Inserito in data 16/04/2018 TAR LAZIO, Sezione Seconda Quater, sentenza n. 4129 del 14 aprile 2018 Il ritrovamento di reperti archeologici e la determinazione del premio nei confronti del privato La società I.B.S. srl propone ricorso contro il Ministero del Beni e delle Attività Culturali e del Turismo al fine di ottenere una pronuncia favorevole sull’accertamento dell’obbligo di provvedere sulla richiesta del premio per il ritrovamento di un bene archeologico ed avverso la nota della Soprintendenza archeologia delle belle arti e paesaggio per l’area metropolitana di Roma, la Provincia di Viterbo e l’Etruria meridionale del 10 ottobre 2017 e per il risarcimento del danno. In particolare, la parte ricorrente, nelle premesse sul fatto, racconta che nel corso dell’esecuzione di alcuni scavi e dei relativi lavori, autorizzati con permesso di costruire, effettuati su un immobile in sua proprietà sito in Castel Gandolfo, viene ritrovato un busto di età romana del II secolo d.c. edi una cisterna romana. La società ricorrente inoltra, pertanto, una richiesta del premio, ai sensi dell’art. 92 del d.lgs. n. 42 del 2004, il 12 novembre 2008 e contesta il premio del 10% che veniva attribuito dalla Soprintendenza per il ritrovamento del busto; l’anzidetta società censura pertanto in diritto la violazione delle norme degli articoli 92 e 93 del d.lgs. n. 42 del 2004. Il Collegio sostiene che il ricorso è infondato. I giudici del Collegio rammentano che con nota del 16 marzo 2010, la Soprintendenza stabilisce chiaramente che la società ricorrente avrebbe dovuto impugnare tempestivamenteil predetto provvedimento in quanto si tratta di un “provvedimento amministrativo” e come tale si pone come esercizio di un potere autoritativo dell’Amministrazione nella determinazione del premio spettante alla predetta società. Il Consiglio di Stato si pronuncia in occasione del caso di specie, sulla base di un orientamento costante della giurisprudenza, alla luce del quale si ritiene che fino al momento della determinazione definitiva del premio, il privato è titolare di un interesse legittimo contrapposto al potere discrezionale dell’Amministrazione. In riferimento al caso specifico, il ritrovamento di reperti archeologici non fa insorgere in capo all’Amministrazione, immediatamente, un obbligo giuridico alla prestazione patrimoniale a favore dei proprietari del luogo ove si è verificato il ritrovamento, ma comporta una valutazione strettamente di carattere discrezionale vertente sull’an, di competenza del giudice amministrativo, e sul quantum ricadente sulla competenza del giudice ordinario. Applicando il predetto orientamento giurisprudenziale al caso di specie, i giudici del Collegio ritengono che la parte ricorrente non abbia tempestivamente impugnato il provvedimento ed il predetto ritardo comporta l’inammissibilità della domanda proposta. La domanda di risarcimento del danno non trova accoglimento, in quanto la parte ricorrente ha formulato una richiesta in maniera assolutamente generica, senza alcun riferimento specifico alle circostanze di fatto che hanno cagionato il danno. Inoltre, il Collegio specifica che il danno da ritardo per la mancata conclusione del procedimento non può essere riconosciuto, non essendo stata accertata nessuna inerzia da parte dell’Amministrazione. |
Inserito in data 12/04/2018 CONSIGLIO DI STATO, Quinta Sezione, sentenza n. 2190 del 11 aprile 2018 La sinteticità degli atti processuali amministrativi ed il danno c.d. da mancata aggiudicazione La G. E. srl propone appello contro la U. spa e nei confronti della C. srl al fine di ottenere la riforma della sentenza emessa dal TAR Lombardia – Milano. La vicenda prende le mosse dal ricorso proposto dalla G. srl , seconda graduata, essendo venuta a conoscenza dell’aggiudicazione alla C. srl dell’affidamento a termine della procedura negoziata del “Servizio di verifica (ed eventuale risanamento) e certificazione di collaudo statico dei pali in acciaio degli impianti di illuminazione pubblica siti nei Comuni di Milano, Bergamo e Brescia”. La C. srl eccepisce l’inammissibilità dell’appello per violazione dell'art. 13-ter “Criteri per la sinteticità e la chiarezza degli atti di parte”(norma aggiunta a mezzo dell’art. 7-bis d.-l. 31 agosto 2016, n. 168 come integrato dalla legge di conversione 25 ottobre 2016, n. 197) delle norme di attuazione al Codice del processo amministrativo; in quanto, secondo la società C. srl, l’appellante ha superato i limiti dimensionali stabiliti dal decreto del Presidente del Consiglio di Stato 22 dicembre 2016, n. 167 e specificatamente: “i motivi di appello sono esposti a partire da pag. 24: e altresì per mancanza di specifica critica alla sentenza, avendo l'appellante meramente riproposto, con “copia e incolla”, le censure sollevate in primo grado, senza contestare i passaggi logici della sentenza.” I giudici del Collegio sostengono che la censura sia infondata sulla base della seguente motivazione: “a norma del ricordato art. 13-ter, il limite dimensionale di sinteticità entro cui va contenuto l'atto processuale costituisce un precetto giuridico la cui violazione non genera la conseguenza, a carico della parte che lo abbia superato, dell’inammissibilità dell'intero atto, ma solo il degradare della parte eccedentaria a contenuto che il giudice ha la mera facoltà di esaminare (art. 13-ter, comma 5: “Il giudice è tenuto a esaminare tutte le questioni trattate nelle pagine rientranti nei suddetti limiti. L'omesso esame delle questioni contenute nelle pagine successive al limite massimo non è motivo di impugnazione”).” Nel caso di specie, il limite quantitativo risulta essere rispettato. I giudici osservano che l’atto di appello dellaG. srl consta di 39 pagine e puntualizzano che la verifica del superamento del limite dimensionale va fatta senza conteggiare“l'epigrafe dell'atto; l'indicazione delle parti e dei difensori e relative formalità; l’individuazione dell’atto impugnato” e delle “conclusioni dell’atto”, come peraltro è sancito nell’art. 4 del decreto del Presidente del Consiglio di Stato. La predetta decisione del Collegio fa luce sui parametri da rispettare in riferimento al limite dimensionale dell’atto processuale amministrativo, in quanto chiaramente i giudici evidenziano che il conteggio deve essere effettuato senza considerare:l'epigrafe dell'atto; l'indicazione delle parti e dei difensori e le relative formalità e l’individuazione dell’atto impugnato. Alla luce delle predette considerazioni, il Collegio ritiene che l’atto d’appello proposto dalla G. srl rientra nel limite dimensionale di 35. In merito, invece, al motivo di impugnazione proposto dalla società G. srl vertente sul risarcimento del danno sulla c.d. “mancata aggiudicazione”, i giudici del Collegio rigettano tale doglianza. Il Collegio spiega che il “danno da mancata aggiudicazione” sussiste nell’ipotesi in cui: “l'annullamento in sede giudiziaria dell'aggiudicazione è motivato da ragioni di esclusione dell'aggiudicatario non rilevate dall'amministrazione, potendo in questo caso il secondo graduato richiedere l'utile che avrebbe tratto dall'esecuzione del contratto di appalto alla cui stipulazione poteva legittimamente aspirare, non nel caso, che ricorre nella vicenda in esame, in cui l'aggiudicatario non andava escluso, risolvendosi la violazione commessa dalla stazione appaltante nella sola intempestiva stipulazione del contratto di appalto.”. |
Inserito in data 10/04/2018 TAR Brescia, Sezione staccata di Brescia (Sezione Seconda), sentenza n. 407 del 09 aprile 2018 La legittimità del provvedimento emanato dal Sindaco con il quale dispone la riduzione dell’orario di lavoro nei confronti di un esercizio pubblico rumoroso Il sig. G.F. propone ricorso contro il comune di Quinzano D’Oglio al fine di ottenere l’annullamento di un’ordinanza emanata dal Sindaco, con la quale ha ordinato “la limitazione dell’orario di apertura dell’esercizio di somministrazione di alimenti e bevande denominato “Lo Storico” individuando l’orario di chiusura alle ore 24 nei giorni di giovedì, venerdì, sabato e domenica”, da attuarsi per sessanta giorni dalla notifica”, di ogni altro atto presupposto o comunque connesso o consequenziale, ancorché allo stato non conosciuto e per l’accessoall’intera documentazione espressamente richiamata nel provvedimento impugnato, in particolare ai verbali di P.L. ivi elencati e agli esposti pervenuti cui si fa riferimento, e in ogni caso a tutta la documentazione relativa al procedimento, la cui integrale ostensione è già stata oggetto di formale istanza di accesso agli atti ed infine, per la condanna del Comune al risarcimento dei danni patiti in conseguenza dell’esecuzione dell’ordinanza. Il Collegio accoglie il ricorso proposto dal ricorrente ed annulla l’ordinanza de qua. I giudici osservano che il provvedimento impugnato può essere ricondotto entro la previsione normativa contenuta nell’art. 50, comma 7 bis, del TUEL, come modificato dall’art. 8 del D.L. n. 14/2017, non avendoil Comune evidenziato alcuna particolare condizione di urgenza e necessità tra quelle enucleate nei commi precedenti della norma in questione. L’art. 50, comma 7 bis, del TUEL prevede che: “Il Sindaco, al fine di assicurare il soddisfacimento delle esigenze di tutela della tranquillità e del riposo dei residenti nonché dell’ambiente e del patrimonio culturale in determinate aree delle città interessate da afflusso particolarmente rilevante di persone, anche in relazione allo svolgimento di specifici eventi, nel rispetto dell’articolo 7 della legge 7 agosto 1990, n. 241, può disporre, per un periodo comunque non superiore a trenta giorni, con ordinanza non contingibile e urgente, limitazioni in materia di orari di vendita, anche per asporto, e di somministrazione di bevande alcoliche e superalcoliche”. Il caso di specie rientra proprio nella casistica descritta dall’anzidetto comma 7 – bis e pertanto, il Comune doveva garantire al ricorrente un’adeguata partecipazione al procedimento preordinato alla nuova regolazione dell’orario d’apertura: tale situazione non si è verificata. I giudici rilevano anche un esercizio di eccesso di potere da parte del Comune, in quanto il Sindaco ha emanato un provvedimento che ha inciso sulla situazione giuridica soggettiva del ricorrente, andando oltre i limiti consentiti dalla legge. Alla luce delle predette considerazioni, il TAR accoglie il ricorso proposto e dispone l’annullamento dell’ordinanza del Comune. |
Inserito in data 05/04/2018 TAR Lazio, Sezione Seconda Quater, Sentenza n. 3676 del 3 aprile 2018 Concessioni di pubblico servizio e riparto della giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo Il Consorzio C. propone ricorso contro il comune di Guidonia Montecelio e nei confronti della società P. F. srl al fine di ottenere l’annullamento della d.d. n. 66 del 16/06/2016 avente ad oggetto la gestione del cimitero di Guidonia Montecelio nonché i lavori di ampliamento dello stesso ed il conseguenziale risarcimento dei danni. Il Comune si costituisce in giudizio, proponendo eccezioni di rito e deduzioni di merito. Nello specifico, il Comune solleva la preliminare eccezione di difetto di giurisdizione, sostenendo che il giudizio pendente rientri nella giurisdizione del giudice ordinario, anziché nella giurisdizione del giudice amministrativo, in quanto la causa concerne la fase di esecuzione del contratto di una concessione di lavori pubblici. I giudici del Collegio ritengono a tal riguardo che, in materia di concessioni di pubblico servizio e di esecuzione del contratto, sussiste la giurisdizione esclusiva del giudice ammnistrativo, ad eccezione delle controversie concernenti le indennità, i canoni ed altri corrispettivi, ricadenti nella giurisdizione del giudice ordinario. In particolare, il collegio stabilisce che: “In queste ipotesi, per stabilire se si sia in presenza di concessione di pubblici servizi (con giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo) ovvero di concessione di costruzione e gestione di opera pubblica (rispetto alla quale, con riguardo alla fase esecutiva del contratto, la giurisdizione è del giudice ordinario, venendo in considerazione posizioni paritetiche e non trattandosi di materia rimessa alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo) assume rilevanza la considerazione degli importi in gioco nell'insieme della pattuizione negoziale di cui trattasi (cfr. Cass., sez. un., sent. n. 13864 del 2015). Diventa con ciò determinante effettuare una comparazione tra le prestazioni che vengono poste a carico del concessionario: la giurisdizione spetterà quindi al giudice ordinario se risulti preminente - e tale da identificare il vero oggetto del contratto in relazione all'interesse concretamente perseguito dalle parti e da qualificare la concessione come di costruzione e gestione - la realizzazione delle opere rispetto alla gestione degli impianti: gestione che, per la misura del canone richiesto (e rapportato all'importo complessivo pattuito), assume in questo caso rilievo solo quale mezzo per conseguire, dal lato dell'impresa, la remunerazione necessaria, restando al contempo soddisfatto l'interesse dell'amministrazione al funzionamento del servizio (così Cass., sez. un., n. 13864 del 2015, cit.). La giurisdizione spetterà invece al giudice amministrativo se, al contrario, risulti preminente la gestione delle opere rispetto alla loro realizzazione, venendo in questo caso in rilievo l'essenza stessa della concessione di pubblico servizio e, con essa, la giurisdizione esclusiva indicata dall'art. 133, comma 1, lett. c), cod. proc. amm. (cfr. T.A.R. Piemonte, sez. II, 12/11/2015, n. 1564).” Nel caso di specie, il Collegio statuisce che il bando di gara in questione, il quale ripartisce un importo equivalente al corrispettivo della concessione ai sensi e per gli effetti dell’art. 19 del contratto “vendite di oculi, ossari e cappelle”, da intendersi come pertinenti ai relativi affidamenti in concessione concernenti sia il vecchio sia il nuovo cimitero. In conclusione, la remunerazione della anzidetta costruzione rientra nell’ampio spettro della remunerazione della gestione, configurando i profili della figura della concessione di servizio pubblico con la conseguenziale giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, come peraltro già ampiamente confermato dall’orientamento prevalente in giurisprudenza. |
Inserito in data 04/04/2018 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III - 26 marzo 2018, n. 1882 Informativa antimafia e responsabilità precontrattuale Il Cds sez. terza con la seguente ordinanza ritiene che non si produca risarcimento del danno a seguito della richiesta dell’informativa antimafia alla Prefettura da parte dell’A.P. atta a non stipulare il contratto con l’aggiudicatario. A seguito di aggiudicazione, l’A.P. richiedeva, in via facoltativa, informativa antimafia e non stipulava il contratto di aggiudicazione facendo spirare i 45 giorni senza provvedervi. Si aggiunge, altresì che pur essendo spirato il termine per la stipula del contratto,60 giorni dall’aggiudicazione, ciò non configura risarcimento danni dal momento che ciò risulta giustificato dalle fondate esigenze antimafia. Pertanto, puntualizza Il Cds che non si possa parlare di responsabilità precontrattuale né di violazione del principio di correttezza, buona fede o di legittimo affidamento maturato dall’aggiudicatario. La domanda risarcitoria va quindi respinta. Il CdS accoglie la domanda proposta diretta ad ottenere il rimborso delle spese documentate e sostenute per la partecipazione alla gara, ordinando al Comune di acquisire la documentazione probatoria. Carola Parano |
Inserito in data 03/04/2018 TAR CALABRIA - CATANZARO - SEZ. I - 21 marzo 2018, n. 685 Partecipazione in gara di associazioni sportive Sulla partecipazione in gara di associazioni sportive dilettantistiche e sul requisito di capacità economico – finanziaria. Le ASD possono partecipare alle procedure di evidenza pubblica dopo aver dimostrato la misura dei corrispettivi percepito a seguito di determinate prestazioni.
