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Anno XVI - n. 04 - Aprile 2024

  Giurisprudenza Amministrativa delle Corti Supreme
  A cura di Anna Laura Rum



Analisi dei più importanti principi sostanziali e processuali espressi dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, nel 2023.

Di Anna Laura Rum
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 Analisi dei più importanti principi sostanziali e processuali

espressi dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, nel 2023 

Di  Anna Laura Rum

Sommario: 1. Adunanza Plenaria, sentenze nn. 2 e 3 del 2023: l’incremento premiale del quinto, ex art. 61, comma 2, del d.P.R. n. 207 del 2010, si applica anche, per il raggruppamento c.d. misto, alle imprese del singolo sub-raggruppamento orizzontale per l’importo dei lavori della categoria prevalente o della categoria scorporata a base di gara. 2. Adunanza Plenaria, sentenza n. 4 del 2023: l’ordinanza resa nel corso del processo di primo grado sull’istanza di accesso documentale, ai sensi dell’art. 116, secondo comma, cod. proc. amm., è appellabile innanzi al Consiglio di Stato. 3. Adunanza Plenaria, sentenza n. 5 del 2023, sul vincolo di destinazione d’uso del bene culturale. 4. Adunanza Plenaria, sentenze nn. 6, 7 e 8 del 2023: la pendenza del controllo giudiziario a domanda ex art. 34-bis, comma 6, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, non è causa di sospensione del giudizio di impugnazione contro l’informazione antimafia interdittiva.  5. Adunanza Plenaria, sentenze nn. 9 e 10 del 2023: l’appello proposto avverso una sentenza del Tar per la Sicilia (Sede di Palermo o Sezione staccata di Catania) può essere deciso unicamente dalla sezione giurisdizionale del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana, la quale, a tutti gli effetti, è una sezione del Consiglio di Stato 6. Adunanza Plenaria, sentenza n. 12 del 2023: l’inidoneità attitudinale sopravvenuta è causa di cessazione del rapporto di lavoro ai sensi dell’art. 129 T.u. impiegati civili dello Stato. 7. Adunanza Plenaria, sentenza n. 16 del 2023, su ordine di demolizione e nuda proprietà.

 

  1. Adunanza Plenaria, sentenze nn. 2 e 3 del 2023: l’incremento premiale del quinto, ex art. 61, comma 2, del d.P.R. n. 207 del 2010, si applica anche, per il raggruppamento c.d. misto, alle imprese del singolo sub-raggruppamento orizzontale per l’importo dei lavori della categoria prevalente o della categoria scorporata a base di gara.

I fatti di causa hanno ad oggetto una gara pubblica per l’affidamento di lavori di consolidamento di un ponte.

Per l’aggiudicazione, è stato scelto il criterio del minor prezzo, ai sensi dell’art. 36, comma 9-bis, del d. lgs. n. 50 del 2016.

All’esito della gara, si è collocato al primo posto un raggruppamento temporaneo di imprese.

In seguito, tuttavia, il direttore della Centrale unica di committenza ha annullato, in autotutela, la proposta di aggiudicazione, disponendo contestualmente lo scorrimento della graduatoria a favore di un altro r.t.i. In particolare, l’intervento in autotutela si basava sul difetto di qualificazione della mandante del r.t.i. primo aggiudicatario, in possesso di certificazione SOA non congrua ad eseguire i lavori.

Contro il provvedimento in autotutela, e contro gli atti presupposti, compreso il bando di gara nell’interpretazione fatta propria dalla stazione appaltante, ha presentato impugnazione il r.t.i. primo aggiudicatario.

Oltre all’annullamento, previa sospensione, degli atti impugnati, è stata chiesta la declaratoria di inefficacia del contratto eventualmente stipulato e, in subordine, è stata chiesta la condanna al risarcimento del danno, indicato nelle spese di partecipazione alla gara, nel lucro cessante (10% dell'importo offerto), e nel mancato accrescimento della qualificazione professionale (3% in via equitativa dell’importo a base di gara).

Il Tribunale di prime cure ha respinto il ricorso: in sintesi, secondo il primo giudice, il punto controverso è se nell’applicazione dell’art. 61 comma 2 del d.P.R. n. 207 del 2010 vada seguita un’interpretazione letterale o un’interpretazione adeguatrice, che tenga conto della particolarità dei raggruppamenti misti, dove all’interno delle categorie verticali sono inseriti subraggruppamenti orizzontali.

L’art. 61, comma 2, osserva la sentenza impugnata, è facilmente applicabile ai raggruppamenti orizzontali, caratterizzati dall’interscambiabilità delle prestazioni tra le varie imprese raggruppate.

Secondo il Tar, il raggruppamento è uno strumento flessibile, che consente di regolare preventivamente le quote di esecuzione dei lavori, per farle corrispondere alle qualificazioni espresse in categorie e classifiche, sicché, al momento della formazione dell’offerta, sarebbe sempre possibile coinvolgere ulteriori imprese, e in particolare imprese marginali, per raggiungere la soglia minima di qualificazione richiesta dal bando dal momento che la necessità, nota fin dall’inizio, di aumentare il numero delle imprese associate non può essere considerata un onere sproporzionato o eccessivamente difficile.

Ne conseguirebbe che l’interpretazione letterale dell’art. 61, comma 2, del d.P.R. n. 207 del 2010 non determina effetti anticoncorrenziali, mentre effetti negativi per l’interesse pubblico deriverebbero invece dall’interpretazione adeguatrice, che suddivide il valore complessivo dell’appalto negli importi delle singole categorie.

Il beneficio del quinto è già per sé un istituto che indebolisce le garanzie di affidabilità e professionalità collegate alla griglia delle attestazioni SOA, perché permette di eseguire lavori oltre la qualificazione posseduta.

Calcolando il quinto sul valore a base di gara, la deroga rimarrebbe circoscritta, secondo il Tribunale, in quanto l’impresa deve comunque possedere un congruo livello di esperienza professionale rispetto all’insieme dei lavori.

Al contrario, se si calcola il quinto sulla singola categoria, si introduce una leva che potrebbe moltiplicare l’accesso ai lavori da parte di imprese non qualificate, aumentando i rischi di una non corretta esecuzione dell’appalto.

Avverso tale sentenza ha proposto appello il r.t.i. originario aggiudicatario e, nel dedurne l’erroneità sulla base di una non condivisibile interpretazione dell’art. 61, comma 2, del d.P.R. n. 207 del 2010, ne ha chiesto, previa sospensione dell’esecutività, la riforma, con il conseguente annullamento degli atti gravati in prime cure.

Con ordinanza, la sezione V del Consiglio di Stato ha ritenuto, in presenza di un contrasto giurisprudenziale circa l’interpretazione dell’art. 61, comma 2, del d.P.R. n. 207 del 2010, di porre all’Adunanza Plenaria il quesito se lo stesso art. 61, comma 2, nella parte in cui prevede, quale condizione per l’attribuzione, ai fini della qualificazione per la categoria di lavori richiesta dalla documentazione di gara, del beneficio dell’incremento del quinto, che ciascuna delle imprese concorrenti in forma di raggruppamento temporaneo, il presupposto della sussistenza, per ciascuna delle imprese aggregate, di una qualificazione «per una classifica pari ad almeno un quinto dell'importo dei lavori a base di gara», si interpreti, nella specifica ipotesi di partecipazione come raggruppamento c.d. misto, nel senso che tale importo a base di gara debba, in ogni caso, essere riferito al valore complessivo del contratto ovvero debba riferirsi ai singoli importi della categoria prevalente e delle altre categorie scorporabili della gara.

L’ordinanza, dopo aver esposto l’esistenza di due divergenti orientamenti ritenuti entrambi non condivisibili (rispettivamente rappresentati dall’indirizzo di Cons. St., sez. III, 13 aprile 2021, n. 3040 e da C.G.A.R.S., sez. giurisd., 11 aprile 2022, n. 450), ha invero prospettato una interpretazione “orientata” (od “adeguatrice”) dell’art. 61, comma 2, del d.P.R. n. 207 del 2010, nel senso che, nei raggruppamenti di tipo misto, i componenti di ciascuno dei sub-raggruppamenti di tipo orizzontale siano abilitati a partecipare alle gare e ad eseguire i lavori «nei limiti della propria classifica incrementata di un quinto», purché siano qualificati per una classifica pari ad almeno un quinto «dell’importo della categoria di lavori cui lo stesso componente partecipa».

L’Adunanza Plenaria ritiene che al quesito posto dalla Sezione rimettente con riferimento all’interpretazione dell’art. 61, comma 2, del d.P.R. n. 207 del 2010, debba rispondersi che, in caso di raggruppamento c.d. misto, tale importo a base di gara debba riferirsi ai singoli importi della categoria prevalente e delle altre categorie scorporabili della gara: l’art. 61, comma 2, del d.P.R. n. 207 del 2010 prevede che «la qualificazione in una categoria abilita l’impresa a partecipare alle gare e ad eseguire i lavori nei limiti della propria classifica incrementata di un quinto; nel caso di imprese raggruppate o consorziate la medesima disposizione si applica con riferimento a ciascuna impresa raggruppata o consorziata, a condizione che essa sia qualificata per una classifica pari ad almeno un quinto dell’importo dei lavori a base di gara; nel caso di imprese raggruppate o consorziate la disposizione non si applica alla mandataria ai fini del conseguimento del requisito minimo di cui all’articolo 92, comma 2».

La Plenaria sottolinea che si tratta dell’istituto del c.d. incremento del quinto, istituto introdotto nel settore dei lavori pubblici dall’art. 5 della l. n. 57 del 1962, istitutiva dell’Albo Nazionale degli appaltatori, per quanto concerne l’impresa singola, e dall’art. 21 della l. n. 584 del 1977 sugli appalti pubblici, per quanto concerne le imprese riunite, con la c.d. condizione del quinto rapportato all’importo dei lavori a base d’asta.

L’art. 61, comma 2, del d.P.R. n. 207 del 2010 tuttora vigente, nel cristallizzare un lungo percorso normativo e giurisprudenziale, ha inteso codificare nella stessa disposizione le due distinte regole, relative, la prima, all’impresa singola e, la seconda, al raggruppamento di imprese.

Secondo la Plenaria, la funzione della prima regola – secondo cui la qualificazione in una categoria abilita l’impresa a partecipare alle gare e ad eseguire i lavori nei limiti della propria classifica incrementata di un quinto – è quella di evitare che l’apertura al mercato degli appalti comunitari alle piccole e medie imprese possa attuarsi con pregiudizio delle condizioni basilari di affidabilità tecnica e finanziaria di ciascuna struttura aziendale e si traduce nell’apposizione di un limite alle capacità e dimensioni della singola impresa.

Invece, la funzione della seconda regola – secondo cui, in caso di imprese raggruppate o consorziate, il beneficio dell’aumento del quinto si applica a condizione che l’impresa si qualificata per una classifica pari ad almeno un quinto dell’importo dei lavori a base di gara – èa quella di garantire l’amministrazione che la pur necessaria suddivisione dei compiti, congeniale allo strumento del raggruppamento di imprese, non comprometta la complessiva efficienza ed adeguatezza della più vasta aggregazione imprenditoriale aggiudicataria dell’appalto, la quale deve offrire, nel sistema di qualifica affidato all’iscrizione all’albo costruttori, una classifica totale almeno pari a quella dell’importo dei lavori affidati.

Quanto alla seconda regola, la Plenaria sottolinea che l’art. 61, comma 2, del d.P.R. n. 207 del 2010, come è reso evidente anche dal riferimento finale della disposizione all’art. 92, comma 2, del d.P.R. n. 207 del 2010 per il requisito minimo della mandataria, prende in considerazione la prima e preminente ipotesi del c.d. raggruppamento orizzontale, costituito da imprese riunite per realizzare un appalto unitario, caratterizzato da un’unica lavorazione (e, quindi, da un’unica categoria richiesta: cfr. art. 48, comma 1, seconda parte, del d. lgs. n. 50 del 2016), essendo esse portatrici delle medesime competenze per l’esecuzione delle prestazioni oggetto dell’appalto.

In questa ipotesi, che costituisce storicamente la prima forma aggregativa conosciuta dall’esperienza dei lavori pubblici, l’importo dei lavori a base d’asta evidentemente coincide con quella della singola lavorazione, come ben rammenta l’ordinanza di rimessione, anche se la prassi imprenditoriale e la legislazione dei contratti pubblici hanno visto poi emergere, e regolare, nuove forme aggregative e partecipative alle gare, con suddivisione di singole categorie di lavorazioni, prevalente e scorporabili, tra imprese specificamente qualificate.

La Plenaria ricorda come si sia ben presto delineata la figura del c.d. raggruppamento verticale, in cui uno degli operatori economici interessati è chiamato ad eseguire i lavori della “categoria prevalente”, mentre gli altri sono preposti all’esecuzione delle (distinte) “categorie scorporabili” (art. 48, comma 1, prima parte del d. lgs. n. 50 del 2016).

Al riguardo l’art. 92, comma 3, del d.P.R. n. 207 del 2010 stabilisce che i requisiti di qualificazione economico-finanziari e tecnico-organizzativi sono posseduti dalla mandataria nella categoria prevalente e nelle categorie scorporate ciascuna mandante possiede i requisiti previsti per l’importo dei lavori della categoria che intende assumere e nella misura indicata per l’impresa singola.

Nell’ipotesi di raggruppamento verticale c.d. puro, ciascuna mandante, come prevede l’art. 92, comma 3, del d.P.R. n. 207 del 2010, è chiamata ad eseguire i lavori della categoria scorporata e deve avere la classifica «nella misura indicata per l’impresa singola» e potrà giovarsi dell’incremento premiale del quinto, in base alla prima regola, nella misura indicata dalla prima parte dell’art. 61, comma 2, e cioè «nei limiti della propria classifica incrementata di un quinto».

Il Collegio evidenzia come l’art. 61, comma 2, del d.P.R. n. 207 del 2010 non si è riferito espressamente, invece, ai raggruppamenti cc.dd. “misti”, prevista in ordine di tempo, come ricorda la sezione rimettente, solo dall’art. 7, comma 1, lett. f), della l. n. 166 del 2002, che consiste in una forma di associazione verticale al cui interno sono presenti – in ragione della eterogeneità dei lavori oggetto dell’affidamento, in cui vengono in rilievo una pluralità di diverse categorie di lavorazioni oltre alla prevalente – sub-raggruppamenti orizzontali (art. 48, comma 6, ad finem del d. lgs. n. 50 del 2016).

Dunque, per la Plenaria, questa ipotesi, ad una prima lettura, sembra essere estranea alla diretta applicazione dell’art. 61, comma 2, del d.P.R. n. 207 del 2010 non solo perché la disposizione fa riferimento ad imprese che eseguono lo stesso tipo di lavorazione e, dunque, ad un raggruppamento tipicamente e interamente orizzontale (c.d. totalitario), ma perché lo stesso meccanismo del beneficio del c.d. incremento del quinto, evidentemente, presuppone, nel fare riferimento ad una impresa raggruppata e consorziata che «sia qualificata per una classifica pari ad almeno un quinto dell’importo dei lavori a base di gara» (c.d. condizione del quinto), che i lavori a base di gara siano gli stessi per tutte le imprese che possono, o vorrebbero, giovarsi del beneficio, non essendo possibile giovarsi di questo incremento premiale, evidentemente, per le imprese che non appartengano alla medesima categoria di lavori, proprio per il modo con il quale è congegnato, dallo stesso art. 61, commi 3 e 4, e dall’Allegato A al d.P.R. n. 207 del 2010, il meccanismo delle qualifiche e delle classifiche per le opere generali e specializzate.

Quindi, per la Plenaria, ne discende che entrambi gli orientamenti interpretativi richiamati dall’ordinanza di rimessione – e, cioè, quello “restrittivo” esemplificativamente rappresentato da Cons. St., sez. III, 13 aprile 2021, n. 3040 e, dall’altro lato, quello “ampliativo” o correttivo sempre esemplificativamente rappresentato da C.G.A.R.S., sez. giurisd., 11 aprile 2022, n. 450 – non possono essere condivisi nella misura in cui, seppure con esiti interpretativi del tutto divergenti, muovono entrambi dal presupposto – non previsto da alcuna disposizione di legge - secondo cui, al cospetto di un raggruppamento misto, bisognerebbe aver riguardo alla base d’asta comprensiva di tutti i lavori, anche appartenenti a categorie eterogenee, al fine di determinare se l’impresa appartenente al sub-raggruppamento orizzontale possa ritenersi qualificata per una classifica pari ad almeno un quinto dell’importo dei “lavori a base d’asta” e porre al denominatore il complesso di tutti i lavori posti a base d’asta.

La plenaria prosegue la sua argomentazione evidenziando come il fatto che questi lavori non possano essere intesi, nella loro totalità, come comprensivi di lavorazioni del tutto eterogenee, per i raggruppamenti misti, è infatti reso evidente non solo dal fatto che l’art. 61, comma 2, ha inteso disciplinare la sola o, comunque, prevalente ipotesi del c.d. raggruppamento orizzontale (con esclusione di ogni forma di raggruppamento verticale c.d. puro, con suddivisione di singoli lavori per singole imprese in base alle diverse categorie, ipotesi, questa, regolata – come detto – dall’art. 92, comma 3), ma anche dal fatto che il beneficio del c.d. aumento del quinto, evidentemente, si riferisce sempre e comunque ad imprese che siano in grado di svolgere un quinto dei lavori a base d’asta per cui siano già abilitate e, dunque, per quella sola tipologia di lavori rientranti nella categoria di lavori per la quale abbiano già l’attestazione SOA.

La Plenaria ricorda, anche, come  questo punto, sia stato chiarito dall’Autorità Nazionale Anticorruzione – ANAC – nella delibera n. 45 del 22 gennaio 2020, su istanza singola di parere precontenzioso ai sensi dell’art. 211, comma 1, del d. lgs. n. 50 del 2016, laddove l’Autorità ha precisato che la condizione posta dall’art. 61, comma 2, del d.P.R. n. 207 del 2010 per accedere al beneficio dell’incremento del quinto dei lavori a base di gara è da intendersi «nel senso che la categoria nella quale è necessario avere una classifica parti almeno a un quinto dei lavori è la stessa categoria per la quale si invoca l’estensione della portata abilitante dell’attestazione SOA».

Dunque, si tratta di capire se e in che termini la disciplina dettata dall’art. 61, comma 2, del d.P.R. n. 207 del 2010 possa trovare applicazione anche al raggruppamento misto per via del rilievo che, nei singoli sub-raggruppamenti, a livello “orizzontale” si viene a creare, con riferimento alla specifica categoria di lavorazione, prevalente o scorporata, la medesima situazione di fatto, e di diritto, che in via generale contraddistingue il raggruppamento orizzontale.

L’art. 48, comma 6, ad finem del d. lgs. n. 50 del 2016 prevede, infatti, che i lavori riconducibili alla categoria prevalente o alle categorie scorporate «possono essere assunti anche da imprenditori riuniti in raggruppamento temporaneo di tipo orizzontale».

Sul piano testuale, all’applicazione dell’art. 61, comma 2, del d.P.R. n. 267 del 2010 anche al sub-raggruppamento orizzontale, in ipotesi di c.d. raggruppamento misto, non osta invero il tenore letterale dello stesso art. 61, comma 2, quando fa riferimento all’«importo dei lavori a base di gara» perché la disposizione – dettata per l’ordinaria ipotesi di raggruppamento orizzontale c.d. totalitario, ove base d’asta e complesso di lavori omogenei alla stessa categoria coincidono – nella sua generica formulazione lascia invero un sufficiente margine interpretativo per ritenere, come suggerisce l’ordinanza di rimessione secondo un criterio di logicità e ragionevolezza, che questo importo vada commisurato alla tipologia di lavori che lo specifico sub-raggruppamento orizzontale deve realizzare.

Allora, aggiunge la Plenaria, se è vero che la disposizione si riferisce all’ipotesi di raggruppamento orizzontale e non a quello di raggruppamento verticale (e, dunque, anche al raggruppamento c.d. misto, quale species del genus raggruppamento verticale), occorre tuttavia considerare che, nell’ambito del raggruppamento misto, per la categoria prevalente o scorporata, i cui lavori sono stati assunti da plurime imprese, si viene a creare, con riferimento al singolo sub-raggruppamento orizzontale, una ripartizione di compiti e competenze, non dissimile da quella del raggruppamento orizzontale c.d. totalitario, e questa situazione è del tutto assimilabile a quella del raggruppamento orizzontale, laddove la lex specialis consenta il ricorso al raggruppamento verticale con sub-raggruppamenti per singole lavorazioni scorporabili specificamente indicate.

Sul piano teleologico e sistematico, poi, il Collegio aggiunge che è evidente che negare l’interpretazione – quantomeno estensiva, se non, addirittura, il ricorso all’applicazione analogica – dell’art. 61, comma 2, del d.P.R. n. 207 del 2010 anche al sub-raggruppamento, con ovvio riferimento e con specifica limitazione – per le ragioni dette – alla singola categoria di lavorazione prevalente o scorporata, significherebbe frapporre un ostacolo ingiustificato all’esistenza stessa del c.d. raggruppamento misto, pur ammesso dal legislatore (art. 48, comma 6, del codice dei contratti pubblici), e quindi disincentivare o addirittura impedire le aggregazioni imprenditoriali che possono concorrere alle gare anche nella forma del c.d. raggruppamento misto, benché espressamente riconosciute dalla legge e dalla stessa stazione appaltante nella lex specialis.

Ciò verrebbe a creare una ingiustificata disparità di trattamento del sub-raggruppamento orizzontale rispetto alla disciplina stessa del raggruppamento orizzontale totalitario, nel quale – in via generale – il beneficio dell’incremento del quinto è ammesso proprio per consentire, entro certi limiti (la c.d. condizione del quinto), una più vasta partecipazione alle gare.

Secondo il Collegio non giova invero opporre che, a differenza del raggruppamento orizzontale c.c. totalitario, nel sub-raggruppamento orizzontale viene a crearsi una sub-associazione di imprese che svolgono una specifica categoria di lavori, spesso di gran lunga inferiori alla base d’asta, con conseguente frammentazione delle competenze e minor garanzia di affidabilità, rispetto a quanto richiesto dalla stazione appaltante.

Né è fondato il timore che, così ragionando, si incentiverebbe un eccessivo frazionamento dei requisiti partecipativi in un pulviscolo, per così dire, di imprese, ciascuna classificata addirittura fino al quinto aggiuntivo rispetto alla classifica della specifica categoria.

La possibilità e, anzi, la concreta fattibilità di questo frazionamento – anche a prescindere dalla invocata possibilità di giovarsi dell’incremento del quinto – è insita non solo nella stessa astratta ammissibilità del raggruppamento misto, riconosciuto dall’art. 48, comma 6, del d. lgs. n. 50 del 2016, ma nella sua concreta previsione da parte da parte della lex specialis, con la conseguente ripartizione, evidentemente già “soppesata” a monte e prevista dalla stazione appaltante, delle lavorazioni in senso verticale e, nell’ambito di queste, di una loro esecuzione in forma orizzontale.

L’ancoraggio del beneficio ad una classifica pari ad almeno un quinto degli specifici lavori – e non già, irragionevolmente, alla totalità indistinta ed eterogenea dei lavori posti a base d’asta – garantisce del resto una più specifica e mirata garanzia di professionalità dei singoli partecipanti al raggruppamento misto rispetto ad una classifica in ipotesi commisurata al complesso di tutti i lavori posti a base d’asta.

Tale ipotetica classifica, al di là, come detto, della sua stessa impossibilità logico-giuridica per essere la classifica sempre inerente e interna ad una specifica qualifica, comunque vanificherebbe ogni possibilità, per le imprese chiamate ad eseguire lavorazioni secondarie o tutto sommato marginali nell’economia dell’appalto, di giovarsi dell’incremento del quinto per la propria classifica in rapporto alla specifica e sola lavorazione, che sarebbero chiamate a svolgere.

Allora, per l’Adunanza Plenaria, prima ancor che palesemente anticoncorrenziale, una simile interpretazione appare irragionevole e, per altro verso, contrastante con il dettato normativo e l’intero sistema delle qualifiche e classifiche costruito dall’attuale legislazione, lo si ribadisce, su singole categorie di lavorazioni, e con ciò, per paradosso, ancor meno tutelante per le stazioni appaltanti, interessate non tanto a contrarre con imprese che abbiano, sul piano quantitativo, un certo fatturato, rapportato all’intera base d’asta, bensì ad avere quali contraenti associati imprese qualificate, sul piano qualitativo (e, dunque, in base alla classifica per categoria), all’esecuzione della specifica lavorazione nel raggruppamento misto.

Una interpretazione restrittiva di questo beneficio viene dunque ad introdurre, per il raggruppamento misto, una limitazione ed uno sbarramento comunque sproporzionati rispetto alla finalità – quella, cioè, di tutelare la pubblica amministrazione da una eccessiva frammentazione di imprese e requisiti – che tale rigorosa impostazione professa di volere raggiungere, con l’asserito “blocco” della premialità.

