi giuridici di matrice UE che regolano l’esercizio delle funzioni amministrative anche al livello nazionale, si ritiene qui di richiamare alcune fra le principali distinzioni che nel corso del tempo sono state proposte in relazione a tali princìpi.

Per quanto riguarda l’ambito oggettuale su cui incidono i princìpi in questione, la dottrina ha operato una bipartizione fra:

  • (da un lato) i princìpi attinenti l’esercizio in forma congiunta di funzioni eurounitarie (come nel caso del diritto di accesso, al diritto di essere ascoltati, del generale obbligo di motivazione e del principio dell’istruttoria imparziale – c.d. ‘duty of care’ -) e
  • (dall’altro) i princìpi in materia di organizzazione (come i princìpi di legalità, di imparzialità, di proporzionalità e di sussidiarietà)[77].

Per quanto riguarda poi i profili più strettamente contenutistici delle diverse categorie di princìpi generali sull’attività amministrativa, la dottrina ha proposto di distinguere:

  • (da un lato) i princìpi che attengono alla decisione dell’amministrazione nei suoi aspetti sostanziali (come i princìpi di legalità, di certezza del diritto e di tutela dell’affidamento) e
  • (dall’altro) i princìpi che attengono al processo di formazione della decisione amministrativa nella sua dimensione – per così dire – ‘dinamica’ (come i princìpi del contraddittorio e dell’obbligo di motivazione – peraltro espressamente richiamati dal paragrafo 2 dell’articolo 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE -)[78].

Per quanto riguarda, poi, la genesi dei princìpi in questione va qui osservato che essa risulta quanto mai differenziata: in alcuni casi infatti (come nel caso dei princìpi di leale cooperazione e di sussidiarietà) essi sono enunciati direttamente nell’ambito del diritto UE primario; in altri – numerosissimi - casi essi sono stati enucleati dalla giurisprudenza della Corte di giustizia; in altri casi ancora (sempre più frequenti a partire dagli anni Novanta) essi sono stati enunciati direttamente nell’ambito del diritto eurounitario derivato e nelle discipline di settore[79].

Nelle pagine seguenti si svolgeranno quindi (e senza pretesa alcuna di esaustività) alcune considerazioni in ordine a un limitato novero di princìpi generali del diritto amministrativo europeo i quali presentano per l’esperienza giuridica nazionale aspetti di particolare interesse e rilevanza. L’attenzione si concentrerà in particolare sul principio di proporzionalità e su quello di tutela del legittimo affidamento.

 

5.1. (in particolare): il principio di proporzionalità.

 

Si ritiene qui di prendere le mosse dal principio di proporzionalità il quale, secondo la consolidata giurisprudenza della Corte di giustizia, è annoverato fra i princìpi generali del diritto dell’UE e postula che il mezzo utilizzato da un’amministrazione per il conseguimento di uno scopo di interesse pubblico sia commisurato al fine perseguito e non risulti eccedentario rispetto a quanto necessario (e sufficiente) per conseguirlo[80].

Come si è già avuto modo di osservare in precedenza[81], il principio in esame  (che costituisce null’altro se non una declinazione del più generale principio di ragionevolezza) era stato autonomamente enucleato nell’ambito del dibattito interno oltre un secolo e mezzo prima che esso fosse – per così dire – ‘riscoperto’ dalla giurisprudenza della Corte di Lussemburgo.

Già nel 1814, infatti, nei suoi Principj fondamentali di diritto amministrativo[82] Gian Domenico Romagnosi aveva affermato che “la seconda regola pratica direttrice dell’amministrazione pubblica è far prevalere la cosa pubblica alla privata entro i limiti della vera necessità [ossia] col minimo possibile sacrificio della proprietà privata e libertà. Qui la prevalenza della cosa pubblica alla privata non colpisce il fine o l’effetto ma il semplice mezzo”.

Il principio in esame non incide quindi sull’attribuzione del potere pubblico in quanto tale (come nel caso del principio di sussidiarietà, del pari ascrivibile ai canoni della ragionevolezza e della proporzionalità), ma opera sulla misura concreta del suo esercizio comportandone una modulazione dinamica, pur senza compromettere in alcun modo la tendenziale prevalenza dell’interesse pubblico su quello privato.