Il tar ha specificato che non vanno intese corrispettivi le sole quote associative perché hanno in se lo scopo previsto da statuto non corrispondente alla partecipazione a procedure di evidenza pubblica. Carola Parano
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Inserito in data 30/03/2018 CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA PER LA REGIONE SICILIANA - ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL'ADUNANZA PLENARIA, 27 marzo 2018, n. 175 Oneri di urbanizzazione e rimessione alla Plenaria Con ordinanza di rimessione all’A.P. il CGA in sede giurisdizionale analizza la pretesa dell’amministrazione di rideterminare gli oneri di urbanizzazione a distanza di diversi anni dal primigenio rilascio e la possibilità di conciliarla con il principio di affidamento su un determinato preventivo di spesa del programmato intervento edilizio e la clausola “ salvo conguaglio”. Il CGA ha ritenuto di dover rimettere la questione al giudice della nomofilachia alfine di comprendere se la rideterminazione degli oneri di urbanizzazione sia attività di autotutela amministrativa ex art. 21 nonies della L.241/90 o sia un normale rapporto paritetico di debito- credito sottoposto alle regole di diritto comune e quindi basato sulla lealtà e sulla buona fede delle prestazioni contrattuali. Carola Parano
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Inserito in data 29/03/2018 CONSIGLIO DI STATO - SEZIONE QUINTA, SENTENZA 23 marzo 2018, n. 1843 Facoltà delle stazioni appaltanti di adottare la doppia riparametrazione Il Cds sez. V si pronuncia sulla libertà delle stazioni appaltanti di applicare alla migliore offerta tecnica il criterio della doppia riparametrazione prevista espressamente dalla legge di gara. Il Cds precisa che le linee guida n.2 di attuazione del dlgs n. 50/2016 approvata dall’ Anac prevedono che sia previsto dal bando di gara la libertà della stazione appaltante di riparametrazione dei punteggi. Aggiunge infine il CdS che tale facoltà è stata affermata più volte dalla giurisprudenza prevalente. Carola Parano
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Inserito in data 23/02/2018 TAR Sezione Autonoma di Bolzano, sentenza n. 62 del 22 febbraio 2018 Regime normativo nell’ipotesi di rigetto del progetto per il rilascio di concessione edilizia in sanatoria di una canna fumaria. La società Ro. G. s.r.l. propone ricorso avanti al TAR contro il Comune di Merano e nei confronti della società Pa. S.r.l. al fine di ottenere l’annullamento della comunicazione del Sindaco del Comune di Merano, a mezzo della quale respinge il progetto per il rilascio di una concessione edilizia in sanatoria, avente ad oggetto “modifica dell’utilizzo dei locali al piano cantina da secondario a principale, installazione di un impianto tecnico nonché di una canna fumaria, in sanatoria”, nonché della previacomunicazione dell’Ufficio urbanistica ed edilizia privata del Comune di Merano; della comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento della domanda da parte del Comune di Merano; della comunicazione dell’Ufficio urbanistica ed edilizia privata del Comune di Merano; della comunicazione dell’Ufficio urbanistica ed edilizia privata del Comune di Merano, nonché di ogni ulteriore atto presupposto, anche non conosciuto, infraprocedimentale, connesso e conseguente. I giudici del Collegio rilevano che l’impugnato provvedimento di rigetto si fonda sul presupposto che “L’installazione della canna fumaria per dimensioni e struttura, risulta essere intervento in facciata lesivo del decoro architettonico dell’edificio, necessitando del consenso condominiale all’unanimità dei comproprietari, non prodotto. La modifica dell’utilizzo dei locali al piano cantina da secondario a principale, che vede nell’installazione di un impianto tecnico e soprattutto, per quanto qui rilevante, di una canna fumaria un presupposto indispensabile, è conseguentemente respinta. Parimenti e per le stesse motivazioni respinta l’istanza di scissione del procedimento con rilascio di concessione edilizia parziale per la modifica di utilizzo dei locali al piano cantina da secondario a principale”. E’ evidente, a parere dei giudici del TAR, che il diniego della sanatoria è fondato sulla lesione del decoro architettonico dell’edificio, necessitando pertanto il consenso condominiale all’unanimità. Il Collegio osserva, a tal proposito, che: “in base alla pacifica giurisprudenza, per “decoro architettonico” deve intendersi l'estetica dell'edificio, costituita dall'insieme delle linee e delle strutture ornamentali che ne costituiscono la nota dominante ed imprimono alle varie parti di esso una sua determinata, armonica fisionomia, senza che occorra che si tratti di edifici di particolare pregio artistico (cfr. Cass. Civ. 1718/2016; 10350/11; 27551/05), e per innovazione lesiva del decoro architettonico si intende non solo quella che alteri le linee architettoniche dell’edificio, ma anche quella che comunque si rifletta negativamente sull’aspetto armonico di esso, a prescindere dal pregio estetico che possa avere l’edificio (cfr. Cass. Civ. n. 20985/2014). In ordine alla collocazione di canne fumarie sul muro perimetrale di un edificio la giurisprudenza amministrativa afferma che “in base alla pacifica giurisprudenza, per “decoro architettonico” deve intendersi l'estetica dell'edificio, costituita dall'insieme delle linee e delle strutture ornamentali che ne costituiscono la nota dominante ed imprimono alle varie parti di esso una sua determinata, armonica fisionomia, senza che occorra che si tratti di edifici di particolare pregio artistico (cfr. Cass. Civ. 1718/2016; 10350/11; 27551/05), e per innovazione lesiva del decoro architettonico si intende non solo quella che alteri le linee architettoniche dell’edificio, ma anche quella che comunque si rifletta negativamente sull’aspetto armonico di esso, a prescindere dal pregio estetico che possa avere l’edificio (cfr. Cass. Civ. n. 20985/2014).” I giudici del Collegio sostengono che si tratti, pertanto, di un manufatto, che tocca gli interessi e i diritti egli altri condomini, in quanto pregiudica l’armonia ed il decoro della facciata dell’edificio, soprattutto, determinato dalla funzione della canna di espulsione, che è di espellere verso l’esterno fumi, vapori e odori vari derivanti. In conclusione, il TAR, sulla scorta di recente e precedente giurisprudenza, sostiene che: “Come affermato dalla giurisprudenza, la necessità di acquisire il previo assenso dei condomini risponde (anche) all’esigenza di prevenire controversie in ordine alla gestione della cosa comune ed alla potenziale lesione delle prerogative proprietarie (cfr. TAR Reggio Calabria, 6.2.2017, n. 85).In riferimento alla relativa censura, osserva il collegio che la dimostrazione della disponibilità del consenso unanime dei condomini rientra, invero, nell’ambito dell’istruttoria preliminare tesa alla verifica della sussistenza, in capo al richiedente, della necessaria legittimazione ad ottenere il titolo edilizio.” Ed ancora, puntualizza che: “Pertanto tale attività, riguardando la mera regolarità formale dell’istanza di concessione edilizia (nel caso di specie in sanatoria), si distingue da quelle elencate all’art. 70 L.U.P., soggette ex lege al parere della commissione edilizia comunale, cui spetta esprimersi riguardo agli aspetti urbanistici, edilizi e architettonici del progetto presentato dall’istante.Né è qui conferente il richiamo alla disciplina prevista dall’art. 19, comma 3 della legge n. 241/1990, perché in tale ipotesi la SCIA deve precedere l’inizio dell’attività mentre nel caso in esame è avvenuto esattamente il contrario, atteso che il mutamento di destinazione d’uso del locale interrato p.m. 12 e l’installazione della canna fumaria sulla facciata dell’edificio p.ed. 194/1 era già stato effettuato al momento della presentazione della richiesta di concessione edilizia in sanatoria.Conseguentemente, non rileva nel presente giudizio procedere all’esame della manifesta fondatezza o infondatezza dell’eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 21bis della L.P. n. 17 del 1993, nonché degli artt. 132 e 84/bis L.P. n. 13/1997, perviolazione degli artt. 3 e 117, co 1, lett. m), della Costituzione in relazione agli artt. 19 e 29 della L. n. 241/1990.” |
Inserito in data 22/02/2018 TAR CALABRIA – Catanzaro, Seconda Sezione, sentenza n. 496 del 21 febbraio 2018 La competenza del giudice ordinario nel fallimento della società in house La Banca S. S.p.A. promuove un giudizio, in sede ammnistrativa, contro il Comune Cerenzia, il Comune Ciro', il Comune Crucoli, il Comune Melissa, il Comune San Nicola dell'Alto ed il Comune Scandale e nei confronti della società So. al fine di ottenere la condanna al risarcimento dei danni conseguenti al fallimento della società So.. La Banca S. S.p.A. chiede al giudiceamministrativo di accertare l’illiceità delle condotte, attive e omissive, ascrivibili alle Amministrazioni intimate, poste in essere nella gestione di una società in house, al fine di dimostrarne la responsabilità nel fallimento di questa e, di conseguenza, nell’inadempimento alle obbligazioni assunte. Il giudice amministrativo adito statuisce di non essere competente a conoscere della vicenda, ritenendo altresì che la competenza sia del giudice ordinario. Attraverso un articolato quadro giurisprudenziale, il TAR sostiene che la società per azioni con partecipazione pubblica non muta la sua natura di soggetto di diritto privato, anche se la P.A. possiede, in tutto o in parte, le azioni, in quanto il rapporto tra società ed ente locale è di assoluta autonomia, ed in particolare decide quanto segue: “E’ evidente, infatti, come l’attività censurata s’inquadri nell’ambito di moduli di carattere privatistico, riguardando le forme dell’esercizio (o del mancato esercizio) degli ordinari poteri dell’azionista pubblico.Né può invocarsi la giurisdizione esclusiva prevista nel settore di pubblici servizi, che richiede il necessario concorso di due presupposti: a) l’uno soggettivo, consistente nel rientrare il soggetto intimato fra le “pubbliche amministrazioni”, come definite dal comma 2 dell’art. 7 del c.p.a.; b) l’altro oggettivo, consistente nell’avere la controversia ad oggetto, non qualsivoglia atto o attività dei soggetti suindicati, ma atti o condotte riconducibili all’esercizio delle funzioni istituzionali del soggetto procedente (cfr. Cass. civ., Sez. un., 23 ottobre 2017, n. 24968 e 24 luglio 2013 n. 17935; Cons. Stato, Sez. IV, 12 marzo 2015 n. 1299).Mentre, nella fattispecie, per come detto, manca “la riconducibilità dell’atto, del provvedimento o del comportamento all’esercizio di un pubblico potere” (cfr. Cass. civ., Sez. un., 22 dicembre 2011 n. 28330).Come pure non vale il fatto che ad essere dichiarata fallita sia – secondo la tesi del ricorrente, contestata dalla Provincia di Crotone – una società in house, posto che l’art. 1, comma 3, del D.lgs. n. 175/2016 ha oramai eliminato ogni dubbio circa l’inquadramento privatistico di quest’ultima.Infatti, la società per azioni con partecipazione pubblica non muta la sua natura di soggetto di diritto privato, sol perché la P.A. ne possegga – in tutto o in parte – le azioni, in quanto il rapporto tra società ed ente locale è di assoluta autonomia, al soggetto pubblico non essendo consentito incidere unilateralmente sullo svolgimento del rapporto medesimo e sull’attività mediante l’esercizio di poteri autoritativi o discrezionali, potendo solo avvalersi degli strumenti previsti dal diritto societario (cfr. Cass. civ., Sez. un., 14 settembre 2017 n. 21299, 1 dicembre 2016 n. 24591 e 23 gennaio 2015 n. 1237).” |
Inserito in data 19/02/2018 CONSIGLIO DI STATO, Terza Sezione, sentenza n. 999 del 16 febbraio 2018 La giurisdizione del giudice amministrativo nella ricusazione del contrassegno dell’associazione per l’ammissione alle elezioni politiche. L’Associazione Politica N. propone appello contro il Ministero dell’Interno al fine di ottenere la riforma della sentenza emessa dal TAR Lazio, vertente l’annullamento della ricusazione del contrassegno dell’associazione per l’ammissione alle elezioni politiche del 04 marzo 2018 di Camera e Senato. Il giudice di prime cure sostiene che, a norma dell’art. 129 c.p.a., i procedimenti elettorali preparatori delle elezioni politiche non rientrano nella giurisdizione del giudice amministrativo e neanche nella giurisdizione del giudice ordinario. l’Associazione Politica N. propone appello avverso tale decisione ed insiste per l’accoglimento della domanda proposta in primo grado, senza articolare specifici motivi di gravame avverso la decisione impugnata. In occasione dell’esame del caso di specie, i giudici del Collegio affrontano la problematica legata alla giurisdizione del giudice amministrativo in materia di operazioni elettorali, statuendo quanto segue: “Ai sensi del combinato disposto degli artt. 126 e 129 del codice del processo amministrativo, Il giudice amministrativo ha giurisdizione in materia di operazioni elettorali relative al rinnovo degli organi elettivi dei comuni, delle province, delle regioni e all'elezione dei membri del Parlamento europeo spettanti all'Italia, ma non anche in materia di elezioni “politiche” nazionali.Tali norme delimitano con chiarezza l’ambito di estensione della giurisdizione amministrativa in materia di contenzioso elettorale, dal quale sono escluse le controversie – come quella oggetto del presente appello - concernenti l’esclusione delle liste dalle elezioni politiche e, dunque, riferite al procedimento elettorale preparatorio per le elezioni politiche alla Camera dei Deputati e al Senato della Repubblica.Peraltro la legge delega n. 69 del 2009, nell’ambito del riassetto del processo amministrativo, aveva conferito al Governo il potere di introdurre “la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo nelle controversie concernenti atti del procedimento elettorale preparatorio per le elezioni per il rinnovo della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica”, ma non è stata, sul punto, esercitata.” Dal quadro normativo delineato dal Consiglio di Stato si individua chiaramente l’ambito di estensione della giurisdizione amministrativa in materia di contenzioso elettorale: le controversie, concernenti l’esclusione delle liste dalle elezioni politiche, sono escluse dalla giurisdizione del giudice amministrativo e pertanto, anche il caso contemplato dall’appello in esame, non può rientrare nella giurisdizione del giudice amministrativo. I giudici del Collegio precisano inoltre che i mezzi di tutela avverso i provvedimenti simili all’oggetto dell’odierna impugnazione sono disciplinati dall’art. 23 del D.P.R. n. 361 del 1957, il quale sancisceche avverso le decisioni di eliminazione di liste o di candidati adottate dall'Ufficio centrale circoscrizionale, può essere proposto ricorso all'Ufficio centrale nazionale, istituito presso la Corte Suprema di Cassazione. In conclusione, il Consiglio di Stato statuisce che: “Anche la giurisprudenza della Corte di Cassazione è orientata in tal senso avendo precisato che “né il giudice amministrativo né il giudice ordinario sono dotati di giurisdizione” in relazione a controversie concernenti l’ammissione e/o l’esclusione delle liste dei candidati (cfr. Cass. S.U, n. 9151 del 2008), ponendo in evidenza che gli organi a cui risulta affidato il compito di definire le controversie di cui si discute, seppure privi della natura giurisdizionale, sono comunque in grado di garantire la necessaria imparzialità e indipendenza, fornendo un servizio di verifica delle fasi preliminari e delle operazioni preparatorie del procedimento elettorale che può assimilarsi a quello svolto in sede giurisdizionale. Peraltro, l’attribuzione della competenza a decidere i reclami contro le esclusioni delle liste e dei candidati adottate, ai sensi dell’art. 22 del D.P.R. n. 361 del 1957, dall’Ufficio Centrale Circoscrizionale (costituito presso la Corte d’Appello o il Tribunale competente) innanzi all’Ufficio Elettorale Centrale Nazionale (costituito presso la Corte di Cassazione), tenuto conto dalla sua composizione soggettiva (essendo i relativi membri tutti magistrati, ai sensi degli artt. 12 e 13 del D.P.R. n. 361 del 1957), garantisce la necessaria imparzialità e indipendenza, in quanto organo neutrale e titolare di funzioni di controllo esterno espletate in posizione di terzietà ed indipendenza.” |