Ancora, il Collegio evidenzia come, sul piano sistematico, rileva anche la prassi applicativa dell’art. 92, comma 2, dello d.P.R. n. 207 del 2010, in tema di requisiti minimi per la composizione dei raggruppamenti orizzontali.

Benché la disposizione – che viene espressamente richiamata dall’art. 61, comma 2 – faccia riferimento, nello scolpire la misura minima dei requisiti di qualificazione economico-finanziari e tecnico-organizzativi che l’impresa mandataria deve assumere nell’ambito di un raggruppamento di tipo orizzontale, ai “requisiti richiesti nel bando di gara” (esattamente come per l’art. 61 del d.P.R. n. 207 del 2010), essa è coerentemente interpretata, per consolidato intendimento, nel senso che «la verifica della situazione ‘maggioritaria’, in caso di raggruppamento misto, [debba] avvenire avendo riferimento alle singole categorie scorporabili (della specifica gara), e non all’intero raggruppamento.

Per l’Adunanza Plenaria, l’interpretazione preferita è quella maggiormente rispondente ai principi europei, che prevedono ampia partecipazione alle procedure di gara dei raggruppamenti temporanei ed al principio europeo di massima libertà di autoorganizzazione delle imprese (cfr. l’art. 19, par. 2, della direttiva 2014/24/UE e il considerando n. 15, su cui, di recente, Cons. St., sez. V, 4 maggio 2020, n. 2785).

Infatti, nella medesima prospettiva sistematica, come rilevato dalla sezione rimettente, l’art. 48, comma 5, del d. lgs. n. 50 del 2016 è chiaro nel limitare la responsabilità per le imprese mandanti alle sole prestazioni effettivamente assunte, sicché, in sostanza, il parametro per la perimetrazione degli obblighi delle mandanti, sia nei confronti della stazione appaltante che nei confronti dei terzi, è costituito dalla singola tipologia di prestazione assunta, ricada nella “categoria prevalente” o in una diversa “categoria scorporata”.

Su queste premesse, l’Adunanza Plenaria nota come si giustifichi, nella prospettiva auspicata dall’ordinanza di rimessione, una lettura orientata alla necessaria coerenza sistematica del regime di qualificazione dei concorrenti plurisoggettivi, una interpretazione orientata (od adeguatrice) dell’art. 61, comma 2, del d.P.R. n. 207 del 2010, nel senso che, nei raggruppamenti di tipo misto, i componenti di ciascuno dei sub-raggruppamenti di tipo orizzontale siano abilitati a partecipare alle gare e ad eseguire i lavori «nei limiti della propria classifica incrementata di un quinto», purché siano qualificati per una classifica pari ad almeno un quinto «dell’importo della categoria di lavori cui lo stesso componente partecipa».

In tal senso si è anche da tempo espressa l’Autorità Nazionale Anticorruzione, la quale ha ritenuto (nel previgente, ma identico contesto normativo) che «la disposizione di cui all’art. 3, comma 2, del d.P.R. 34/2000 che permette alle imprese raggruppate o consorziate di considerare la propria classifica incrementata di un quinto, qualora qualificate per almeno un quinto dell’importo a base di gara» dovesse, in quanto applicata «anche alle ATI verticali o miste», essere interpretata nel senso (ritenuto addirittura “evidente”) che «la suddetta condizione va[da] riferita ai singoli importi della categoria prevalente e delle altre categorie scorporabili» (cfr. la deliberazione n. 377 del 5 novembre 2001, nonché, più di recente, la già richiamata deliberazione n. 45 del 22 gennaio 2020).

In definitiva, l’Adunanza Plenaria risponde al quesito formulato dalla V sezione affermando il seguente principio di diritto:

«la disposizione dell’art. 61, comma 2, del d.P.R. n. 207 del 2010, laddove prevede, per il raggruppamento c.d. orizzontale, che l’incremento premiale del quinto si applica con riferimento a ciascuna impresa raggruppata o consorziata, a condizione che essa sia qualificata per una classifica pari ad almeno un quinto dell’importo dei lavori a base di gara, si applica anche, per il raggruppamento c.d. misto, alle imprese del singolo sub-raggruppamento orizzontale per l’importo dei lavori della categoria prevalente o della categoria scorporata a base di gara».

 

  1. Adunanza Plenaria, sentenza n. 4 del 2023: l’ordinanza resa nel corso del processo di primo grado sull’istanza di accesso documentale ai sensi dell’art. 116, secondo comma, cod. proc. amm., è appellabile innanzi al Consiglio di Stato.

La questione posta all’esame dell’Adunanza Plenaria attiene all’appellabilità dell’ordinanza del Tar che decide in ordine ad una istanza di accesso ai documenti amministrativi presentata nel corso del giudizio.

Secondo la Plenaria, la soluzione di tale questione impone in via preliminare di esaminare talune questioni generali relative: i) alla disciplina dell’accesso documentale; ii) ai mezzi di impugnazione; iii) ai mezzi di prova.

In relazione all’accesso documentale, è configurabile un rapporto giuridico di diritto pubblico costituito dalla titolarità di una posizione giuridica soggettiva che si pone in relazione con un potere della pubblica amministrazione o di un soggetto titolare di pubbliche funzioni, che si esercita mediante l’attività di valutazione della domanda di accesso alla luce degli interessi pubblici e privati protetti dalle disposizioni sostanziali. Si tratta di un rapporto giuridico strumentale ad altro rapporto, in cui si colloca una «situazione giuridicamente tutelata» e «collegata al documento» del quale è chiesto l’accesso (art. 22, comma 2, lett. b, l. n. 241 del 1990).

L’accesso ai documenti amministrativi può avere natura procedimentale, quando la domanda è proposta, ai sensi dell’art. 10 della legge n. 241 del 1990, al fine di consentire una partecipazione «più responsabile», contribuendo «a rendere l’esercizio del potere condiviso, trasparente e imparziale» (Cons. Stato, Ad. plen., 25 settembre 2020, n. 19).

L’accesso può avere natura autonoma, quando la domanda è proposta, ai sensi degli artt. 22 e ss. della legge n. 241 del 1990, fuori dall’ambito di un procedimento amministrativo in corso. In questo caso, l’accesso ha una finalità difensiva, nel senso che la conoscenza del documento è strumentale alla tutela di una situazione giuridica, che non presuppone necessariamente la proposizione di un giudizio.

Nel caso in cui la finalità sia di difesa giudiziale, la documentazione può rilevare sia nell’ambito di un processo amministrativo sia nell’ambito di un altro processo.

Il ricorso è proposto innanzi al giudice amministrativo nel rispetto di un rito speciale. Il comma 1 dell’art. 116 del cod. proc. amm. prevede che contro le determinazioni o il silenzio sulle istanze di accesso ai documenti amministrativi «il ricorso è proposto entro trenta giorni dalla conoscenza della determinazione impugnata o dalla formazione del silenzio, mediante notificazione all’amministrazione e ad almeno un controinteressato».

Si tratta di un’azione di annullamento del provvedimento espresso o tacito di diniego e di condanna al rilascio dei documenti richiesti.

Il processo si conclude con l’adozione di una sentenza in forma semplificata, che è appellabile con ricorso al Consiglio di Stato (art. 116, commi 4 e 5, cod. proc. amm.) e che, in caso di mancata esecuzione, può essere oggetto di una azione di ottemperanza (art. 112 cod. proc. amm.).

La Plenaria ricorda che, in relazione ai mezzi di impugnazione, le decisioni appellabili sono quelle espressamente o implicitamente previste dal legislatore.

Le decisioni espressamente appellabili sono le sentenze adottate dai Tribunali amministrativi regionali (artt. 91 e 100 cod. proc. amm.) e le ordinanze cautelari adottate dai medesimi Tribunali (art. 62 cod. proc. amm.).

Le decisioni implicitamente appellabili sono quelle che, a prescindere dalla forma esteriore, hanno un contenuto decisorio idoneo ad incidere su situazioni giuridiche e suscettibili di passare in giudicato ovvero di risolvere «in contraddittorio tra le parti una specifica controversia» (cfr. la fondamentale ordinanza dell’Adunanza Plenaria 24 gennaio 1978, n. 1, che ha rilevato come l’art. 125 della Costituzione abbia previsto l’istituzione nella Regione di «organi di giustizia amministrativa di primo grado», con la conseguente regola della impugnabilità delle loro pronunce).

La Plenaria prosegue illustrando come, in relazione ai mezzi istruttori, il codice del processo amministrativo preveda, in attuazione del modello dispositivo con metodo acquisitivo, che: i) spetta alle parti l’onere di fornire gli elementi di prova nella loro disponibilità riguardanti i fatti posti a fondamento delle domande e delle eccezioni (artt. 63, comma 1, e 64, comma 1), senza la necessità che le richieste istruttorie, rivolte direttamente al giudice, siano notificate alle altre parti; ii) il giudice può disporre, anche d’ufficio, l’acquisizione di informazioni e documenti utili nella disponibilità della pubblica amministrazione (artt. 63, comma 1, e 64, comma 2), nonché l’ispezione e l’esibizione di documenti in possesso di terzi (art. 63, comma 2); iii) il giudice deve valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento e può desumere argomenti di prova dal comportamento tenuto dalle parti nel corso del processo (art. 64, comma 4).

Le ordinanze istruttorie, rilevando solo all’interno del giudizio, non sono appellabili, in quanto «non possono mai pregiudicare la decisione della causa» e, di regola, possono essere modificate o revocate dal giudice che le ha pronunciate (art. 177 cod. proc. civ., applicabile anche al processo amministrativo, per il rinvio esterno di cui all’art. 39 cod. proc. amm.).

Sulla base di quanto esposto, la Plenaria esamina la questione dell’appellabilità dell’ordinanza che ha deciso sull’istanza di accesso ai documenti, depositata nel corso del processo: nel suo testo originario, l’art. 25 della legge n. 241 del 1990 non disciplinava l’istanza di accesso depositata nel corso del processo amministrativo.

L’art. 17, comma 1, lett. b), della legge 11 febbraio 2005, n. 15, ha poi modificato il comma 4 del medesimo articolo 25, disponendo che in pendenza del giudizio amministrativo «il ricorso può essere proposto con istanza presentata al Presidente e depositata presso la segreteria della Sezione cui è assegnato il ricorso, previa notifica all'amministrazione o ai controinteressati, e viene deciso con ordinanza istruttoria adottata in camera di consiglio».

Il comma 2 dell’art. 116 cod. proc. amm. – nell’abrogare tacitamente l’art. 25, comma 4, così modificato – ha previsto che: «in pendenza di un giudizio cui la richiesta di accesso è connessa il ricorso di cui al comma 1 può essere proposto con istanza depositata presso la segreteria della Sezione cui è assegnato il ricorso principale previa notificazione all’amministrazione e agli eventuali controinteressati». La stessa norma ha disposto che: «l'istanza è decisa con ordinanza separatamente dal giudizio principale, ovvero con la sentenza che definisce il giudizio».

L’Adunanza Plenaria evidenzia che sulla portata applicativa di tale disposizione, si sono formati tre diversi orientamenti.

Un primo orientamento ritiene che si tratti di una vera e propria domanda di accesso ai documenti amministrativi, con qualificazione dell’ordinanza come avente natura decisoria (Cons. Stato, sez. V, 12 giugno 2019, n. 3936; Cons. Stato, sez. V, 21 maggio 2018, n. 3028). Tale ricostruzione valorizza la previsione che impone la notificazione dell’istanza all’Amministrazione e ai controinteressati. Essa comporta che: i) sul piano sostanziale, si applica integralmente la disciplina dell’accesso, anche per quanto attiene alla portata dell’accesso difensivo, nel senso che la documentazione può essere rilasciata «senza verificare la concreta pertinenza degli atti con l’oggetto della controversia principale» (Cons. Stato, sez. V, n. 3936 del 2019, cit.); ii) sul piano processuale, l’ordinanza è autonomamente impugnabile con ricorso al Consiglio di Stato ed è suscettibile di esecuzione coattiva con la proposizione del ricorso per ottemperanza.

Un secondo orientamento – che la Sezione remittente condivide – ritiene che si tratti di una istanza istruttoria, con qualificazione dell’ordinanza come avente anch’essa natura istruttoria (Cons. Stato, sez. IV, 16 marzo 2020, n. 1878; Cons. Stato, sez. III, 21 ottobre 2015, n. 806; Cons. Stato, sez. IV, 12 luglio 2013, n. 3579). Tale ricostruzione valorizza il riferimento, contenuto nell’art. 116, alla «connessione» dell’istanza con il giudizio in corso, che presuppone sempre un rapporto di “strumentalità in senso stretto” della documentazione richiesta per la definizione del giudizio principale e tiene conto dell’esigenza di evitare il «rischio di impugnazioni autonome su ordinanze istruttorie che in seguito potrebbero rivelarsi comunque superflue, qualora l’esito del giudizio di primo grado fosse favorevole a prescindere» (Cons. Stato, sez. VI, ord. n. 8367 del 2022, cit.). Essa comporta che: i) sul piano sostanziale, non si applica la disciplina dell’accesso; ii) sul piano processuale, si applica il regime delle ordinanze istruttorie, con esclusione della loro appellabilità, con la possibilità della loro modifica e revoca da parte del giudice che le ha adottate (art. 177 cod. proc. civ. e art. 39 cod. proc. amm.) e con la possibilità, in caso di mancata esecuzione, di trarre argomenti di prova dal comportamento dell’amministrazione (art. 64, comma 4, cod. proc. amm.).

Un terzo orientamento, intermedio, ritiene che vadano distinte due tipologie di ordinanze: i) la prima ha natura decisoria ed è appellabile, quando è adottata applicando la normativa in materia di accesso ai documenti «senza passare al vaglio della pertinenza dei documenti in relazione al giudizio in corso» (Cons. Stato, sez. VI, 14 agosto 2020, n. 5036; si v. anche Cons. Stato, sez. III, 7 ottobre 2020, n. 5944; Cons. Stato, IV, 27 ottobre 2011, n. 5765; Cons. Stato, sez. III, 25 giugno 2010, n. 4068); ii) la seconda ha natura istruttoria e non è appellabile, quando è adottata avendo riguardo alla rilevanza della documentazione ai fini della decisione.

L’Adunanza Plenaria ritiene che vada seguito l’orientamento per primo esposto, sia pure con alcune puntualizzazioni: la tesi della “natura istruttoria” dell’ordinanza non può essere seguita per le ragioni poste a sostegno della tesi della “natura decisoria”, la tesi della “natura variabile” dell’ordinanza non può essere seguita, perché la natura decisoria o meno di un provvedimento giudiziale va stabilita sulla base di criteri normativi, mentre la tesi della “natura decisoria”, con conseguente appellabilità dell’ordinanza, va seguita per le seguenti ragioni.

In primo luogo – sulla base del criterio di interpretazione letterale – l’art. 116 cod. proc. amm. prevede, al comma 2, che: i) «il ricorso di cui al comma 1» può essere proposto con istanza in pendenza di giudizio, il che evidenzia – per il rinvio effettuato all’accesso richiesto con ricorso autonomo – la sostanziale unitarietà del rimedio; ii) l’istanza deve essere notificata all’Amministrazione e agli eventuali controinteressati, che potrebbero anche essere diversi dalle parti già evocate in giudizio, il che evidenzia come il rispetto delle regole del contraddittorio sia coerente con la logica della natura decisoria dell’ordinanza.

In secondo luogo – sulla base del criterio di interpretazione storica – le norme vigenti, rispetto a quelle contenute nell’art. 17 della legge n. 15 del 2005, non qualificano più l’ordinanza in esame come «ordinanza istruttoria».

In terzo luogo – sulla base del criterio di interpretazione sistematica – il codice del processo amministrativo ha disciplinato distintamente la fase dell’istruttoria e l’istanza di accesso in corso del giudizio, con la conseguenza che non si possono sovrapporre gli istituti in esame (cfr. Cons. Stato, Ad. plen., n. 19 del 2020, cit., sulle differenze tra l’accesso documentale e le esigenze istruttorie, anche nel processo civile).

La Plenaria nota, del resto, che la domanda di accesso ai documenti vada rivolta all’Amministrazione e non al giudice, con impugnazione dell’eventuale provvedimento di rigetto nel rispetto del termine perentorio di trenta giorni, il che comporta che le istanze di accesso rivolte al giudice nel corso del processo vanno considerate vere e proprie istanze istruttorie.

In quarto luogo – sulla base dei criteri di interpretazione conforme a Costituzione – è necessario assicurare il diritto di difesa (artt. 24 e 113 Cost.; art. 1 cod. proc. amm.) dei controinteressati e della stessa pubblica amministrazione, qualora nel corso del processo sia emessa una ordinanza che accolga il ricorso ex art. 116, comma 2, cod. proc. amm. e consenta l’ostensione dei documenti richiesti.

Se non si permettesse, infatti, l’immediata appellabilità si potrebbe determinare, a seguito dell’ordine di esibizione e del conseguente obbligo della sua esecuzione, un pregiudizio irreversibile per il diritto alla riservatezza privata dei controinteressati e per le prerogative pubbliche dell’autorità che detiene i documenti.

La Plenaria invita a tenere conto, inoltre, che, potendo la pubblica amministrazione e i controinteressati non coincidere con le parti del processo principale, se non si assegnasse valenza decisoria all’ordinanza, le suddette parti, oltre a subire il pregiudizio sopra indicato, potrebbero anche non essere legittimate a proporre impugnazione autonoma avverso la sentenza che definisce la controversia.

Infine – sempre sulla base del criterio di interpretazione conforme a Costituzione – il principio del doppio grado di giudizio (art. 125 Cost.) impone, in presenza di provvedimenti aventi contenuto decisorio, di consentire alle parti di proporre appello (cfr. Corte cost. n. 8 del 1982; Cons. Stato, Ad. plen. n 1 del 1978, cit.).

Sulla base di quanto esposto, per l’Adunanza Plenaria deve ritenersi che l’ordinanza che esamina l’istanza di accesso proposta nel corso di giudizio ha valenza decisoria, in quanto incide su situazioni giuridiche diverse rispetto a quelle oggetto del giudizio principale, così come avviene nel caso di ricorso proposto in via autonoma.

Tuttavia, rispetto a quest’ultimo, rimangono tuttavia talune peculiarità: la prima peculiarità risiede nel fatto che in questo caso si tratta di un accesso difensivo “qualificato” dalla circostanza che la documentazione richiesta deve essere strumentale alla tutela delle situazioni giuridiche che sono state fatte valere in uno specifico processo amministrativo in corso di svolgimento. In questo senso, si spiega anche il riferimento alla «connessione», contenuto nel secondo comma dell’art. 116 cod. proc. amm. Si tratta di una “strumentalità in senso ampio”, in quanto la valutazione che deve essere effettuata dal giudice non è soltanto volta a verificare la possibile rilevanza del documento per la definizione del giudizio, ma può servire anche per risolvere in via stragiudiziale la controversia, per proporre una nuova impugnazione, ovvero ancora una diversa domanda di tutela innanzi ad altra autorità giudiziaria.

La seconda peculiarità risiede nel fatto che la disposizione in esame consente al giudice di non decidere in ordine all’istanza di accesso con ordinanza, ma di deciderla con la sentenza che definisce il giudizio. Questa previsione si spiega proprio nella logica della «connessione» della domanda con il giudizio in corso, che potrebbe indurre il giudice della causa principale a rinviare, ad esempio, la decisione incidentale sull’accesso al momento di adozione della sentenza, qualora ritenga che quella documentazione non risulti necessaria ai fini della definizione del giudizio. Tale soluzione consente maggiore celerità allo svolgimento del processo senza incidere sulla tutela della parte, in quanto la decisione è solo rinviata alla fase conclusiva del processo stesso.

L’Adunanza Plenaria, pertanto, afferma il seguente principio di diritto: “l’ordinanza resa nel corso del processo di primo grado sull’istanza di accesso documentale ai sensi dell’art. 116, secondo comma, cod. proc. amm., è appellabile innanzi al Consiglio di Stato”.

 

  1. Adunanza Plenaria, sentenza n. 5 del 2023, sul vincolo di destinazione d’uso del bene culturale.

I fatti di causa vedono il Ministero della Cultura aver apposto il vincolo di tutela al locale condotto dalla società appellante ai sensi dell’art. 10, comma 3, lett. d), del decreto legislativo n. 42 del 2004 (in base al quale sono da intendersi «beni culturali», allorché sia intervenuta la relativa dichiarazione di cui all’art. 13 del medesimo Codice, «le cose immobili e mobili, a chiunque appartenenti, che rivestono un interesse particolarmente importante a causa del loro riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte, della scienza, della tecnica, dell'industria e della cultura in genere, ovvero quali testimonianze dell’identità e della storia delle istituzioni pubbliche, collettive o religiose») e «in considerazione dei principi enunciati dall’art. 7 bis (“Espressioni di identità culturale collettiva”) D.Lvo 22 gennaio 2004 n. 42 ss.mm.ii».

In particolare, è controversa la legittimità di un decreto, con cui il Ministero della Cultura, pur dichiarando ai sensi dell’art. 10, comma 3, lett. d), l’interesse particolarmente importante di cose materiali, individuate tanto in un’unità immobiliare all’interno di un edificio (già dichiarato di interesse culturale) quanto nelle opere e negli elementi di arredo conservati al suo interno: - ha tutelato l’immobile quale “ristorante”, valorizzando, dunque, l’attività commerciale in esso esercitata; - ha evidenziato un interesse culturale per “riferimento” a specifici fatti ed eventi riguardanti la storia, artistica e culturale, della comunità nazionale e locale di cui la cosa tutelata ha costituito la sede o reca testimonianza; - ha applicato anche i principi enunciati dall’art. 7 bis del D. Lgs. n. 42/04 in materia di ‘espressione di identità culturale collettiva’, a sua volta recante un rinvio alle Convenzioni Unesco in materia di ‘patrimonio cultuale immateriale’; - ha integralmente recepito le prescrizioni recate nella richiamata relazione storico critica, ivi compresa l’esigenza di garantire la conservazione, oltre che degli aspetti architettonici e decorativi, anche della ‘continuità d’uso’ esplicata negli aspetti legati alla tradizione culturale di convivialità del locale.

Così provvedendo, il decreto ministeriale ha valorizzato, sia sotto il profilo sistematico che teleologico, la connessione inscindibile tra gli elementi materiali e quelli immateriali, ravvisando l’essenzialità della continuità dell’uso; il che poi si traduce nella sostanziale imposizione di un “vincolo di destinazione d’uso del bene culturale”, quale effetto direttamente conseguente soltanto al provvedimento impugnato in primo grado (sebbene già le prescrizioni poste dalla stessa Amministrazione statale con l’autorizzazione all’alienazione del complesso immobiliare in cui è inserito il locale per cui è causa fossero incentrate sulla conservazione delle attuali destinazioni d’uso dell’edificio).

Come rilevato dall’ordinanza di rimessione, si tratta di questioni di massima di particolare importanza, correlate alla tutela del patrimonio culturale, nonché all’oggetto e al contenuto dei poteri ministeriali esercitabili in materia, dal che l’esigenza di un chiarimento, in funzione nomofilattica, da parte dell’Adunanza Plenaria, anche al fine di orientare la futura azione amministrativa.

Preliminarmente, la Plenaria dà atto che, come osservato dalla Sezione remittente, la giurisprudenza del Consiglio di Stato non ha in maniera univoca risolto la questione di diritto relativa all’ammissibilità di un ‘vincolo culturale di destinazione d’uso’: a fronte di pronunce contrarie, sono state rese decisioni favorevoli, che, tuttavia, pur ammettendo l’imposizione di un vincolo di destinazione ai fini della conservazione del bene culturale, hanno diversamente individuato i presupposti in base ai quali l’Amministrazione statale possa emanare il provvedimento di vincolo.

In particolare, vi sono stati tre orientamenti giurisprudenziali.

Per un primo indirizzo (Consiglio di Stato, sez. VI, 16 settembre 1998, n. 1266; sez. VI, 12 luglio 2011, n. 4198; sez. VI, 2 marzo 2015, n. 1003; sez. IV, 29 dicembre 2017, n. 6166; sez. V, 25 marzo 2019, n. 1933), il ‘vincolo culturale di destinazione d’uso’ non si può imporre, in quanto incompatibile con il dato positivo e contrastante con la tutela costituzionale e convenzionale del diritto di proprietà e della libertà di iniziativa economica. In siffatte ipotesi, difatti, verrebbe tutelata non la res di interesse culturale, ma la sua destinazione e, dunque, l’attività ivi esercitata. Per questo indirizzo, il ritenere che l’Amministrazione possa vincolare un immobile non nella sua identità strutturale (intesa come specifica conformazione costruttiva), ma con riferimento alla sua specifica destinazione (e, quindi, a una determinata attività), si baserebbe su una ‘visione autoritaria e svalutativa del diritto di proprietà’ e fortemente restrittiva del principio di legalità, che caratterizza i poteri ablatori in senso lato dell'Amministrazione pubblica.