Per quanto riguarda l’elaborazione del principio di proporzionalità occorre registrare una certa differenza di impostazione nella giurisprudenza nazionale e in quella eurounitaria (differenza che in larga parte si giustifica in ragione delle diverse modalità con cui il principio in esame è stato enucleato ed elaborato).

Nella giurisprudenza della Corte di giustizia, infatti, il richiamo al principio di proporzionalità è stato solitamente operato in relazione alla disciplina normativa dell’esercizio dei poteri pubblici (in tal senso, fra le molte, la sentenza Consorzio Stabile Libor del luglio 2014)[83] mentre lo stesso non risulta solitamente volto alle modalità di esercizio dell’attività amministrativa in quanto tale.

Al contrario, nell’elaborazione giurisprudenziale nazionale, l’esame sulla proporzionalità dell’azione amministrativa (talvolta compendiato nella formula del ‘minimo mezzo’) si è inizialmente sviluppato attraverso le forme e i metodi del sindacato in sede giudiziale sull’esercizio del potere pubblico (atteggiandosi quale strumento di controllo prima ancora che come regula iuris).

In definitiva, nell’esperienza nazionale (sul punto assai risalente) l’enucleazione del principio di ragionevolezza non ha preso le mosse dalla fisiologia delle dinamiche giuridiche, ma si è sviluppata prendendo le mosse dagli esiti patologici delle vicende amministrative, ovvero attraverso le figure sintomatiche dell’eccesso di potere (dalle quali, attraverso un percorso deduttivo, sono stati estrapolati i princìpi e le regole stesse del corretto agire amministrativo).

Nella sua originaria enucleazione nazionale, quindi, il principio di proporzionalità è sorto come strumento di controllo giurisdizionale e solo in una seconda fase (anche grazie a un processo di confronto ed avvicinamento con le categorie giuridiche eurocomuni e con l’elaborazione giurisprudenziale della Corte di giustizia) è assurto a principio generale dell’attività amministrativa, idoneo ad indirizzarne e regolarne l’attività attraverso il minor possibile sacrificio delle posizioni giuridiche e degli interessi individuali.

 

 

 

5.2. (segue) Il principio di tutela del legittimo affidamento.

 

Al livello europeo il principio di tutela del legittimo affidamento non risulta consacrato in ambito normativo e la sua enucleazione si deve in massima parte alla giurisprudenza della Corte di giustizia[84].

Sin dalla sentenza Töpfer del maggio 1978[85], infatti, la Corte ha affermato che “il principio della tutela del legittimo affidamento fa parte dell’Ordinamento giuridico comunitario”.

Tuttavia, nlla sua genesi storica, il principio in esame deriva essenzialmente dall’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale degli Stati membri e solo successivamente (come accaduto in relazione a numerosi altri princìpi dell’attività amministrativa) è stato fatto proprio dalla giurisprudenza della Corte di Lussemburgo[86].

In particolare, sin dai primi anni del Novecento la dottrina tedesca aveva riconosciuto piena rilevanza giuridica al legittimo affidamento (non solo nei rapporti interprivatistici – secondo una consolidata tradizione propria del diritto civile -, ma anche in quelli con i poteri pubblici), riconducendo tale principio alla più ampia sfera di operatività del principio della certezza del diritto (Rechtssicherheit).

Dal canto suo, la Corte costituzionale tedesca, ha elevato tale canone a ‘principio fondamentale dello Stato di diritto’, riconoscendone la valenza in tutti i casi in cui un cittadino che abbia legittimamente confidato nel perdurare di una condizione per lui vantaggiosa[87].

Nell’originaria enucleazione giurisprudenziale del principio in esame, esso risultava volto essenzialmente ad impedire l’illimitato esercizio dell’interpositio legislatoris nella disciplina di situazioni giuridiche ormai consolidate.

In particolare, la giurisprudenza tedesca ha fatto spesso riferimento al principio del legittimo affidamento del cittadino sulla stabilità di un certo assetto normativo per giustificare l’irretroattività delle leggi di segno sfavorevole.

Per le medesime ragioni è stato sancito il divieto per il legislatore di introdurre effetti svantaggiosi per l’affidamento del cittadino in fattispecie giuridiche completamente esaurite (si tratta delle ipotesi di c.d. ‘irretroattività propria’)[88].