Inserito in data 16/02/2018 CONSIGLIO DI STATO, Terza Sezione, sentenza n. 971 del 15 febbraio 2018 Elementi determinati per individuare il pericolo di infiltrazione mafiosa. Il Ministero dell’Interno e l’Ufficio Territoriale del Governo Genova propone appello contro Caio al fine di ottenere la riforma della sentenza emessa dal TAR concernente l’annullamento del provvedimento di cancellazione dall’elenco provinciale dei fornitori, prestatori di servizi ed esecutori di lavori non soggetti a tentativo di infiltrazione mafiosa, operanti nei settori esposti maggiormente a rischio (cd. “whitelist”). Le Amministrazioni appellanti contestano gli assunti in cui si articola la motivazione della sentenza appellata, sostenendo, con il supporto di richiami giurisprudenziali, che gli elementi fattuali sulla base dei quali è stata condotta l’analisi, si possa correttamente desumere il pericolo di infiltrazione mafiosa nell’impresa appellata. In occasione del caso di specie, il Consiglio di Stato si pronuncia in merito alle condizioni necessarie affinchè la Prefettura, nell’esercizio di un potere di estrema delicatezza, possa attribuire rilevanza indiziaria nei confronti di un’impresa commerciale ad eventuali rapporti parenterali in ordine al pericolo della sua condizionabilità criminale. Attraverso la ricostruzione di un vasto quadro giurisprudenziale, i giudici della Collegio hanno statuito che: “i legami familiari non sono sufficienti a denotare il pericolo di condizionamento mafioso, se non si colorino di ulteriori connotati – di cui è onere dell’Amministrazione dare conto nel contesto motivazionale del provvedimento interdittivo, dopo averli puntualmente lumeggiati in sede istruttoria – atti ad attribuire ad essi valore sintomatico di un collegamento che vada oltre il mero e passivo dato genealogico, ma si traduca nella volontaria condivisione di aspetti importanti di vita quotidiana ovvero, nelle ipotesi di maggiore evidenza dell’influenza mafiosa, nella sussistenza di cointeressenze economiche e commistioni imprenditoriali. E’ quindi evidente che, se il dato parentale può essere tipizzato nella sua graduazione ed intensità (secondo i criteri classificatori dettati dagli artt. 74 ss c.c.), non altrettanto prevedibili e schematizzabili si presentano gli elementi suscettibili di attribuire ad esso significato indiziante, dei quali è rimesso alla discrezionalità dell’Amministrazione valutare il peso in ciascuna specifica vicenda: elementi che possono risultare intrinseci al rapporto parentale (quando esso si presenti connotato da particolare intensità) o alla sua genesi (quando la stessa costituzione del rapporto appaia funzionale, in relazione alle concrete circostanze, ad instaurare un legame di carattere mafioso), ovvero collocarsi sul piano delle modalità della sua concreta “gestione” (in termini di forme ed intensità di frequentazione), o ancora situarsi nel contesto anche ambientale che fa da sfondo al rapporto familiare. Tali ulteriori elementi qualificanti tuttavia, per consentire di fondarvi il ragionamento logico-presuntivo che mette capo alla valutazione di permeabilità criminale dell’impresa, devono essere dotati di sufficienti requisiti di certezza storico-fattuale, mentre la catena deduttiva che di essi si alimenta per approdare alla conclusione interdittiva deve ispirarsi a canoni di logica e verosimiglianza, la cui corretta applicazione spetta in ultima analisi al giudice, nella eventuale sede contenziosa, verificare.” Il Collegio ritiene che, attraverso l’atto di appello, l’Amministrazione ha attribuito valore sintomatico del pericolo di ingerenza mafiosa nella gestione dell’impresa della società appellata al rapporto di coniugio esistente tra i soci e amministratore unico della società appellata ed il sig. Sempronio, pregiudicato e destinatario di misure di prevenzione personale e patrimoniale, oltre che a sua volta condannato per fatti riconducibili a faide mafiose.In realtà, i giudici del Collegio sostengono che l’Amministrazione non sia stata in grado di fornire elementi valutativi idonei a far trasmodare il mero rapporto di affinità in un vero e proprio collegamento rilevante per gli effetti della prevenzione antimafia. A tal proposito, il Consiglio di Stato conclude statuendo che: “a prescindere dal carattere risalente di tali episodi e dal fatto che essi non hanno costituito oggetto di alcun accertamento giudiziario, deve rilevarsi che anche il potere preventivo in materia antimafia, nonostante la funzione anticipatrice della soglia di difesa sociale che allo stesso viene pacificamente riconosciuta, non può fondarsi su valutazioni di carattere personalistico e/o soggettivistico, sganciate da comportamenti materiali che denotino la propensione, o comunque l’influenzabilità mafiosa del soggetto. Nella specie, le condotte criminose del -OMISSIS- non vengono censurate per sé stesse, ma perché ritenute sintomatiche di una “personalità mafiosa” che tuttavia, per poter essere ragionevolmente configurata, richiederebbe l’imputabilità al suddetto di azioni effettivamente riconducibili al modus operandi proprio delle organizzazioni criminali (e non solo espressive di una generica ed astratta “mentalità” mafiosa). Deve solo aggiungersi che questo giudice è consapevole che gli elementi indiziari menzionati nel provvedimento interdittivo non possono costituire l’oggetto di una disamina parcellizzata, dovendo essere soppesati nell’ottica di una analisi e di una visione complessive e d’insieme: deve tuttavia ritenersi che i singoli segmenti del quadro valutativo posto dall’Amministrazione a fondamento della prognosi di condizionamento mafioso devono comunque essere caratterizzati da un minimum di pregnanza indiziaria, in mancanza del quale il costrutto indiziario elaborato dall’Amministrazione, pur fondato su una pluralità di elementi, rivela la sua intrinseca fragilità.” |
Inserito in data 15/02/2018 TAR Lazio – Roma, Sezione Prima, sentenza n. 1739 del 14 febbraio 2018 La c.d. informativa economica di sistema (IES) La Google Ireland Limited propone ricorso contro l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e nei confronti di F. s.r.l. al fine di ottenere l’annullamento della delibera, a mezzo della quale, la predetta l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ha ricompreso le concessionarie di pubblicità attive sul web e le società con sede all’estero tra i soggetti obbligati a comunicare la c.d. informativa economica di sistema (IES). Le ricorrenti chiedono anche l’accertamento dell’inesistenza dei presupposti legali per imporre ad esse, l’obbligo di comunicazione della IES ai sensi della vigente normativa. Le ricorrenti puntualizzano di essere, rispettivamente, una società di diritto irlandese del gruppo Google, che sottoscrive in Italia i contratti con gli inserzionisti pubblicitari, senza operare nel settore audiovisivo o in quello editoriale e una società che svolge attività di consulenza a favore di altre società del gruppo Google in materia di marketing, servizi legali, relazione istituzionali, ricerca della clientela. Le predette ricorrenti infine rilevano che l’informativa economica di sistema sia una comunicazione annuale di dati contabili ed extracontabili prevista dall’art. 1, commi 28 – 30, della legge n. 650/1996, al cui invio sono obbligati gli operatori dei settori dell’editoria e della radiodiffusione sonora e televisiva ed inoltre, le ricorrenti ritengono di non rientrare in alcuna di dette tipologie e pertanto, l’AgCom le avrebbe sottoposte all’adempimento illegittimamente, con la delibera gravata. Il Collegio rileva in punto di fatto che la comunicazione, come risulta dal modello allegato alla delibera gravata, vanta come oggetto, oltre ad alcune informazioni concernenti il soggetto dichiarante, una serie di dati riguardanti i ricavi relativi all’anno precedente. A tal proposito, precisa che: “I dati raccolti vengono quindi utilizzati, tra l’altro, per la valorizzazione del sistema integrato delle comunicazioni (SIC), in relazione al quale l’art. 43 del d.lgs. 31 luglio 2005, n.177 (TUSMAR) ha affidato all’AgCom il compito di verificare l’esistenza di posizioni dominanti nel sistema integrato delle comunicazioni e di adottare le determinazioni necessarie ad eliminarle o ad impedirne la formazione.In particolare, il comma 9 del citato articolo 43 stabilisce che “Fermo restando il divieto di costituzione di posizioni dominanti nei singoli mercati che compongono il sistema integrato delle comunicazioni, i soggetti tenuti all'iscrizione nel registro degli operatori di comunicazione costituito ai sensi dell' articolo 1, comma 6, lettera a), numero 5), della legge 31 luglio 1997, n. 249, non possono né direttamente, né attraverso soggetti controllati o collegati ai sensi dei commi 14 e 15, conseguire ricavi superiori al 20 per cento dei ricavi complessivi del sistema integrato delle comunicazioni”.Il successivo comma 10 - nel testo modificato dall’articolo 3, comma 5-bis, del d.l. 18 maggio 2012, n. 63, convertito, con modificazioni, nella legge 16 luglio 2012, n. 103, vigente al momento dell’adozione della delibera impugnata - stabilisce che “I ricavi di cui al comma 9 sono quelli derivanti dal finanziamento del servizio pubblico radiotelevisivo al netto dei diritti dell'erario, da pubblicità nazionale e locale anche in forma diretta, da televendite, da sponsorizzazioni, da attività di diffusione del prodotto realizzata al punto vendita con esclusione di azioni sui prezzi, da convenzioni con soggetti pubblici a carattere continuativo e da provvidenze pubbliche erogate direttamente ai soggetti esercenti le attività indicate all'articolo 2, comma 1, lettera s), da offerte televisive a pagamento, dagli abbonamenti e dalla vendita di quotidiani e periodici inclusi i prodotti librari e fonografici commercializzati in allegato, nonché dalle agenzie di stampa a carattere nazionale, dall'editoria elettronica e annuaristica anche per il tramite di internet, da pubblicità on line e sulle diverse piattaforme anche in forma diretta, incluse le risorse raccolte da motori di ricerca, da piattaforme sociali e di condivisione, e dalla utilizzazione delle opere cinematografiche nelle diverse forme di fruizione del pubblico”, così espressamente prevedendo, tra i ricavi rilevanti ai fini della verifica del pluralismo nel mercato pubblicitario, quelli derivanti dall’attività di raccolta di pubblicità on line.Proprio al fine di adeguare la raccolta di dati contenuti nella IES alla specifica finalità di redazione del SIC, l’Autorità ha adottato il provvedimento impugnato, nel quale, ridefinendo i soggetti obbligati alla comunicazione dei ricavi, ha incluso le imprese concessionarie di pubblicità che esercitano, direttamente o per contro terzi, attività di negoziazione o conclusione di contratti di vendita di spazi pubblicitari da trasmettere sul web e, limitatamente ai ricavi realizzati sul territorio nazionale, le società aventi sede all’estero, ancorché non direttamente operanti nel settore radio televisivo o dell’editoria.” I giudici chiariscono che la ridefinizione dei soggetti obbligati a comunicare l’IES si basa su un chiaro fondamento normativo, rispondendo, più in generale, ad una necessaria esigenza “di interpretazione adeguatrice e finalistica delle norme”, apparendo coerente con tutta una serie di previsioni, nazionali e comunitarie cheequiparano le attività svolte sul web a quelle più tradizionali nel campo delle comunicazioni. Tale decisione viene operata dai giudici del TAR, riprendendo quanto recentemente espresso dal Consiglio di Stato, che, seppure con riferimento a fattispecie relativa ad una diversa ipotesi di estensione dei soggetti tenuti alla comunicazione dell’IES, ha osservato che l’art. 1, comma 28, del D.L. n. 545 del 1996, non propone un rigido e chiuso catalogo di fattispecie, ma, alla luce della sua ratio nonché dell’utilizzo di formule generali, si presenta come una clausola aperta, che fonda il potere dell’Autorità di determinare, anche dal punto di vista soggettivo, le modalità applicative della IES (cft.Consiglio di Stato, sez. III, 5 febbraio 2015, n. 582). A tal riguardo, il Collegio rileva infine che: “L’opzione interpretativa proposta in gravame, dunque, al pari di quella prospettata nel ricorso all’esame del giudice di appello, condurrebbe “all’inaccettabile conseguenza di precludere la conoscenza di un segmento rilevante del mercato, che resterebbe, quindi, sconosciuto alla stessa, con un’evidente e inaccettabile menomazione delle possibilità conoscitive che, invece, la normativa di riferimento ha voluto assicurare, in misura integrale, alle Autorità di regolazione” (Consiglio di Stato, n. 582/2005).” |