Si trasformerebbe, infatti, una disposizione che si limita a consentire prescrizioni accessorie e strumentali - conservative delle caratteristiche storico-architettoniche di determinati beni oggetto di tutela - in una disposizione attributiva di poteri sostanzialmente espropriativi, la quale escluderebbe a priori ogni destinazione diversa da quella in atto al momento dell'imposizione del vincolo.

In tale maniera, si forzerebbero la lettura e la ratio complessiva della legge, al punto da trasformare una disposizione permissiva del godimento del proprietario in conformità di limiti di interesse generale, secondo l'impostazione dell'art. 42 Cost., in un precetto impositivo di una servitù pubblica immobiliare legislativamente innominata (perché non attinente al valore del bene immobiliare in sé), quindi in contrasto con il principio di legalità ex artt. 42-43 Cost. (Consiglio di Stato, sez. VI, 16 settembre 1998, n. 1266).

A conforto di tale impostazione, è stato pure richiamato l’art. 51, comma 1, D. Lgs. n. 42/04, che prevede uno speciale tipo di vincolo a bene culturale per gli “studi d'artista” (Consiglio di Stato, sez. V, 25 marzo 2019, n. 1933): il legislatore avrebbe eccezionalmente imposto solo per tali beni, in deroga alla regola generale, il divieto di “modificare la destinazione d'uso (...) nonché rimuoverne il contenuto (…), qualora esso, considerato nel suo insieme ed in relazione al contesto in cui è inserito, sia dichiarato di interesse particolarmente importante per il suo valore storico…” (cfr. sul punto Consiglio di Stato, sez. VI, 12 luglio 2011, n. 4198).

Si è anche osservato (Consiglio di Stato, sez. VI, 2 marzo 2015, n. 1003) che l’effetto di limitazione della destinazione d'uso violerebbe i principi di proporzionalità e ragionevolezza, generando un’insostenibilità economica del bene, in contrasto con le stesse finalità cui è orientata la legge di tutela.

In definitiva, tale primo indirizzo, basato sulla necessaria distinzione tra ‘vincolo strutturale’ e ‘vincolo di destinazione d’uso’ (Consiglio di Stato, sez. IV, 29 dicembre 2017, n. 6166), esclude l’ammissibilità di ‘vincoli culturali di mera destinazione’, specie per attività commerciali o imprenditoriali, anche se attinenti a valori storici e culturali presi in considerazione dalla legge.

Un’altra parte della giurisprudenza ha sostenuto posizioni parzialmente divergenti, tese ad affermare l’ammissibilità di un vincolo culturale di destinazione d’uso ove funzionale ad una migliore conservazione della res, seppur sulla base di una diversa modulazione delle condizioni legittimanti un tale intervento di tutela.

In taluni casi, la giurisprudenza (Consiglio di Stato, sez. VI, 28 agosto 2006, n. 5004; sez. VI, 6 maggio 2008, n. 2009; sez. IV, 12 giugno 2013, n. 3255), pur riaffermando il tendenziale divieto di vincoli culturali di destinazione d’uso - nel senso che non possono tutelarsi le gestioni commerciali o l'esercizio di attività artificiali, anche se attinenti ad alcuni dei valori storici, culturali o filosofici presi in considerazione dalla legge di riferimento - ha ritenuto ammissibile, in circostanze eccezionali, derogare a una tale regola generale, qualora il bene abbia subito una particolare trasformazione con una sua specifica destinazione e un suo stretto collegamento per un'iniziativa storico-culturale di rilevante importanza. In tali ipotesi, il vincolo di destinazione d’uso non sarebbe incompatibile con la normativa di riferimento, in quanto volto a tutelare in via immediata e diretta il bene culturale e non l'attività in esso esercitata, e non potrebbe neppure ravvisarsi una irragionevole o sproporzionata compressione del diritto di proprietà o della libertà di iniziativa economica: si farebbe, infatti, questione non di un vincolo comportante l’obbligo di continuazione sine die dell'attività culturale, ma della sola individuazione dell’uso compatibile della res dichiarata di interesse culturale, a prescindere dall’identità della persona legittimata ad esercitare l’attività.

Con riferimento all'art. 42 della Costituzione, la limitazione della proprietà privata derivante dalla imposizione di un vincolo di destinazione sarebbe, comunque, legittima alla luce della legislazione vigente, rientrando nel potere conformativo attribuito all'Amministrazione con riguardo a particolari categorie di beni.

Una terza impostazione, infine, ricostruisce con maggiore ampiezza il potere di tutela del bene culturale: la legittimità del vincolo di destinazione d’uso dovrebbe essere valutata, anziché sulla base di fattispecie derogatorie predeterminate in via astratta, avendo riguardo all’adeguatezza della motivazione alla base della decisione amministrativa concretamente assunta.

A questo ultimo orientamento ha aderito l’ordinanza di rimessione, per la quale la soluzione prospettata con riguardo ai beni culturali ex art. 10 D. Lgs. n. 42/04 si imporrebbe a fortiori a fronte di ‘espressioni di identità culturale collettiva’ ex art. 7 bis D. Lgs. n. 42/04, in relazione alle quali si ravvisa l’esigenza di garantire non soltanto la conservazione della res, ma pure la continuità del processo di condivisione, riproduzione e trasmissione delle manifestazioni immateriali a cui la cosa sia collegata.

Il Collegio osserva che, in sintesi, tre sono le soluzioni prospettabili rispetto alla prima questione di diritto deferita dalla Sezione: - quella che nega l’ammissibilità del vincolo culturale di destinazione d’uso; - quella che l’ammette in circostanze eccezionali e circoscritte, correlate alla particolare trasformazione del bene con una sua specifica destinazione e al suo stretto collegamento per un'iniziativa storico-culturale di rilevante importanza; - quella che ammette l’imposizione di un vincolo culturale di destinazione d’uso, previa adeguata esposizione delle ragioni che ne sono alla base.

L’Adunanza Plenaria, in particolare, ritiene di aderire al terzo orientamento ora sintetizzato, in quanto è basato sulla legislazione vigente ed è anche maggiormente conforme agli obiettivi di interesse generale sottesi alla tutela dei beni culturali, oltre che coerente con il quadro costituzionale di riferimento: il potere di imporre limiti all’uso del bene culturale discende dal combinato disposto degli articoli 18, comma 1, 20, comma 1, e 21, comma 4, del Codice approvato con il decreto legislativo n. 42/04, il quale, - da un lato, attribuisce al Ministero il potere di vigilanza sui beni culturali, al fine di garantire (altresì) il rispetto dei divieti posti dalla disciplina di riferimento, ivi compreso il divieto di usi non compatibili con il carattere storico o artistico del bene culturale oppure tali da recare pregiudizio alla sua conservazione; dall’altro lato, impone di comunicare al soprintendente il mutamento di destinazione d’uso del bene culturale, al fine di permettere all’Amministrazione di verificare la compatibilità del nuovo uso con le caratteristiche storiche o artistiche del bene o con la sua materiale conservazione.

L’art. 20 del d.Lgs. 42 del 2004 ha inoltre previsto che «i beni culturali non possono essere distrutti, deteriorati, danneggiati o adibiti ad usi non compatibili con il loro carattere storico o artistico oppure tali da recare pregiudizio alla loro conservazione». Ne deriva che la disciplina positiva valorizza l’uso del bene culturale quale strumento per consentirne la conservazione materiale.

Inoltre, una tale interpretazione del quadro normativo - che riconosce la maggior latitudine possibile alla tutela del bene culturale, valorizzando l’importanza della motivazione alla base della decisione amministrativa - consente il raggiungimento degli obiettivi di interesse generale sottesi alla disciplina in commento, correlati alla conservazione del patrimonio culturale quale elemento di formazione, promozione e trasmissione della memoria della comunità nazionale (art. 1, comma 2, D. Lgs. n. 42/04).

Per converso, il negare la possibilità di imporre vincoli culturali di destinazione d’uso - come il limitare un tale potere a fattispecie eccezionali, predeterminate in via astratta o correlate all’avvenuta trasformazione della res in relazione ad eventi culturali di particolare importanza - vanificherebbe le esigenze di tutela alla base del D. Lgs. n. 42/04, in tutte le ipotesi in cui un mutamento di destinazione d’uso possa comunque, tenuto conto delle particolarità concrete, essere pregiudizievole per la conservazione del bene e del relativo valore culturale che esso esprime.

Tale interpretazione, per la Plenaria, non produce poi neanche un’irragionevole o sproporzionata limitazione del diritto di proprietà o della libertà di iniziativa economica.

Premesso che i vincoli culturali hanno natura non espropriativa, bensì conformativa (facendosi questione di limiti imposti alla proprietà privata in relazione a modi di godimento di intere categorie di beni – indirizzo accolto da tempo dalla giurisprudenza, anche costituzionale, cfr. Corte costituzionale, 20 dicembre 1976, n. 245), e rilevato che l’interesse culturale ex art. 9 Cost. prevale su qualsiasi altro interesse - ivi compresi quelli economici - nelle valutazioni concernenti i reciproci rapporti (Corte cost., 27 giugno 1986, n. 151), la Corte costituzionale con la sentenza 9 marzo 1990, n. 118, nel pronunciarsi sulla legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 della legge 1° giugno 1939, n. 1089 recante ratione temporis la disciplina dei beni culturali “per riferimento” (oggi prevista dall’art. 10, comma 3, lett. d), D. Lgs. n. 42/04), ha affermato principi che depongono nel senso della legittimità dei provvedimenti impositivi dei ‘vincoli di destinazione d’uso’.

Con tale sentenza, la Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla conformità delle disposizioni sopra indicate all’art. 9 Cost., nella parte in cui non avrebbero previsto la possibilità di tutelare le attività tradizionali caratterizzanti una parte del territorio cittadino e, in particolare, i centri storici, ha ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale, evidenziando come «il valore culturale dei beni di cui all'art. 2…, al cui genere appartengono quelli di cui trattasi, è dato dal collegamento del loro uso e della loro utilizzazione pregressi con accadimenti della storia, della civiltà o del costume anche locale. In altri termini, essi possono essere stati o sono luoghi di incontri e di convegni di artisti, letterati, poeti, musicisti ecc.; sedi di dibattiti e discussioni sui più vari temi di cultura, comunque di interesse storico-culturale, rilevante ed importante, da accertarsi dalla pubblica amministrazione competente. La detta utilizzazione non assume rilievo autonomo, separato e distinto dal bene ma si compenetra nelle cose che ne costituiscono il supporto materiale e, quindi, non può essere protetta separatamente dal bene».

La Corte ha quindi concluso che “[l]'esigenza di protezione culturale dei beni, determinata dalla loro utilizzazione e dal loro uso pregressi, si estrinseca in un vincolo di destinazione che agisce sulla proprietà del bene e può trovare giustificazione, per i profili costituzionali, nella funzione sociale che la proprietà privata deve svolgere (art. 42 della Costituzione)”.

La Plenaria ricorda che resta fermo che il vincolo non può riguardare l'attività in sé e per sé, considerata separatamente dal bene, la quale attività deve, invece, essere libera secondo i principi costituzionali (artt. 2, 9, 21 e 33); così come è libera l’iniziativa economica, “salvo il suo indirizzo e coordinamento a fini sociali a mezzo leggi (art. 41 della Costituzione)” (Corte costituzionale, 9 marzo 1990, n. 118).

Dai sopra riportati principi, per il Collegio si ricava, dunque, che la tutela del bene culturale non può che estendersi anche al suo uso, ogni qualvolta anche quest’ultimo contribuisca alla sua rilevanza culturale. Infine, tale interpretazione è coerente con il complessivo sistema normativo di tutela dell’interesse culturale, basato non soltanto sull’azione delle Autorità statali ai sensi del D. Lgs. n. 42/04, ma anche sull’esercizio di distinti poteri pubblici, ascrivibili pure ad Amministrazioni non statali.

Per la Plenaria, la Sezione remittente ha correttamente richiamato il potere di pianificazione territoriale, il cui esercizio ben può tenere conto delle esigenze legate alla tutela di interessi costituzionalmente primari, in funzione dello sviluppo complessivo ed armonico del territorio su cui detto potere è esercitato (Consiglio di Stato, sez. II, 29 ottobre 2020, n. 6628).

In tale contesto, ricorda il Collegio, si inquadra quell’orientamento giurisprudenziale del Consiglio di Stato che ha ammesso l’esercizio del potere di pianificazione territoriale anche in funzione dell’imposizione di ‘vincoli di destinazione d’uso, motivati dal riferimento al carattere storico-identitario che talune attività possano rivestire in determinati luoghi per la collettività locale: in tali ipotesi, è ben possibile che un bene, pur privo in sé di valenza culturale, rivesta una oggettiva centralità identitaria per una città e sia considerato dagli abitanti (e dagli organi elettivi comunali) come elemento idoneo a rappresentarne il passato ed a rammentarlo (Consiglio di Stato, sez. IV, 22 agosto 2018, n. 5029, per un vincolo di destinazione a “caffè-bar”).

Sarebbe dunque irragionevole, a dire della Plenaria, negare un’analoga possibilità all’Amministrazione istituzionalmente competente a tutelare i beni culturali, non consentendole di apprestare adeguata tutela a quelle attività – di qualsiasi natura - che nella storia sono divenute coessenziali con quella stratificazione del costruito, rappresentandone in una certa misura la stessa ragione d’essere.

Ad avviso del Collegio argomenti contrari a tale tesi non possono, invece, ricavarsi dall’art. 51 D. Lgs. n. 42/04 in materia di studi d’artista. Infatti, la circostanza che il legislatore in relazione a una particolare categoria di bene culturale abbia ravvisato, in via generale e astratta, la necessità di imporre un vincolo di destinazione d’uso per rendere immodificabile l’ambiente e i luoghi in cui operò l’artista - al fine di conservare intatta la testimonianza dei valori culturali in esso insiti, prescindendo da una concreta valutazione amministrativa - non determina l’inammissibilità di un siffatto vincolo di tutela in relazione alle altre categorie di beni culturali, ma significa soltanto che, se per gli studi d’artista l’imposizione del vincolo di destinazione d’uso discende direttamente dal dato positivo per effetto della mera qualificazione della res in tali termini e, quindi, dell’accertamento di tale qualitas del bene, viceversa per le altre categorie di beni culturali occorre una valutazione amministrativa delle circostanze del caso concreto, che dia conto delle ragioni per cui usi della res diversi da quelli attuali siano di pregiudizio per la conservazione dei suoi caratteri artistici o storici ovvero per la sua integrità materiale.

Neppure rileva in senso contrario la sentenza n. 185/2003 della Corte costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della disposizione sull’esenzione degli studi d'artista dai provvedimenti di rilascio previsti dalla normativa in materia di locazione di immobili urbani.

In primo luogo, tale sentenza ha riguardato una disposizione diversa da quella di cui trattasi, ossia l’art. 52 D.Lgs. 490/1999, il quale – nel disporre «l’interdizione dei provvedimenti di rilascio di immobili nei quali si trovino studi d’artista di particolare valore storico» - è stato considerato dalla Corte “misura assolutamente esuberante rispetto alla finalità di tutela perseguita”.

In secondo luogo, tale pronuncia ha ritenuto «il vincolo di destinazione già gravante sull’immobile … pienamente sufficiente a tutelare l’interesse artistico alla conservazione dello studio e del suo contenuto», non essendo consentita “già in forza dei predetti vincoli di legge (…) la rimozione di alcuno dei beni contenuti nello studio né tantomeno l’attuazione di una diversa destinazione dell’immobile”.

In conclusione, l’imposizione in via generale e astratta di un vincolo di destinazione d’uso (come è nel caso degli studi d’artista di cui all’art. 51 cit.) è consentita da una disposizione speciale che ha attribuito rilievo alla mera qualitas di bene culturale, rispetto alla quale sussistono i “generali obblighi di conservazione dei beni culturali”.

Quindi, deve così ritenersi non estranea al sistema dei vincoli per la tutela delle cose di interesse storico o artistico la previsione del potere amministrativo di porre limiti alla loro destinazione, quando la misura imposta miri a salvaguardare l’integrità e la conservazione del bene (Cons. Stato, sez. VI, 18 ottobre 1993, n. 741), senza che ciò si risolva nell'obbligo di gestire una determinata attività.

Per il Collegio, si tratta di uno strumento di tutela del bene culturale che deve ritenersi generalmente ammesso dalla legislazione di settore e che è riconducibile ai poteri di cui è titolare il Ministero della Cultura, occorrendo però - a differenza delle ipotesi tipicamente normate, in cui la valutazione circa la necessità del vincolo di destinazione d’uso è operata a monte, in via generale e astratta dal legislatore - l’intermediazione del potere amministrativo e una valutazione motivata in relazione alle peculiarità concrete, all’esito di un’adeguata istruttoria.

In particolare, il provvedimento di imposizione di un ‘vincolo di destinazione come modalità di uso’ si deve basare su adeguata motivazione sulla sussistenza di valori culturali, estetici e storici tutelabili, avendo riguardo al riferimento della res alla storia della cultura e alla rilevanza artistica degli arredi ivi conservati (Consiglio di Stato, sez. VI, 10 ottobre 1983, n. 723, relativa al vincolo su una “fiaschetteria”, per la quale l’Amministrazione ben può salvaguardare la prosecuzione di una certa attività economica in atto nell’immobile, ai sensi dell’articolo 11 della legge n. 1089 del 1939, all’epoca vigente ratione temporis, con la precisazione che l’Amministrazione non può, invece, imporre né che l’attività economica prosegua, né che continui ad essere svolta dallo stesso soggetto; cfr. anche sez. VI, 18 ottobre 1993, n. 741; 16 novembre 2004, n. 7471).

Quindi, acclarata l’ammissibilità, alla luce del quadro normativo vigente, di un vincolo che riverberi i propri effetti sulla utilizzazione del bene culturale oggetto di tutela, dovendo ammettersi anche vincoli più incisivi che impongano “in positivo” e non solo “in negativo” le destinazioni d’uso da preservare e valorizzare, la plenaria ribadisce che il vincolo di destinazione non deve, comunque, imporre alcun obbligo di esercizio o prosecuzione dell’attività commerciale e imprenditoriale, né attribuire una ‘riserva di attività’ in favore di un determinato gestore, al quale non può essere attribuita una sorta di “rendita di posizione”.

Il provvedimento di imposizione di un vincolo che giunga a individuare un solo ‘uso compatibile’ sarebbe illegittimo per sviamento ove venisse apposto, qualora mirasse non alla conservazione ed alla salvaguardia della res in cui è incorporato il valore storico culturale particolarmente importante, ma a far continuare la prosecuzione di una specifica attività commerciale o imprenditoriale (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 10 ottobre 2002, n. 5434): solo una espressa disposizione di legge potrebbe attribuire all’Amministrazione tale ulteriore potere.

In definitiva, quel che può essere imposto è un divieto di usi diversi da quello attuale, a tutela tanto del bene culturale quanto dei valori in esso incorporati. Tale tipologia di vincolo, a carattere e contenuto “misto” (di tipo “intrinseco” e di tipo “relazionale esterno” o “testimoniale”) ai sensi dell’art. 10, comma 3, lett. d) del Codice, è funzionale sia alla conservazione della res che alla prosecuzione dell’attività ivi svolta, se inscindibile e compenetrata negli elementi materiali considerati di interesse storico-culturale.

A tal fine, la motivazione del provvedimento di vincolo del bene, che vi imprima altresì una destinazione d’uso, potrà valorizzare, anche nell’ambito delle relazioni specialistiche allegate che ne costituiscano parte integrante, il collegamento tra gli elementi culturali materiali e quelli immateriali, inverato nello svolgimento di un’attività, strumentale alla conservazione della res e del valore culturale che essa esprime, in ragione della sussistenza sia dell’immedesimazione dei valori storico culturali con le strutture materiali (l’immobile e gli arredi in esso contenuti) che del collegamento dei beni e della loro utilizzazione con determinati eventi della storia e della cultura (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 6 maggio 2008, n. 2009; sez. VI, 17 febbraio 1999, n. 170).

Pertanto, l’Amministrazione, nel dichiarare l’interesse culturale del bene, può sia (in negativo) precludere ogni uso incompatibile con la conservazione materiale della res, sia (in positivo) disporre la continuità dell’uso attuale cui la cosa è stata, storicamente e fin dalla sua realizzazione, destinata: e ciò anche in assenza di un processo di trasformazione della res e a prescindere dal suo riferimento a una specifica iniziativa storico culturale di rilevante importanza.

Sotto tale ultimo profilo, la Plenaria osserva, infatti, che, ai fini della dichiarazione dell’interesse culturale dei beni c.d. “per riferimento” ex art. 10, comma 3, lett. d), può essere sufficiente anche il richiamo a fatti ed eventi - comunque specifici - della ‘storia locale’ ovvero della ‘storia minore’, pur sempre idonei a giustificare la conservazione e la trasmissione del valore culturale (Consiglio di Stato, sez. VI, 14 giugno 2017, n. 2920; sez. VI, 16 novembre 2004, n. 7471; Cons. Stato, VI, 18 ottobre 1993, n. 741, la quale, in relazione alla disciplina previgente dei beni culturali “per riferimento”, ha chiarito che il riferimento di un immobile con la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte e della cultura, di cui è cenno nell’art. 2 della legge 1° giugno 1939 n. 1089, all’epoca vigente, non implicava necessariamente che in esso si fosse verificato un evento di rilevanza storica o culturale, ma richiedeva quantomeno che la cosa immobile esprimesse una relazione con la storia della politica o della cultura, tale da consentire la conservazione o la trasmissione del valore culturale).

Anche sulla base del vigente quadro normativo, l’Amministrazione può porre alla base del provvedimento di vincolo ai fini del riconoscimento dell’interesse culturale ex art. 10, comma 3, lett. d) cit. il collegamento del bene con specifici fatti e accadimenti relativi alla storia sociale, politica, artistica e culturale, se essi, apprezzati unitariamente dalla stessa Amministrazione, consentano di riconoscere, all’esito di un’approfondita istruttoria, l’interesse culturale di cui il bene costituisce e reca testimonianza.

In sostanza, per l’Adunanza Plenaria, la motivazione del provvedimento dovrà essere adeguata e sorretta dalla rappresentazione delle ragioni per le quali il valore culturale espresso dalla res non possa essere salvaguardato e trasmesso se non attraverso la conservazione del suo pregresso uso che, compenetratosi nelle cose che ne costituiscono il supporto materiale, è divenuto ad esso ‘consustanziale’.

Tali valutazioni potranno poi essere oggetto di sindacato giurisdizionale nei consueti limiti previsti per gli atti implicanti esercizio di discrezionalità tecnica riservata all’Amministrazione in merito alla qualitas di bene culturale (cfr., tra le altre, Consiglio di Stato, sez. VI, 7 giugno 2021, n. 4318 e Consiglio di Stato, sez. VI, 14 ottobre 2015, n. 4747): in sede di giurisdizione di legittimità, l’apprezzamento compiuto dall’Amministrazione preposta alla tutela potrà essere sindacato sotto i profili della logicità, coerenza e completezza della valutazione, considerati anche per l’aspetto concernente la correttezza del criterio tecnico e del procedimento applicativo prescelto, fermo restando il limite della relatività delle valutazioni scientifiche; non sarà, invece, ammissibile alcun sindacato di tipo sostitutivo che vada a sovrapporre a una valutazione connotata da discrezionalità tecnica, implicante l’applicazione di cognizioni tecniche specialistiche proprie di settori scientifici disciplinari della storia, dell’arte e dell’architettura e caratterizzata da ampi margini di opinabilità, una valutazione alternativa, parimenti opinabile (come è stato già chiarito da Cons. giust. amm. Sicilia, 7 maggio 2021, n. 406; Consiglio di Stato, sez. VI, 4 settembre 2020 n. 5357).

Tale potere è poi esercitabile sia all’atto della comunicazione del mutamento della destinazione d’uso (ai sensi dell’art. 21, comma 4, cit.), che in via anticipata, al momento della dichiarazione dell’interesse culturale della res, in applicazione del principio di prevenzione (art. 29, comma 2, D. Lgs. n. 42/04), che impone di limitare ex ante le situazioni di rischio connesse al diverso possibile uso del bene culturale.

Parimenti, il vincolo di destinazione può essere imposto anche su un immobile già sottoposto a tutela per il proprio intrinseco pregio artistico, stante l’autonomia dei due vincoli, i quali vanno tra loro coordinati (così Cons. Stato, VI, 28 febbraio 1990, n. 321).

Infine, deve rilevarsi come l’astratta possibilità di fatti successivi ed eventuali (quale, ad esempio, la cessazione dell’attività) non influisce sulla legittimità del provvedimento di vincolo, che va valutata in relazione alla situazione di fatto esistente al momento della sua adozione.

Ad ogni modo, per il Collegio, anche tali aspetti potranno essere regolati, dopo l’apposizione del vincolo c.d. culturale, dal potere di controllo dell’amministrazione ai sensi degli artt. 18, 19, 20, 21 del Codice, tenuto conto che anche “i privati proprietari, possessori o detentori di beni culturali sono tenuti a garantirne la conservazione” (art. 30, comma 3).