In una fase successiva la giurisprudenza tedesca ha poi esteso il principio della tutela del legittimo affidamento anche ai rapporti fra privati ed amministrazione pubblica e l’articolo 48 della VwVfG ha generalizzato tale principio in relazione all’esercizio del potere di ritiro degli atti amministrativi illegittimi (sino a stabilire che «[il provvedimento illegittimo] non può essere ritirato ove il beneficiario abbia fatto affidamento sull’esistenza dell’atto amministrativo e il suo affidamento, previa ponderazione dell’interesse pubblico al ritiro, risulti meritevole di tutela»).

Ma l’enucleazione del principio di legittimo affidamento non può essere attribuita unicamente all’elaborazione del diritto tedesco (e, più in generale, dei Paesi di civil law), avendo conosciuto significative affermazioni anche nei Paesi di common law.

In particolare, si può individuare una matrice storica comune alle diverse tradizioni giuridiche europee per quanto riguarda l’enucleazione di tale principio, il quale è riconducibile al generale divieto del venire contra factum proprium (divieto, questo, ben noto all’esperienza romanistica che vi aveva innestato le diverse figure di exceptio doli).

Il principio in questione si è poi diramato con connotazioni diverse negli ordinamenti continentali rispetto a quelli di common law, sino a condurre, alla fine del XIX secolo, alla formulazione della regola dell’estoppel nell’ambito del diritto inglese[89].

Come è noto, in base alla regola dell’estoppel, «se un soggetto, con le sue parole o il suo comportamento, induce un altro a confidare su una situazione di apparenza, non gli è consentito successivamente di agire in contraddizione con l’affidamento ingenerato, se ciò condurrebbe ad un risultato contrario a giustizia ed equità»[90].

Ma il principio di tutela del legittimo affidamento era noto anche all’esperienza giuridica italiana ben prima di essere fatto proprio dalla giurisprudenza della Corte di giustizia e di essere – per così dire – re-introdotto nell’Ordinamento interno attraverso quel procedimento di carattere ciclico di cui si è detto nel precedente paragrafo.

Nell’elaborazione nazionale, tuttavia, si riscontra un’indubbia peculiarità nello sviluppo degli studi relativi all’istituto rispetto a quanto avvenuto in altri Paesi europei.

Ed infatti, mentre nell’esperienza tedesca e inglese (nonché in quella austriaca e francese) il principio del legittimo affidamento viene considerato come un corollario del più generale principio della certezza del diritto, nell’elaborazione italiana il principio in parola viene esaminato in primis come una specificazione del principio di buona fede (trovando riconoscimento nell’ambito dei rapporti privatistici prima ancora che in quelli di diritto pubblico)[91].

Nel corso degli anni, comunque, la valenza di tale principio è stata estesa anche alle categorie del diritto pubblico, sino ad indurre la Corte costituzionale a dichiarare costituzionalmente illegittima una disposizione di legge (l’articolo 5 cod. pen. in materia di ignoranza della legge penale) nella parte in cui irragionevolmente non ammette(va) un errore scusabile del singolo (Corte cost., sent. 364 del 1988)[92].

Ma (almeno negli ultimi due decenni) il principio in questione ha conosciuto un ampio e generalizzato riconoscimento anche da parte della giurisprudenza amministrativa, sino ad indurre il Consiglio di Stato ad affermare che “nel rispetto dei principi fondamentali fissati dall’art. 97 della Costituzione, l’amministrazione è tenuta ad improntare la sua azione non solo agli specifici principi di legalità, imparzialità e buon andamento, ma anche al principio generale di comportamento secondo buona fede, cui corrisponde l’onere di sopportare le conseguenze sfavorevoli del proprio comportamento che abbia ingenerato nel cittadino incolpevole un legittimo affidamento[93].

Ma il settore in cui probabilmente il principio della tutela del legittimo affidamento è pervenuto agli esiti di maggior rilievo sistematico è quello dell’autotutela amministrativa.

E’ qui appena il caso di ricordare che la giurisprudenza amministrativa aveva enucleato i presupposti per il legittimo esercizio del potere di annullamento degli atti illegittimi[94] ben prima che la legge n. 15 del 2005 (attraverso l’introduzione dell’articolo 21-nonies) ne subordinasse il legittimo esercizio al duplice presupposto della ragionevolezza del termine e della valutazione degli interessi dei destinatari (i.e.: ai due elementi su cui si tradizionalmente fonda la categoria stessa del legittimo affidamento).