Inserito in data 13/02/2018 CONSIGLIO DI STATO, Sesta Sezione, sentenza n. 873 del 12 febbraio 2018 Al rapporto di concessione demaniale marittima trova applicazione la statuizione della Corte di giustizia, per cui l’articolo 12, paragrafi 1 e 2 della direttiva 2006/123/CE. La Regione autonoma della Sardegna propone appello contro il Comune di Portoscuso e nei confronti di S. G. s.r.l. per la riforma della sentenza emessa dal TAR Sardegna, concernete la proroga della concessione demaniale marittima. In occasione dell’esame del caso di specie, i giudici del Consiglio di Stato esaminano una problematica rilevante i presupposti per le concessioni demaniali marittime. In particolare, la concessione oggetto di appello, rilasciata dalla Capitaneria di Porto di Cagliari in favore della S. s.r.l. ha ad oggetto un’area demaniale di mq 75.745,00 di specchio acqueo e un’area di mq 2.455,00 a terra “costituenti il porto destinato al diporto nautico nonché alla pesca situato nel Comune di Portoscuso, con tutte le relative pertinenza demaniali comprensive anche dei pontili galleggianti posti in opera a cura della Regione Autonoma della Sardegna – Assessorato Lavori Pubblici - allo scopo di mantenerlo e gestirlo direttamente come approdo turistico (…)”, verso il pagamento del canone ivi stabilito e con l’obbligo di riconsegna del bene alla scadenza all’Amministrazione marittima, “salvo che questa non consenta di presentare la presente licenza su nuova domanda, da presentarsi prima di detta scadenza, in modo che all’epoca in cui questa dovrà verificarsi sino pagati il canone e le tasse relative al nuovo periodo della concessione” Il Collegio sostiene che si tratti di bene infungibile di scarsa risorsa naturale e che formi oggetto di un numero limitato di autorizzazioni, rientrando, pertanto, nell’ambito di applicabilità dell’art. 12 della direttiva 2006/123/CE. I Giudici ritengono, in particolare, che “Al rapporto concessorio in esame trova dunque applicazione la statuizione della Corte di giustizia, per cui l’articolo 12, paragrafi 1 e 2 della direttiva 2006/123/CE deve essere interpretato nel senso che osta a una misura nazionale, come quella di cui agli articoli 1, comma 18, del decreto legge n. 194/2009, convertito con legge n.25/2010, e 34-duodecies del decreto legge n. 179/2012, convertito con l. n. 221/12, che prevede la proroga automatica delle autorizzazioni demaniali marittime e lacuali in essere per le attività ivi contemplate, in assenza di qualsiasi procedura di selezione tra i potenziali candidati (v. punto 57 della sentenza), poiché una normativa nazionale quale quella sopra citata, che prevede una proroga ex lege della data di scadenza delle autorizzazioni equivale a un loro rinnovo automatico, che è escluso dai termini stessi dell’articolo 12, paragrafo 2, della direttiva 2006/123/CE. Né nel caso di specie può trovare applicazione, ai fini dell’invocata tutela dell’affidamento, la fattispecie limitativa di cui al paragrafo 3 dell’articolo 12 della direttiva 2006/123/CE (per cui «[…] gli Stati membri possono tener conto, nello stabilire le regole della procedura di selezione, di considerazioni di salute pubblica, di obiettivi di politica sociale, della salute e della sicurezza dei lavoratori dipendenti ed autonomi, della protezione dell’ambiente, della salvaguardia del patrimonio culturale e di altri motivi imperativi d’interesse generale conformi al diritto [dell’Unione]»)” Il Consiglio di Stato puntualizza che: “secondo la Corte di giustizia, l’articolo 49 TFUE – che garantisce la libertà di stabilimento dei cittadini di uno Stato membro nel territorio di un altro Stato membro – osta a una normativa nazionale che consente una proroga automatica delle concessioni demaniali marittime in essere, nei limiti in cui tali concessioni presentano un interesse transfrontaliero certo (v. punto 74 della sentenza), poiché il loro rilascio in totale assenza di trasparenza ad un’impresa con sede nello Stato membro dell’amministrazione concedente costituisce una disparità di trattamento a danno di imprese con sede in un altro Stato membro che potrebbero essere interessate alle concessioni. Si precisa, con riguardo a quest’ultimo punto, che – come già rilevato nella sentenza parziale con contestuale ordinanza di rinvio pregiudiziale n. 3936/2015 – la concessione in questione presenta un interesse transfrontaliero certo, in considerazione dei criteri elaborati dalla Corte di giustizia e, segnatamente, quelli del luogo geografico di collocazione del bene demaniale e del valore economico della concessione medesima, in correlazione con il tipo di attività da svolgere, nonché dell’assenza di elementi di specificità tali da concentrare l’interesse a conseguirla solo in capo alle imprese stabilite in un delimitato ambito territoriale.” In conclusione, i Giudici del Consiglio di Stato statuiscono che devono trovare accoglimento le statuizioni di annullamento adottate nell’impugnata sentenza, seppure con una motivazione diversa da quella sviluppata dal TAR., ossia non perché il rapporto concessorio non sia assoggettabile alla disciplina della proroga ex lege di cui agli articoli 1, comma 18, del decreto legge n. 194/2009, convertito con la legge n.25/2010, e 34-duodecies del decreto legge n. 179/2012, convertito con la legge n. 221/12, ma per il contrasto di detta disciplina di proroga legale con l’ordinamento eurounitario. |
Inserito in data 06/02/2018 CONSIGLIO DI STATO, Terza Sezione, sentenza n. 744 del 5 febbraio 2018 Sull’utilizzo della firma digitale alla luce delle norme disciplinanti il P.A.T. Il sindaco di Codogno, candidato alle elezioni del Presidente della Provincia di Lodi, propone appello contro il sig. Gi. Ru. E nei confronti dell’Ufficio Elettorale Provinciale di Lodi al fine di ottenere la riforma della sentenza del TAR Lombardia – Milano resa tra le parti, in merito alla ricusazione della candidatura alle lezioni di presidente della Provincia di Lodi. In tale occasione, avanti i giudici del Consiglio di Stato viene affrontata la problematica inerente ad una delle possibili causa d’inammissibilità dell’appello. “L’appellante lamenta, nello specifico, che la procura alle liti è una copia digitale per immagini priva dell’attestazione di conformità all’originale di cui all’art. 22 del c.a.d., in violazione degli artt. 136, comma 2-ter, cod. proc. amm., 8, comma 2, e 14 dell’Allegato del d.P.C.M. 40/2016, con conseguente difetto dello iuspostulandi; nullità dell’appello e della procura alle liti, in quanto i relativi file sono stati sottoscritti con firma digitale PAdES-BASIC, anziché PAdES-BES come prescritto dall’art. 24 del c.a.d. richiamato dall’art. 9 del d.P.C.M., cit. e dal successivo art. 12, comma 6 dell’Allegato.” Il Collegio, sotto tale profilo, statuisce che: “l'asseverazione della procura risulta effettuata mediante attestazione in calce al documento depositato; senza contare che, in ogni caso, l'irregolarità degli atti redatti in violazione delle norme disciplinanti il P.A.T. sarebbe sanabile mediante l'assegnazione di un termine perentorio per la regolarizzazione nelle forme di legge (cfr. Cons. Stato, IV, n. 1541/2017; V, n. 652/2018); l'utilizzazione per la firma digitale di un formato diverso da quello prescritto dalle norme tecniche costituisce difformità che, in applicazione dell'art. 156, comma 3, c.p.c., non si traduce in nullità, avendo l'atto raggiunto il suo scopo; infatti, il rilievo di vizi fondati sulla pretesa violazione di norme di rito non è volto a tutelare l'interesse all'astratta regolarità del processo, ma a garantire solo l'eliminazione del pregiudizio subito dal diritto di difesa della parte in conseguenza della rilevata violazione (cfr. Cass. Civ., S.U., n. 7665/2016).” |
Inserito in data 05/02/2018 CONSIGLIO DI STATO, Quinta Sezione, sentenza n. 693 del 2 febbraio 2018 La lettera di invito nella procedura negoziata “snella”. La S. s.r.l. propone appello contro il Comune di Santa Maria La Longa e nei confronti della Ri. S.r.l. al fine di ottenere la riforma della sentenza emessa dal TAR Friuli Venezia Giulia, concernente l’aggiudicazione dei lavori di manutenzione straordinaria della palestra comunale – fornitura e posa in opera di nuova pavimentazione a seguito della procedura negoziata semplificata ex art. 36, co. 2, lettera b) del D. Lgs. n. 50 del 2016,alla società Ri. S.r.l., avendo offerto il maggior ribasso. La società appellante sostiene, nel suo unico motivo di appello, che la controinteressata doveva essere esclusa dalla gara in quanto non ha rispettato la previsione dell’Allegato A sul disciplinare di gara, il quale impone, a pena di esclusione, la presentazione in sede di gara delle certificazioni dei materiali offerti per la realizzazione della pavimentazione della palestra. Tale manchevolezza non poteva essere sanata dalla controinteressata con il ricorso al soccorso istruttorio. Il Collegio accoglie le doglianze della società appellante. I giudici del Consiglio di Stato osservano, in punto di fatto, che il materiale da utilizzare per il rifacimento della palestra comunale era di qualità deteriore, rispetto alle caratteristiche indicate in maniera dettagliata nell’allegato “A” della lettera di invito.Quest’ultima sancisce l’esclusione nell’ipotesi in cui: la “fornitura di materiale con caratteristiche, anche in parte, diverse da quelle riportate nel sopraccitato allegato “A””. Il caso esaminato rientra nella procedura negoziata indetta, ai sensi dell’art. 36 comma 2 lett. b) del d. lgs. n. 50 del 2016, e prevista per le gare sotto soglia, quindi senza previo bando di gara e pertanto, governata dalla lettera di invito che svolge anche il ruolo di disciplinare di gara. Il Collegio sostiene in punto di diritto quanto segue: “Ma le forme maggiormente snelle della procedura negoziata non permettono che la lettera di invito posta a governo della procedura ed in cui sono fissate le regole procedurali preventive di qualificazione soggettiva ed oggettiva e di selezione che presiedono alla scelta del contraente venga a perdere il carattere normativo - procedimentale di lexspecialis, per cui nella sua specifica funzione di atto di portata precettiva non può essere derogato, né possono prevalerne interpretazioni ambigue, come il successivo richiamo ai requisiti richiesti come unico limite alla partecipazione, laddove la medesima lettera rechi tra le sue regole cardine indicate nel capo I e particolarmente evidenziate la non ammissibilità di materiale con caratteristiche differenti da quelle specificamente riportate l’allegato A che è parte integrante e sostanziale della stessa lettera di invito.” In conclusione, l’offerta della Ri. S.r.l. non deve essere accolta, in quanto è palesemente difforme con quanto previsto dall’allegato A. L’appellante S. s.r.l. deve essere conseguentemente ritenuta come aggiudicataria della gara, essendo la seconda classificata ed unica ditta ad essersi operata a produrre i certificati di qualità corrispondenti a quanto richiesto dalla lettera di invito. Precisano i giudici del Consiglio di Stato che i lavori essendo ormai conclusi, si può riconoscere il risarcimento in via equivalente dell’utile dell’impresa commisurato nel 5% dell’importo offerto in gara secondo un corrente id quodplerumqueaccidit. |
Inserito in data 02/02/2018 TAR Lazio – Roma, Prima Sezione, sentenza n. 1210 del 1 febbraio 2018 Art. 8, comma 1bis, della l. n. 374/1991 Il dott. Br. Ma. impugna il decreto, a mezzo del quale il Ministero della Giustizia ha stabilito di non confermare il suo incarico di Giudice di Pace ed anche la delibera del medesimo contenuto, emessa dal Consiglio Superiore della Magistratura. In punto di fatto, il dott. Br. Ma.espone di essere stato immesso nelle funzioni di Giudice di Pace, a seguito di concorso per titoli e di tirocinio; con delibera del Consiglio Superiore della Magistratura del 2006, era stato confermato per il secondo mandato quadriennale. In data 15.10.2009, il ricorrentepresenta domanda per la conferma del terzo mandato quadriennale, allegando sentenze e verbali di udienza al fine di ottenere il prescritto parere. Il Coordinatore dell’Ufficio del Giudice di Pace, esprime parere favorevole alla conferma; ma il Presidente del Tribunaleesprime perplessità in merito, rilevando che dalla lettura delle sentenze, di cui molte relative ad opposizioni a sanzioni per violazione del codice della strada (in particolare sull’uso di autovelox) risulta che le motivazioni non tengono conto del costante orientamento della Corte di Cassazione e denotano un insufficiente aggiornamento giurisprudenziale. Il Consiglio Giudiziario esprime parere contrario alla conferma del dott. Ma., a causa:dei numerosi rinvii di udienze per impedimento del giudice;delle “perplessità” espresse dal Presidente del Tribunale in merito alla motivazione di alcuni provvedimenti giudiziari;della situazione di evidente incompatibilità ambientale determinatasi con alcuni avvocati del luogo e della pendenza di un procedimento penale in fase dibattimentale per diffamazione. In occasione dell’esame del caso di specie, i giudici del Collegio fanno luce sulla problematica legata all’eventuale incompatibilità del ruolo di Giudice di Pace rispetto al circondario ove hanno svolto precedentemente la professione di avvocato. Il Collegio sostiene che: “Va premesso che, secondo l’art. 8, comma 1bis, della l. n. 374/1991, “Gli avvocati non possono esercitare le funzioni di giudice di pace nel circondario del tribunale nel quale esercitano la professione forense ovvero nel quale esercitano la professione forense i loro associati di studio, il coniuge, i conviventi, i parenti fino al secondo grado o gli affini entro il primo grado”. (…) La contestazione in ordine all’esiguità del numero dei procedimenti patrocinati non è idonea a confutare efficacemente tale assunto, se si considera che anche 7 procedimenti, tenuto conto delle dimensioni esigue dell’ufficio giudiziario e della costanza nel tempo di tale dato numerico (in quanto era stata rilevata in occasione della precedente conferma la pendenza di 17 procedimenti patrocinati dal ricorrente e 6 procedimenti patrocinati dalla moglie), integrano pienamente il presupposto previsto affinché sia ravvisata l’incompatibilità.” In merito, invece, alle problematiche attinenti alle qualità che deve possedere il Giudice di Pace, il Collegio osserva quanto segue: “Al riguardo va premesso che, in materia di nomina e conferma dei giudici di pace, l’art. 5, l. n. 374 del 1991, dopo aver individuato ai commi 1 e 3 i requisiti necessari per la nomina, stabilisce che la designazione deve cadere “su persone capaci di assolvere degnamente, per indipendenza, equilibrio e prestigio acquisito e per esperienza giuridica e culturale, le funzioni di magistrato onorario”.Come correttamente osservato nella delibera impugnata, la valutazione demandata all’organo di autogoverno della magistratura nella procedura di conferma dei giudici di pace non assume contorni distinti rispetto a quella relativa alla prima nomina, per cui anche nella fase della conferma si deve accertare la sussistenza dei requisiti previsti dal comma 3 dell’art. 5 citato, ovvero la capacità di svolgere le funzioni giudiziarie, desunta anche dall’esame dell’attività svolta.Il Consiglio Superiore della Magistratura, pertanto, sia in sede di nomina che di conferma dei giudici di pace, deve individuare coloro che appaiono in grado di assolvere degnamente le funzioni di magistrato onorario, sia per “indipendenza, equilibrio e prestigio acquisito”, sia per “esperienza giuridica e culturale” (Cons. Stato, sez. IV, 29 agosto 2013, n. 4317).” In conclusione, il TAR Lazio non accoglie i motivi del ricorso proposti dal dott. Ma. ritenendo che il CSM ha adeguatamente motivato in ordine alle ragioni della mancata riconferma, alla luce di rilievi afferenti alla quantità e qualità dell’attività giudiziaria da questi posta in essere, alla frequenza dei rinvii disposti e ai rapporti intercorsi con uno degli avvocati che esercitavano la propria attività presso l’Ufficio del Giudice di Pace ed in particolare,“La delibera ha infatti menzionato, in primo luogo, il parere in data 22 dicembre 2009 del Presidente del Tribunale di Rieti il quale ha espresso “perplessità per la conferma del giudice di pace dott. Mattei”, rilevando che dalla lettura delle sentenze, di cui molte relative ad opposizioni a sanzioni per violazione del codice della strada – in particolare sull’uso di autovelox – appariva trattarsi “di motivazioni che non tengono conto del costante orientamento della Corte di Cassazione e che denotano un insufficiente aggiornamento giurisprudenziale”, prive di esame critico degli orientamenti espressi in sede di legittimità e delle ragioni per cui ci si discosti dagli stessi ed espresse in forma seriale.”