A seguire, l’Adunanza Plenaria chiarisce che la soluzione condivisa con riguardo ai beni culturali ex art. 10 D. Lgs. n. 42/04 va seguita anche con riguardo alle ‘espressioni di identità culturale collettiva’ ex art. 7 bis D. Lgs. n. 42/04, in relazione alle quali, come rilevato dal giudice remittente, si ravvisa l’esigenza di salvaguardare non soltanto la conservazione della res, ma pure la continuità della condivisione, della riproduzione e della trasmissione delle manifestazioni immateriali a cui la cosa sia collegata.

Ai sensi dell’art. 7 bis del D. Lgs. n. 42/04 (introdotto nel Codice dei beni culturali dall'art. 1 del d.lgs. n. 62 del 2008), “Le espressioni di identità culturale collettiva contemplate dalle Convenzioni UNESCO per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale e per la protezione e la promozione delle diversità culturali, adottate a Parigi, rispettivamente, il 3 novembre 2003 ed il 20 ottobre 2005, sono assoggettabili alle disposizioni del presente codice qualora siano rappresentate da testimonianze materiali e sussistano i presupposti e le condizioni per l'applicabilità dell'articolo 10”.

Nella relazione illustrativa del decreto legislativo n. 62 del 2008, è rilevato che l’art. 7 bis è stato inserito a seguito delle due Convenzioni internazionali promosse dall’UNESCO e sottoscritte a Parigi, rispettivamente, il 2005 e il 2003, e che “le espressioni di identità culturale collettiva prese in considerazione dalle citate Convenzioni sono assoggettabili alle disposizioni del Codice qualora siano rappresentate da testimonianze materiali, e per queste sussistano i presupposti e le condizioni per la tutela stabiliti dall’articolo 10 del Codice medesimo”.

La relazione ha richiamato le iniziative che vi sono state anche sul piano internazionale per la salvaguardia delle diversità culturali e la protezione del patrimonio culturale immateriale ed ha rimarcato l’esigenza di ridefinire i settori disciplinari contigui e perfettamente coincidenti, per evitare interpretazioni fuorvianti sia degli obblighi assunti in via pattizia con altri Stati, sia dei confini fra la tradizionale tutela relativa alle cose di interesse storico ed artistico e la salvaguardia afferente a manifestazioni e valori della cultura immateriale.

L’art. 7 bis ha inteso valorizzare le espressioni culturali condivise, riprodotte e trasmesse dalle collettività di riferimento, per propria natura aventi valore immateriale, purché di tali espressioni sussista una testimonianza materiale e vi siano i presupposti di cui all’art. 10 D. Lgs. n. 42/04.

A sua volta, la Convenzione UNESCO per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale del 2003 (richiamata dal richiamato art. 7 bis), all’art. 1, lett. b), prevede tra le sue finalità quella di «assicurare il rispetto per il patrimonio culturale immateriale delle comunità, dei gruppi e degli individui interessati», aggiungendo al successivo art. 2, che «per “patrimonio culturale immateriale” s’intendono le prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il know-how – come pure gli strumenti, gli oggetti, i manufatti e gli spazi culturali associati agli stessi – che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale. Questo patrimonio culturale immateriale, trasmesso di generazione in generazione, è costantemente ricreato dalle comunità e dai gruppi in risposta al loro ambiente, alla loro interazione con la natura e alla loro storia e dà loro un senso d’identità e di continuità, promuovendo in tal modo il rispetto per la diversità culturale e la creatività umana».

Va rilevato che il procedimento di candidatura dei siti UNESCO non coincide necessariamente con l’azione di salvaguardia che il Ministero della Cultura è tenuto a svolgere sul territorio italiano, ove ritenga sussistenti i presupposti previsti dal Codice dei beni culturali, e che i provvedimenti di tutela di cui all’art. 7 bis cit. non impongono l’attivazione delle candidature, rilevanti per l’UNESCO.

Infatti, la disposizione statale richiama le Convenzioni Unesco al solo fine di identificare quelle fattispecie, costituenti “espressioni di identità culturale collettiva”, che possono essere assoggettate alle tutele di cui al Codice dei beni culturali, sussistendone le necessarie condizioni (e cioè “qualora siano rappresentate da testimonianze materiali e sussistano i presupposti e le condizioni per l'applicabilità dell'articolo 10”).

Ciò posto, mentre in ambito convenzionale la rilevanza degli elementi materiali (strumenti, oggetti, manufatti e spazi culturali) associati alle espressioni di identità culturale è soltanto eventuale, ben potendo tutelarsi in via immediata e diretta l’immaterialità della manifestazione culturale in sé, la disciplina nazionale richiede un collegamento qualificato con un elemento materiale.

La res, in particolare: - da un lato, deve testimoniare l’esistenza e il modo di essere dell’espressione di identità culturale collettiva, potendo assumere indifferentemente la valenza di oggetto, mezzo o luogo su cui, attraverso cui o in cui vengono ricreate, condivise e trasmesse le espressioni che la comunità riconosce come componenti del proprio patrimonio culturale, distintive della propria storia, costituenti un lascito del passato, da preservare nel presente per la trasmissione alle future generazioni; - dall’altro, deve essere già, di per sé, tutelabile ai sensi dell’art. 10 D. Lgs. n. 42/04, occorrendo l’integrazione dei presupposti e delle condizioni per la sua dichiarazione di interesse culturale.

In questa ottica, secondo l’Adunanza Plenaria, può concludersi che, ai fini dell’applicazione della disciplina in commento, la res deve avere un proprio interesse culturale ai sensi dell’art. 10 D. Lgs. n. 42/04, e rivestire anche una particolare rilevanza per il suo collegamento qualificato con una manifestazione culturale immateriale, della cui esistenza la stessa res costituisce prova, consentendo di ricostruirne contenuto e caratteristiche identitarie.

Ciò posto, il Collegio chiarisce che, nell’attuale quadro ordinamentale e alla luce del collegamento tra la res e l’espressione culturale identitaria stabilito dalla disciplina vigente, deve ritenersi che gli strumenti di tutela del patrimonio culturale nazionale non possono essere evidentemente circoscritti, stante la portata innovativa e la ratio della norma, entro i tradizionali limiti della conservazione della res, propri delle manifestazioni culturali meramente materiali. Infatti, le manifestazioni culturali immateriali, destinate per loro natura ad essere costantemente ricreate e condivise a beneficio della comunità di riferimento, necessitano ancor più di strumenti di tutela che ne permettano una continua riproduzione, indispensabile per evitarne la dispersione.

In particolare, ferme rimanendo le misure promozionali delle attività culturali, suscettibili di essere previste anche in ambito regionale (cfr. Corte cost., 28 marzo 2003, n. 94), il potere di tutela è funzionale, in siffatte ipotesi, a garantire non soltanto l’integrità fisica della res, ma anche la continuità dell’espressione culturale di cui la cosa costituisce “testimonianza vivente”.

Ai fini di un tale rafforzamento degli ordinari strumenti di tutela, per la Plenaria è valorizzabile il vincolo di destinazione d’uso, che, come per i beni meramente materiali, ponga la res a servizio dell’espressione culturale di cui essa costituisce la testimonianza, in relazione al messaggio che il bene culturale, come un vero e proprio documento, è in grado di perpetuare per le generazioni future (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 4 settembre 2020, n. 5357).

Si fa questione, in definitiva, di un ulteriore strumento di tutela disponibile in capo all’Amministrazione ai sensi dell’art. 7 bis cit. in combinato disposto con gli artt. 18, comma 1, 20, comma 1, 21, comma 4, e 29, comma 2, D. Lgs. n. 42/04, che prescinde dall’avvio del procedimento di candidatura in ambito UNESCO, essendo riconducibile a potestà amministrative esercitabili, in ambito interno, dal Ministero della Cultura, attraverso i moduli procedimentali ordinari, propri della tutela dei beni culturali ex artt. 13 e ss. D. Lgs. n. 42/04.

In senso contrario, non depone l’art. 52, comma 1 bis, D. Lgs. n. 42/04, sulle misure promozionali e di salvaguardia dei locali in cui si svolgono attività di artigianato tradizionale e altre attività commerciali tradizionali, “riconosciute quali espressione dell'identità culturale collettiva ai sensi delle convenzioni UNESCO di cui al medesimo articolo 7-bis, al fine di assicurarne apposite forme di promozione e salvaguardia, nel rispetto della libertà di iniziativa economica di cui all'articolo 41 della Costituzione”.

Infatti, tale comma 1 bis prevede una tutela procedimentale differente e non sovrapponibile a quella prevista dall’art. 7 bis (come disvela l’inciso iniziale: “fermo restando quanto previsto dall'articolo 7-bis”), affidandola ai Comuni, i quali devono “sentire il soprintendente”.

Tale previsione, regolando, per lo più, le misure promozionali a sostegno delle attività culturali ivi richiamate, da un lato, fa salva proprio la disciplina di cui all’art. 7 bis cit., non influendo, dunque, sugli strumenti di tutela riconducibili a quest’ultima disposizione; dall’altro, conferma come talune attività tradizionali, pure ove artigianali o commerciali, possano integrare gli estremi dell’espressione di identità culturale collettiva ex art. 7 bis cit. e, dunque, in tale qualità, essere assoggettati ai relativi strumenti di tutela previsti dalle disposizioni del Codice dei beni culturali, ricorrendone i presupposti di legge.

L’art. 7 bis non introduce una forma di tutela distinta o alternativa, sul piano ontologico (salvo il quid pluris concernente la categoria di beni culturali assoggettabili a tutela) e procedimentale, rispetto alle misure di protezione ordinarie e tradizionali previste dal Testo Unico, ma integra e rafforza il sistema delle tutele ivi contemplate.

Pertanto, a una formalistica visione che contrappone, nell’ambito delle misure di protezione dei beni culturali, la “tutela delle cose” ex art. 10 D.Lgs. 42/2004 (basata su un procedimento autoritativo di tipo verticale) alla “tutela delle attività” di cui all’art. 7 bis cit. (che richiederebbe, invece, l’intervento delle comunità interessate e un procedimento di tipo partecipativo), deve preferirsi un approccio integrato e dinamico della tutela del bene culturale, considerato nella sua interezza.

Tale approccio, per il Collegio, coerente con la più efficace tutela del bene culturale, è conforme ai principi affermati della Corte Costituzionale, la quale, con la menzionata sentenza n. 118 del 1990, ha statuito che il collegamento di un bene con il suo uso pregresso può imprimere e dare al medesimo il valore culturale che gli si riconosce, nella misura in cui detta utilizzazione, che non assume rilievo autonomo, separato e distinto dal bene, si compenetri nelle cose che ne costituiscono il supporto materiale, dovendo essere insieme a questa protetta. Non rileva sotto tale profilo la ‘candidatura UNESCO’ del bene, poiché il richiamo legislativo al diritto pattizio mira unicamente a definire l’oggetto della tutela, per cui troverà applicazione sempre la disciplina interna.

In altri termini, chiarisce la Plenaria, la disposizione sopra richiamata non configura un sistema di protezione “binario” all’interno del Codice dei beni culturali e non contrappone le tradizionali misure vincolistiche, che hanno ad oggetto l’immobile in cui si svolgono le attività (quali quelle elencate all’art. 52, comma1 bis), alle « classiche misure promozionali utilizzate per il sostegno delle attività (artigianali e commerciali) ivi svolte, riconosciute di valore culturale, in quanto espressione dell’identità collettiva ai sensi dell’articolo 7-bis» del medesimo D.Lgs. 42/04.

Per l’Adunanza Plenaria non sussiste, dunque, una diversità degli strumenti di tutela, ben potendo le misure previste dal legislatore, per conservare le “cose”, essere adeguatamente utilizzate per salvaguardare le “attività culturali” che per esse e in esse si svolgono, al ricorrere delle condizioni indicate dalla norma. Anche in tale ipotesi, non può essere disposta una riserva di attività a favore di un determinato gestore, né può essere imposto un obbligo di prosecuzione dell’attività a suo carico.

Infatti, oggetti di tutela sono sempre il bene e l’attività culturale svolta in esso o per mezzo di esso, senza rilevare il ‘chi’ la svolga: se venisse meno o l’uno o l’altro -il locale, le opere e gli arredi o l’uso e l’attività - verrebbe meno la stessa ragion d’essere della tutela, che risiede in un’intima connessione tra gli elementi materiali tangibili e quelli immateriali.

È questo tutt’uno inscindibile che dà forma, infatti, a quella peculiare espressione artistica e storica riconosciuta di particolare interesse culturale, meritevole di perpetuarsi nel tempo.

Si tratta di una tutela che, al di là degli interessi contingenti dei singoli e dei gruppi, riguarda il bene culturale considerato in sé e nella sua interezza, come luogo di ritrovo e di memoria collettiva, da preservare e tramandare alle future generazioni: il bene culturale viene così ad assumere una particolare valenza identitaria per una determinata comunità, nazionale o locale, veicolandola nella contemporaneità, in una linea ininterrotta tra passato e presente, per effetto della continua ricreazione, condivisione e trasmissione della manifestazione culturale di cui la cosa costituisce testimonianza.

Ne consegue che possono essere tutelati, mediante un vincolo di destinazione d’uso, anche i beni che sono espressione di una identità collettiva (perché in quel bene o per suo tramite sono accaduti eventi di rilevanza storica e culturale ovvero perché personaggi storici e illustri vi hanno trovato, in un dato momento, la loro collocazione), per i quali si riconosca l’impossibilità di scindere le dimensioni materiali da quelle immateriali, stante la loro immedesimazione.

Secondo il Collegio, il potere conformativo dell’Amministrazione che a tal fine sacrifichi, ragionevolmente e in modo proporzionato, altri interessi e diritti soggettivi realizza, pertanto, un interesse pubblico primario e sovraordinato.

Alla luce dei principi affermati dalla giurisprudenza costituzionale, tale interpretazione deve, infatti, ritenersi conforme all’art. 9 Costituzione (ai sensi del quale “la Repubblica … tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione») e, in virtù della primarietà del valore artistico culturale rispetto al valore economico (cfr. Corte Costituzionale, n. 151/1986 cit), non viola i principi di ragionevolezza e proporzionalità.

Inoltre, tale impostazione è coerente con l’impianto normativo di settore, da cui non si evince un limite astratto all’operatività del vincolo di destinazione d’uso, né che questo debba essere circoscritto a ipotesi specifiche (come nei casi previsti dagli artt. 11 e 51 per la tutela degli “studi d’artista” e, soprattutto, dal combinato disposto degli artt. 11 e 52 comma 1 bis).

Per contro in siffatte ipotesi (può essere, come nella specie, il caso di un ristorante, ma anche di un teatro, di una sala cinematografica, di una farmacia o di una libreria di interesse storico, beni la cui presenza sul territorio rappresenta una componente particolarmente rilevante dell’offerta culturale del Paese), il vincolo sull’immobile e su quanto esso contiene non può prescindere, pena la sua vanificazione, dall’imprimervi un determinato uso.

In definitiva, anche la tutela dei beni culturali (in uno alle attività) che costituiscono “espressione di identità culturale collettiva” può essere disposta sulla base del Codice dei beni culturali.

In tal caso, il provvedimento dichiarativo dell’interesse culturale del bene- che si esplica come atto unitario rispetto all’immobile, alle opere d’arte e agli arredi in esso contenuti (art. 10, comma 3, lett. d), nonché agli aspetti immateriali (art. 7 bis)- dovrà dare evidenza dell’esistenza di un’indissolubile connessione fra beni materiali e beni immateriali che attribuisca ad un tempo rilevanza storico- artistica ai beni e valore storico e sociale all’attività svolta.

L’Adunanza plenaria prosegue l’iter argomentativo, poi, con alcune considerazioni generali sul patrimonio culturale.

Il bene culturale, oltre a essere oggetto diretto della tutela apprestata dalle norme, rileva anche come “testimonianza vivente”, vale a dire come mezzo di prova dell’esistenza della manifestazione culturale, immateriale e collettiva, che, per mezzo di esso, si alimenta e si ricrea, perpetuandosi nel tempo.

Infatti, il bene culturale non si esaurisce soltanto nelle testimonianze materiali che lo rappresentano, attribuendogli il valore estetico o storico che gli è proprio, ma presenta anche una particolare forza “evocativa” in virtù del valore in esso insito, che assume significato per l’intera collettività di riferimento, la quale da esso trae un senso di identità e di continuità.

Rilevato che la manifestazione culturale “immateriale” deve riferirsi ad una cosa materiale, mobile o immobile, che consenta di ricostruirne contenuti e caratteristiche, va rimarcato come deve esservi tra esse un ‘rapporto bilaterale’: la cosa acquista valore di testimonianza per mezzo del suo rilievo culturale.

L’elemento immateriale e quello materiale vengono così a coesistere in un tutt’uno inscindibile, in cui spazio e tempo attribuiscono nel loro insieme alla res il valore culturale meritevole di tutela.

Il bene culturale è percepito come tale dalla comunità attraverso quel determinato uso, ma al contempo lo trascende, diventando non solo “patrimonio culturale”, in un’ottica soltanto “conservativa” per la sua preservazione, ma anche una “eredità culturale” da trasmettere alle future generazioni (c.d. cultural heritage, come definita dalla Convenzione quadro del Consiglio d'Europa sul valore dell’eredità culturale per la società, fatta a Faro il 27 ottobre 2005, ratificata con la legge 1° ottobre 2020, n. 133, la quale ha definito il "patrimonio culturale" come l'insieme delle risorse ereditate dal passato, riflesso di valori e delle credenze, delle conoscenze e tradizioni, in continua evoluzione, rilevanti per una comunità di persone, rimarcando il valore e il potenziale del patrimonio culturale come risorsa per lo sviluppo sostenibile e per la qualità della vita e individuando il "diritto al patrimonio culturale").

Va anche rimarcata, secondo la plenaria, la differenza tra le espressioni di identità culturale collettiva di cui all’art. 7 bis cit. e il patrimonio immateriale di cui alle Convenzioni UNESCO.

Le ‘espressioni di identità culturale collettiva’ sono state autonomamente contemplate, come possibile oggetto di tutela, dal legislatore interno, che le ha connotate in modo “misto”, nel senso che all’espressione immateriale e identitaria deve sempre accompagnarsi un substrato materiale, dato da una cosa che la testimoni e che giustifichi una tutela ai sensi dell’art. 10 del Codice dei beni culturali e del paesaggio.

Il ‘patrimonio culturale’ in base alle citate Convenzioni va tutelato anche nelle sue ‘manifestazioni immateriali’, anche se queste non siano riconducibili a specifici beni materiali che le testimonino.

L’art. 7 bis ha ricondotto la protezione di queste espressioni alle forme ordinarie di tutela, che si operano innanzitutto attraverso i decreti di vincolo; sicché a tal fine non occorrono procedure specifiche di inclusione negli elenchi di beni tutelati ai sensi delle Convenzioni UNESCO.

Il quid pluris introdotto dall’art. 7 bis sta dunque nel consentire riguardo alla cosa materiale non solo la conservazione del valore culturale in essa incorporato e derivante già dalla sua qualificazione come bene culturale ai sensi dell’art. 10 D. Lgs. n. 42/04, ma anche la continuità dell’espressione culturale di cui la cosa costituisce testimonianza.

In base all’art. 7 bis è quindi possibile riconoscere, alle ivi indicate condizioni, rilievo e significato nel nostro ordinamento anche ai c.d. “beni culturali intangibili” (o “patrimonio culturale immateriale”), per il quale la ratio di tutela risiede nella ravvisata impossibilità di scindere la dimensione materiale da quella immateriale del bene culturale.

L’articolo 7 bis sottolinea la pregnanza della dimensione immateriale di tali beni, il cui valore culturale non risulta circoscrivibile solo al riferimento alla storia dell’arte e dell’architettura, in quanto essi costituiscono, nel loro insieme, un punto di riferimento identitario per la comunità e un veicolo di costruzione della memoria collettiva, sicché i diversi elementi, materiali e immateriali, che li compongono, traendo forza e sostanza dal legame inscindibile gli uni con gli altri, non possono essere separatamente considerati e tutelati.

Pertanto, per il Collegio, in materia di protezione dei beni culturali ‘la tutela delle cose’ non può essere contrapposta alla ‘tutela delle attività’, laddove la cosa materiale vada salvaguardata e protetta non solo per la sua intrinseca consistenza (ovvero: per il suo valore strutturale ed estetico), ma anche per la sua connessione funzionale con una attività, un costume o una tradizione che le attribuiscono quella peculiare rilevanza artistica, storica e culturale.

Se, dunque, sono pur sempre le testimonianze materiali di tali espressioni culturali e identitarie ad essere assoggettate alla disciplina vincolistica, ciò può accadere, ove ricorrano le condizioni di legge, anche in virtù dei significati (immateriali) che esse rivestono per determinate "comunità, gruppi e individui interessati” (Convenzione UNESCO 2003, art. I, b).

In tali ipotesi, le forme di tutela non differiscono, come evidenziato, da quelle di cui all’art. 10 D.Lgs. 42/2004, cioè i procedimenti “autoritativi” ex art. 13 del Codice; altre forme di tutela, di tipo orizzontale e partecipativo, potranno coesistere con tali forme procedurali tipiche, ma mai escluderne l’applicabilità alle fattispecie contemplate dal più volte citato art. 7 bis.

La tutela integrata del patrimonio culturale comporta che, nell’ambito dei procedimenti di verifica e di dichiarazione di interesse culturale, rilevano anche i valori e gli elementi identitari, di memoria collettiva e di testimonianza storica di cui i beni culturali mobili e immobili sono espressione per determinati gruppi sociali e contesti culturali, congiuntamente all’interesse storico-artistico, architettonico e archeologico (come è stato rilevato nella circolare n. 20 del 26 luglio 2019 della Direzione generale, richiamata dal Ministero appellante).

In conclusione, per l’Adunanza Plenaria, la nozione di bene culturale, in una visione dinamica e moderna, deve essere intesa in senso ampio: essa, pur presupponendo res quae tangi possunt, può anche ricomprendervi un quid pluris di carattere immateriale. A fronte di tale ampiezza di significato deve corrispondere la maggior estensione possibile, a legislazione vigente, delle forme di tutela previste dall’ordinamento, che consentano una protezione ‘elastica’ ed efficace al bene culturale, senza limitarsi alla sua consistenza materiale, ma considerandolo globalmente, per i valori culturali che esso esprime e reca in sé.

Il bene culturale viene così integralmente salvaguardato nell’insieme unitario e inscindibile dei suoi specifici aspetti: il valore culturale ‘estrinseco’, correlato a fatti della storia e della cultura, ma anche quello ‘intrinseco’, che, immedesimatosi con la cosa stessa, rende necessario tutelare non soltanto il ‘contenente’ ma anche il ‘contenuto’ del bene culturale, materiale o immateriale che esso sia.

Infatti, declinando i principi di diritto enunciati dalla Corte Costituzionale, la legislazione vincolistica non può che essere interpretata se non facendo riferimento al concetto di ‘compenetrazione’ del valore culturale con i beni che ne costituiscono il supporto materiale, trasformati, per l’effetto, nelle loro stesse intrinseche caratteristiche.

Pertanto, come l’avviamento di un’azienda non è un bene a sé stante, ma una sua qualità, che non può essere trasferita separatamente dall’azienda stessa e dal complesso di beni da cui questa è costituita, così in tali ipotesi, l’uso pregresso che contribuisce al valore culturale immateriale insito nella cosa non può venir meno, perché altrimenti andrebbe dispersa l’essenza del bene protetto e la sua stessa ragione di tutela.

Nel complesso di tali beni, tangibili e intangibili, si concretizza e si esplica anche l’“espressione di identità culturale collettiva”, tutelato dal Codice del 2004 per la conservazione del bene materiale e per la continua condivisione e trasmissione della manifestazione culturale di cui la cosa costituisce testimonianza.

Qualora un bene abbia il valore che gli è proprio anche per il collegamento con una determinata attività, la sola conservazione del bene materiale mediante il provvedimento di vincolo è condizione necessaria, ma non sufficiente per la sua adeguata protezione, in quanto la destinazione a un uso incompatibile o diverso da quello cui esso è stato nel tempo stabilmente destinato finirebbe per obliterare proprio il valore storico-culturale che è alla base del provvedimento di vincolo, vanificando gli interessi pubblici che ne sono alla base.

Un tale vincolo di destinazione può operare soltanto sul piano oggettivo, regolando l’uso della res, senza disporre alcun obbligo di prosecuzione dell’attività svolta né la riserva di una tale attività, a prescindere dagli accordi conclusi tra le parti, in favore dell’attuale gestore.

Così intesa, la previsione di un vincolo di destinazione finalizzata alla conservazione dell’uso del bene- riferito alla sola res e inidonea ad imporre obblighi di prosecuzione dell’attività o a riservarne soggettivamente la gestione - da un lato, non viola la libera iniziativa economica (stante l’assenza di obblighi di esercizio), dall’altro, limita in maniera proporzionata e ragionevole il diritto di proprietà, perché, senza svuotare le facoltà dominicali, ne assicura la funzione sociale per la tutela di interessi pubblici prevalenti, correlati alla salvaguardia ed alla conservazione del patrimonio culturale della Nazione.