Va comunque osservato che l’elaborazione giurisprudenziale nazionale relativa al principio del legittimo affidamento, pur riconoscendo l’esistenza di un analogo principio generale nell’ambito del diritto eurounitario, ha sviluppato la propria elaborazione secondo percorsi e metodi marcatamente autonomi, fissando presupposti e condizioni nettamente distinti rispetto a quelli propri dell’elaborazione della Corte di giustizia.

Basti qui richiamare l’approccio estremamente rigoroso serbato dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato sul tema dell’esercizio dell’autotutela nel caso di erroneo rilascio di un titolo edilizio favorevole ma non dovuto e su quello – in parte collegato - del tardivo esercizio del potere di repressione degli abusi edilizi (sentt. 8 e 9 del 2017)[95].

Ai ben limitati fini che qui rilevano ci si limita ad osservare che, con le pronunce in parola, l’Adunanza plenaria ha delineato una nozione estremamente restrittiva del canone della buona fede (e della connessa categoria del legittimo affidamento)[96] in tal modo intraprendendo un percorso consapevolmente diverso e autonomo rispetto a quello tracciato dalle sentenze della Corte di giustizia (che, con maggiore ampiezza di conseguenze, hanno declinato in executivis il medesimo principio).

Più in generale, può registrarsi una rilevante diversità nell’approccio stesso serbato dall’Ordinamento eurounitario e da quello nazionale per ciò che riguarda il principio di tutela del legittimo affidamento.

Mentre, infatti, nell’elaborazione giuridica eurounitaria il principio in esame si configura come regola di carattere attizio (volta a limitare a monte il potere degli organi pubblici nell’adozione di determinati atti)[97], nell’elaborazione giuridica nazionale essa viene piuttosto intesa come regola di carattere comportamentale (la quale – ferma restando l’attribuzione di una determinata sfera di attribuzioni - ne condiziona l’esercizio in concreto).

Anche in questo importante settore, quindi, il combinato operare delle categorie e dei princìpi del diritto eurounitario e di quello nazionale non avviene in modo – per così dire – ‘unidirezionale’ (attraverso il solo principio della primauté dei primi rispetto ai secondi, ovvero secondo quella che Sabino Cassese ha definito la “signoria comunitaria sul diritto amministrativo”)[98].

Al contrario, i princìpi generali dell’attività amministrativa di matrice eurounitaria e quelli propri delle esperienze giuridiche nazionali (ben più antichi dei primi e talvolta derivanti da esperienze secolari) operano in sostanza secondo una dinamica multidirezonale e in un rapporto di pari dignità assiologica.

Il combinato operare di tali categorie e princìpi interviene talvolta in una direzione ‘ascendente’ (i.e.: dagli ordinamenti nazionali verso quello UE), talvolta in un’opposta direzione ‘discendente’; talvolta ancora (e più di frequente) secondo un andamento ‘ciclico’ che comporta una feconda osmosi di esperienze e categorie, contribuendo in modo determinante al fenomeno - ormai maturo – della convergenza fra i diversi modelli amministrativi al livello continentale[99].

 

Claudio Contessa

(Presidente di Sezione del C.g.a.)

 

Pubblicato il 9 maggio 2020

 

 

NOTA BIBLIOGRAFICA

 

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(*) Il presente contributo è tratto da: C. Contessa, R. Greco (a cura di), L’attività amministrativa e le sue regole (a trent’anni dalla legge n. 241/1990), Piacenza, 2020.

 NOTE:

[1] G.D. Romagnosi, Principj fondamentali di diritto amministrativo onde tesserne le istituzioni, prima Ed., Parma, 1814 (anche se l’Opera è conosciuta principalmente nella terza edizione – Prato, 1835 -). Sul punto v. infra, par. 5.1.

[2] G. Filangieri, La Scienza della legislazione, Napoli, 1780 (la citazione è tratta dal Vol. II – ‘Le leggi politiche ed economiche’).