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Inserito in data 01/02/2018 TAR LAZIO – ROMA, Prima Sezione, sentenza n. 1119 del 31 gennaio 2018 Gli illeciti anticoncorrenziali. La B.S.F.M. s.p.a. ricorre avanti al TAR Roma al fine di impugnare la nota di H. s.p.a. del 31 marzo 2017, con la quale è stata comunicata l’aggiudicazione al r.t.i. M. F. M. s.p.a. e Consorzio I. soc. coop. della procedura negoziata per l’affidamento del “servizio integrato e coordinato di manutenzione e gestione del patrimonio immobiliare, impiantistico e di tutte le attività connesse e gestione degli spazi nell’ambito dei territori di competenza di H. s.p.a. ed anche al fine di impugnare l’aggiudicazione a favore del r.t.i. M. F. M. s.p.a. e Consorzio I. soc. Coop. nonché, tutti i verbali di gara. Con il primo motivo di impugnazione, la B.S.F.M. s.p.a.lamenta l’illegittimità dell’aggiudicazione in favore del raggruppamento con capogruppo M.F. M. s.p.a.,ritenendo che quest'ultimadoveva essere esclusa in quanto la mandataria era stata sanzionata dall'Autorità garante della concorrenza e del mercato per un illecito anticoncorrenziale di particolare gravità. Le argomentazioni utilizzate dalla stazione appaltante, nei verbali in cui ha esaminato la questione, non legittimanola mancata esclusione in corso di gara, dato che haerroneamente ritenuto che la pendenza di un contenzioso sulla sanzione paralizzasse l’effetto escludente. Il Collegio accoglie tale deduzione sia in punto di fatto sia in punto di diritto. Nella motivazione, il TAR statuisce secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale che: “Con riferimento ai motivi di esclusione, l'art. 80, comma 5, del d.lgs. 50/2016 stabilisce che:<Le stazioni appaltanti escludono dalla partecipazione alla procedura d’appalto un operatore economico in una delle seguenti situazioni, anche riferita a un suo subappaltatore nei casi di cui all'articolo 105, comma 6, qualora: ... c) la stazione appaltante dimostri con mezzi adeguati che l'operatore economico si è reso colpevole di gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o affidabilità. Tra questi rientrano: le significative carenze nell’esecuzione di un precedente contratto di appalto o di concessione che ne hanno causato la risoluzione anticipata, non contestata in giudizio, ovvero confermata all'esito di un giudizio, ovvero hanno dato luogo ad una condanna al risarcimento del danno o ad altre sanzioni; il tentativo di influenzare indebitamente il processo decisionale della stazione appaltante o di ottenere informazioni riservate ai fini di proprio vantaggio; il fornire, anche per negligenza, informazioni false o fuorvianti suscettibili di influenzare le decisioni sull'esclusione, la selezione o l'aggiudicazione ovvero l'omettere le informazioni dovute ai fini del corretto svolgimento della procedura di selezione>”. I giudici del Collegio specificano che la disposizione, come peraltro secondo un pacifico orientamento giurisprudenziale, innova rispetto alla previgente disciplina contenuta nell'art. 38 d.lgs. n. 163 del 2006, individuando una nozione di “illecito professionale” che “abbraccia molteplici fattispecie, anche diverse dall'errore o negligenza, e include condotte che intervengono non solo in fase di esecuzione contrattuale, come si riteneva nella disciplina previgente (Cons. St., V, 21.7.2015 n. 3595), ma anche in fase di gara” (parere della Commissione speciale del Consiglio di Stato, 3 novembre 2016 n. 2286; nello stesso senso Consiglio di Stato, sez. V, 4 dicembre 2017, n. 5704).” Ed ancora, il TAR ritiene che la lettera c) dell’art. 80, c. 5, non contempla un numero chiuso di illeciti professionali, ma disegna una fattispecie aperta contenente una elencazione avente chiara natura esemplificativa e non tassativa, rimettendo alle stazioni appaltanti la possibilità di individuare altre ipotesi, non espressamente indicate dalla norma primaria o dalle linee guida Anac, che siano oggettivamente riconducibili alla fattispecie astratta del grave illecito professionale. Tale tesi trova riscontro nell’utilizzo dell’espressione “tra questi rientrano” e dalla correlazione dell'effetto escludente ad una particolare sintomaticità dei fatti, piuttosto che al loro inquadramento entro un concetto giuridico definito. E’conseguenza inevitabile che la necessità di una motivazione indicata ad hoc comporti per la stazione appaltante una indagine mirata al fine di scongiurare possibili pericoli. In conclusione, il TAR statuisce quanto segue: “Accertata la legittimità della ascrizione dell'illecito anticoncorrenziale ad un'ipotesi escludente, deve, poi, rilevarsi come la norma primaria non contenga, nel citato art. 80, comma 5, lettera c), un'indicazione generale di mezzi esclusivi o privilegiati di prova in ordine alla commissione dell'illecito professionale. Sul punto va, pertanto, sicuramente condivisa la prospettazione di parte ricorrente secondo cui, anche alla luce delle particolari garanzie che assistono l'adozione del provvedimento antitrust (emanazione da parte di un'autorità in posizione di terzietà, rispetto delle garanzie partecipative e del principio del contraddittorio), appare sufficiente, al fine di imporre alla stazione appaltante un onere di valutazione in ordine all'incidenza dei fatti sulla gara in corso di svolgimento, la mera idoneità del provvedimento sanzionatorio a spiegare, in via anche solo temporanea, i suoi effetti, o perché non (o non ancora) gravato o perché, ove impugnato, non sospeso, senza che rilevi se la decisione giudiziale sia stata assunta in sede cautelare o di merito e, in quest'ultimo caso, se la sentenza sia passata o meno in giudicato. La ricostruzione prospettata dalla ricorrente va pure condivisa laddove evidenzia come la pretesa definitività della sentenza offrirebbe agli operatori economici destinatari di sanzioni per comportamenti anticoncorrenziali una possibilità di elusione della disposizione in esame, attesa la necessaria delimitazione temporale della causa ostativa (nel senso della non necessità di un giudicato si è infatti espressa, modificando il suo precedente avviso, l'Anac nelle linee guida, n. 6, aggiornate con determina dell'11 ottobre 2017, ove, al punto 2.2.3.1, n. 1, menziona, tra le altre situazioni idonee a porre in dubbio l'integrità e l'affidabilità dell'operatore economico che la stazione appaltante deve valutare, i provvedimenti "esecutivi" dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato di condanna per pratiche commerciali scorrette o per illeciti antitrust gravi aventi effetti sulla contrattualistica pubblica e posti in essere nel medesimo mercato oggetto del contratto da affidare).” |
Inserito in data 30/01/2018 CONSIGLIO DI STATO, Quinta Sezione, sentenza n. 591 del 29 gennaio 2018 Il soccorso istruttorio nell’ipotesi di sostituzione della garanzia prestata. La S. s.p.a., in proprio e quale mandataria Costituenda ATI ATI Coop., propone appello contro l’Autorità di Sistema Portuale del Mare Adriatico Centrale e nei confronti dell’Impresa Costruzioni M. s.r.l., per la riforma della sentenza emessa dal TAR Marche concernente l’annullamento della Delibera del Presidente dell'Autorità di Sistema Portuale del Mare Adriatico Centrale n. 3 del 12.01.2017 e degli atti ivi richiamati, con la quale è stata definitivamente aggiudicata alla costituenda associazione temporanea Costruzioni M. A.Srl (mandataria), I.C.A.M. Impresa Costruzioni Appalti M., C. Consorzio Imprenditori Edili e Un. Società Cooperativa, la procedura aperta per l'appalto di esecuzione dei lavori “opere di ammodernamento e potenziamento in attuazione del Piano regolatore portuale – 2a fase delle Opere a mare – 1° stralcio – lavori di completamento e funzionalizzazione della Nuova banchina rettilinea e dei piazzali retrostanti – 1° stralcio funzionale” e degli altri atti connessi.Nel corso della seduta di gara del 13 luglio 2015, la commissione ha proceduto al sorteggio per individuare un concorrente da sottoporre alla cd. verifica a campione, ai sensi del disciplinare e dell’art. 48 d.lgs. n. 163-2006. I risultati della verifica sono stati evidenziati nel cd “documento istruttorio” del 28 settembre 2015, alla cui stregua l’ATI M. è stata ammessa al prosieguo della procedura, ammissione che è stata contestata dall’odierna parte appellante.All’esito dei lavori della Commissione, l’ATI M. è risultata prima in graduatoria con il punteggio complessivo di 97,3631 punti.L’offerta dell’ATI M. è stata sottoposta a verifica di anomalia ai sensi dell’art. 86, comma 2, d.lgs. n. 163-2006.Espletato il subprocedimento di verifica, l’offerta è stata ritenuta congrua e, quindi con delibera del 12 gennaio 2017 n. 3, comunicata con nota del 13 gennaio 2017 n. 73, il Presidente dell’Autorità ha aggiudicato definitivamente la gara alla costituenda ATI M. Il primo motivo di appello, con cui si sostiene l’assenza dei requisiti di regolarità contributiva di cui all'art. 38, comma 1, lett. g), d.lgs. n. 163-2006, in capo alla Un. è da ritenersi infondato. In ossequio ad un principio sostanzialistico in tema di possesso dei requisiti di partecipazione alle gare d’appalto, il Collegio sostiene che non si può dare prevalenza alle modalità meramente formali di verifica dei requisiti di partecipazione prescritti dalla lexspecialis del bando di gara. La P.A. ha pertanto legittimamente esercitato una facoltà di approfondimento istruttorio per assolvere compiutamente all’obbligo di verifica dei requisiti, in quanto ha richiesto ed ottenuto ulteriori informazioni da parte dell’Agenzia delle Entrate sulla posizione fiscale della concorrente, sulla presenza di eventuali irregolarità fiscali e sul loro importo, sulla data di definitivo accertamento della stessa, sull’eventuale presenza di un piano di rateizzazione del debito e sull’eventuale presentazione di un ricorso da parte della Un. rispetto a quel debito. La sopraggiunta procedura concorsuale della Un. non può incidere sulla legittimità di atti già adottati prima della sua dichiarazione; potrà semmai essere valutata dall’Amministrazione in relazione agli atti ancora da adottare dopo il suo intervento. I giudici del Consiglio di Stato rigettano anche il secondo motivo di appello con cui si deduce l’inidoneità della fideiussione presentata a corredo dell'offerta. Il Collegio sostiene che la lexspecialis prevede unicamente l'obbligo di prestare una “cauzione provvisoria di cui all'art. 75 d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, costituita nei modi e di ammontare previsti dal Disciplinare di gara”. Il TAR ha rilevato, nella sentenza impugnata, l'esistenza di una obiettiva situazione di incertezza al tempo della presentazione dell'offerta, chiarita solo con il comunicato dell'ANAC del 6 luglio 2015, tale da poter concretare un errore scusabile rispetto alle modalità di presentazione della cauzione.L’ATI M.ha infatti allegato alla sua offerta una cauzione prestata in data 26.5.2015 dalla GBM Finanziaria la quale, però, si scopre successivamente non essere abilitata a rilasciare garanzie nei confronti del pubblico. I giudici del Collegio sostengono, in motivazione, che: “La Stazione Appaltante ha attivato legittimamente il soccorso istruttorio, stante l’obiettiva incertezza delle norme di riferimento, sopra evidenziata, e l’aggiudicataria ha potuto sostituire la garanzia prestata con altra, rilasciata da un istituto autorizzato, senza alcun nocumento per gli interessi pubblici. Infatti, la disciplina contenuta nel testo unico bancario d.lgs. n. 385-1993, e relativa all’individuazione degli intermediari finanziari abilitati al rilascio di garanzie nei confronti del pubblico, è stata modificata dal legislatore mediante accorpamento in un’unica lista degli enti a ciò autorizzati. Solo in un momento successivo (comunicato dell'ANAC del 6 luglio 2015) si è data certezza interpretativa alla nuova disciplina normativa, fugando ogni dubbio sul contenuto di tale lista. Pertanto, è inequivocabilmente ammissibile e doveroso il ricorso all'istituto del soccorso istruttorio in tale situazione”con conseguente legittimità della presentazione di una nuova fideiussione da parte dell'appellata ATI M. |
Inserito in data 27/01/2018 CONSIGLIO DI STATO, Terza Sezione, sentenza n. 565 del 26 gennaio 2018 Il dies a quo per l'attivazione del rimedio ex art. 120 co. 2 bis c.p.a. e carattere vincolatorio delle prescrizioni dei bandi anche nei confronti dell’Amministrazione. La F. K. I. s.r.l. propone appello contro l’ESTAR e nei confronti della B. B. Milano s.p.a. per la riforma della sentenza emessa dal TAR per la Toscana, con la quale si è escluso l’offerta di F. K. I. s.r.l. dalla procedura ristretta per la fornitura di soluzioni infusionali di largo impiego. In particolare, la B. B. Milano s.p.a., ricorrente in primo grado nonché appellata, ha contestato l’aggiudicazione disposta in favore di F. K. I. s.r.l., sottolineando come i flaconi da 500 ml offerti da quest’ultima non fossero dotati della scala di misurazione prevista dal citato art. 11.2 del capitolato di gara. A causa di tale contestazione, la stazione appaltante ha chiesto chiarimenti alla F. K. I. s.r.l. che, con la nota del 10 marzo 2017, ha confermato la diversità tra la scala di misurazione riportata sui flaconi offerti e quella prevista dall’art. 11.2 del capitolato. A mezzo della determinazione n. 386 del 15 marzo 2017, è stata disposta l’aggiudicazione definitiva a favore di F. K. I. s.r.l. Con una successiva determinazione del 31 marzo 2017, il 5% del lotto n. 281 veniva aggiudicato a B. s.p.a., in virtù delle caratteristiche esclusive delle sacche offerte da tale società, mentre per il resto è stata confermata l’aggiudicazione in favore di F. K. I. s.r.l. Avverso quest’ultima aggiudicazione, la B. B. Milano s.p.a. propone ricorso avanti al TAR per la Toscana, chiedendo l’annullamento degli atti e la conseguenziale esclusione dalla gara della F. K. I. s.r.l. e l’aggiudicazione della stessa in proprio favore, lamentando, in particolare, la non conformità dei flaconi da 500 ml offerti dalla stessa F. K. I. s.r.l. alle specifiche stabilite dall’art. 11.2 del capitolato. Il TAR per la Toscana accoglie il ricorso B. B. Milano s.p.a. e pertanto, la F. K. I. s.r.l. propone appello. Il primo motivo di appello riguarda la tardività del ricorso proposto da B. B. Milano s.p.a.,avendo notificato il ricorso il 13 aprile 2017 e pertanto, non avendo rispettato il termine di decadenza di 30 giorni“sia considerando quale dies a quo il giorno 3 febbraio 2017, come già eccepito in primo grado, sia considerando il giorno 7 marzo ovvero il giorno 9 marzo 2017.” Il Consiglio di Stato rigetta il motivo di impugnazione osservando dapprima, in punto di fatto, che: “La data del 3 febbraio 2017 si riferisce all’ammissione di F. K. Italia s.r.l. al Sistema Dinamico di Acquisizione e, secondo l’appellante, B. B. Milano s.p.a. avrebbe dovuto impugnare il provvedimento di ammissione entro 30 giorni ai sensi dell’art. 120, comma 2-bis, c.p.a.” Il Collegio, alla luce delle considerazioni svolte dal TAR per la Toscana, ritiene che l’onere di impugnazione dell’altrui ammissione è ragionevolmente subordinato alla pubblicazione degli atti della procedura, perché diversamente l’impresa sarebbe costretta a proporre un ricorso senza poter visionare gli atti di causa. Nel motivo di appello, si legge il riferimento alla data del 7 marzo 2017, che si riferisce alla data della proposta di aggiudicazione in favore dell’appellante. A tal riguardo, il Consiglio di Stato ritiene che: “non solo si può rilevare come l’art. 120, comma 2-bis, c.p.a. vieti di impugnare la proposta di aggiudicazione, assimilabile alla vecchia aggiudicazione provvisoria, ma anche come già prima dell’introduzione di tale disposizione la giurisprudenza considerasse l’impugnazione dell’aggiudicazione provvisoria meramente facoltativa.” ed ancora si legge in motivazione: “È pertanto solo con la determinazione di aggiudicazione definitiva n. 386 del 15 marzo 2017, alla quale era allegato il verbale del 10 marzo 2017 da cui si evincevano le esatte caratteristiche tecniche dell’offerta di F. K. Italia s.r.l., che B. B. Milano s.p.a. ha avuto una conoscenza certa della difformità del prodotto concretamente offerto dalla stessa F.. Ne discende che è solo nel 15 marzo 2017 che deve essere individuato il dies a quo per la decorrenza del termine utile alla proposizione del ricorso.” Un altro motivo di impugnazione, concerne la derogabilità o meno del contenuto dei bandi di gara con la conseguenziale esclusione del partecipante dall’aggiudicazione, qualora non vengano rispettate le prescrizioni. Secondo un costante orientamento giurisprudenziale, “le prescrizioni dei bandi hanno carattere inderogabile e vincolano anche l’Amministrazione che, pertanto, non può disattendere tali disposizioni, costituenti la cosiddetta lexspecialis della gara o del concorso, e, anche nel caso in cui esse siano illegittime, non può disapplicarle”. Tale interpretazione della norma, deve essere estesa al caso concreto, esaminato nella sentenza in commento, in cui il Collegio ribadisce “il carattere vincolante dell’art. 11.2 del capitolato, anche nella parte in cui prevede che i flaconi in materiale plastico debbano essere dotati di una scala di misurazione «almeno ogni 100 ml»”, contenuto precettivo non rispettato e pertanto, anche questo motivo di appello è stato rigettato. |
Inserito in data 26/01/2018 TAR PUGLIA – BARI, Seconda Sezione, sentenza n. 101 del 25 gennaio 2018 La produzione di un certificato rilasciato da un ente non accreditato non può comportare "ex se" l'esclusione dell'operatore economico da una procedura di gara. La Lu. Ga. Propone ricorso contro l’Anas s.p.a. e nei confronti di Pr. Gi. S.a.s. al fine di ottenere l’annullamento del provvedimento adottato dall’Anas s.p.a., recante l’aggiudicazione definitiva della gara, con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, per l’appalto triennale dei Servizi di manutenzione delle opere a verde, dei servizi di raccolta e rimozione dei rifiuti e dei servizi di manutenzione invernali sgombraneve ed antighiaccio sulle strade statali e di tutti gli atti presupposti, connessi e consequenziali. La Lu. Ga. è risultata seconda in graduatoria. Con il primo motivo di impugnazione, l’appellante lamenta quanto segue: “l'avvalimento posto in essere dalla mandataria del raggruppamento aggiudicatario ai fini della dimostrazione del fatturato specifico per i servizi di manutenzione delle opere in verde -asseritamente- in violazione delle prescrizioni della lexspecialis, la quale avrebbe previsto un requisito più stringente attraverso l'imposizione della non frazionabilità dello stesso.” I giudici del TAR ritengono che tale motivo sia infondato, in quanto nel bando di gara si legge, tra i requisiti, che: “il fatturato "specifico" per i servizi di manutenzione delle opere in verde (cioè per servizi corrispondenti a quelli da eseguire) dovesse essere posseduto dall'operatore che si fosse impegnato ad espletare il servizio, facendo seguire la dizione "requisito non frazionabile”.Il Collegio spiega a tal proposito che il predetto requisito deve interpretarsi nel diverso significato dell’“indivisibilità” del requisito, nell’ipotesi di partecipazione in raggruppamenti temporanei. Tale opzione ermeneutica trova innanzitutto conferma nel dato testuale della lex di gara, che consente espressamente l’avvalimento in relazione a ciascuno dei requisiti previsti,che si tratti di concorrente singolo, consorziato, raggruppato o aggregato in rete, come prevede altresì il quadro normativo di riferimento, come interpretato dalla giurisprudenza amministrativa e comunitaria. In particolare, l'art. 49, comma 6 d.lgs. n. 163/2006, nel testo modificato dall'art. 21, comma 1 della legge n. 161/2014, dopo la pronunzia della Corte di Giustizia dell'Unione Europea n. 94/12 del 10 ottobre 2013, dispone che: “È ammesso l'avvalimento di più imprese ausiliarie, fermo restando, per i lavori, il divieto di utilizzo frazionato per il concorrente dei singoli requisiti economico-finanziari e tecnico-organizzativi di cui all'articolo 40, comma 3, lettera b), che hanno consentito il rilascio dell'attestazione in quella categoria.” Medesimo giudizio è stato espresso dalla Quinta Sezione del Consiglio di Stato con sentenza n. 2184 del 11 maggio 2017 ed in particolare, la medesima Sezione, precedentemente con sentenza n. 277 del 22 gennaio 2015, ha stabilito quanto segue: “Non sussiste il divieto dell'utilizzo dell'avvalimento frazionato alla luce della sentenza della CGUE, 10 ottobre 2013, C-94/12, secondo la quale l'integrazione dei requisiti minimi di capacità imposti dall'amministrazione aggiudicatrice può essere dimostrata, sia utilizzando l'avvalimento frazionato che l'avvalimento plurimo, poiché ciò che rileva è la dimostrazione da parte del candidato o dell'offerente, che si avvale delle capacità di uno o di svariati altri soggetti, di poter disporre effettivamente dei mezzi di questi ultimi che sono necessari all'esecuzione dell'appalto”. L’altro motivo di impugnazione è inerente all’“attestato di certificazione del proprio Sistema di Gestione Ambientale”, prodotto dalla Pr. Gi. s.a.s., il quale, secondo l’appellante, non è idoneo a comprovare il requisito tecnico relativo alla certificazione ISO 14001, dato che “l'Ente certificatore non sarebbe “accreditato al rilascio della detta Certificazione ISO 14001, ma della sola Certificazione ISO 9001:2008 (certificazione di sistemi di gestione per la qualità)”. Secondo la ricorrente, la certificazione ambientale non è stata rilasciata da un ente autorizzato e pertanto, comporta l’esclusione dalla gara. Sul punto, il Collegio ritiene di non poter accogliere il motivo di appello, richiamando quanto deciso dalla Quinta Sezione, del Consiglio di Stato con sentenza n. 4471 del 9 settembre 2013, in materia di norme di garanzia della qualità e di gestione ambientale di cui agli art. 43 e 44 del d.lgs. n. 163 del 2006, ove si legge: “..la produzione di un certificato rilasciato da un ente non accreditato non può comportare "ex se" l'esclusione dell'operatore economico da una procedura di gara, ma impone alla stazione appaltante una valutazione in ordine all'effettivo possesso dei requisiti in capo al concorrente”; sicché ”...l'impresa partecipante deve poter provare l'esistenza della qualificazione con mezzi idonei che garantiscano un soddisfacente grado di certezza, nel limite della ragionevolezza e della proporzionalità della previsione della legge speciale di gara, la quale deve garantire la massima partecipazione”. In conclusione, la produzione di un certificato rilasciato da un ente non accreditato non comporta ex se l’esclusione dalla gara, impone altresì alla stazione appaltante una valutazione in ordine all’effettivo possesso dei requisiti in capo al concorrente e la conseguente, aggiudicazione della gara.