Il Collegio ricorda che, come ha già rilevato dallo stesso Consiglio (v. la sentenza n. 1933 del 2019), se è vero che l’attività dei «negozi storici» di per sé non può essere oggetto di vincolo culturale, quest’ultimo ben può essere apposto nei confronti degli immobili nei quale i suddetti negozi sono ospitati, in quanto in tal caso il valore culturale dei beni è ravvisabile nel collegamento del loro uso e della loro utilizzazione pregressi con accadimenti della storia e della civiltà.

In definitiva, la tutela può dunque essere estesa dal bene alla sua destinazione quando la rilevanza storico, artistica e culturale del bene sia anche la conseguenza dello svolgimento di una determinata attività.

L’art. 7 bis cit. ha dunque integrato il sistema di tutele tradizionali già previsto dalla normativa di settore, consentendo di tutelare anche le manifestazioni culturali immateriali, costituenti ‘espressioni di identità culturale collettiva’, in uno alle testimonianze materiali che le rappresentano.

Il relativo procedimento va seguito sia nel caso delle “espressioni di identità culturale collettiva” richiamate nell’articolo 7-bis (con espressione ignota alle convenzioni Unesco), sia in quello dei beni etnoantropologici materiali disciplinati dall’art. 10 del Codice, il cui interesse si definisce in virtù degli elementi immateriali che lo sostanziano, riconducibili al valore identitario e rappresentativo che i membri di una comunità gli attribuiscono, agli usi che ne vengono fatti, ai saperi, alle pratiche e alle conoscenze che la sua conservazione permette di tramandare.

A tal fine è necessaria, tuttavia, anche l’ulteriore condizione della loro “materializzazione” in una cosa che possa essere considerata (prima ancora che tutelata) come “bene” culturale, cioè come “oggetto” cui indirizzare l’attività amministrativa di tutela volta ad assicurarne la conservazione (oltre che, se di proprietà pubblica, la fruizione e la valorizzazione).

A differenza delle discipline legislative regionali aventi ad oggetto la salvaguardia e la valorizzazione dei locali storici o dei centri storici (cfr. legge Regione Lazio n. 31 del 6 dicembre 2001; l.r. Lazio n. 1/2022), tale forma di protezione del bene culturale (che fa leva sulla normativa sopravvenuta di cui all’art. 7 bis cit., in combinato disposto con l’art. 10 dello stesso Codice) non configura poi una tutela di tipo meramente merceologico e “promozionale”, volta a preservare e sostenere la sola tipologia di attività svolta in un determinato luogo, in ragione della sua rilevanza storico, artistica ed ambientale, ma completa il sistema ordinamentale interno disciplinato dal vigente Codice dei beni culturali e del paesaggio.

Nel ponderato contemperamento degli interessi coinvolti, secondo la Plenaria, la tutela dei beni culturali può comportare delle limitazioni alla libertà di impresa e alla proprietà privata (entrambe garantite dalla Costituzione nei limiti della loro funzione sociale), se del caso ponendosi in contrasto con tendenze del “mercato” al fine di “garantirne la protezione e la conservazione per fini di pubblica fruizione” (art. 3, comma 1, del Codice).

Tuttavia, ciò non comporta una violazione dei principi di proporzionalità e ragionevolezza, quando il provvedimento di vincolo non sia finalizzato a garantire in modo sviato la continuità d’uso a favore di un determinato gestore o volto a favorire una specifica attività imprenditoriale o commerciale: oggetto di tutela è l’interesse pubblico primario correlato alla protezione del bene culturale, che giustifica l’apposizione del vincolo di destinazione in ragione della funzione sociale della proprietà privata (Consiglio di Stato, 6 maggio 2008, n. 2009) e della preminenza del bene “cultura”.

Rientrano nel potere conformativo attribuito all’Amministrazione anche i c.d. locali storici che, oltre a qualificare spesso in maniera determinante il tessuto urbano del centro storico (che è l’“anima” di una città, alla continua ricerca del suo equilibrio, tra la conservazione del passato e l’elaborazione del nuovo), costituiscono un importante elemento di memoria storica e una testimonianza culturale, la cui tutela e valorizzazione concorre “a preservare la memoria della comunità nazionale e del suo territorio” (art. 1, comma 2).

All’esito di una adeguata istruttoria, il provvedimento di tutela deve, dunque, farsi carico di individuare le narrazioni, la memoria collettiva e le pratiche culturali che si sono incentrate storicamente intorno al bene culturale, materializzandosi nelle testimonianze costituite dagli oggetti ivi raccolti e conservati, che assumono particolari significati e valori identitari per la comunità; sicché la documentazione degli aspetti, materiali e immateriali, diventa funzionale alla più completa e olistica valutazione dell’interesse culturale del bene da tutelare, considerato nella sua globalità.

Conclusivamente, l’Adunanza Plenaria enuncia i seguenti principi di diritto:

- “ai sensi degli articoli 7 bis, 10, comma 3, lettera d), 18, comma 1, 20, comma 1, 21, comma 4, e 29, comma 2, del Codice n. 42 del 2004, il ‘vincolo di destinazione d’uso del bene culturale’ può essere imposto quando il provvedimento risulti funzionale alla conservazione della integrità materiale della cosa o dei suoi caratteri storici o artistici, sulla base di una adeguata motivazione da cui risulti l’esigenza di prevenire situazioni di rischio per la conservazione dell’integrità materiale del bene culturale o del valore immateriale nello stesso incorporato”;

- “ai sensi degli articoli 7 bis, 10, comma 3, lettera d), 18, comma 1, 20, comma 1, 21, comma 4, e 29, comma 2, del Codice n. 42 del 2004, il ‘vincolo di destinazione d’uso del bene culturale’ può essere imposto a tutela di beni che sono espressione di identità culturale collettiva, non solo per disporne la conservazione sotto il profilo materiale, ma anche per consentire che perduri nel tempo la condivisione e la trasmissione della manifestazione culturale immateriale, di cui la cosa contribuisce a costituirne la testimonianza”.

 

  1. Adunanza Plenaria, sentenze nn. 6, 7 e 8 del 2023: la pendenza del controllo giudiziario a domanda ex art. 34-bis, comma 6, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, non è causa di sospensione del giudizio di impugnazione contro l’informazione antimafia interdittiva.

L’Adunanza Plenaria, preliminarmente, rileva che l’ordinanza di rimessione ha premesso che il «sistema ‘tradizionale’ delle misure interdittive patrimoniali» nei confronti delle imprese infiltrate da organizzazioni di stampo mafioso si è di recente arricchito «di ulteriori misure, volte a graduare – a seconda dei casi – la loro incidenza sullo svolgimento e sulla gestione delle attività economiche, anche consentendone la prosecuzione da parte dell’impresa destinataria della misura».

Tra queste ultime è compreso il controllo giudiziario, che nella versione prevista dall’art. 34-bis, comma 6, del codice delle leggi antimafia e delle misure di sicurezza - approvato con il decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 - può essere chiesto dalle «imprese destinatarie di informazione antimafia interdittiva ai sensi dell’articolo 84, comma 4, che abbiano proposto l’impugnazione del relativo provvedimento del prefetto», quando ai sensi del comma 1 della medesima disposizione l’agevolazione di soggetti indiziati di appartenere ad organizzazioni di stampo mafioso «risulta occasionale».

Ancora, la plenaria osserva che l’ordinanza di rimessione ha sottolineato che il controllo giudiziario persegue l’obiettivo di «‘decontaminare’ le attività imprenditoriali sostanzialmente sane (o non del tutto compromesse) e restituirle al libero mercato, una volta depurate dagli agenti inquinanti, in un’ottica conservativa», in un sistema informato al «principio di progressività delle misure di prevenzione, che si intensifica o si riduce in misura proporzionale al “bisogno di prevenzione” dell'operatore economico».

Quindi, l’ordinanza ha dato atto che all’indomani dell’introduzione dell’istituto del controllo giudiziario «si è formata una variegata prassi con la quale si è posto in discussione il potere-dovere del giudice amministrativo di decidere i ricorsi (e gli appelli)» contro l’interdittiva antimafia, quando l’impresa «abbia chiesto ed ottenuto dal Tribunale di prevenzione la misura del controllo giudiziario».

L’ordinanza di rimessione, poi, ha precisato che il dubbio si è posto in ragione degli effetti sospensivi derivanti dall’ammissione al controllo giudiziario, previsti dall’art. 34-bis, comma 7, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, secondo cui «(i)l provvedimento che dispone (…) il controllo giudiziario ai sensi del presente articolo sospende il termine di cui all’articolo 92, comma 2, nonché gli effetti di cui all’articolo 94», e cioè il termine di trenta giorni dalla consultazione della banca dati nazionale unica per il rilascio dell’informazione antimafia; ed inoltre l’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione.

Al riguardo, la III Sezione ha rilevato che presso la giurisprudenza amministrativa si è affermato un orientamento secondo cui - per consentire di portare a conclusione il controllo giudiziario disposto dal Tribunale della prevenzione penale - «occorrerebbe la pendenza del giudizio amministrativo»; non solo, quindi, al momento in cui l’impresa formula la domanda di ammissione al Tribunale della prevenzione penale, ai sensi del citato art. 34-bis, comma 6, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, ma per tutta la durata della procedura, fissata dal medesimo Tribunale.

Per questo orientamento, l’ammissione dell’impresa al controllo giudiziario costituirebbe «una causa necessaria di sospensione impropria del giudizio amministrativo» e, in alternativa, «andrebbe disposto il rinvio dell’udienza di discussione (se fissata) in tempi coordinati con quelli della misura preventiva».

L’ordinanza ha aggiunto che queste due posizioni si sono basate sulla tesi della «‘pregiudizialità processuale’, nel senso che – poiché l’impresa può chiedere il controllo giudiziario solo se ha impugnato l’interdittiva – allora ne deriverebbe che gli effetti del controllo giudiziario presupporrebbero la pendenza del giudizio amministrativo».

L’ordinanza ha rilevato inoltre che - sulla base di presupposti diversi, ed in particolare poiché sarebbe configurabile l’acquiescenza all’interdittiva quando l’impresa chiede l’ammissione al controllo giudiziario – per un altro orientamento giurisprudenziale il provvedimento del Tribunale di prevenzione di accoglimento dell’istanza determinerebbe «l’improcedibilità del ricorso al giudice amministrativo e l’estinzione dell’interesse alla sua decisione anche ai fini meramente risarcitori».

La Plenaria osserva che nessuna di queste posizioni è tuttavia condivisa dall’ordinanza di rimessione, che invece aderisce alla tesi «della autonomia dei procedimenti», espressa dalla stessa III Sezione di questo Consiglio di Stato con la sentenza del 19 maggio 2022, n. 3973, secondo cui la connessione ricavabile dall’art. 34-bis, comma 6, del codice tra il giudizio impugnatorio e il controllo giudiziario a domanda opera «esclusivamente (nel) momento genetico-applicativo di quest’ultim(o), senza espressamente condizionarne la vigenza alla perdurante pendenza del primo».

Tutto ciò premesso, l’Adunanza Plenaria ritiene che, sulla base delle disposizioni vigenti, vada affermata la tesi dell’autonomia dei procedimenti e che l’ammissione al controllo giudiziario - a domanda dell’impresa destinataria di un’interdittiva antimafia - non impedisce che vada definito senza ritardo il giudizio amministrativo di impugnazione contro quest’ultima; non possono, all’opposto, essere condivise né la tesi della «pregiudizialità processuale» tra il giudizio di impugnazione dell’interdittiva antimafia e il procedimento di controllo giudiziario, per cui «gli effetti del controllo giudiziario presupporrebbero la pendenza del giudizio amministrativo», né tanto meno la tesi dell’acquiescenza.

La Plenaria osserva che la prima tesi postula che il giudizio di impugnazione contro l’interdittiva antimafia dovrebbe essere ancora pendente non solo quando l’impresa domanda al tribunale della prevenzione penale di essere sottoposta al controllo giudiziario, come prevede testualmente il più volte citato art. 34-bis, comma 6, del codice, ma per tutta la durata di quest’ultimo. Tuttavia, la tesi in questione: - innanzitutto non ha base testuale, come sottolinea l’ordinanza di rimessione, posto che la disposizione da ultimo richiamata si limita a prevedere che - quando chiede di essere sottoposta al controllo giudiziario - l’impresa interessata abbia impugnato l’interdittiva, ma non anche che il giudizio di impugnazione penda per tutta la durata del controllo;

- non è nemmeno imposta da ragioni di ordine sistematico, dal momento che, come ha ben rilevato l’ordinanza di rimessione, l’interdittiva svolge la sua funzione preventiva rispetto alla penetrazione nell’economia delle organizzazioni di stampo mafioso di tipo “statico”, e cioè sulla base di accertamenti di competenza dell’autorità prefettizia rivolti al passato; - a quest’ultimo riguardo, nel condividere la funzione preventiva del sistema di informazione antimafia del codice di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, il controllo giudiziario persegue anche finalità di carattere “dinamico” di risanamento dell’impresa interessata dal fenomeno mafioso e quindi, secondo l’orientamento della giurisprudenza di legittimità in materia, oltre al presupposto dell’occasionalità dell’agevolazione mafiosa previsto dall’art. 34-bis, comma 6, del medesimo codice, richiede una prognosi favorevole del tribunale della prevenzione penale sul superamento della situazione che ha in origine dato luogo all’interdittiva.

La Plenaria osserva anche che, nondimeno, quand’anche quest’ultima non sia annullata all’esito del giudizio di impugnazione devoluto al giudice amministrativo, e dunque si accerti in chiave retrospettiva l’esistenza di infiltrazioni mafiose nell’impresa, non per questo può ritenersi venuta meno l’esigenza di risanare la stessa. Al contrario, questa esigenza si pone in massimo grado una volta accertata in via definitiva che l’impresa è permeabile al fenomeno mafioso.

A conferma di quanto ora considerato, il Collegio cita l’art. 34-bis, comma 7, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 e osserva che, in primis, rileva la regola della sospensione degli effetti della incapacità a contrattare, derivanti dall’interdittiva antimafia. Essa è strumentale al buon fine del controllo giudiziario, nel senso di consentire all’impresa ad esso (volontariamente) sottoposta di continuare ad operare, nella prospettiva finale del superamento della situazione sulla cui base è stata emessa l’interdittiva.

Nella medesima direzione, si pone la sospensione del termine fissato dall’art. 92, comma 2, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, per gli adempimenti prodromici al rilascio dell’informazione antimafia.

L’effetto in questione si giustifica per il venir meno dell’esigenza facente capo all’autorità prefettizia di verificare l’esistenza di tentativi di infiltrazione fintantoché pende il controllo giudiziario, a tale finalità preventiva ugualmente preposto.

Il Collegio rileva che nessuno degli effetti previsti dall’art. 34-bis, comma 7, presuppone tuttavia che il giudizio sull’interdittiva rimanga pendente e che tali effetti sono del tutto compatibili con la conseguita inoppugnabilità di quest’ultima, all’esito del rigetto della relativa impugnazione.

Una volta accertata l’esistenza di infiltrazioni mafiose, quand’anche in via definitiva, si permette nondimeno all’impresa di risanarsi, sotto il controllo dell’autorità giudiziaria penale.

Il controllo giudiziario, rileva la Plenaria, sopravviene ad una situazione di condizionamento mafioso in funzione del suo superamento, e di evitare la definitiva espulsione dal mercato dell’impresa permeata dalle organizzazioni malavitose. A questo specifico riguardo, da un lato il rapporto di successione tra i due istituti si coglie con immediatezza laddove il condizionamento mafioso non possa ritenersi definitivamente accertato, pendente la contestazione mossa in sede giurisdizionale contro la ricostruzione dell’autorità prefettizia; dall’altro la medesima vicenda successoria di istituti non è comunque impedita quando il condizionamento possa invece ritenersi accertato con effetto di giudicato, con il rigetto dell’impugnazione contro l’interdittiva.

Depone in questo senso – oltre al dato testuale della legge, già di per sé decisivo - proprio la funzione risanatrice del controllo giudiziario, la quale muove dal presupposto accertato dal Prefetto in sede di informazione antimafia, ma si basa su un’autonoma valutazione prognostica del tribunale della prevenzione penale che si propone di pervenire al suo superamento, quando il grado di condizionamento mafioso non sia considerato a ciò impeditivo.

L’Adunanza plenaria, poi, osserva che indicazioni in questo senso sono peraltro ritraibili dalla giurisprudenza della Cassazione penale e richiama la sentenza della Cassazione, Sezioni Unite penali, 19 novembre 2019, n. 46898, che - nel riconoscere l’appellabilità del diniego di ammissione al controllo giudiziario pronunciato dal Tribunale della prevenzione penale - ha affermato che quest’ultimo istituto costituisce una «risposta alternativa da parte del legislatore: perché alternativa è la finalità di queste, volte non alla recisione del rapporto col proprietario ma al recupero della realtà aziendale alla libera concorrenza, a seguito di un percorso emendativo», contraddistinta dal presupposto dell’«occasionalità della agevolazione dei soggetti pericolosi» e dalla valutazione prognostica incentrata «sulle concrete possibilità che la singola realtà aziendale ha o meno di compiere fruttuosamente il cammino verso il riallineamento con il contesto economico sano», sulla base del ‘controllo prescrittivo’ del Tribunale della prevenzione penale.

Il Collegio aggiunge, inoltre, che, come osservato dall’ordinanza di rimessione, dall’esame della giurisprudenza della Cassazione non emerge una ricostruzione del rapporto tra l’interdittiva e il controllo giudiziario volontario in termini di pregiudizialità-dipendenza di intensità maggiore rispetto alla connessione genetica ricavabile dal più volte richiamato art. 34-bis, comma 6, del codice delle leggi antimafia e delle misure di sicurezza. Per le Sezioni unite penali nella sopra citata sentenza 19 novembre 2019, n. 46898, la connessione tra i due istituti si manifesta in relazione al «grado di assoggettamento dell’attività economica alle descritte condizioni di intimidazione mafiosa e la attitudine di esse alla agevolazione di persone pericolose pure indicate nelle fattispecie».

A differenza di quanto avviene ai fini dell’informazione antimafia, ai sensi dell’art. 34-bis del codice di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, l’agevolazione mafiosa deve essere «occasionale», per cui in difetto di questo requisito l’impresa non dovrebbe essere ammessa al controllo giudiziario.

In ogni caso, nella prospettiva di risanamento perseguita dal controllo giudiziario, con particolare riguardo al controllo c.d. volontario di cui al comma 6 del medesimo art. 34-bis, la Corte di Cassazione afferma che la peculiarità dell’accertamento del giudice penale, necessariamente successivo al provvedimento prefettizio, «sta però nel fatto che il fuoco della attenzione e quindi del risultato di analisi deve essere posto non solo su tale pre-requisito, quanto piuttosto, valorizzando le caratteristiche strutturali del presupposto verificato, sulle concrete possibilità che la singola realtà aziendale ha o meno di compiere fruttuosamente il cammino verso il riallineamento con il contesto economico sano, anche avvalendosi dei controlli e delle sollecitazioni (nel caso della amministrazione, anche vere intromissioni) che il giudice delegato può rivolgere nel guidare la impresa infiltrata».

In questa direzione si è ulteriormente precisato che la valutazione sull’esistenza di «un’infiltrazione connotata da occasionalità non sia finalizzata all’acquisizione di un dato statico - consistente nella cristallizzazione della realtà preesistente: una mera fotografia del passato - bensì alla argomentata formulazione di un giudizio prognostico circa l’emendabilità della situazione rilevata, connotata da condizionamento e/o agevolazione di soggetti o associazioni criminali, mediante l’intera gamma degli strumenti previsti dall’art. 34-bis» (così Cass. pen., VI, 14 gennaio 2021, n. 1590).

Dalla ricognizione giurisprudenziale svolta, l’Adunanza Plenaria rileva che non è quindi possibile trarre conferma dell’esistenza di un rapporto di pregiudizialità processuale tra il giudizio di impugnazione dell’interdittiva antimafia e il controllo giudiziario ulteriore a quello previsto al momento genetico dall’art. 34-bis, comma 6, del codice delle leggi antimafia e delle misure di sicurezza. In particolare, la tesi estensiva prospettata da parte della giurisprudenza - secondo cui la pregiudizialità opererebbe fino alla definizione della procedura di cui alla disposizione da ultimo citata – innanzitutto non si basa su una disposizione di legge (rilevando il principio di legalità) e, in secondo luogo, non è imposta da ragioni di ordine logico-sistematico.

L’espediente della sospensione del giudizio di impugnazione contro l’interdittiva prefettizia giungerebbe inoltre a snaturare la funzione tipica del processo, da ‘strumento di tutela’ delle situazioni giuridiche soggettive ed attuazione della legge, a mero ‘strumento per l’attivazione di ulteriori mezzi di tutela”.

Inoltre, verrebbe alterata la funzione della sospensione del processo. Da strumento preventivo rispetto al rischio di contrasto di giudicati, secondo una logica interna all’ordinamento processuale basata sulla sua unitarietà e sul principio di non contraddizione, la sospensione del giudizio di impugnazione dell’interdittiva antimafia per tutta la durata del controllo giudiziario porrebbe impropriamente a carico del processo, contraddistinto dall’autonomia dell’azione rispetto alla situazione sostanziale che con essa si vuole tutelare, la realizzazione di obiettivi di politica legislativa, esorbitanti dai compiti del giudice, nella sua soggezione alla legge (art. 101, secondo comma, Cost.).

Quindi, per l’Adunanza Plenaria, si determinerebbe, così, un’applicazione dell’istituto eccedente il presupposto della pregiudizialità-dipendenza previsto dall’art. 295 del cod. proc. civ., da considerarsi tassativo nella misura in cui la sospensione si determina una potenziale lesione del principio di ordine costituzionale della ragionevole durata del processo (oggi sancito per il processo amministrativo dall’art. 2, comma 2, cod. proc. amm.), tale per cui essa viene disposta in ogni caso e solo quando il giudice davanti cui è stata proposta una domanda o un altro giudice «deve risolvere una controversia, dalla cui definizione dipende la decisione della causa».

Secondo il Collegio, nessun rapporto di pregiudizialità-dipendenza è quindi ravvisabile tra il giudizio di impugnazione dell’interdittiva antimafia e il controllo giudiziario, al di là di quello individuabile in sede di verifica dei presupposti di quest’ultimo. Ad esso segue tuttavia un’attività di carattere prescrittivo e gestorio orientata al risanamento dell’impresa indifferente all’esito del giudizio sulla legittimità dell’interdittiva, in ragione degli effetti sospensivi previsti dal più volte richiamato art. 34-bis, comma 7, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159.

La condivisione della tesi della sospensione necessaria comporterebbe un’aporia sul piano logico, nella misura in cui essa si fonda sull’esigenza non già di impedire decisioni contrastanti, ma una decisione di carattere eventualmente sfavorevole sull’impugnazione contro l’interdittiva, che si suppone – in assenza di un supporto normativo - possa vanificare obiettivi di risanamento dell’impresa infiltrata dal fenomeno mafioso.

La sospensione viene dunque argomenta secundum eventum litis, posto che una decisione di accoglimento del ricorso contro l’interdittiva avrebbe in sé l’effetto di riportare l’impresa alla piena e libera concorrenza, sulla base dell’accertamento che essa non è stata mai interessata da fenomeni di inquinamento mafioso.

Nella descritta prospettiva la sospensione del processo finisce dunque per essere intesa come rimedio rispetto a potenziali decisioni sfavorevoli: secondo l’Adunanza Plenaria, non sussistono, dunque, i presupposti previsti dall’art. 295 del cod. proc. civ., più volte richiamato.

Inoltre, a conferma delle considerazioni finora svolte, il Collegio sottolinea che l’interesse alla definizione del giudizio avverso l’interdittiva è talvolta dichiarato dalla parte ricorrente in primo grado, che ne chiede per di più la sospensione degli effetti in sede cautelare.

Nella specie, lo stesso appellante, da ultimo in memoria conclusionale, ha ribadito che il diniego di iscrizione impugnato si sarebbe basato su presupposti carenti, alla luce dei più recenti sviluppi delle vicende penali in origine considerate a fondamento del provvedimento impugnato, dalle quali sarebbe invece emersa la mancanza di collegamenti con soggetti appartenenti ad organizzazioni di stampo mafioso.

L’esigenza di correlare la durata del giudizio di impugnazione contro l’interdittiva alla durata del controllo giudiziario non assurge a presupposto dell’istituto previsto dalla disposizione da ultimo menzionata. Tuttavia, tutte le circostanze del caso potranno essere valutate dal giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 73, comma 1-bis, del cod. proc. amm.

Ribadita l’autonomia degli accertamenti di competenza del Tribunale della prevenzione penale rispetto a quelli svolti dall’autorità prefettizia in sede di rilascio delle informazioni antimafia, deve a fortiori escludersi la tesi dell’acquiescenza derivante dalla domanda ai sensi della disposizione ora richiamata da parte dell’impresa destinataria dell’interdittiva.