[3] E’ noto al riguardo che, dopo numerosi tentativi di sistematizzazione normativa rimasti privi di esiti concreto, un apporto determinante all’adozione di una legge generale sul procedimento amministrativo fu fornito dal lavoro della c.d. ‘Commissione Nigro’, la quale elaborò uno schema di articolato assunto come base per la successiva adozione della l. 241/1990. Sul punto, v. R. Chieppa, Maro Nigro e la disciplina del procedimento amministrativo, in: Riv. Trim. Dir. pubblico, fasc. 3/2010, pag. 667, ss.

[4] Nell’originaria formulazione della l. 241 del 1990, l’articolo 1 (inizialmente privo di rubrica legis) stabiliva che «l’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta da criteri di economicità, di efficacia e di pubblicità secondo le modalità previste dalla presente legge e dalle altre disposizioni che disciplinano singoli procedimenti».

[5] Ci si riferisce alla l. 15 del 2005 la quale: i) ha incluso nell’ambito dei princìpi generali il richiamo espresso al canone della trasparenza; ii) ha menzionato in modo espresso i princìpi dell’ordinamento comunitario; iii) ha enunciato il principio secondo cui la P.A., nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme del diritto privato, «salvo che la legge disponga diversamente» (sul punto, v. infra, par. 4).

[6] Il riferimento va alla l. 69 del 2009 la quale ha introdotto il canone dell’imparzialità nel novero dei princìpi generali dell’attività amministrativa di cui all’articolo 1, l. proc.

[7] Ci si riferisce alla l. 190 del 2012 il quale ha parzialmente modificato il comma 1-ter dell’articolo 1, l. proc., per quanto riguarda i princìpi applicabili dai soggetti privati preposti all’esercizio di attività amministrative.

[8] Emblematica in tal senso la sentenza della IV Sezione del 17 maggio 1907 sul caso Società di navigazione generale italiana.

[9] In tal senso la sentenza della IV Sezione del 23 febbraio 1906 sul caso Maestro Corti.

[10] Sul punto: F. Benvenuti, Introduzione alla procedura amministrativa in Italia, in: G. Pastori (a cura di), La procedura amministrativa, Vicenza, 1964, pag., 557; V. Crisafulli, Principio di legalità e giusto procedimento, in Giur. cost., 1962, pag. 135 e s.

[11] M. Clarich, Manuale di diritto amministrativo, Bologna, 2018, Cap. I, par. 5.

[12] Ibidem.

[13] Sul punto: D.U. Galetta, La legge tedesca sul procedimento amministrativo (Verwaltungsverfahrensgesetz), Milano, 2002, pag. 17 e passim.

[14] Ai sensi del Par. 10, alinea 2 della VwVfG «[Das Verwaltungsverfahren] ist einfach, zweckmäßig und zügig durchszuführen».

[15] M.S. Giannini, Istituzioni di diritto amministrativo, Milano, 1981, pag. 263.

[16] C. Esposito, La Costituzione italiana, Padova, 1954, pag. 248.

[17] Ivi, pag. 258.

[18] Ivi, pag. 248.

[19] G. Barone, L’intervento del privato nel procedimento amministrativo, Milano, 1969, passim.

[20] U. Allegretti, L’imparzialità amministrativa, Padova, 1965, pag. 313.

[21] P. Barile, in: Scritti giuridici in memoria di Piero Calamandrei, IV, Padova, 1958, pag. 30. Per una critica alla ricostruzione in esame, v.: Esposito, op. cit., pag. 42.

[22] In tal senso: A. Cerri, Imparzialità e indirizzo politico nella pubblica amministrazione, Padova, 1973, pag. 187.

[23] Cons. Stato, V, sent. 1° aprile 2009, n. 2070.

[24] Sul punto sia consentito richiamare C. Contessa, Forme e metodi del sindacato giurisdizionale sugli atti delle Autorità indipendenti, in: www.giustizia-amministrativa.it (2019).

[25] C. Moser, Commento all’articolo 1, in: F. Caringella, D. Giannini (a cura di), Codice del procedimento amministrativo, Roma, 2010.

[26] Il principio in questione è stato da ultimo codificato nel testo dell’articolo 21-sexies della l. 241/1990 (per come introdotto dalla l. 15/2005) secondo cui le pubbliche amministrazioni possono imporre coattivamente l’adempimento degli obblighi nei loro confronti, ma solo «nei casi e con le modalità stabiliti dalla legge».