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Inserito in data 25/01/2018 CONSIGLIO DI STATO, Terza Sezione, sentenza n. 490 del 24 gennaio 2018
Presupposto per l’applicazione dell’art. 3 della L. n. 68 del 1999.
La Cooperativa Sociale E. s.c.s. propone ricorso, contro A.T.S. – Azienda per la Tutela della Salute della Sardegna e nei confronti di M. I. s.p.a.,al fine di ottenere la riforma della sentenza n. 201/2017, emessa dal TAR per la Sardegna, con la quale sentenza si rigetta il ricorso di primo grado proposto dallaCooperativa Sociale E. s.c.s. avverso la deliberazione del Commissario Straordinario, con cui l’Azienda Sanitaria Locale di Cagliari ha deliberato di approvare i verbali di gara e di aggiudicare al r.t.i., costituito da M. I. s.p.a.e da N.S.O. Coop. Soc. per la procedura aperta per l’affidamento del servizio di Assistenza Domiciliare Integrata (ADI), per due anni nonché, tutti gli atti connessi, presupposti e consequenziali, incluso il bando di gara e le relative integrazioni. Nello specifico, la Cooperativa lamenta l’erroneità della sentenza di primo grado, nella parte in cui ha ritenuto che solo due dipendenti della N.S.O. Coop. Soc. dovessero essere computati nella c.d. quota di riserva dei lavoratori ai sensi della L. n. 68 del 1999. L’appellante ritiene che la N.S.O. Coop. Soc.vanta la presenza di 168 dipendenti rilevanti ai fini del computo della quota di riserva, “non potendosi escludere i 166 dipendenti assunti per il c.d. "cambio appalto" e, cioè, in ragione delle clausole sociali, che secondo tale tesi devono essere computati nella quota di riserva ai sensi dell'art. 3 della l. n. 68 del 1999.” Il Collegio rigetta tale doglianza sulla base della seguente motivazione: “Appare conforme alla ratio dell'art. 3 della l. n. 68 del 1999 l'interpretazione di questa, fornita dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali nell'interpello n. 23 del 1° agosto 2012, e cioè che “nell'ipotesi di acquisizione di personale già impiegato in appalto, c.d. "cambio appalto", l'incremento occupazione assume carattere provvisorio, in quanto destinato a subire, inevitabilmente, una contrazione al termine dell'esecuzione dell'appalto stesso” e che, di conseguenza, “il personale che transita dall'azienda uscente all'azienda subentrante non dovrà essere computato nella quota di riserva ai fini dell'art. 3, l. n. 68/1999”. Sul punto, peraltro, è intervenuto questo Consiglio di Stato, di recente, chiarendo che “anche a prescindere dall'applicazione dell'art. 23 CCNL, dal computo dei lavoratori impiegati ai fini della quota di riserva devono essere esclusi i lavoratori assunti in virtù delle c.d. clausole sociali, ossia il personale assunto a seguito e in ragione dell'aggiudicazione di un appalto e destinato, al termine dello stesso, a transitare alla dipendente del nuovo aggiudicatario (cfr. in questi termini nota del Ministero del Lavoro, in risposta ad interpello, n. 23 del 1° agosto 2012)” (Cons. St., sez. V, 31 gennaio 2017, n. 383).” Alla luce della nota chiarificatrice fornita dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, i giudici del Consiglio di Stato fanno luce sui criteri di acquisizione del personale già impegnato nel c.d. “cambio appalto”, specificando che l’incremento occupazionale assume un carattere meramente provvisorio, in quanto è destinato a subire un inevitabile contrazione al termine dell’esecuzione dell’appalto e conseguentemente, il personale che transita dall’azienda uscente all’azienda subentrante non può essere computato nella quota di riserva, sancita dall’art. 3 della L. n. 68/1999. Si deve anche considerare quanto deciso precedentemente dalla Quinta Sezione del Consiglio di Stato con sentenza n. 383 del 2017, con la quale si è statuito che nella quota di riserva devono essere esclusi i lavoratori assunti in virtù delle c.d. clausole sociali, dato che sono lavoratori in transito da una società all’altra e la loro posizione non è stabile, ma destinata a subire dei cambiamenti. |
Inserito in data 24/01/2018 CONSIGLIO DI STATO, Quinta Sezione, sentenza n. 430 del 23 gennaio 2018 L’obbligo di inserire un geologo o un architetto tra i progettisti in sede di gara dipende da quanto disposto dalla lexspecialis. La società G. s.r.l. propone appello contro la Provincia di Barletta-Andria-Trani nei confronti di P. Imp. s.r.l. per la riforma della sentenza del TAR Puglia – Bari avente ad oggetto il provvedimento di aggiudicazione dei lavori di recupero e di risanamento conservativo di un istituto scolastico, in quanto, all'esito delle operazioni concorsuali ed esperito altresì il sub-procedimento di verifica dell'anomalia delle offerte, nella seduta di gara del 22 ottobre 2015, la Commissione giudicatrice disponeva l'aggiudicazione provvisoria dell'appalto in favore della P. Imp. S.r.l. La società G. lamenta che la sentenza impugnata ha disatteso la censura, con la quale aveva sollevato il vizio d’illegittimità della disposta aggiudicazione della commessa a favore della P.Imp. S.r.l.,avendo la ditta aggiudicataria omesso di includere nella propria compagine la figura del geologo, come pure di includere nella propria offerta tecnica la relazione geologica, in asserita violazione della lexspecialis di procedura e della normativa positiva vigente rationetemporis. La predetta società appellante ritiene che, essendo un elemento essenziale dell’offerta, la sua omissione avrebbe dovuto determinare l'esclusione della P.Imp. S.r.l. dalla gara, con consequenziale caducazione anche della disposta aggiudicazione della gara in suo favore. Il giudice di prime cure non accoglie tale censura. Il Consiglio di Stato rileva a tal riguardo che, in merito alla problematica della automatica eterointegrazione della normativa di gara ad opera degli artt. 24, 26 (e 35) del regolamento di esecuzione al previgente Codice dei Contratti Pubblici di cui al d.P.R. n. 207 del 2010, sussistono dei precedenti giurisprudenziali non univoci, (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 28 agosto 2017, n. 4080),secondo i quali, la formulazione delle predette norme deponga per il carattere solo eventuale delle relazioni specialistiche in sede di progettazione sia definitiva sia esecutiva. Sul punto nella motivazione della sentenza in commento si legge quanto segue: “alla luce di una più comprensiva disamina della normativa sui livelli di progettazione recata dal d.P.R. n. 207 del 2010 ed in particolare in relazione all'art. 33, relativo ai "Documenti componenti il progetto esecutivo" (secondo cui quest'ultimo deve essere composto di tutte le relazioni specialistiche, "salva diversa motivata determinazione del responsabile del procedimento"), va ribadito che tale disposizione "afferisce tuttavia all'attività progettuale che si svolge all'interno delle stazioni appaltanti, cosicché non ne può essere desunta una rilevanza "esterna", sotto forma di requisito di partecipazione alle procedure di gara in cui un segmento della progettazione [...] sia affidato all'appaltatore privato" (cfr. ancora Cons. Stato, n. 4080/2017 cit.). Siffatto ordine di rilievi, del resto, si correla all'esigenza di non introdurre obblighi documentali sanzionati a pena di esclusione dalla gara in assenza di una specifica ed univoca previsione del bando, e dunque di una espressa richiesta da parte della stazione appaltante (esigenza, all'evidenza, non soddisfatta, neanche in implausibile prospettiva eterointegrativa, dal riferimento per relationem a previsioni regolamentari formulate in termini condizionati e di mera eventualità), posto che risulterebbero, altrimenti, violati i superiori principi eurocomuni di certezza e di salvaguardia dell'affidamento enunciati dalla Corte di giustizia dell'Unione europea nella sentenza 2 giugno 2016, C-27/15.Per l'effetto, deve ribadirsi l'intendimento per cui l'obbligo di indicare un geologo tra i progettisti in sede di gara e di corredare l'offerta tecnica con la relazione geologica dipende, in concreto, dalla natura delle prestazioni affidate all'appaltatore, laddove cioè queste implichino una modificazione sostanziale delle previsioni progettuali formulate dalla stazione appaltante e a condizione che la relativa necessità sia espressamente prefigurata nelle regole operative di gara.Depone in questi sensi l'esigenza che la determinazione degli obblighi progettuali e documentali imposti dalle stazioni appaltanti ai concorrenti siano chiaramente definiti nei documenti di gara e che a tali soggetti non siano addossati oneri che le prime, nell'ambito della loro discrezionalità e sulla base del grado di dettaglio della progettazione a base di gara, delle caratteristiche delle opere e delle migliorie consentite, hanno ritenuto non necessari.Per contro, l'applicazione meccanicistica dei più volte citati artt. 35 e 26 d.P.R. n. 207 del 2010, nei termini e con gli esiti propugnati dall'odierna appellante, condurrebbe proprio a tali incoerenti ed irragionevoli conseguenze, determinando un aggravio documentale ed economico per i concorrenti che, da un lato, non risponde ad esigenze effettive delle amministrazioni e le cui conseguenze si pongono, dall'altro lato, in tensione con i richiamati principi di certezza affermati in ambito sovranazionale (cfr., ancora, Cons. Stato, sez. V, n. 4080/2017) e con divieto di enucleare cause di esclusione dalle procedure di affidamento di contratti pubblici non previste in modo espresso dal bando di gara (cfr., sul punto, Cons. Stato, ad. plen., 27 luglio 2016, n. 19).” Il Collegio rileva pertanto che nella lexspecialis non si legge alcun obbligo espresso di corredare l’offerta tecnica della relazione geologica e di indicare la relativa figura del geologo e pertanto, tale motivo di appello non viene accolto. Con altro motivo di appello, la società G. s.r.l. impugna la sentenza di primo grado, nella parte in cui, ha respinto la doglianza sull’illegittimità della determinazione di aggiudicazione dell’appalto in favore della controinteressata per avere quest’ultima omesso di includere nello staff dei progettisti la figura dell’architetto, reputata necessaria in quanto il fabbricato oggetto della gara di appalto è sottoposto a vincolo architettonico-paesaggistico, ai sensi “dell’art. 52, co. 2, R.D. n. 2537/1925, laddove riserva ai soli architetti le opere di edilizia civile che presentano rilevante carattere artistico nonché il restauro e il ripristino degli edifici soggetti a vincolo storico-artistico”. I giudici del Consiglio di Stato rigettano anche questo motivo di appello, in quanto la disciplina di gara non richiede esplicitamente, anche sotto questo profilo, “a pena di esclusione” l’inserimento della figura dell’architetto nello staff dei progettisti, “Semmai (come risulta dalla nota del RUP in data 20 ottobre 2015), la stazione appaltante aveva ritenuto pienamente equipollente a quest'ultima quella dell'ingegnere, ai sensi dell'art. 52 del r.d. n. 2537/1925, in considerazione della natura prettamente tecnica dei lavori oggetto di appalto. Per tal via (…) anche sotto il profilo in questione non potrebbe ritenersi operante il valorizzato meccanismo eterointegrativo; né la controinteressata avrebbe potuto essere espulsa dalla gara, in forza del principio di tassatività delle cause di esclusione e di quello di tutela dell'affidamento dei concorrenti sulle indicazioni della stazione appaltante.”