In conclusione, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, sul quesito posto dall’ordinanza di rimessione, afferma il seguente principio di diritto: “la pendenza del controllo giudiziario a domanda ex art. 34-bis, comma 6, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, non è causa di sospensione del giudizio di impugnazione contro l’informazione antimafia interdittiva”.

 

  1. Adunanza Plenaria, sentenze nn. 9 e 10 del 2023: l’appello proposto avverso una sentenza del Tar per la Sicilia (Sede di Palermo o Sezione staccata di Catania) può essere deciso unicamente dalla sezione giurisdizionale del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana, la quale, a tutti gli effetti, è una sezione del Consiglio di Stato

L’ordinanza di rimessione all’Adunanza Plenaria della Terza Sezione del Consiglio di Stato ha formulato – ai sensi dell’art. 99 del c.p.a. - il seguente quesito di diritto: “se l’appello proposto dinanzi al Consiglio di Stato avverso una sentenza del Tar Sicilia (sede di Palermo o Sezione staccata di Catania) configuri una ipotesi di inammissibilità dell’impugnazione e di conseguente passaggio in giudicato della impugnata sentenza, ovvero valga ad instaurare un valido rapporto processuale suscettibile di proseguire dinanzi al competente Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione siciliana attraverso il meccanismo della riassunzione a norma dell’art. 50 cod. proc. civ.”.

L’ordinanza di rimessione, in particolare, ha evidenziato che: - l’art. 40 della legge n. 1034 del 1971 - a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 61 del 1075 – ha disposto che avverso qualsiasi sentenza del TAR per la Sicilia – Sede di Palermo o Sezione staccata di Catania – l’appello è proponibile al Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana (in tal senso, v. Cons. Stato, Ad. Plen., 15 maggio 1978, n. 21); - l’art. 1, comma 2, del decreto legislativo 6 maggio 1948, n. 654, sostituito dal decreto legislativo 24 dicembre 2003 n. 373 (recante ‘Norme di attuazione dello Statuto speciale della Regione siciliana concernenti l’esercizio nella Regione delle funzioni spettanti al Consiglio di Stato’), ha previsto che le due Sezioni del Consiglio di giustizia amministrativa ‘costituiscono Sezioni staccate del Consiglio di Stato’; - l’art. 6, comma 6, del codice del processo amministrativo ha previsto che ‘gli appelli avverso le pronunce del Tribunale amministrativo regionale della Sicilia sono proposti al Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana, nel rispetto delle disposizioni dello statuto speciale e delle relative norme di attuazione’; - nel caso di proposizione al Consiglio di Stato dell’appello avverso una sentenza di un TAR per la Sicilia, la giurisprudenza del Consiglio di Stato si è pronunciata per l’inammissibilità del gravame (Ad. Plen., 19 novembre 2012, n. 34 (ord.); Ad. Plen. 22 aprile 2014, n. 12, Sez. III, 1° giugno 2018, n. 3304; Sez. III, 3 maggio 2016, n. 1710; Sez. IV, 9 novembre 2015, n. 5088; Sez. V, 17 giugno 2014, n. 3062); - tale giurisprudenza però può essere oggetto di rimeditazione, anche in considerazione del principio enunciato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza 14 settembre 2016, n. 18121, per la quale non va dichiarato inammissibile – e può esservi la translatio iudicii – l’appello proposto ad una incompetente Corte d’appello civile.

L’Adunanza Plenaria ritiene che:

  1. a) vanno rilevati i corollari del fondamentale principio affermato dal sopra riportato art. 1, comma 2, del decreto legislativo n. 654 del 1948, come sostituito dal decreto legislativo n. 373 del 2003, per il quale le Sezioni del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana “costituiscono Sezioni staccate del Consiglio di Stato”;
  2. b) la questione della ammissibilità o meno dell’appello – come ogni altra questione concernente il giudizio – può essere decisa esclusivamente dal Consiglio di giustizia amministrativa.

5) Circa la natura delle Sezioni del Consiglio di giustizia amministrativa per la regione siciliana quali “Sezioni staccate del Consiglio di Stato”, l’Adunanza Plenaria ritiene di dover ribadire quanto già affermato con la sentenza n. 13 del 2022, per la quale “i compilatori del codice del processo amministrativa hanno tenuto conto del principio fondamentale affermato dall’art. 1, comma 2, del dlgs n. 373 del 2003, per il quale ‘il Consiglio di giustizia amministrativa … è composto da due Sezioni, con funzioni, rispettivamente, consultive e giurisdizionali, che costituiscono Sezioni staccate del Consiglio di Stato’”.

Pertanto, la Plenaria prosegue enunciando i corollari derivanti dall’applicazione di tale principio.

Nel caso di proposizione al Consiglio di Stato con sede in Roma di un appello proponibile alla Sezione giurisdizionale staccata di Palermo, la Sezione del Consiglio di Stato non può decidere la causa, poiché la competenza funzionale della Sezione staccata di Palermo è inderogabile, in quanto prevista da una disposizione attuativa dello Statuto regionale, avente rango costituzionale, e non può dar luogo alla definizione del giudizio con una pronuncia del Consiglio di Stato con sede in Roma.

Anche per evitare il differimento della definizione del giudizio, la Presidenza del Consiglio di Stato deve trasmettere alla Segreteria della Sezione staccata di Palermo l’appello proposto al Consiglio di Stato avente sede in Roma, proposto avverso una sentenza del TAR per la Sicilia.

Qualora l’appello sia stato però assegnato dalla Presidenza ad una delle Sezioni del Consiglio di Stato, rilevano i principi generali desumibili dall’art. 15, commi 2 e 4, del codice del processo amministrativo, sicché la Sezione avente sede in Roma non può decidere in sede cautelare e con ordinanza deve dichiarare la propria incompetenza, affinché il giudizio possa essere riassunto innanzi alla Sezione staccata.

Conclusivamente, pertanto, l’Adunanza Plenaria enuncia il seguente principio di diritto: “l’appello proposto avverso una sentenza del Tar per la Sicilia (Sede di Palermo o Sezione staccata di Catania) può essere deciso unicamente dalla sezione giurisdizionale del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana, la quale, a tutti gli effetti, è una sezione del Consiglio di Stato”.

 

  1. Adunanza Plenaria, sentenza n. 12 del 2023: l’inidoneità attitudinale sopravvenuta è causa di cessazione del rapporto di lavoro ai sensi dell’art. 129 T.u. impiegati civili dello Stato.

Con ricorso al Tribunale amministrativo regionale per l’Emilia Romagna, l’appellato, assistente capo della Polizia di Stato, impugnava i provvedimenti dell’amministrazione di pubblica sicurezza che disponevano la sua cessazione dal servizio per perdita del requisito attitudinale. In particolare, il ricorrente è stato sospeso in via cautelare dal servizio ai sensi dell’art. 9, primo comma, d.P.R. 25 ottobre 1981, n. 737, poiché sottoposto a misura di custodia cautelare in carcere, e poi è stato condannato in quanto ritenuto colpevole dei reati di rapina, lesioni aggravate e sequestro di persona. La medesima sentenza ha disposto la sua interdizione dai pubblici uffici per cinque anni.

Decorso il periodo quinquennale di sospensione cautelare dal servizio, egli è stato riammesso in servizio ai sensi dell’art. 9, comma 2, l. 7 febbraio 1990, n. 19; la Questura, presso i cui uffici il ricorrente prestava servizio, ha avviato il procedimento per la verifica dei requisiti psicofisici e attitudinali di cui all’art. 2 del d.m. 30 giugno 2003, n. 198.

La commissione per l’accertamento delle qualità attitudinali esprimeva la sua valutazione definitiva di non idoneità. A seguire, il Ministero dell’Interno, preso atto della valutazione di non idoneità espressa dalla commissione, ha disposto la cessazione dell’interessato dal servizio nell’amministrazione della pubblica sicurezza, in quanto non idoneo in attitudine ai servizi di polizia e carente, quindi, di uno dei requisiti previsti dall’art. 25, secondo comma, della legge 1° aprile 1981, n. 121.

Col ricorso di primo grado, il ricorrente ha contestato tali provvedimenti, tutti congiuntamente impugnati, per illegittimità ed eccesso di potere sotto vari profili: in sintesi, egli ha lamentato di essere stato sottoposto a rivalutazione dell’idoneità al servizio per il solo fatto di essere stato “assente” per lungo periodo, e, comunque, illegittimamente (ri)valutato anche in relazione al profilo attitudinale, non solo per quello psicofisico, e per giunta sulla base di test utilizzati per la valutazione dei candidati all’accesso ai ruoli della Polizia.

Tra le censure formulate, l’interessato in particolare ha proposto il quinto motivo, nel quale il egli ha dedotto che l’esito negativo di un giudizio di sopravvenuta inidoneità al servizio per carenza dei requisiti attitudinali non potrebbe condurre alla cessazione del rapporto di impiego, poiché un tale caso non sarebbe stato espressamente previsto tra le cause di cessazione dal servizio di cui all’art. 58 del d.P.R. n. 335 del 1982 (che rinvia a quelle previste dal T.u. impiegati civili dello Stato e al T.u. 29 dicembre 1973, n. 1092), dovendo, invece, disporsi il passaggio ad altri ruoli dell’Amministrazione di pubblica sicurezza o di altre amministrazioni dello Stato.

Il Tar per l’Emilia Romagna ha accolto il quinto motivo del ricorso, rilevando che l’Amministrazione - pur potendo sottoporre a rivalutazione di idoneità attitudinale al servizio il dipendente assente per un periodo non limitato - non potrebbe, però, disporne la cessazione dal servizio nel caso in cui l’accertamento dia esito negativo, dovendo, invece, essa rimettere alla commissione medica la valutazione di impiegabilità nei ruoli civili, per consentire al dipendente di poter proseguire il rapporto di pubblico impiego negli altri ruoli (della medesima Polizia di Stato o di altre amministrazioni statali) che non richiedono la sussistenza dei suddetti specifici requisiti psichici, fisici e attitudinali.

Con l’appello in esame, la sentenza è stata impugnata dal Ministero dell’Interno, secondo il quale le disposizioni relative al transito del personale della Polizia di Stato ai ruoli civili dell’amministrazione di pubblica sicurezza o di altre amministrazioni dello Stato – artt. 1 e ss. d.P.R. del 1982 n. 339 – sono applicabili al solo personale che (espleta funzioni di polizia e che) sia stato considerato inidoneo per motivi di salute (sempre che l’infermità accertata ne consenta l’ulteriore impiego) e non anche per carenza di idoneità attitudinale: mancherebbe, in sostanza, un’espressa previsione normativa al transito per inidoneità attitudinale sopravvenuta, per cui, in caso di esito negativo dell’accertamento, l’amministrazione non avrebbe altra alternativa che la cessazione dal servizio.

Si è costituito in giudizio l’appellato, che ha proposto un appello incidentale volto a contestare i capi di sentenza con i quali erano stati respinti gli altri motivi di ricorso proposti.

Con ordinanza di rimessione, la Sezione seconda ha rimesso all’Adunanza Plenaria i seguenti quesiti:

a) se la inidoneità attitudinale sopravvenuta, in quanto modo di atteggiarsi della inidoneità psicologica, seppure soggetta ad autonomo accertamento, rientri nelle previsioni dell’art. 1 del d.P.R. n. 339 del 1982, che consente al lavoratore cui si riferisca l’accertamento di chiedere il transito nei ruoli civili dell’amministrazione di appartenenza o di altra;

  1. b) in caso negativo, ovvero se a ciò venga ritenuta ostativa la formulazione letterale della norma, se il regime giuridico di favore riconosciuto alla più grave ipotesi di inidoneità psicologica, sfociata in una malattia, non si ponga in contrasto con il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 della Costituzione, interpretato alla luce dell’obbligo di non discriminazione in ambito lavorativo di cui alla Direttiva 2000/78/CE del 27 novembre 2000, nonché se il non ottemperare al c.d. obbligo di repechage contrasti con i principi a tutela del lavoro, configurando nei fatti un’ipotesi di recesso per giustificato motivo oggettivo non previsto espressamente dal legislatore;
  2. c) in caso affermativo, se la richiesta di transito sia espressione di un diritto soggettivo del dipendente, ovvero l’adesione alla stessa costituisca valutazione del tutto discrezionale dell’Amministrazione di appartenenza”.

In particolare, le perplessità espresse dalla Sezione rimettente sono: - l’idoneità attitudinale altro non è che un particolare modo di atteggiarsi della personalità dell’individuo, afferente alla sfera psicologica, la cui presenza è aggiuntivamente richiesta per precisati ambiti lavorativi, ove non è sufficiente la mera “normalità”, intesa quale assenza di malattie; - non si può escludere che l’attitudine venga meno nel protrarsi dell’esperienza lavorativa (capace di incidere in negativo sull’entusiasmo e sulla spinta motivazionale originaria); - la perdita dell’attitudine, intesa come incapacità di continuare a svolgere bene un lavoro connotato da innegabili peculiarità, non rifluisce in una limitazione della capacità lavorativa del soggetto; - se questo è vero, non c’è necessità di una normativa di dettaglio che preveda la possibilità di riutilizzo del lavoratore, il quale potrebbe essere sempre indirizzato verso un diverso impiego nella stessa amministrazione di pubblica sicurezza o in un’altra amministrazione; - se, invece, si dovesse ritenere che il silenzio della legge equivalga all’introduzione di una legittima causa di recesso dal rapporto di lavoro per il dipendente che abbia perduto idoneità attitudinale al servizio, si porrebbero seri dubbi di ragionevolezza della scelta legislativa che, da un lato, impone, o quanto meno consente, il repêchage di un dipendente che abbia perduto parte della sua idoneità psicofisica al servizio e, dall’altro, lo impedisce o non lo consente per chi sia perfettamente abile a qualsivoglia mansione alternativa.

L’Adunanza Plenaria rileva, preliminarmente, che la perdita della idoneità psicofisica incide sul rapporto di impiego del dipendente pubblico e cita l’art. 129 (Dispensa) del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico impiegati civili dello Stato) – inserito all’interno del Titolo VIII – Cessazione del rapporto di impiego – prevede che sia dispensato dal servizio “l'impiegato divenuto inabile per motivi di salute, salvo che non sia diversamente utilizzato ai sensi dell'art. 71, nonché quello che abbia dato prova di incapacità o di persistente insufficiente rendimento”.

La perdita dell’idoneità psicofisica è ora disciplinata dall’art. 55-octies (Permanente inidoneità psico-fisica), comma primo, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (introdotto dall'art. 69, comma 1, D.L.vo 27 ottobre 2009, n. 150), per il quale “l’accertata permanente inidoneità psicofisica al servizio” comporta risoluzione del rapporto di lavoro.

Nel regolamento (emanato con d.P.R. 27 luglio 2011, n. 171) attuativo della disposizione, l’inidoneità psicofisica permanente è distinta in ‘assoluta’ e ‘relativa’; entrambe non sono regredibili col tempo, ma la prima si verifica nel caso in cui il dipendente “si trovi nell’assoluta e permanente impossibilità di svolgere qualsiasi attività lavorativa”, la seconda se “si trovi nell’impossibilità permanente allo svolgimento di alcune o di tutte le mansioni dell’area, categoria o qualifica di inquadramento” (articolo 2).

Sono diverse le conseguenze (dell’accertamento) dell’una o dell’altra.

Nel caso di inidoneità relativa, l’amministrazione è tenuta al recupero al servizio del dipendente “nelle strutture organizzative di settore o anche in mansioni equivalenti o di altro profilo professionale riferito alla posizione di inquadramento” fino a giungere eventualmente ad adibire il lavoratore “a mansioni proprie di altro profilo appartenente a diversa area professionale o eventualmente a mansioni inferiori” in coerenza con l’esito dell’accertamento medico e con i titoli posseduti (art. 7, commi 1 e 2).

Nel caso di inidoneità assoluta, previa comunicazione all’interessato entro 30 giorni dal ricevimento del verbale di accertamento medico, è risolto il rapporto di lavoro (ed è corrisposta, se dovuta, l’indennità sostitutiva del preavviso, in applicazione dell’articolo 8).

In ogni caso, evidenzia la Plenaria, l’amministrazione dispone la risoluzione del rapporto di lavoro o adibisce il lavoratore ad altra mansione in seguito ad accertamento medico (svolto dagli organi medici competenti, ai sensi dell’art. 4 del citato regolamento).

In definitiva, vi è la regola generale per la quale la perdita totale dell’idoneità psicofisica comporta la cessazione del rapporto di lavoro, mentre la perdita parziale impone di adibire il lavoratore ad altre mansioni, compatibili con la sua (sopraggiunta) condizione di salute. In quest’ultimo caso il rapporto di lavoro continua con una novazione oggettiva, in considerazione della modifica della prestazione richiesta al lavoratore.

Il Collegio osserva che del tutto corrispondente è la disciplina del rapporto di lavoro privato: la sopravvenuta inidoneità totale del lavoratore subordinato allo svolgimento della prestazione lavorativa comporta una vicenda risolutiva del rapporto per sopravvenuta impossibilità della prestazione (art. 1463 cod. civ.), non riconducibile ai casi di sospensione legale previsti dagli art. 2110 e 2111 cod. civ. (cfr. Cass. civ., sez. lav., 12 aprile 2021, n. 9556).

La sopravvenuta inidoneità parziale del lavoratore, invece, comporta un giustificato motivo oggettivo di recesso del datore di lavoro solo allorché debba escludersi ogni possibilità di adibire il lavoratore ad una diversa attività lavorativa riconducibile - alla stregua di un'interpretazione del contratto secondo buona fede - alle mansioni già assegnate, o ad altre equivalenti e, subordinatamente, a mansioni inferiori, purché tale diversa attività sia utilizzabile nell'impresa, secondo l'assetto organizzativo stabilito dall'imprenditore (cfr. Cass. civ., Sez. Unite, 7 agosto 1998, n. 7755, che ha enunciato principi poi ribaditi in altre pronunce, cfr. Cass. civ., sez. lav., 12 settembre 2018, n. 22186; 30 luglio 2018, n. 20080).

A questo punto, la Plenaria si sofferma sulle disposizioni che regolano il rapporto di lavoro del personale della Forza di Polizia di Stato, sottratto alle regole dell’impiego pubblico privatizzato contenute nel d.lgs. n. 165 del 2001, poiché rientra nell’ambito del personale in regime di diritto pubblico ai sensi dell’art. 3, comma 1, che rinvia per la disciplina del rapporto di lavoro ai rispettivi ordinamenti (cfr. Cass. civ., Sez. Unite, ord. 12 aprile 2022, n. 11772).

L’art. 36 (Ordinamento del personale) della legge 1° aprile 1981, n. 121 (Nuovo ordinamento dell’Amministrazione della pubblica sicurezza), rimanda per l’ordinamento del personale ad una serie di decreti “aventi valore di legge ordinaria”, fissando principi e criteri direttivi.

Con il criterio di delega del punto XX), era rimesso al Governo la “determinazione delle modalità, in relazione a particolari infermità o al grado di idoneità all’assolvimento dei servizi di polizia, per il passaggio del personale, per esigenze di servizio o a domanda, ad equivalenti qualifiche di altri ruoli dell’amministrazione della pubblica sicurezza o di altre amministrazioni dello Stato, salvaguardando i diritti e le posizioni del personale appartenente a questi ultimi ruoli”.

La delega è stata attuata con il d.P.R. 24 aprile 1982, n. 339, che all’articolo 1 per il personale dei ruoli della Polizia di Stato, che espleta funzioni di polizia e che è stato valutato assolutamente inidoneo per motivi di salute all’assolvimento dei compiti di istituto, ha disposto il ‘transito a domanda’ in altri ruoli della Polizia di Stato o di altre amministrazioni dello Stato, “sempreché l'infermità accertata ne consenta lo ulteriore impiego”.

Quest’ultimo inciso evidenzia che il legislatore si è riferito alla inidoneità psicofisica che non abbia comportato la perdita totale della capacità lavorativa.

Tale considerazione trova un supporto anche nei successivi articoli del decreto, nei quali è previsto che la continuazione del rapporto di lavoro avvenga purché l’invalidità accertata “non comporti idoneità assoluta ai compiti di istituto”.

Per il caso di inidoneità assoluta alla prestazione lavorativa, è prevista, invece, la dispensa dal servizio ai sensi degli articoli 129 e 130 del testo unico approvato con il decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3 (articolo 9).

Ancora una volta, l’esito dell’accertamento dell’inidoneità psicofisica assoluta è la cessazione del rapporto di lavoro.

Tutte le disposizioni sopra richiamate fanno esclusivo riferimento a vicende sopravvenute nel corso del rapporto di lavoro che abbiano inciso sullo stato di salute psicofisico del dipendente, rendendolo incapace in tutto o in parte di continuare a svolgere la prestazione lavorativa, in coerenza con le disposizioni sui requisiti generali richiesti al dipendente pubblico per l’instaurazione del rapporto di impiego. L’idoneità fisica, infatti, come gli altri requisiti di accesso previsti dall’art. 2 del Testo unico degli impiegati civili dello Stato, è richiesta al momento dell’immissione in servizio e tale requisito deve permanere per tutta la durata del rapporto (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 21 febbraio 2008, n. 260).

Nel caso degli appartenenti alle Forze armate, tuttavia, i requisiti per l’instaurazione del rapporto di impiego non attengono solamente alla sfera psicofisica, poiché sono richiesti anche requisiti attitudinali.

L’accertamento dei requisiti attitudinali è effettuato ad una commissione composta da funzionari di polizia provenienti dal ruolo dei direttori tecnici psicologi e da funzionari di polizia, in possesso di una particolare qualifica.

La plenaria osserva che i requisiti attitudinali sono ben diversi dai requisiti psichici e fisici: l’attitudine è la propensione – per disposizione naturale o acquisita con metodo e istruzione – a svolgere una certa attività che richiede doti non comuni, cioè che non tutti posseggono per la sola ragione di essere capaci al lavoro: solo chi ne è in possesso può svolgerla in maniera corretta. L’attività svolta dagli appartenenti alla Forza di Polizia (e, in generale, dalle Forze armate) è effettivamente una attività che richiede doti non comuni, per il particolare ruolo rivestito, quali dipendenti pubblici cui lo Stato affida l’uso della forza della quale ha il monopolio.

Gli appartenenti alle Forze armate, per questo, sono chiamati ad esercitare la loro attività con moderazione, senso di responsabilità, comprensione, giudizio, capacità di valutare nel modo migliore e rapidamente le circostanze, per dimostrare al cittadino che la forza è usata dallo Stato nei limiti del giusto, oltre che del lecito.

Al pari dei requisiti psicofisici, anche i requisiti attitudinali possono essere incisi da vicende sopravvenute nel corso del rapporto di impiego.

La Plenaria richiama il parere del Consiglio di Stato, del 29 ottobre 2010, n. 4787, ove veniva osservato che l’amministrazione ben può rivalutare in costanza di rapporto non solo la permanenza dell’idoneità psicofisica, ma anche l’idoneità attitudinale al servizio del personale appartenente alla Polizia di Stato. Tale parere ha evidenziato che l’appartenente alla Polizia di Stato – di cui si dubiti per giusto motivo che sia ancora in possesso dei requisiti attitudinali – non potrebbe continuare a svolgere il servizio se non in violazione del principio costituzionale del buon andamento dell’amministrazione di cui all’art. 97 Cost.

Dunque, sulla base della ricostruzione svolta, la Plenaria procede all’esame dei quesiti sottoposti dalla Sezione rimettente.

Nel dettaglio, le è chiesto di chiarire se – nel caso di accertamento della perdita del requisito attitudinale - il rapporto di lavoro possa continuare presso altri ruoli della stessa amministrazione di pubblica sicurezza o presso altre amministrazioni.

L’Adunanza Plenaria ritiene che a tale quesito debba darsi risposta negativa e tale conclusione è imposta dal testo delle disposizioni in precedenza citate.

L’art. 36, punto XX), della legge n. 121 del 1981 ha delegato il Governo ad adottare disposizioni sul passaggio a qualifiche equivalenti di altri ruoli dell’amministrazione di pubblica sicurezza o di altre amministrazioni dello Stato, consentito solo in caso di particolare infermità e, comunque, in dipendenza del grado di idoneità all’assolvimento dei servizi di polizia accertato.

Le disposizioni regolamentari attuative hanno previsto il mutamento del rapporto di impiego in caso di “inidoneità per motivi di salute”, demandandone l’accertamento alle “commissioni mediche”.

Per il chiaro significato delle parole utilizzate, non può dubitarsi che tali disposizioni abbiano considerato le sole vicende di sopravvenuta menomazione dell’integrità psicofisica del lavoratore.

Dinanzi al chiaro significato delle parole utilizzate dal legislatore, che consentono di definire in modo chiaro ed univoco la portata precettiva della norma, è precluso all’interprete richiamare altri criteri di interpretazione (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 6 maggio 2021, n. 3559; Cass. civ., Sez. Unite, 30 marzo 2021, n. 8776).