[27] Come è noto, ai sensi del comma 2 di tale articolo «non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato»

[28] Sia qui consentito richiamare C. Contessa, Studi e lezioni di diritto amministrativo, IIa ed., Piacenza, 2019, pag. 108, seg.

[29] Ibidem.

[30] Sul punto sia consentito fare rinvio a C. Contessa, L'art. 21-octies fra tutela delle garanzie procedimentali e rischi di "partecipazione inutile", in Urbanistica e appalti, 2009, 9, pag. 1111.

 

[31] S. Giacchetti, L’interesse legittimo alle soglie del 2000, in LexItalia.it.

[32] Sul punto: S. Cassese, La semplificazione amministrativa e l’orologio di Taylor, in: Riv. Trim. Dir. Pubbl., 1998, pag. 699, segg.

[33] Sul punto v. amplius infra, par. 4.

[34] Ibidem.

[35] A. De Roberto, Prime note sulla nuova disciplina del procedimento amministrativo in: T.A.R., fasc. 1/1991, pag. 10.

[36] V. Italia, Le disposizioni di principio stabilite dal legislatore, Milano, 1970, pag. 357 e passim.

[37] Ibidem.

[38] Ai sensi dell’articolo in questione «ove l’autorità possa agire sulla base della sua discrezionalità, essa deve esercitarla conformemente allo scopo per il quale il potere le è stato attribuito e rispettare i limiti normativi posti alla sua discrezionalità».

[39] Par. 5.1.

[40] F. Castiello, Il nuovo modello di amministrazione, Rimini, 2002, pag. 32, seg.

[41] Ibidem, pag. 33.

[42] N. Rangone, Semplificazione amministrativa, in: www.treccani.it (2014).

[43] G. Melis, Storia dell’amministrazione italiana (1861-1993), Bologna, 1996, pag. 284, ss.

[44] Basti qui richiamare la l. 11/2016 (recante la delega per l’adozione del nuovo ‘Codice dei contratti pubblici’ del 2016) il cui articolo 1, comma 1, nel fissare i criteri direttivi per l’esercizio della delega legislativa, indica per ben quattordici volte l’obiettivo generale della semplificazione normativa e della disciplina dei procedimenti.

[45] In tal senso: A. Travi, La liberalizzazione, in Riv. trim. dir. pubbl., 1998, pag. 652.

[46] OCSE, Overcoming Barriers to Administrative Simplification Strategies: Guidance for Policy Makers, 2009. Sul punto v. anche N. Rangone, Semplificazione Amministrativa, cit., par. 1 e passim.

[47] S. Cassese, Le basi del diritto amministrativo, 1995, pag. 471, seg.

[48] N. Rangone, op. loc. cit.

[49] Sul punto: G. Soricelli, Il tempo quale bene della vita nel procedimento amministrativo e il danno da ritardo: un falso problema?, in: Gazzetta amministrativa 1/2017; T. Frosini, Temporalità e diritto, in: Riv. Civ., 1999, pag. 431. Si rinvia inoltre al saggio di R. Caponigro di cui al Capitolo 11 del presente volume.

[50] G. Soricelli, op. loc. cit.

[51] Ibidem.

[52] Ivi.

[53] Sul punto: P. Quinto, Il tempo «bene della vita» nel procedimento amministrativo: la tutela risarcitoria, in: www.giustizia-amministrativa.it.

[54] Cons. Stato, Ad. Plen. 15 settembre 2005, n. 7, in: Foro It., 2006, 1, 3, 1 nota di G. Sigismondi.

[55] In tal senso: Cons. Stato, 28 febbraio 2011, n. 1271.

[56] Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana, sent. 4 novembre 2010, n. 1368.

[57] E’ qui appena il caso di ricordare che talune forme di indennizzo automatico e forfetario connesse al mero superamento del termine procedimentale erano state già previste dalla l. 59 del 1997 (c.d. ‘Bassanini-1’), ma che la delega in tale occasione conferita non è stata poi esercitata dal Governo.

[58] Sul punto, v. da ultimo le sentenze Corte cost., sentenze numm. 238 del 2013, 308 del 2013 e 212 del 2014.