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Inserito in data 21/01/2018 TAR LAZIO – ROMA, Seconda Sezione, sentenza n. 667 del 19 gennaio 2018. Il concetto di ente ed il Codice Antimafia. L’associazione K-S.impugna la determinazione dirigenziale, assunta da Roma Capitale, Dipartimento Attività Culturali, Direzione Organismi Partecipati eSpazi Culturali, con la quale ha escluso dalla procedura ad evidenza pubblicaper la concessione a titolo gratuito dell'immobile confiscato allamafia denominato Nuovo Cinema Aquila l'Associazione Culturale K-SHOTe ha ammesso la C. M. Società CooperativaOnlus alle fasi successive della procedura. La predetta amministrazione ha operato l’anzidetta decisione di esclusione, in quanto ha riscontrato un’irregolarità relativa al DURC intestato all’associazione K-S., come inviata dall’INPS. Si costituisce la società ATI, costituenda C. M. Società Cooperativa Onlus, depositando ricorso incidentale e chiedendo di ritenere illegittima l’ammissione alla gara della ricorrente K-S.e per l’effetto, annullare il verbale con ilquale si dispone l'ammissionedella ricorrente Associazione CulturaleK-S. alla selezione di cui all'avviso pubblico del 27marzo 2017. I giudici del TAR rigettano sia il ricorso principale sia quello incidentale. In ordine al ricorso principale, il TAR sostiene che: “È infatti assunto consolidato che l'amministrazione non è competente a sindacare il rapporto interno tra INPS e impresa, né può entrare nel merito nella contestata irregolarità contributiva, vagliandone il livello di “gravità” onde ritenere il DURC negativo privo di efficacia escludente. Sia la definitività della violazione sia la valutazione del requisito della gravità è infatti rimesso all'esclusivo apprezzamento dell'INPS, la cui certificazione si impone alle stazioni appaltanti, le quali non possono che prendere atto della situazione di regolarità e/o irregolarità della posizione previdenziale.” Il Collegio ribadisce che la regolarità contributiva delle imprese partecipanti deve essere sottoposto alla esclusiva verifica degli istituti di previdenza. La stazione appaltante ha correttamente proceduto all’esclusione dell’associazione alla luce della disciplina normativa contenuta nell’art. 80, comma 4, del D. Lgs. n. 50/2016, come formulata ante correttivo. In ordine al ricorso incidentale, il TAR sostiene che l’associazione in questione (di natura culturale), può partecipare alla procedura ad evidenza pubblica in quanto rientra nel concetto di “ente” di cui all’art. 48, comma 3, lett. c) del D. Lgs. n. 159/2011 – Codice Antimafia. Il Collegio ritiene, sotto un profilo civilistico, che nella nozione di “ente” rientrano le associazioni previste dal titolo II capo II Libro I del codice civile e che possono svolgere anche attività di tipo economico “purchè la stessa sia strumentale ed ancillare rispetto ai fini dell’ente.” Ed ancora, in motivazione, si legge: “È infatti consentito l'esercizio di un'attività commerciale purché ciò non avvenga in maniera esclusiva ed incompatibile con la natura di ente morale dell'associazione; con la riveniente preclusione alla distribuzione di utili fra gli associati, come correttamente esposto dalla difesa comunale.Ma anche riguardando il caso alla luce della normativa in tema di contratti pubblici, essa ricomprende nella nozione di “operatore economico”, in linea sostanziale, anche gli enti privati senza fini di lucro; essi possono partecipare alle gare quando abbiano comunque la sostanza di operatore economico (offrendo ad esempio sul mercato beni o servizi, al fine di ricavare somme da destinare alla realizzazione del fine non lucrativo che perseguono).” In conclusione, secondo il Collegio, tale associazione rientra nella categoria di “ente” e pertanto, in ragione della sua natura può essere ricondotto alla categoria di “ente” menzionato nell’art. 48, comma 3, lett. c) del Codice Antimafia. |
Inserito in data 20/01/2018 TAR LOMBARDIA - MILANO, Quarta Sezione, sentenza n. 141 del 18 gennaio 2018. L’impugnabilità della determinazione conclusiva della prima fase di selezione di una proposta, nel procedimento di projectfinancing. La società Saie srlchiede l’annullamento: della lexspecialis - composta da Bando, pubblicato in GUUE il 2 dicembre 2016, Disciplinare e “Documentazione progettuale”, a sua volta composta da una “relazione tecnica relativa all'impianto crematorio” e da uno “studio di prefattibilità ambientale” - della gara indetta dal Comune di Pavia per l'affidamento in concessione del servizio di cremazione ai sensi dell'articolo 183, comma 15, D.Lgs. 50/2016; della Deliberazione di Giunta n. 149 del 21 luglio 2016 con la quale l’Amministrazione ha nominato il controinteressato promotore dell’iniziativa, ponendo la proposta di quest’ultimo a base di gara e la condannadella stazione appaltante al risarcimento del danno. L’appello si fonda su due motivi di impugnazione:il primo motivocontesta una violazione di legge, in quanto il progetto posto a base di gara non è stato previamente inserito in alcuno strumento di programmazione e non è stato approvato dal Consiglio comunale “quantomeno sotto il profilo della sua inserzione negli strumenti di programmazione del Comune”; l'altro motivo è diretto a lamentare la ritenuta assenza nel progetto posto a base di gara di alcuni elaborati asseritamente necessari, ex art. 23 del D.L.vo n. 50/2016 e art. 17 del D.P.R. n. 207/2010. I vizi degli atti di causa censurati attengono alla scelta del promotore e del relativo progetto, posto alla base della gara per la individuazione del concessionario, con particolare riguardo alla contestazione della delibera comunale, a mezzo della quale l’ente locale ha individuato il r.t.i. controinteressato come promotore dell’iniziativa, ponendo proprio la sua proposta progettuale a base della gara, di cui vengono impugnati gli atti indittivi. La società impugna anche la determinazione relativa alla scelta del promotore, alla valutazione della fattibilità del progetto e all’individuazione del progetto, non potendo differire tale impugnazione al momento della contestazione della lexspecialis della gara relativa alla scelta del concessionario. Sul punto, il Collegio ha risolto la quaestio iuris riportando la decisione dell’adunanza plenaria Consiglio di Stato n. 1 del 2012, nella quale si legge quanto segue: “nel procedimento di projectfinancing l’atto con cui la stazione appaltante conclude la c.d. prima fase di selezione di una proposta, da porre a base della successiva gara, sia immediatamente impugnabile da coloro che abbiano presentato proposte concorrenti in relazione alla medesima opera pubblica”, in quantoil procedimento di aggiudicazione della concessione al promotore finanziario si articola in una fattispecie a formazione progressiva, che si realizza mediante sottofasi procedimentali, idonee a produrre effetti immediatamente lesivi nei confronti dei concorrenti e, come tali, da aggredire immediatamente. In conclusione, la società Saie s.r.l. non ha presentato una proposta, rimanendo così estranea alla prima fase della selezione, venendo meno pertanto qualsiasi interesse concreto ed attuale a censurare la scelta del promotore e del progetto posto alla base della gara; inoltre, la ricorrente non deduce vizi direttamente riferibili alla lexspecialis impugnata, ma a provvedimenti diversi, immediatamente lesivi, anche se prodromici alla gara, che rendono inammissibile il ricorso per carenza di interesse. |
Inserito in data 19/01/2018 CONSIGLIO DI STATO, Quinta Sezione, sentenza n. 254 del 17 gennaio 2018 La domanda di subentro nella gara per l’appalto, l’affidamento provvisorio ed il risarcimento del danno da perdita di chance. Una cooperativa sociale ha proposto appello avverso la sentenza del TAR per il Lazio, con la quale è stato accolto il ricorso proposto dalla predetta appellante, contro il verbale avente ad oggetto l’aggiudicazione provvisoria della gara per l’appalto relativo alla gestione del servizio di assistenza educativa scolastica agli alunni diversamente abili, indetta dal Comune di Subiaco. L’appello della cooperativa sociale ha ad oggetto la statuizione del giudice di primo grado, in quanto non deduce che non avrebbe statuito sulla domanda di subentro nel contratto e quella con cui ha respinto la domanda di risarcimento dei danni. I giudici del Consiglio di Stato ritengono che il primo motivo di appello non sia fondato. In particolare, nella motivazione della sentenza in commento, sulla base di un pacifico orientamento giurisprudenziale, si legge quanto segue: “La domanda di subentro nel contratto, ai sensi dell’art. 122 c.p.a., costituisce la condizione perché possa essere pronunciata l’inefficacia del contratto, ma ciò non significa che ove vi sia stato un affidamento provvisorio, è possibile il subentro. Ostano a tale conclusione vari argomenti, tra cui quello riveniente dalla disposizione dell’art. 34, comma 2, c.p.a., alla cui stregua in nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati. Tale regola vale anche quando il giudice, ai sensi degli artt. 121 e 122 c.p.a., dichiara l’inefficacia del contratto, potendo in tale caso disporre il subentro del ricorrente solo quando l’accoglimento del ricorso non renda necessaria un’ulteriore attività procedimentale dell’Amministrazione per l’individuazione del nuovo aggiudicatario della gara (Cons. Stato, Sez. III, 1 agosto 2013, n. 4039). L’annullamento dell’aggiudicazione connesso al mancato rispetto del principio di pubblicità della gara fa conseguire che il diritto al risarcimento del danno può realizzarsi solamente nei limiti della perdita di chance all’aggiudicazione della gara stessa (Cons. St., Sez. V, 28 settembre 2015, n. 4499).” Altra quaestio iuris, affrontata dal Consiglio di Stato, concerne il c.d. preavviso di ricorso. Si legge, nella motivazione della sentenza in esame, che il preavviso di ricorso non comporta per l’Amministrazione: alcun obbligo di riesame; nessun obbligo di sospensione della procedura e nessun obbligo di risposta espressa. Conseguentemente, l’operatore economico partecipante al procedimento di evidenza pubblica non è gravato da oneri di diligenza, “peraltro oggettivamente non pretendibili in ragione della situazione di asimmetria informativa esistente tra il privato e l'Amministrazione, in difetto configurando l'evenienza, in qualche misura sanzionatoria, del concorso del fatto colposo del creditore nella causazione del danno.” Il Consiglio di Stato sostiene pertanto che il “preavviso di ricorso” è proposto “allo stato degli atti” e soltanto,entro tale limite può ritenersi espressione di ordinaria diligenza. L’altro motivo di appello, esaminato dai giudici del Consiglio di Stato, riguarda il risarcimento del danno conseguente all’annullamento dell’aggiudicazione della gara. Sul punto, il Collegio si è espresso nel seguente modo: “L'annullamento dell'aggiudicazione è peraltro connesso al mancato rispetto del principio di pubblicità della gara, con la conseguenza che l’(eventuale) attività rinnovatoria della gara pone in termini di mera ipotesi il soddisfacimento dell'interesse finale del concorrente vittorioso; corollario di ciò è che il diritto al risarcimento del danno può realizzarsi solamente nei limiti della perdita di chance all'aggiudicazione della gara (Cons. Stato, V, 28 settembre 2015, n. 4499), pur nella consapevolezza della difficile applicazione di tale tema al diritto dei contratti pubblici ed al diritto amministrativo in generale, ma al contempo nella consapevolezza di dover garantire una forma di tutela per equivalente allorché quella in forma specifica non sia possibile. Il danno conseguente al lucro cessante si identifica con l'interesse c.d. positivo, che ricomprende sia il mancato profitto (che l'impresa avrebbe ricavato dall'esecuzione dell'appalto), sia il danno c.d. curricolare, e cioè il pregiudizio subito dall'impresa a causa del mancato arricchimento del curriculum e dell'immagine professionale per non poter indicare nello stesso l'avvenuta esecuzione dell'appalto (in termini Cons. Stato, Ad. plen., 12 maggio 2017, n. 2). Può ritenersi provata la perdita di un'occasione concreta di aggiudicazione dell'appalto, in quanto il giudizio di probabilità, basato sull'id quodplerumqueaccidit (in virtù della regola della "inferenza probabilistica"), discende dal fatto che ad avere partecipato alla gara siano stati cinque operatori economici e che l'appellante sia risultata seconda graduata.” In conclusione, secondo i giudici del Consiglio di Stato, l’onere della prova ricade sull’impresa danneggiata, la quale deve dimostrare che avrebbe conseguito, ove fosse risultata aggiudicataria, un utile di impresa e che ha invece sofferto conseguentemente un danno, non essendo l’aggiudicataria. Nel caso di specie, si ritiene che il lucro cessante sia determinabile equitativamente, tenendo conto anche del numero dei partecipanti. Il danno emergente, consistente nelle spese sostenute per la partecipazione alla gara, invece non è risarcibile, in quanto il predetto costo deve rimanere a carico dell’impresa sia nell’ipotesi di aggiudicazione sia nell’ipotesi di mancata aggiudicazione. |
Inserito in data 17/01/2018 TAR-TRENTO, Prima Sezione, sentenza n. 12 del 16 gennaio 2018. Parametri e criteri di valutazione delle offerte. La società SCA. H. P. s.p.a. partecipa alla gara, indetta con bando del 18 aprile 2016 dalla Provincia autonoma di Trento, mediante procedura aperta sopra soglia comunitaria, per la conclusione di una convenzione destinata alla fornitura di dispositivi, monouso e pluriuso, per l'incontinenza e per l'igiene personale e dei servizi connessi, destinati alle aziende pubbliche dei servizi alla persona (APSP) - RSA operanti nel territorio provinciale, da aggiudicarsi secondo il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa ai sensi degli artt. 16 e 17 della legge provinciale 9 marzo 2016 n. 2. La lexspecialis di gara, che comprende il bando, il capitolato tecnico e i “parametri e criteri di valutazione delle offerte”, prevede la suddivisione della procedura in due lotti distinti e precisamente il lotto 1: dispositivi per l'incontinenza e il lotto 2: prodotti per l'igiene personale.Alla procedura per l'aggiudicazione del lotto 1, hanno partecipato quattro società concorrenti, (F.s.p.a., S. s.p.a., SCA.H.P.s.p.a. e S.s.p.a.) e per due di queste (F.s.p.a. e S.s.p.a.) le operazioni della commissione sono proseguite fino alla compiuta disamina delle rispettive offerte tecniche, al cui esito è stata disposta l'esclusione di entrambe per non aver raggiunto, relativamente ad alcuni dei prodotti offerti, la soglia di sbarramento richiesta. Per le altre due partecipanti, SCA H. P.s.p.a. e S. s.p.a., rispettivamente appellante e controinteressata, la commissione ha, invece, interrotto le proprie operazioni e ne ha disposto l'esclusione per incompletezza della documentazione riferita al rispetto dei criteri minimi ambientali (CAM) e al possesso dei requisiti minimi richiesti dal capitolato relativamente ai prodotti.La società SCA.H.P. s.p.a., pur risultando sospesa, in attesa della valutazione di congruità della offerta, ha ritenuto l'esclusione dalla procedura relativa al lotto 1 immediatamente lesiva e illegittima ed ha, quindi, proposto ricorso deducendo l'illegittimità dell'operato della commissione incaricata della valutazione delle offerte tecniche. Successivamente, a seguito del ricorso proposto da SCA.H.P. s.p.a.e S.s.p.a., viene riconosciuto l’istituto del soccorso istruttorio, venendo riammesse alla procedura di gara del lotto n. 1, ma viene al termine della procedura esclusa “non avendo la medesima raggiunto nelle esperite prove pratiche relative agli elementi di valutazione riguardanti uno dei prodotti offerti il punteggio indicato quale soglia di sbarramento per accedere alla fase successiva di valutazione dell'offerta economica.” Lasocietà SCA.H.P.s.p.a. propone appello, ma viene rigettato. I giudici del TAR, in occasione della sentenza in commento, fanno luce sui parametri e criteri di valutazione delle offerte ed il relativo ambito di discrezionalità. IlCollegio sostiene che “Il modus procedendi della commissione, che, sulla base delle previsioni contenute nei "parametri e criteri di valutazione delle offerte" e nell'ambito della ampia discrezionalità di cui dispone, ha ritenuto di ripetere il sorteggio e la selezione della tipologia dei prodotti sui quali eseguire le prove pratiche, nonostante il precedente sorteggio non fosse affetto da alcun vizio di illegittimità, non risulta censurabile. Se anche l'annullamento dell'aggiudicazione di un pubblico appalto non implica necessariamente la rinnovazione della medesima gara con salvezza degli atti legittimi già compiuti ed è consentita la rinnovazione dell'intero procedimento mediante indizione di una nuova procedura (cfr., TAR Friuli Venezia Giulia, n. 95/2017; TAR Toscana, sez. III, n. 1196/2017), a maggior ragione la ripetizione del sorteggio non viola il principio di par condicio fra i partecipanti alla gara. Si consideri, inoltre, al riguardo, che il rispetto delle soglie minime di idoneità deve essere garantito per ogni singolo prodotto, non solo per quelli sorteggiati, per cui il dolersi della scelta non assume rilevanza alcuna.”Ne consegue che, la discrezionale decisione assunta dalla commissione tecnica di reiterare le operazioni antecedenti l'effettuazione delle prove pratiche, non determina alcuna lesione del principio della parità di trattamento dei concorrenti e pertanto,il principio della par condicio non è stato assolutamente violato dalla commissione. In conclusione, la reiterazione del sorteggio non genera vizi sulla regolarità sostanziale della procedura competitiva e rientra tra gli ampi poteri della commissione senza, soggiacere ad obblighi di comunicazione. |