Per la Plenaria è da condividere l’orientamento espresso nella sentenza del Consiglio di Stato, sez. IV, 8 giugno 2020, n. 3622, per la quale “il riferimento al concetto di “invalidità” […] richiama con tutta evidenza profili d’ordine fisico (o, al più, psico-fisico), ma non certo attitudinale: “invalido”, infatti, è concetto riferibile (e conseguente) al riscontro di una patologia che incide sulla capacità materiale di fare qualcosa, mentre l’attitudine attiene all’idoneità personale e soggettiva a svolgere bene, con profitto ed in sicurezza una certa attività o funzione, a prescindere dalla sussistenza di profili patologici” (v. anche Cons. Stato, sez. IV, 18 gennaio 2021, n. 519; Cons. Stato, sez. III, 6 giugno 2016, n. 2401).

Inoltre, anche l’interpretazione sistematica delle disposizioni in esame l’una a mezzo delle altre conduce alla medesima conclusione, di escludere la continuazione del rapporto in caso di sopravvenuta mancanza delle attitudini, avendo il legislatore demandato l’accertamento dell’idoneità al servizio ad un organo tecnico con competenze mediche (e non alle commissioni di verifica).

Secondo la Plenaria, nemmeno è possibile procedere ad un’applicazione analogica delle disposizioni, tale da estendere la disciplina della perdita dei requisiti psichici e fisici alla diversa fattispecie della perdita dei requisiti attitudinali.

Difetta qui il requisito della eadem ratio, rilevando la già descritta diversità tra i requisiti psicofisici e quelli attitudinali: ciò non consente di disciplinare identicamente le due situazioni di perdita sopravvenuta degli uni e degli altri nel corso del rapporto di impiego.

La Plenaria chiarisce che le due situazioni sono differenti anche per un’altra ragione: in caso di perdita dei requisiti attitudinali, non è possibile ipotizzare una graduazione della residuale capacità che consenta di distinguere tra perdita parziale e perdita totale, come accade, invece, per i requisiti psicofisici.

In linea di principio, il lavoratore o ha o non ha l’attitudine a svolgere una certa attività: non si può affermare che esso ne sia fornito ‘solo in parte’, perché ciò significherebbe non avere l’attitudine a compiere quell’attività.

Nel caso di accertamento dei requisiti attitudinali, allora, non si può ipotizzare, neppure in astratto, un esito di perdita parziale – naturalmente, giova ribadirlo, rispetto alla prestazione lavorativa in relazione alla quale l’attitudine è valutata – che possa far dire ancora presenti quei requisiti richiesti per l’accesso al rapporto di lavoro (che, in quanto richiesti, devono permanere per l’intera sua durata).

Per gli appartenenti alla Polizia di Stato, il cui rapporto di impiego è costituito solo se sussistono i requisiti attitudinali richiesti dalla normativa sopra richiamata, il venir meno di questi non può comportare la prosecuzione del rapporto di lavoro con la sola modificazione oggettiva della prestazione, poiché per quell’ordinamento settoriale il possesso dei requisiti attitudinali è richiesto per tutti i ruoli nei quali si articola la struttura.

L’unica modalità di continuazione del rapporto di lavoro sarebbe, dunque, quella della novazione soggettiva, vale a dire presso ruoli di altre amministrazioni che non richiedano per l’accesso l’accertamento di (peculiari) requisiti attitudinali.

Tale possibilità, però, non è prevista dalla legge.

L’Adunanza plenaria, pertanto, afferma che quanto detto induce a ritenere non condivisibile l’interpretazione prospettata dall’ordinanza di rimessione per superare la lacuna normativa, ovvero ritenere che il legislatore non abbia espressamente previsto la continuazione del rapporto di lavoro mediante riutilizzo del lavoratore per il fatto che, non incidendo sulla capacità lavorativa del dipendente, la perdita attitudinale non potrebbe mai essere giusta ragione di interruzione del rapporto di lavoro.

La perdita del requisito attitudinale, necessario per la costituzione del rapporto di pubblico impiego, non è e non può essere senza effetti, pena la palese violazione del canone costituzionale di buon andamento dell’azione amministrativa: tale perdita produce effetti sul rapporto di lavoro e – per i principi di legalità e di tipicità degli atti amministrativi - non consente l’assegnazione al dipendente di altra qualifica all’interno dei ruoli dell’amministrazione di pubblica sicurezza oppure il transito in altri ruoli della pubblica amministrazione, perché tali possibilità non sono previste dalla legge.

La perdita del requisito attitudinale comporta la cessazione del rapporto di impiego, in considerazione dell’art. 58 del d.P.R. 24 aprile 1982, n. 335, per il quale le cause di cessazione dal servizio sono quelle previste dal Testo unico sugli impiegati civili dello Stato, e dell’art. 129 del predetto Testo unico, per il quale comporta la cessazione dal servizio la sopravvenuta incapacità allo svolgimento della prestazione lavorativa.

A questo punto, la Plenaria affronta l’ulteriore questione posta dall’ordinanza di rimessione e cioè se tale disciplina – così interpretata - contrasti con le disposizioni costituzionali e, segnatamente, con il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost.: sul punto, l’Adunanza Plenaria ritiene che la scelta del legislatore non sia irragionevole.

Ed invero, la questione di illegittimità costituzionale prospettata dall’ordinanza di rimessione è manifestamente infondata: il sindacato di ragionevolezza si articola nella verifica di ragionevolezza c.d. intrinseca, diretta ad accertare la coerenza tra la valutazione compiuta e la decisione da prendere, e in quella di ragionevolezza c.d. esterna, in cui va vagliata la coerenza rispetto alle situazioni comparabili, tenendo conto del bene giuridico tutelato, della sua meritevolezza e della sua idoneità a prevalere sul diverso bene giuridico eventualmente limitato, sulla base di un bilanciamento tra contrapposti interessi da svolgere in base alla gerarchia di valori espressa dall’ordinamento (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 31 maggio 2021, n. 4169).

La scelta del legislatore di disporre la cessazione del rapporto di impiego dell’appartenente alla Polizia di Stato per il caso di perdita del requisito attitudinale - e non anche di perdita parziale della idoneità psicofisica - non è irrazionale, perché, come si è in precedenza rilevato, rispetto alla perdita della idoneità psicofisica – che può essere parziale –, la perdita del requisito attitudinale all’attività lavorativa è necessariamente ‘integrale’, sicché, se per la prima si può affermare che il requisito di accesso sia mantenuto sia pure in parte nel corso del rapporto di lavoro, nel secondo caso esso è integralmente perduto.

Per la Plenaria, non si può ravvisare , poi, alcuna ingiustificata disparità di trattamento: i requisiti attitudinali costituiscono doti individuali differenti dall’idoneità psicofisica allo svolgimento della prestazione lavorativa, per cui si è in presenza di situazioni non omogenee e, per questa ragione, non comparabili.

La perdita degli uni non è equiparabile alla perdita (parziale) degli altri, anche perché la vicenda sopravvenuta che incida sullo stato di salute del lavoratore determina un certo grado di inabilità al lavoro – ad ogni lavoro – che fa ritenere particolarmente difficoltosa per chi l’abbia subita la ricollocazione nel mercato del lavoro; diversamente, come evidenziato dall’ordinanza di rimessione, la perdita attitudinale non ha incidenza sulla capacità lavorativa, poiché esclude solamente la predisposizione a quella particolare attività lavorativa.

A differenza di chi abbia perduto in parte la propria capacità lavorativa, il lavoratore che sia risultato privo del requisito attitudinale ha la stessa probabilità di rientrare - in tutti gli altri settori del mondo del lavoro – rispetto ad ogni altro lavoratore che quella vicenda non abbia subito.

Il legislatore ha tenuto in tal modo conto dell’interesse del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro e di quello del datore di lavoro ad assumere forza lavoro idonea appieno allo svolgimento della prestazione lavorativa.

Se nel caso di perdita parziale dalla capacità lavorativa prevale il primo – per ragioni di solidarietà sociale ex artt. 2 e 3 Cost. oltre che per le altre ragioni sopra esposte – è ragionevole la previsione normativa per la quale nel secondo caso prevale l’interesse dell’amministrazione.

La Plenaria osserva, anche, che il legislatore potrebbe prevedere il transito dell’appartenente alla Forza di Polizia che perda il requisito attitudinale presso i ruoli di altre amministrazioni che non richiedono alcun requisito attitudinale per l’instaurazione del rapporto di lavoro; si tratterebbe, però, di una regola speciale, poiché in linea di principio la perdita dell’idoneità psicofisica comporta la novazione in senso oggettivo del rapporto di lavoro, non anche sotto il profilo del mutamento dell’amministrazione datrice di lavoro.

Le relative scelte rientrano nelle prerogative proprie del legislatore, cui è rimesso, tra più regole possibili e consentite dal punto di vista costituzionale, lo stabilire quale di essa debba disciplinare una certa fattispecie: la relativa valutazione politica non è di per sé sindacabile (come previsto dall’art. 28 l. 11 marzo 1953, n. 87; cfr. Cass. civ., sez. II, 17 marzo 1995, n. 3106).

Le considerazioni in precedenza svolte, per il Collegio, portano ad escludere la contrarietà della disciplina in esame con il diritto dell’Unione europea e, segnatamente, con la direttiva 2000/78/CE del Consiglio del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.

Il ‘Considerando 18’, richiamato dalla stessa ordinanza di rimessione, precisa che “La presente direttiva non può avere l’effetto di costringere le forze armate nonché i servizi di polizia, penitenziari o di soccorso ad assumere o mantenere nel posto di lavoro persone che non possiedono i requisiti necessari per svolgere l’insieme delle funzioni che possono essere chiamate ad esercitare in considerazione dell’obiettivo legittimo di salvaguardare il carattere operativo di siffatti servizi”.

D’altronde, il requisito attitudinale, la cui perdita comporta la cessazione del rapporto di lavoro dell’appartenente alla Forza di Polizia, è caratteristica della persona ben diversa da quelle indicate dall’art. 1 della direttiva quali profili di possibile discriminazione del lavoratore, vale a dire la sua religione, le sue convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali.

Se, infatti, si può ipotizzare pari idoneità lavorativa tra chi professi diverse religioni, abbia varie convinzioni personali, sia portatore di handicap, abbia diversa età o tendenza sessuale, a profili attitudinali diversi non possono che corrispondere differenti capacità di esecuzione di una prestazione lavorativa.

Neppure la (carenza di) attitudine, per il Collegio, potrebbe essere assimilata ad un handicap, per la chiara definizione di quest’ultimo che ha dato la Corte di Giustizia, nella sentenza, sez. II, 11 aprile 2013, HK Danmark, causa C-335/11, di “condizione patologica causata da una malattia diagnosticata come curabile o incurabile qualora tale malattia comporti una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche che, in interazione con barriere di diversa natura, possa ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori, e tale limitazione sia di lunga durata”.

In conclusione, al primo quesito posto dall’ordinanza di rimessione l’Adunanza Plenaria risponde che “l’inidoneità attitudinale sopravvenuta non rientra nelle previsioni di cui all’art. 1 d.P.R. n. 339 del 1982 e di conseguenza non dà luogo al passaggio del dipendente della Forza di Polizia ad altrui ruoli dell’Amministrazione della pubblica sicurezza o di altre amministrazioni dello Stato, ma è causa di cessazione del rapporto di lavoro ai sensi dell’art. 129 T.u. impiegati civili dello Statoed al secondo quesito che “è manifestamente infondato il dubbio di costituzionalità di tale disciplina come pure di eventuale contrarietà al diritto euro-unitario”.

 

  1. Adunanza Plenaria, sentenza n. 16 del 2023, su ordine di demolizione e nuda proprietà.
  2. i) La ricostruzione del quadro normativo in tema di conseguenze dell’illecito edilizio

L’Adunanza Plenaria, preliminarmente, ricostruisce il quadro di regole applicabili quando l’Amministrazione comunale esercita i propri poteri di vigilanza e repressione degli abusi edilizi disciplinati dagli articoli 27 e 31 del d.P.R. n. 380 del 2001, come modificato dalla legge n. 164 del 2014.

Innanzitutto, rimarca come la commissione di un illecito edilizio comporti la sussistenza del reato previsto dall’art. 44, comma 1, lettere a) e b), del d.P.R. n. 380 del 2001 e la lesione dei valori tutelati dagli articoli 9, 41, 42 e 117 della Costituzione: la realizzazione di opere edilizie, in assenza del relativo titolo e in contrasto con le previsioni urbanistiche, incide negativamente sul paesaggio, sull’ambiente, sull’ordinato assetto del territorio e sulla regola per la quale il godimento della proprietà privata deve svolgersi nel rispetto dell’utilità sociale.

Sotto il profilo penale, il reato edilizio è caratterizzato da una condotta attiva che perdura nel tempo sino alla ultimazione nel manufatto: il termine di prescrizione del reato comincia a decorrere dalla data dell’ultimazione delle opere (Cass. penale, n. 24407 del 2022; n. 7889 del 2022; n. 7407 del 2021; n. 30147 del 2017; Sez. Unite n. 17178 del 2002), inclusi i lavori di rifinitura interni ed esterni, quali gli intonaci e gli infissi (Cass. penale, n. 7404 del 2021, n. 48002 del 2014; n. 32969 del 2005) e le parti che costituiscono pertinenze dell’abitazione (Cass. penale, n. 8172 del 2010).

Per le opere abusive disciplinate dall’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001, ai sensi del suo comma 9, il giudice, con la sentenza di condanna, ordina la demolizione, se ancora non sia stata altrimenti eseguita.

Sotto il profilo amministrativo, a seguito della commissione di un illecito edilizio, il Comune è titolare dei poteri previsti dagli articoli 27 e 31 del d.P.R. n. 380 del 2001.

L’articolo 27, al comma 2, dispone che “il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale” “provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi”, “quando accerti l'inizio o l'esecuzione di opere eseguite senza titolo su aree assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre norme urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di inedificabilità, o destinate ad opere e spazi pubblici ovvero ad interventi di edilizia residenziale pubblica di cui alla legge 18 aprile 1962, n. 167, e successive modificazioni ed integrazioni, nonché in tutti i casi di difformità dalle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici”.

Sulla base del comma 2, sin da quando cominciano i lavori abusivi e anche dopo la loro esecuzione, l’Autorità amministrativa può immediatamente disporre ed effettuare – senza la previa intimazione al proprietario - la materiale demolizione delle opere e il ripristino dello stato dei luoghi, anticipando le relative spese e ponendole a carico dei soggetti indicati dall’art. 29, comma 1.

Il comma 2 dell’art. 27 disciplina un peculiare e semplificato procedimento, volto all’immediata repressione dell’abuso, con il quale l’Amministrazione dispone la demolizione materiale senza alcun differimento, verosimilmente quando non vi sia bisogno di particolari accertamenti sull’abusività dei lavori e vi siano le relative risorse tecniche e finanziarie.

L’articolo 31 del d.P.R. n. 380 del 2001, al comma 2, disciplina la diversa ipotesi in cui il Comune - anziché procedere esso stesso senz’altro alla demolizione o dopo avere attivato il procedimento previsto dall’art. 27 senza concluderlo – accerta “l'esecuzione di interventi in assenza di permesso, in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali, determinate ai sensi dell’articolo 32” e “ingiunge al proprietario e al responsabile dell’abuso la rimozione o la demolizione, indicando nel provvedimento l’area che viene acquisita di diritto, ai sensi del comma 3”.

I successivi due commi dell’articolo 31 dispongono che:

“3. Se il responsabile dell'abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area di sedime, nonché quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune. L'area acquisita non può comunque essere superiore a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita.

  1. L'accertamento dell'inottemperanza alla ingiunzione a demolire, nel termine di cui al comma 3, previa notifica all'interessato, costituisce titolo per l'immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari, che deve essere eseguita gratuitamente”.

Ai sensi dell’articolo 31 (che contiene disposizioni in parte riproduttive dei commi dell’art. 7 della legge n. 47 del 1985), dunque, il Comune, qualora non abbia effettuato esso stesso la demolizione materiale delle opere abusive e la rimessione in pristino, deve ordinare al responsabile la loro demolizione.

Se il responsabile non ottempera all’ordine di demolizione entro il termine perentorio di 90 giorni, si verificano le conseguenze previste dai commi 2, 3 e 4 del testo originario dell’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001 ed aventi per oggetto le opere abusive, nonché quelle previste dai commi 4-bis, 4-ter e 4-quater, introdotti nell’articolo 31 con la legge n. 164 del 2014, relative all’irrogazione delle sanzioni pecuniarie.

L’art. 31 struttura l’intervento repressivo del Comune in quattro distinte fasi: una prima fase è attivata dalla notizia dell'esecuzione di interventi in assenza di permesso, in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali, determinate ai sensi dell'articolo 32, sfocia in un accertamento istruttorio e si conclude, in caso di verifica positiva dell’esistenza dell’illecito, con un’ordinanza che ingiunge al proprietario e al responsabile dell'abuso la rimozione o la demolizione, indicando nel provvedimento l'area che viene acquisita di diritto in caso di inottemperanza all’ordine. La mancata individuazione della detta area non comporta l’illegittimità dell’ordinanza di demolizione, potendo la sua individuazione avvenire con il successivo atto di accertamento dell’inottemperanza (ex plurimis, Consiglio di Stato, Sez. VI, 5 maggio 2023, n. 4563).

Entro il termine perentorio di 90 giorni, il destinatario dell’ordine di demolizione può formulare l’istanza di accertamento di conformità prevista dall’art. 36, comma 1, del testo unico n. 380 del 2001.

L’art. 36, comma 1, infatti, consente la presentazione di tale istanza “fino alla scadenza dei termini di cui agli articoli 31, comma 3, 33, comma 1, 34, comma 1, e comunque fino all'irrogazione delle sanzioni amministrative” e dunque prima della scadenza del termine indicato per demolire o ridurre in pristino, ovvero - nel caso in cui ciò non sia possibile - prima dell’irrogazione delle sanzioni previste in alternativa dagli articoli 33 e 34 del d.P.R. n. 380 del 2001.

Il Collegio precisa, altresì, che l’art. 36 è entrato in vigore prima dell’introduzione del comma 4 bis dell’art. 31 e ovviamente non poteva far riferimento anche a quest’ultimo. Pertanto, la disposizione non può che essere interpretata nel senso che l’accertamento di conformità può essere richiesto prima della scadenza del termine indicato per demolire o ridurre in pristino ovvero - nel caso in cui ciò non sia possibile - prima dell’irrogazione delle sanzioni previste in alternativa dagli artt. 33 e 34 d.P.R. n. 380 del 2001.

Non può invece ritenersi che l’istanza ex art. 36 comma 1, possa essere presentata fino all’irrogazione della sanzione pecuniaria di cui al comma 4 bis dell’art. 31, facendo leva sul riferimento generico contenuto nell’art. 36 alla locuzione “fino all’irrogazione delle sanzioni amministrative”. Infatti, la situazione del proprietario, che lascia trascorrere inutilmente il termine per demolire, è quella del soggetto non più legittimato a presentare l’istanza di accertamento di conformità, avendo perduto ogni titolo di legittimazione rispetto al bene.

Entro il termine di 90 giorni, il destinatario dell’ordinanza di demolizione può anche chiedere una sua proroga, qualora dimostri la sua concreta volontà di disporre la demolizione e sussistano ragioni oggettive che rendano impossibile il completamento della restitutio in integrum entro tale termine.

Una seconda fase si attiva decorso il termine di 90 giorni dalla notifica del provvedimento di demolizione agli interessati (o il diverso termine prorogato dall’Amministrazione su istanza di quest’ultimi) con un sopralluogo sull’immobile, che si conclude con l’accertamento positivo o negativo dell’esecuzione dell’ordinanza di ripristino.

Nel caso di accertamento positivo, l’autore dell’abuso mantiene la titolarità del suo diritto, non potendo l’Amministrazione emanare l’atto di acquisizione.

L’ordinamento, dunque, incentiva l’autore dell’illecito a rimuovere le sue conseguenze materiali, con la prospettiva del mantenimento del suo diritto reale nel caso di tempestiva esecuzione dell’ordinanza di demolizione.

Nel caso di accertamento negativo, l’Amministrazione rileva che vi è stata l’acquisizione ex lege al patrimonio comunale (salvi i casi previsti dal comma 6) del bene come descritto nell’ordinanza di demolizione (ovvero come descritto nello stesso atto di acquisizione con l’indicazione dell’ulteriore superficie nel limite del decuplo di quella abusivamente costruita).

Alla scadenza del termine di 90 giorni, l’Amministrazione è dunque ipso iure proprietaria del bene abusivo ed il responsabile non è più legittimato a proporre l’istanza di accertamento di conformità.

A seguito dell’entrata in vigore del comma 4-bis dell’art. 31, l’Amministrazione deve anche irrogare la sanzione amministrativa pecuniaria (anche con atto separato, qualora tale sanzione per una qualsiasi ragione non sia stata contestuale all’accertamento dell’inottemperanza).

Il Collegio riprende, poi, i principi espressi dalla Corte Costituzionale, secondo la quale, l’ordine di demolizione e l’atto di acquisizione al patrimonio comunale costituiscono due distinte sanzioni, che rappresentano “la reazione dell’ordinamento al duplice illecito posto in essere da chi dapprima esegue un’opera abusiva e, poi, non adempie all’obbligo di demolirla” (sentenza n. 140 del 2018, § 3.5.1.1.; sentenza n. 427 del 1995; sentenza n. 345 del 1991).

Dunque, il Collegio evidenzia che la sanzione disposta con l’ordinanza di demolizione ha natura riparatoria ed ha per oggetto le opere abusive, per cui l’individuazione del suo destinatario comporta l’accertamento di chi sia obbligato propter rem a demolire e prescinde da qualsiasi valutazione sulla imputabilità e sullo stato soggettivo (dolo, colpa) del titolare del bene. Invece, l’acquisizione gratuita, quale conseguenza dell’inottemperanza all’ordine di demolizione e della relativa omissione, ha natura afflittiva (così come la correlata sanzione pecuniaria).

In considerazione di tale natura afflittiva, l’Adunanza Plenaria ritiene che vada affermato in materia anche il principio per il quale deve esservi l’imputabilità dell’illecito omissivo della mancata ottemperanza: pertanto, l’atto di acquisizione delle opere abusive al patrimonio comunale non può essere emesso quando risulti la non imputabilità - per una malattia completamente invalidante - della mancata ottemperanza da parte del destinatario dell’ordine di demolizione (salvi gli obblighi del suo eventuale rappresentante legale).

Il Collegio aggiunge, ancora, che per il principio della vicinanza alla fonte della prova, è specifico onere per il destinatario dell’ordine di demolizione – o, in ipotesi, del suo rappresentante legale - dedurre e comprovare la sussistenza di tale non imputabilità: l’Amministrazione, in assenza di comprovate deduzioni, deve emanare l’atto di acquisizione.

Ancora, la Plenaria aggiunge che una terza fase – già disciplinata dal testo originario dell’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001 e poi disciplinata anche dalla legge n. 164 del 2014, che ha ivi aggiunto i commi 4-bis, 4-ter e 4-quater - si apre con la notifica dell’accertamento dell’inottemperanza all’interessato e concerne l’immissione nel possesso del bene e la trascrizione dell’acquisto nei registri immobiliari. Quest’ultimo adempimento, che deve essere compiuto con sollecitudine, rappresenta un atto indispensabile al fine di rendere pubblico nei rapporti con i terzi l’avvenuto trasferimento del diritto di proprietà e consolidarne gli effetti, sicché ai sensi di quanto disposto dal comma 4 bis dell’art. 31 deve ritenersi che rappresenti un elemento di valutazione della performance individuale, nonché di responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile del dirigente e del funzionario inadempiente, al pari della tardiva o mancata adozione della stessa sanzione che con l’atto di accertamento viene irrogata.

In sostanza, con tale notifica, il bene si intende acquisito a titolo originario al patrimonio pubblico – con decorrenza dalla scadenza del termine fissato dall’art. 31, salva la proroga eventualmente disposta - e di conseguenza eventuali ipoteche, pesi e vincoli preesistenti vengono caducati unitamente al precedente diritto dominicale, senza che rilevi l'eventuale anteriorità della relativa trascrizione o iscrizione (cfr. Cons. St., Sez. VII, 8 marzo 2023, n. 2459).

Il Collegio, quindi, afferma che l’accertamento dell’inottemperanza certifica il passaggio di proprietà del bene al patrimonio pubblico e costituisce il titolo per l'immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari, che deve essere eseguita gratuitamente.

Ai sensi dell’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001 già nel suo testo originario, l’acquisto ipso iure del bene abusivo da parte dell’Amministrazione comporta la novazione oggettiva dell’obbligo ricadente propter rem sull’autore dell’abuso e sui suoi aventi causa.

Infatti, l’obbligo di demolire il proprio manufatto entro il termine fissato dall’Amministrazione dopo la scadenza di tale termine viene meno (non potendo più il responsabile demolire un bene che non è più suo) ed è sostituito ex lege dall’obbligo di rimborsare all’Amministrazione tutte le spese che essa poi sostenga per demolire il bene abusivo.