[59] In tal senso (ex multis): Corte cost., sentenze numm. 406 del 1995, 352 del 1996 e 477 del 2000.

[60] S. Musolino, I rapporti Stato-Regioni nel nuovo Titolo V, Milano, 2007, pag. 27, segg.

[61] Sul punto: V. Cerulli Irelli, Osservazioni generali sulla legge di modifica della L. n. 241/1990, in: www.giustizia-amministrativa.it (2005).

[62] Il catalogo in questione è stato ulteriormente ampliato dal decreto-legge n. 78/2010 (il quale ha aggiunto il richiamo espresso all’istituto della conferenza di servizi), nonché dal decreto legislativo n.126/2016 (il quale ha, a propria volta, aggiunto il riferimento alla presentazione di istanze, segnalazioni e comunicazioni).

[63] S. De Mattia, Commento all’articolo 1, in: F. Caringella, D. Giannini (a cura di) Codice del procedimento amministrativo, Roma, 2010, pag. 68.

[64] Ibidem.

[65] In: Foro It., 2000, I, 1483, con nota di richiami di D. Dalfino.

[66] Sul punto è qui appena il caso di richiamare l’ormai classico Contributo to ad una teoria dell'interesse legittimo nel diritto privato di L. Bigliazzi Geri (Milano, 1967).

[67] Una conferma in termini positivi di tale impostazione è desumibile dall’articolo 30, comma 8 del ‘Codice dei contratti pubblici’ del 2016, a tenore del quale «per quanto non espressamente previsto nel presente codice e negli atti attuativi (…) alla stipula del contratto e alla fase di esecuzione si applicano le disposizioni del codice civile». In termini del tutto analoghi deponeva l’articolo 2, comma 4 del previgente codice del 2006.

 

[68] Sul punto sia consentito richiamare: C. Contessa, Studi e lezioni di diritto amministrativo, cit., pag. 323 e segg. (in particolare: par. 6).

[69] Cons. Stato, Ad. Plen. 3 giugno 2011, n. 10, in: Foro it., 2011, III, 385 con nota di M. Granieri, Di università imprenditoriale, società «spin-off» e finalità istituzionali dell’ente.

[70] J. Monnet, Mémoires, Paris, 1976, pag. 547.

[71] M. P. Chiti, Diritto amministrativo europeo, Milano, 2004, pag. 403.

[72] Sul punto: G. Della Cananea, L’amministrazione europea, in: S. Cassese (a cura di), Trattato di diritto amministrativo – Parte generale, Tomo II, Milano, 2003, pag. 1797 e segg.

[73] Il paragrafo 1 dell’articolo 41, cit. stabilisce che «ogni persona ha diritto a che le questioni che la riguardano siano trattate in modo imparziale ed equo ed entro un termine ragionevole dalle istituzioni, organi ed organismi dell’Unione».

[74] J. Schwarze, European Administrative Law, London, 1992, pag. 4.

[75] R. Monaco, Lineamenti di diritto pubblico europeo, Milano, 1975, pag. 77.

[76] Sul punto: M. P. Chiti, Diritto amministrativo europeo, Milano, 2008, pag. 174 e seg.

[77] G. Sgueo, I princìpi generali dell’azione amministrativa nell’ordinamento nazionale e in quello comunitario, in: Diritto.it.

[78] A. Massera, M. Simoncini, F. Spagnuolo, Note minime sul diritto amministrativo dell’integrazione europea, in: Astrid-online.it.

[79] Sul punto: M. P. Chiti, Diritto amministrativo europeo, cit., pag. 164 e seg.

[80] Sul punto (ex multis): Corte di giustizia dell’UE, sent. 6 marzo 2014, in causa C-206/13 (Siragusa); sentenza 11 aprile 2019 in cause riunite C-473/17 (Repsol Butano) e C-546/17 (DISA Gas SAU).

[81] Retro, par. 1.

[82] G.D. Romagnosi, Principj fondamentali di diritto amministrativo onde tesserne le istituzioni, Prato, 1835, p. 15, segg. (ma la prima edizione è del 1814).

[83] Corte di giustizia dell’UE, sentenza 10 luglio 2014 in causa C-358/12.

[84] J. Temple Lang, Legal certainty and legitimate expectations as general principles of law, in U. Bernitz, J. Nergelius (a cura di), General principles of EC law, The Hague, London, Boston, 1999, p. 170.

[85] Corte di giustizia dell’UE, sentenza 3 maggio 1978 in causa C-112/77.

[86] Sul punto, M. Bacci, Evoluzione del principio del legittimo affidamento nel diritto dell’Unione europea e degli Stati membri, in Masterdirittoprivatoeuropeo.it.

[87] BVerfGE, 3, 237 (sent. n. 15 del 18 dicembre 1953); BVerfGE,7, 89 ss. (sent. n. 14 del 24 luglio 1957); BVerfGE, 15, 319 (sent. n. 30 del14 Marzo 1963); BVerfGE, 25, 167 ss. (sent. n. 20 del 29 Gennaio 1969); BVerfGE, 27, 297 ss. (sent. n. 28 del 16 Dicembre 1969); BVerfGE, 60, 267 (sent. n. 20 del 20 aprile 1982); BVerfGE, 86, 268 II, 327 (sent. n. 15 del 3 giugno 1992). Sul punto v. anche: F. Merusi, Buona fede e affidamento nel diritto pubblico. Dagli anni “trenta” all’“alternanza”, Milano, 2001, pagg. 21 ss.; 85 ss.

[88] M. Bacci, Evoluzione del principio del legittimo affidamento, cit., par. 2.

[89] L.Vagni, La regola dell’affidamento nel diritto comune europeo, in Riv. trim. dir. proc. civ., fasc. 2, 2013, pag. 573.

[90] M. Bacci, op. loc., cit.

[91] Ibidem.

[92] In: Foro it., 1990, I, 415 nota di Grande.

[93] Cons. Stato, IV, sent. 25 maggio 2008, n. 2536.

[94] In base a un orientamento più che consolidato il legittimo esercizio del potere di auto-annullamento postula: i) l’accertamento di un interesse pubblico concreto e diverso dal mero interesse al ripristino della legalità violata; ii) il bilanciamento con l’interesse privato alla conservazione degli effetti dell’atto illegittimo, in virtù dell’affidamento riposto nella sua validità, da valutarsi in relazione alle circostanze concrete ed in particolar modo al lasso di tempo intercorso fra l’adozione dell’atto ed il suo annullamento (sul punto – ex multis -: Cons. Stato, 18 luglio 1992, n 704).

[95] In: Giorn. Dir. Amm., fasc. 1/2008, pag. 67, con nota di M. Trimarchi, Il contrasto all'abusivismo edilizio tra annullamento d'ufficio e ordine di demolizione; nonché in: Urb. e appalti, fasc. 1/2018, pag. 45, segg., con nota di G. Manfredi, La plenaria sull'annullamento d'ufficio del permesso di costruire: fine dell'interesse pubblico in re ipsa?

[96] Secondo l’Ad. Plen. 8 del 2017 in particolare, “[se] è vero in via generale che il potere della P.A. di annullare in via di autotutela un atto amministrativo illegittimo incontra un limite generale nel rispetto dei principi di buona fede, correttezza e tutela dell’affidamento comunque ingenerato dall’iniziale adozione dell’atto (….), è parimenti vero che le medesime esigenze di tutela non possono dirsi sussistenti qualora il contegno del privato abbia consapevolmente determinato una situazione di affidamento non legittimo. In tali casi l’amministrazione potrà legittimamente fondare l’annullamento in autotutela sulla rilevata non veridicità delle circostanze a suo tempo prospettate dal soggetto interessato, in capo al quale non sarà configurabile una posizione di affidamento legittimo da valutare in relazione al concomitante interesse pubblico”.

[97] Nella giurisprudenza della Corte di giustizia, infatti, il principio in esame costituisce una declinazione del più generale principio della certezza del diritto e si scompone a propria volta in tre declinazioni concrete (l’irretroattività degli atti normativi, la tutela del legittimo affidamento e la protezione dei diritti quesiti), ciascuna delle quali idonea a condizionare – per così dire: ‘a monte’ l’esercizio del potere pubblico. Sul punto: M. Bacci, op. loc. cit., par. 5

[98] S. Cassese, Lo spazio giuridico globale, Bari, 2006, Cap. VII.

[99] M. P. Chiti, Diritto amministrativo europeo, cit., pag. 174 e passim.