La Plenaria cita, poi, la legge n. 164 del 2014, che integra l’art. 31 con i commi 4-bis, 4-ter e 4-quater: l’art. 31, comma 4-bis, dispone che: “L'autorità competente, constatata l'inottemperanza, irroga una sanzione amministrativa pecuniaria”. Esso ha dunque previsto una ulteriore sanzione di natura afflittiva, nel caso di inottemperanza all’ordinanza di demolizione: alla tradizionale previsione dell’acquisizione di diritto al patrimonio comunale del bene abusivo e dell’area ulteriore, la riforma del 2014 ha aggiunto la doverosa irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria, che deve essere disposta senza indugio (col medesimo atto di accertamento dell’inottemperanza o con un atto integrativo autoritativo successivo).

Anche la ratio di tale ulteriore previsione si basa sull’esigenza di salvaguardare i valori tutelati dagli articoli 9, 41, 42 e 117 della Costituzione.

Poiché il responsabile dell’illecito ha cagionato un vulnus al paesaggio, all’ambiente ed all’ordinato assetto del territorio, in contraddizione con la funzione sociale della proprietà, il legislatore ha inteso sanzionarlo – oltre che con la perdita della proprietà - anche con una sanzione pecuniaria, qualora non abbia ottemperato all’ordinanza di demolizione.

In considerazione della scarsità delle risorse economiche di cui sono ordinariamente dotati i Comuni e della complessità delle procedure in base alle quali le Amministrazioni possono disporre la demolizione in danno e porre le spese a carico del responsabile, il legislatore ha inteso in questo modo stimolare il responsabile ad eliminare le conseguenze dell’illecito edilizio, con la previsione di una sanzione pecuniaria.

Sotto il profilo civilistico, l’acquisto ipso iure da parte del Comune comporta l’applicabilità dell’art. 2053 del codice civile, sulla responsabilità del proprietario nei confronti dei terzi per i danni derivanti dalla rovina dell’edificio, salva l’applicazione dell’articolo 2051 dello stesso codice, sulla responsabilità di chi continui a possedere l’edificio abusivo, fin quando l’Amministrazione si sia immessa nel possesso, in esecuzione dell’atto di accertamento dell’inottemperanza all’ordine di demolizione.

L’Adunanza Plenaria, poi, si sofferma sulla quarta (ed eventuale) fase, che riguarda il come l’Amministrazione intenda gestire il bene ormai entrato nel patrimonio comunale. A seguito della perdita ipso iure del bene, pur se accertata successivamente, chi lo possiede ormai senza idoneo titolo giuridico non può né demolirlo, né modificarlo, ed è tenuto a corrispondere un importo all’Amministrazione proprietaria per la sua disponibilità che avviene sine titulo.

In alternativa alla demolizione del bene, il Consiglio comunale può, ai sensi del secondo periodo del comma 5 dell’art. 31, deliberare il mantenimento in essere dell’immobile abusivo, che, secondo l’insegnamento della Corte costituzionale (Corte cost., n. 140 del 2018) è una via del tutto eccezionale, che può essere percorsa per la presenza di prevalenti interessi pubblici e sempre che l'opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici, ambientali o di rispetto dell’assetto idrogeologico.

In assenza di tale motivata determinazione del Consiglio comunale, va senz’altro disposta, ai sensi del primo periodo del comma 5, la materiale demolizione del bene abusivo a spese del responsabile dell'abuso e dei suoi eventuali aventi causa, fermo restando che la demolizione non comporta il riacquisto dell’area di sedime, ormai definitivamente acquisita al patrimonio comunale.

Anche in tal caso, l’Amministrazione può consentire che la demolizione possa essere effettuata dal responsabile (o dal suo avente causa), il quale può averne uno specifico interesse, per contenerne le spese, che altrimenti sarebbero anticipate anche in misura superiore dall’Amministrazione, con rivalsa nei suoi confronti.

Il Collegio conclude, quindi, che, salvo il caso eccezionale in cui l’Amministrazione ritenga di evitare la demolizione dell’immobile ormai entrato nel suo patrimonio per soddisfare interessi pubblici, l’esito finale ordinario dell’abuso edilizio è costituito dalla demolizione del manufatto abusivo.

Viene poi evidenziato che il responsabile dell’illecito, il proprietario ed i suoi aventi causa hanno sempre il dovere di rimuoverne le conseguenze, sicché vanno distinte le seguenti fasi temporali: a) fino a quando scade il termine fissato nell’ordinanza di demolizione, questi hanno il dovere di effettuare la demolizione, che, se viene posta in essere, evita il trasferimento della proprietà al patrimonio pubblico; b) qualora il termine per demolire scada infruttuosamente, i destinatari dell’ordinanza di demolizione commettono un secondo illecito di natura omissiva, che comporta, da un lato, la perdita ipso iure della proprietà del bene con la conseguente e connessa irrogazione della sanzione pecuniaria e, dall’altro, la novazione oggettiva dell’obbligo propter rem, perché all’obbligo di demolire il bene si sostituisce l’obbligo di rimborsare l’Amministrazione, per le spese da essa anticipate per demolire le opere abusive entrate nel suo patrimonio, risultanti contra ius (qualora essa non abbia inteso eccezionalmente utilizzare il bene ai sensi dell’art. 31, comma 5, del d.P.R.n. 380 del 2001); c) decorso il termine per demolire, qualora l’Amministrazione non decida di conservare il bene, resta la possibilità di un’ulteriore interlocuzione con il privato per un adempimento tardivo dell’ordine di demolire, che non comporta il sorgere di un diritto di quest’ultimo alla retrocessione del bene, né fa venire meno la sanzione pecuniaria irrogata, ma può evitargli, da un lato, la perdita dell’ulteriore proprietà sino a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita se non è già stata individuata in sede di ordinanza di demolizione, nonché gli eventuali maggiori costi derivanti dalla demolizione in danno. Il proprietario non ha dunque alcun diritto a porre in essere la demolizione dopo la scadenza del termine dei 90 giorni, spettando alla discrezionalità dell’Amministrazione di valutare se coinvolgerlo ulteriormente nella demolizione.

Il Collegio prosegue la disamina normativa e afferma che, per quanto riguarda la natura degli illeciti edilizi previsti dalle lettere a) e b) del comma 1 dell’art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001, va evidenziata la diversità delle qualificazioni rilevanti nel diritto penale e nel diritto amministrativo.

Come accade sotto il profilo penale, il termine di prescrizione del reato edilizio comincia a decorrere dalla data di ultimazione delle opere.

La Plenaria osserva che, talvolta la giurisprudenza e la dottrina richiamano la nozione di reato permanente, ma più propriamente – poiché il legislatore non ha disciplinato la condotta in modo bifasico e non ha inserito nel fatto tipico alcun richiamo alla mancata demolizione delle opere abusive - si tratta di reati caratterizzati unicamente da una condotta attiva frazionata e perdurante nel tempo, quella di realizzazione delle opere abusive: quanto alla condotta punibile e alla decorrenza del termine di prescrizione del reato, non rileva che dopo l’ultimazione delle opere perduri la violazione dei valori tutelati dagli articoli 9, 41, 42 e 117 della Costituzione.

Quindi, pur se il responsabile dell’abuso ha l’obbligo (ai sensi dell’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001) di demolire le opere abusive e sotto il profilo amministrativo risponde della mancata ottemperanza all’ordine di demolizione con la perdita del diritto di proprietà, sotto il profilo penale, la legge non ha attributo di per sé rilevanza alla fase omissiva della mancata demolizione di quanto realizzato.

Si è dunque in presenza non di un reato permanente a condotta mista (dapprima commissiva e poi omissiva), ma di un reato commissivo caratterizzato dalla condotta costruttiva perdurante nel tempo, che termina o con l’interruzione o con l’ultimazione dei lavori (o il sequestro del bene, se non seguito dalla prosecuzione dei lavori).

La Plenaria afferma la nota diversità della natura amministrativa dell’illecito edilizio: infatti, l’articolo 31 del testo unico n. 380 del 2001, proprio perché la realizzazione delle opere abusive comporta un perdurante vulnus ai valori tutelati dagli articoli 9, 41, 42 e 117 della Costituzione, ha previsto, da un lato, l’obbligo dell’autore dell’illecito di demolire le opere abusive entro il termine fissato con l’ordinanza di demolizione (cui segue l’obbligo di rimborsare gli oneri sostenuti dall’Amministrazione, per la demolizione del bene nel frattempo divenuto suo) e, dall’altro, il dovere del Comune di reprimere l’illecito.

Quindi, l’inottemperanza all’ordinanza di demolizione comporta un secondo illecito di natura omissiva, che si aggiunge a quello di natura commissiva (insito nella realizzazione delle opere abusive) e comporta la perdita del diritto di proprietà.

In sostanza, la perdurante situazione contra ius – caratterizzata dalla novazione oggettiva dell’obbligo del responsabile, che dapprima è quello di demolire l’immobile abusivo ancora suo e poi diventa quello di rimborsare all’Amministrazione le spese sostenute per la demolizione d’ufficio - viene meno o quando è emesso un provvedimento con effetti sananti (l’accertamento di conformità previsto dall’art. 36 del testo unico n. 380 del 2001 o il condono in passato previsto dalle leggi speciali) o quando le opere abusive sono materialmente demolite.

Sotto il profilo amministrativo, dunque, l’abuso edilizio ha una peculiare natura di illecito con effetti permanenti, in quanto la lesione dei valori tutelati dagli articoli 9, 41, 42 e 117 della Costituzione si protrae nel tempo sino al ripristino della legittimità violata (col rilascio di un titolo abilitativo o con la materiale demolizione delle opere), mutando nel tempo l’obbligo del responsabile (poiché all’obbligo di demolire il proprio bene abusivo si sostituisce ex lege l’obbligo di rimborsare le spese sostenute dall’Amministrazione per la demolizione, salva la possibilità per l’Amministrazione di emanare nuovamente l’ordinanza di demolizione e di disporre un’ulteriore sanzione pecuniaria nel caso di ottemperanza, qualora la competente Regione dia attuazione all’art. 31, comma 4-quater).

Al riguardo, l’Adunanza Plenaria, con la sentenza n. 9 del 2017, ha già chiarito che l’ordine di demolizione di una costruzione abusiva deve comunque essere emanato senza alcuna rilevanza del decorso del tempo, proprio perché la presenza del manufatto abusivo comporta una lesione permanente ai valori tutelati dalla Costituzione e l’eventuale connivenza o la mancata conoscenza della loro esistenza da parte degli organi comunali non incide sul dovere di disporne la demolizione.

Inoltre, la medesima sentenza dell’Adunanza Plenaria ha rimarcato come la sanzione amministrativa consistente nell’ordine di demolizione, avendo carattere reale, prescinda dalla responsabilità del proprietario o dell’occupante l’immobile, dovendo esso essere emanato anche nei confronti di chi non abbia commesso la violazione, ma si trovi al momento della sua emanazione in un rapporto con la res tale da consentire la restaurazione dell’ordine giuridico violato.

Dunque, il Collegio conclude la ricostruzione del quadro normativo, affermando che, con l’acquisto del diritto reale da parte dell’avente causa, si verifica una novazione soggettiva cumulativa dell’obbligo propter rem di demolire il bene.

 

  1. ii) La posizione del nudo proprietario

Ricostruito il quadro normativo in tema di conseguenze dell’illecito edilizio, l’Adunanza Plenaria procede all’esame della posizione del nudo proprietario che sia stato coinvolto nella commissione dell’illecito edilizio, ancorché in nessuno dei quesiti formulati dalla Sezione Sesta vi è un espresso richiamo a tale posizione. Tuttavia, la motivazione dell’ordinanza di rimessione e la motivazione della sentenza del TAR impugnata si sono soffermate sulle peculiarità che caratterizzano il diritto reale della nuda proprietà.

Nell’esaminare la posizione del nudo proprietario, l’Adunanza Plenaria ritiene che vadano distinte due fattispecie.

La prima, quando l’illecito edilizio sia stato commesso dal proprietario anche possessore del bene, il quale – dopo la commissione degli abusi – ponga in essere un atto a titolo derivativo in favore di un avente causa (sia esso una compravendita, una donazione o un altro contratto avente effetti reali). In tale frequente ipotesi, come ha evidenziato la pacifica giurisprudenza del Consiglio di Stato ed ha già rimarcato la sentenza della stessa Adunanza Plenaria n. 9 del 2017, l’acquirente – tenuto secondo l’ordinaria diligenza ad informarsi della situazione giuridica in cui si trova l’immobile oggetto del contratto - subentra nella medesima posizione giuridica del suo dante causa ed è, quindi, obbligato propter rem ad effettuare la demolizione e il Comune deve emanare gli atti previsti dagli articoli 27 e 31 del testo unico n. 380 del 2001, così come li avrebbe potuti emanare nei confronti del dante causa e cioè deve emanare sia l’ordinanza di demolizione che il successivo atto di accertamento dell’inottemperanza.

La seconda fattispecie si ha quando l’usufruttuario, all’insaputa del nudo proprietario, commetta abusi edilizi sul bene oggetto del proprio diritto reale in re aliena e dunque quando il bene – al momento della commissione dell’illecito - sia già nella contitolarità del nudo proprietario e dell’usufruttuario.

In relazione a tale ipotesi, il Comune deve emanare l’ordinanza di demolizione anche nei confronti del nudo proprietario. Sul punto, la Plenaria condivide le argomentazioni del Consiglio, rese con sentenza n. 2769 del 2023: - “il nudo proprietario di un terreno non perde la disponibilità del bene, sebbene concesso in usufrutto a terzi” e “l'usufruttuario, ancorché possessore rispetto ai terzi, è, nel rapporto con il nudo proprietario, mero detentore del bene”; - “la giurisprudenza riconosce la legittimazione del nudo proprietario ad agire in giudizio contro tutti coloro che mettono in atto ingerenze sulla cosa oggetto di usufrutto” (cfr. Cass. Civ., Sez. II, 21 febbraio 2019, n. 5147); - “il nudo proprietario non si trova in posizione tale da non potersi opporre alla realizzazione, sull’immobile concesso in usufrutto, di opere abusive, né gli è precluso di agire direttamente, o per via giudiziale, per procedere al ripristino dello stato dei luoghi” e “argomenti in tal senso si ricavano prima ancora dal diritto positivo: sia dall’art. 1005 c.c. che pone a carico del nudo proprietario le riparazioni straordinarie, sia dall’art. 1015 c.c., che – con un’elencazione di comportamenti ritenuta per lo più esemplificativa e non tassativa - annovera gli abusi dell’usufruttuario tra le cause di decadenza dell’usufrutto e prevede una serie di rimedi attivabili dal nudo proprietario”; - risulta “legittima l’ordinanza di rimozione di opere abusive diretta anche al nudo proprietario”, poiché egli può attivarsi per recuperare il pieno godimento dell’immobile e provvedere direttamente alla rimozione delle opere abusivamente realizzate, potendo, in particolare, in caso di opposizione dell’usufruttuario, agire in giudizio a tale scopo: ed è evidente che la domanda giudiziale con cui il nudo proprietario chieda accertarsi il suo diritto/dovere di rimuovere opere edilizie abusivamente realizzate sull’immobile concesso in usufrutto, essendo idonea a prenotare gli effetti scaturenti dalla futura sentenza, potrebbe precludere l’acquisizione del bene al patrimonio dell’Amministrazione, a seguito del vano decorso del termine assegnato per la demolizione.

E, infatti, l’ordine di demolizione – allorquando sia emesso nei confronti del nudo proprietario, oltre che nei confronti dell’usufruttuario autore dell’illecito - radica un dovere in capo allo stesso nudo proprietario, consentendogli di attivarsi per ripristinare l’ordine giuridico violato dal responsabile dell’abuso e per evitare di perdere il proprio diritto reale a causa dell’illecito comportamento altrui.

L’ordine di demolizione costituisce quel factum principis che impone al nudo proprietario di attivarsi, qualora intenda mantenere il proprio diritto reale.

Il Collegio ribadisce anche un altro principio formulato dall’Adunanza Plenaria, con la sentenza n. 9 del 2017, per il quale “gli ordini di demolizione di costruzioni abusive, avendo carattere reale, prescindono dalla responsabilità del proprietario o dell’occupante l’immobile (l’estraneità agli abusi assumendo comunque rilievo sotto altri profili), applicandosi anche a carico di chi non abbia commesso la violazione, ma si trovi al momento dell’irrogazione in un rapporto con la res tale da assicurare la restaurazione dell’ordine giuridico violato”.

Quindi, il Collegio, rilevato che nel caso di abuso commesso dall’usufruttuario il Comune deve emanare l’ordinanza di demolizione anche nei confronti del nudo proprietario, prosegue ad approfondire l’ulteriore questione se – nel caso di inottemperanza – l’atto di acquisizione vada anch’esso emanato nei confronti del nudo proprietario, risolvendola nel senso affermativo.

Secondo la Plenaria, infatti, l’ordinanza di demolizione contiene non solo l’ordine di ripristino, ma anche l’avviso che la sua mancata ottemperanza comporterà la perdita del diritto di proprietà secondo un meccanismo che comporta l’estinzione ex lege del diritto in capo al proprietario e la sua acquisizione al patrimonio pubblico.

La regola della acquisizione di diritto con la scadenza del termine di 90 giorni si applica nei confronti di tutti coloro che siano stati destinatari dell’ordinanza di demolizione e dunque anche nei confronti del nudo proprietario che abbia in precedenza avuto la notifica della medesima ordinanza.

Il Collegio osserva che, peraltro, anche nei confronti del nudo proprietario si applica il principio per il quale l’atto di acquisizione non può essere emesso quando risulti la non imputabilità della mancata ottemperanza da parte del destinatario dell’ordine di demolizione: anche il nudo proprietario, dunque, può dedurre e comprovare di essere stato impossibilitato ad effettuare la demolizione, in ragione di una malattia completamente invalidante, che non gli consente di compiere gli atti giuridici necessari all’uopo, né direttamente, né per interposta persona.

Secondo l’Adunanza Plenaria, i principi per i quali l’atto di accertamento dell’inottemperanza va emesso anche nei confronti del nudo proprietario destinatario dell’ordine di demolizione, salva la sua possibilità di dedurre e di comprovare la non imputabilità della mancata ottemperanza, non si pongono in contrasto con la giurisprudenza della Corte europea per i diritti dell’uomo.

In definitiva, dunque, l’Adunanza Plenaria respinge il secondo motivo di appello.

 

iii) L’illegittimità derivata dell’accertamento di inottemperanza che recepisce i vizi dell’ordinanza di demolizione

Soffermandosi sul terzo motivo di appello, l’Adunanza Plenaria ne decide il rigetto per infondatezza. Con tale motivo, in particolare, si deduceva l’illegittimità derivata dell’accertamento di inottemperanza, che recepirebbe i vizi dell’ordinanza di demolizione.

Il Collegio, in particolare, ribadisce il principio secondo il quale qualora l’ordinanza di demolizione dell’opera abusiva diventi inoppugnabile, gli atti ad essa consequenziali possono essere impugnati solo per vizi propri (cfr. ex plurimis, Cons. St., Sez. V, 11 luglio 2014, n. 3565).

 

  1. iv) La sanzione pecuniaria

Da ultimo, il Collegio si sofferma sul primo motivo di appello, con il quale si contesta, nella sostanza, l’irrogazione della sanzione pecuniaria di cui al comma 4-bis del citato art. 31 in capo all’appellante per violazione del principio di irretroattività, poiché il suo illecito – consistente nella mancata ottemperanza all’ordine di demolizione - è stato commesso prima dell’entrata in vigore della legge n. 164 del 2014.

La Plenaria ritiene il motivo fondato, rilevando che il comma 4 bis del citato art. 31 prevede che: “L'autorità competente, constatata l'inottemperanza, irroga una sanzione amministrativa pecuniaria”, dunque, la formulazione della disposizione non lascia adito a dubbi quanto al fatto che la sanzione pecuniaria è irrogata in ragione dell’inottemperanza all’ordine di demolizione: l’accertamento deve necessariamente precedere l’irrogazione della sanzione e la condotta colpevolmente omissiva del destinatario dell’ordine di demolizione comporta, quindi, per il proprietario una duplice sanzione: a) la perdita della proprietà del bene; b) una sanzione pecuniaria variabile da 2.000 a 20.000 euro.

Il Collegio evidenzia che tali sanzioni vengono irrogate a causa del mancato adempimento all’ordine di demolire, ossia in ragione di un illecito ad effetti permanenti, che si consuma con lo scadere del termine di 90 giorni assegnato dall’autorità amministrativa con l’ordine di demolizione: il loro presupposto è l’accertamento dell’inottemperanza dell’ordine di demolizione. Pertanto, conclude che si è in presenza di un illecito ad effetti permanenti, in quanto la perdita del bene abusivo e dell’area di sedime consegue all’inerzia nel demolire protrattasi oltre il termine di 90 giorni assegnato dall’autorità e che l’acquisto del bene avviene ope legis, sicché l’atto di accertamento dell’inottemperanza ha natura dichiarativa.

La Plenaria prosegue l’argomentazione, tenendo conto dei principi nazionali e dei principi espressi dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, con la sentenza Engel e altri c. Paesi Bassi 8 giugno 1976, in forza dei quali la sanzione pecuniaria in questione ha la finalità di prevenzione generale e speciale, mirando a dissuadere dalla commissione degli illeciti edilizi e a salvaguardare il territorio nazionale: il comma 4-bis sanziona chi non si è adoperato per porre rimedio alle conseguenze derivanti dagli abusi realizzati direttamente o a causa della mancata vigilanza sui propri beni.

Quindi, a dire del Collegio, rilevano tre principi: a) il principio di irretroattività, desumibile nella materia sanzionatoria dall’art. 1 della legge n. 689 del 1981, oltre che dall’articolo 11 delle disposizioni preliminari al codice civile; b) il principio di certezza dei rapporti giuridici, perché chi non ha ottemperato all’ordine di demolizione, facendo decorrere il termine di 90 giorni prima dell’entrata in vigore della legge n. 164 del 2014, ha compiuto una omissione in un quadro normativo che prevedeva ‘unicamente’ la conseguenza della perdita della proprietà e non anche quella dell’irrogazione della sanzione pecuniaria; c) il principio di tipicità ed il principio di coerenza, poiché – come si è sopra evidenziato - col decorso del termine di 90 giorni il responsabile non può più demolire il manufatto abusivo, poiché non è più suo, sicché non è più perdurante l’illecito omissivo (in quanto si è consumata la fattispecie acquisitiva), sicché l’applicazione dell’art. 31, comma 4-bis, anche alle ipotesi in cui il termine di 90 giorni era già decorso prima della sua entrata in vigore, comporterebbe l’applicazione di una sanzione per una omissione giuridicamente non più sussistente, essendo preclusa ogni modifica del bene in assenza di ulteriori determinazioni del Comune sulla gestione del bene divenuto ormai suo.

 

In conclusione, l’Adunanza Plenaria, con la sentenza n. 16/2023, accoglie il primo motivo di ricorso, respinge il secondo e il terzo ed afferma i seguenti principi di diritto:

a) la mancata ottemperanza all’ordine di demolizione entro il termine da esso fissato comporta la perduranza di una situazione contra ius e costituisce un illecito amministrativo omissivo propter rem, distinto dal precedente illecito – avente anche rilevanza penale - commesso con la realizzazione delle opere abusive;

  1. b) la mancata ottemperanza – anche da parte del nudo proprietario - alla ordinanza di demolizione entro il termine previsto dall’art. 31, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001, impone l’emanazione dell’atto di acquisizione del bene al patrimonio comunale, tranne il caso in cui sia stata formulata l’istanza prevista dall’art. 36 del medesimo d.P.R. o sia stata dedotta e comprovata la non imputabilità dell’inottemperanza;
  2. c) l’atto di acquisizione del bene al patrimonio comunale, emesso ai sensi dell’art. 31, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001, ha natura dichiarativa e comporta – in base alle regole dell’obbligo propter rem - l’acquisto ipso iure del bene identificato nell’ordinanza di demolizione alla scadenza del termine di 90 giorni fissato con l’ordinanza di demolizione. Qualora per la prima volta sia con esso identificata l’area ulteriore acquisita, in aggiunta al manufatto abusivo, l’ordinanza ha natura parzialmente costitutiva in relazione solo a quest’ultima (comportando una fattispecie a formazione progressiva);
  3. d) l’inottemperanza all’ordinanza di demolizione comporta la novazione oggettiva dell’obbligo del responsabile o del suo avente causa di ripristinare la legalità violata, poiché, a seguito dell’acquisto del bene da parte dell’Amministrazione, egli non può più demolire il manufatto abusivo e deve rimborsare all’Amministrazione le spese da essa sostenute per effettuare la demolizione d’ufficio, salva la possibilità che essa consenta anche in seguito che la demolizione venga posta in essere dal privato;
  4. e) la sanzione pecuniaria prevista dall’art. 31, comma 4-bis, del d.P.R. n. 380 del 2001 non può essere irrogata nei confronti di chi – prima dell’entrata in vigore della legge n. 164 del 2014 – abbia già fatto decorrere inutilmente il termine di 90 giorni e sia risultato inottemperante all’ordine di demolizione, pur se tale inottemperanza sia stata accertata dopo la sua entrata in vigore”.