Inserito in data 16/01/2018 CONSIGLIO DI STATO, Quinta Sezione, sentenza n.182 del 15 gennaio 2018 Applicazione della disciplina dell’affidamento in house. Il Consiglio di Stato viene adito al fine di riformare la sentenza, emessa dal TAR della Lombardia, Sezione Quinta. Nella predetta sentenza, il TAR accoglie la domanda di annullamento della società P. ed annulla gli atti impugnati in primo grado, riconoscendo la fondatezza del primo motivo di gravame con cui, la ricorrente società P. contesta la sussistenza in capo al Comune di Roncaro del requisito del “controllo analogo” nei confronti della società A. ed ha dichiarato assorbiti gli altri motivi articolati nel ricorso, rigettando i rimanenti. Nello specifico, la società P., azienda operante nel settore dell’igiene urbana, svolgeva il servizio di raccolta, trasporto e smaltimento dei rifiuti nel Comune di Roncaro (PV), giusto contratto stipulato all’esito di un’apposita procedura ad evidenza pubblica, prorogato sino alla data del 28 febbraio 2015. Con delibera n. 3 del 12 febbraio 2015, il predetto Comune stabilisce che alla scadenza del termine contrattuale avrebbe affidato la gestione dei servizi alla società A., appellante avanti il Consiglio di Stato, secondo il modulo di affidamento c.d. in house, in quanto è titolare di una quota minore del relativo capitale sociale. La società A. chiede la riforma della predetta decisione. I giudici del Consiglio di Stato accolgono l’appello proposto dalla società A., ritenendolo fondato in quanto dalle risultanze degli atti, si evince che sussistono le condizioni perché si possa inquadrare un’ipotesi di in housepluripartecipato o a “controllo analogo congiunto” ed in particolare, ritengono che la res controversa può essere analizzata alla luce dei dettami dell’art. 12 della Direttiva 2014/24/UE in tema di “in houseproviding”, la quale enuncia i presupposti e le condizioni per procedere ad un affidamento diretto in regime di controllo. Il Consiglio di Stato, nella sentenza in commento, riprende quanto deciso dalla Sezione VI, con sentenza del 03 aprile 2007, n. 1514, nella quale si legge: “Occorre, in particolare, verificare che l’ente pubblico affidante (rispettivamente la totalità dei soci pubblici) eserciti(no), pur se con moduli societari su base statutaria, poteri di ingerenza e di condizionamento superiori a quelli tipici del diritto societario, caratterizzati da un margine di rilevante autonomia della governance rispetto alla maggioranza azionaria, sicché risulta indispensabile, che le decisioni più importanti siano sottoposte al vaglio preventivo dell’ente affidante o, in caso di in house frazionato – come nella fattispecie in esame –, della totalità degli enti pubblici soci.” Nella predetta decisione n. 1514/2007, si legge inoltre che al fine di un legittimo affidamento in house occorre: “- (i) che l’attività della società affidataria sia limitata allo svolgimento dei servizi pubblici nel territorio degli enti soci (e si tratta di un requisito sussistente nel caso in esame),- (ii) che venga esercitata fondamentalmente a beneficio di questi ultimi (e si tratta anche in questo caso di un requisito sussistente nel caso dell’appellante),- (iii) che si svolga tramite organi statutari composti da rappresentanti di detti enti (si tratta anche in questo caso di un requisito che, secondo quanto di seguito si dirà, sussiste nel caso in esame),- (iv) che gli enti soci esercitino un’influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni importanti di detta società (in tal senso: CGCE, Sez. II, 17 luglio 2008, C-371/05, caso Comune di Mantova; CGCE, Sez. III, 13 novembre 2008, C-324/07, caso CoditelBrabant; CGCE, Sez. III, 10 settembre 2009, causa C-573/07, caso SEA).” In conclusione, applicando i presupposti anzidetti al caso di specie, il Consiglio di Stato ritiene che la delibera consiliare di affidamento del servizio all’anzidetta società A. sia legittima in quanto quest’ultima società appare essere interamente partecipata da enti pubblici locali e da altri Comuni minori. |
Inserito in data 14/01/2018 CONSIGLIO DI STATO, Quinta Sezione, sentenza n. 120 del 11 gennaio 2018 Linee guida per la revoca dell’aggiudicazione in materia di appalti pubblici. Una società a responsabilità limitata a socio unico propone ricorso in appello contro il Comune di Pavia e nei confronti di altra società cooperativa per la riforma di una sentenza del TAR Lombardia – Milano, con la quale veniva rigettato il ricorso, riscontrando la legittimità dei provvedimenti adottati dall’anzidetto Comune. Quest’ultimo si era adoperato infatti ad inviare all’ANAC tutta la documentazione inerente ad un accordo siglato tra la società a responsabilità limitata a socio unico, classificata al secondo posto in una procedura di evidenza pubblica, ed un’altra società, ritenendo che vi fosse una grave violazione degli obblighi professionali. L’ANAC revoca l’aggiudicazione dell’appalto a favore della società a responsabilità limitata a socio unico, avendo riscontrato una grave irregolarità. Tale provvedimento viene impugnato dalla società. Il Consiglio di Stato si pronuncia pertanto in merito alle problematiche applicative legate alla revoca dell’aggiudicazione operata ai sensi dell’art. 21-quinquies L. n. 241/1990. I giudici del Consiglio di Stato ritengono che nel caso esaminato il Comune abbia agito regolarmente, dato che non ha contestato alla società delle inadempienze nell’esecuzione della prestazione, ma di aver tenuto un comportamento scorretto nella fase antecedente alla consegna anticipata del servizio, consistente nella stipulazione di un accordo transattivo finalizzato, secondo la stazione appaltante, ad affidare in subappalto in violazione di legge tutte le prestazioni oggetto del contratto. Nel caso concreto, il Consiglio di Stato ritiene che non sussiste un contratto e pertanto, non vi è contestazione di inadempimento contrattuale. Ne consegue che non è stato esercitato alcun potere di risoluzione, in quanto si è configurata invece una revoca dell’aggiudicazione nei confronti della società appellante. I giudici del Consiglio di Stato riprendono, nella motivazione della sentenza in commento, la decisione dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (sentenza n. 14 del 20 giugno 2014), che offre dei chiarimenti sull’esercizio dei poteri di revoca dell’aggiudicazione: “Resta perciò impregiudicata, nell’inerenza all’azione della pubblica amministrazione dei poteri di autotutela previsti dalla legge, la possibilità: a) della revoca nella fase procedimentale della scelta del contraente fino alla stipulazione del contratto; b) dell’annullamento d’ufficio dell’aggiudicazione definitiva anche dopo la stipulazione del contratto, ai sensi dell’art. 1, comma 136, l. n. 311 del 2004, nonché concordemente riconosciuta in giurisprudenza, con la caducazione automatica degli effetti negoziali del contratto per la stretta consequenzialità funzionale tra l’aggiudicazione della gara e la stipulazione dello stesso.” (principio ribadito da Cons. Stato, sez. III, 29 novembre 2016, n. 5026). Ciò conformemente alla previsione dell’art. 11, comma 9, d.lgs. 163 cit. che fa salvo “l’esercizio dei poteri di autotutela nei casi consentiti dalle norme vigenti”. Secondo un pacifico orientamento della giurisprudenza le ragioni, che appaiano idonee a giustificare la revoca legittima dell’aggiudicazione, sono individuate in: “a) revoca per sopravvenuta non corrispondenza dell’appalto alle esigenze dell’amministrazione; b) revoca per sopravvenuta indisponibilità di risorse finanziarie ovvero per sopravvenuta non convenienza economica dell’appalto (fra le tante, Cons. Stato, sez. V, 21 aprile 2016, n. 1599, Sez. III, 29 luglio 2015, n. 3748); c) revoca per inidoneità della prestazione descritta nella lexspecialis a soddisfare le esigenze contrattuali che hanno determinato l'avvio della procedura (sulla quale, ampiamente, Cons. Stato, sez. III, 29 novembre 2016, n. 5026). Tra i “sopravvenuti motivi di pubblico interesse” ben possono rientrare anche comportamenti scorretti dell’aggiudicatario che si siano manifestati successivamente all’aggiudicazione definitiva (fattispecie già conosciuta in giurisprudenza, cfr. Cons. Stato, sez. V, 12 giugno 2017, n. 2804 avente ad oggetto il mancato assolvimento agli obblighi contributivi emerso successivamente all’aggiudicazione; Cons. Stato, sez. V, 11 luglio 2016, n. 3054, ove la revoca era giustificata dal rifiuto dell’aggiudicatario di stipulare il contratto prima che fossero modificate talune clausole contenute nel capitolato di gara; Cons. Stato, sez. IV, 20 gennaio 2015, n. 143, revoca giustificata per violazione delle clausole dei Protocolli di legalità; e TAR Liguria, sez. II, 27 gennaio 2017, n. 55). In detti casi la revoca assume quella particolare connotazione di revoca – sanzione, poiché la caducazione degli effetti del provvedimento è giustificata da condotte scorrette del privato beneficiario di precedente provvedimento favorevole dell’amministrazione; tuttavia si tratta pur sempre di “motivi di pubblico interesse”, successivi al provvedimento favorevole (o successivamente conosciuti dalla stazione appaltante, e per questo “sopravvenuti”) che giustificano la revoca. La particolarità di tale revoca consiste nel fatto che l’amministrazione non è tenuta a soppesare l’affidamento maturato dal privato sul provvedimento a sé favorevole e, d’altra parte, non ricorrono pregiudizi imputabili all’amministrazione e ristorabili mediante indennizzo poiché ogni conseguenza, ivi comprese eventuali perdite economiche, è imputabile esclusivamente alla condotta del privato (non dando luogo a responsabilità dell’amministrazione, neppure da atto lecito).” In conclusione, la condotta della società appellante viene condannata da parte del Consiglio di Stato in quanto contraria alla disciplina legislativa in materia di subappalto (data la scrittura privata siglata tra le parti) e come tale, legittima la revoca dell’aggiudicazione dell’appalto. |
Inserito in data 13/01/2018 CONSIGLIO DI STATO, Terza Sezione, sentenza n. 93 del 10 gennaio 2018 I presupposti e le finalità applicative della gestione commissariale ex art. 32 del D. L. anticorruzione. Il Consiglio di stato viene adito da una società, al fine di riformare una sentenza emanata dal TAR – Lombardia, concernente l’annullamento di un provvedimento, con il quale il Prefetto della Provincia di Monza e della Brianza ha decretato, nei confronti della ricorrente, la misura “della straordinaria e temporanea gestione” dell’impresa ai fini della completa esecuzione degli appalti dei servizi di igiene ambientale dei Comuni. A tale provvedimento, si deve anche aggiungere quello emanato dal Presidente dell’ANAC, a mezzo del quale, ha disposto l’emissione della misura del commissariamento oltre, a comunicare l’avvio dei procedimenti di richiesta di emissione delle misure di cui all’art. 32, co. 1, della L. n. 114/2014, nonché l’eventuale inserimento nel casellario informatico dell’ANAC del decreto. Il predetto provvedimento impugnato è stato emesso sulla base della seguente motivazione: “a carico dell’impresa appaltante risultavano riscontrate “situazioni anomale e comunque sintomatiche di condotte illecite o eventi criminali” di matrice corruttiva, commessi in occasione di varie procedure d’appalto al fine di ottenere l’aggiudicazione” oltre “fatti delittuosi in ordine dei quali è, peraltro, intervenuta un sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, pronunciata ai sensi dell’art. 444 c.p.p.” I giudici del Consiglio di Stato rigettano l’appello proposto dalla società e motivano la decisione sulla base di un recente orientamento giurisprudenziale, spiegando la finalità, l’obiettivo ed i presupposti per l’applicazione dell’art. 32, co. 1, della L. n. 114/2014. Con la sentenza n. 5563 del 2017, il Consiglio di Stato sostiene che l’art. 32 della L. anticorruzione vanta un duplice obiettivo: garantire la completa esecuzione degli appalti e neutralizzare il rischio di fare infiltrare la criminalità nelle imprese, utilizzando lo strumento del commissariamento. I giudici del Consiglio di Stato illustrano, nella motivazione di diritto della sentenza in commento, che “la gestione commissariale è volta, attraverso l’intervento del Prefetto, non soltanto a garantire l’interesse pubblico alla completa esecuzione dell’appalto ma anche a sterilizzare la gestione del contratto “oggetto del procedimento penale” dal pericolo di acquisizione delle utilità illecitamente captate in danno della pubblica amministrazione. E non si è mancato di sottolineare che, sotto tale profilo, l’istituto si manifesta come uno strumento di autotutela contrattuale previsto direttamente dalla legge. Questa speciale forma di commissariamento riguarda soltanto il contratto (e la sua attuazione) e non la governance dell’impresa in quanto tale ed in ciò si distingue dalle misure di prevenzione patrimoniali disposte ai sensi del D.Lgs n. 159 del n. 2011 (c.d. codice antimafia), essendo ratio della norma quella di consentire il completamento dell’opera (ovvero, come nella fattispecie, la gestione del servizio appaltato) nell’esclusivo interesse dell’amministrazione concedente mediante la gestione del contratto in regime di “legalità controllata”. In tal senso depone lo stesso tenore letterale della norma laddove si afferma che il commissariamento ha luogo “limitatamente alla completa esecuzione del contratto o della concessione”. I giudici del Consiglio di Stato spiegano che la ratio della norma è di garantire il completamento dell’opera nell’interesse esclusivo dell’amministrazione concedente, a mezzo la gestione del contratto in regime di “legalità controllata” e pertanto, sotto tale prospettiva, bisogna leggere il settimo comma dell’art. 32, ove si impone l’accantonamento degli utili che derivano dal contratto commissariato. In ordine alla problematica attinente all’applicabilità del principio di irretroattività ai sensi dell’art. 11 delle preleggi, il Consiglio di Stato sostiene che il commissariamento deve ritenersi applicabile a tutti i rapporti contrattuali in esecuzione, al momento dell’entrata in vigore della Legge anticorruzione, senza trovare alcuna applicazione il principio dell’irretroattività, secondo il principio del tempusregitactum. In conclusione, il Consiglio di Stato rigetta l’appello proposto, in quanto il provvedimento emanato dalla Prefettura e dall’ANAC sono fondati su un giudizio vertente “un collaudato sistema corruttivo e di una capillare rete di contatti e di appoggi”, che sono espressione di una permanente attualità del pericolo di infiltrazioni criminali di tipo corruttivo. |
Inserito in data 12/01/2018 TAR VENETO – VENEZIA, Prima Sezione, sentenza n. 21 del 09 gennaio 2018 Profili di illegittimità del divieto di transito dei mezzi pesanti adottato dal Comune. Il TAR Venezia si pronuncia, con la sentenza n. 21 del 09 gennaio 2018, in merito ad una problematica ricorrente in qualsiasi realtà cittadina quale: l’emissione di un’ordinanza di divieto di transito dei mezzi pesanti e le ricadute negative sugli interessi economici dei commercianti locali. Nello specifico, il caso riguarda un’ordinanza di divieto di circolazione per i mezzi pesanti su una strada locale, adottata dal Comune di Rovigo, al fine di inibire il traffico ai mezzi pesanti, cagionando delle difficoltà inevitabili agli operatori economici, operanti nella zona artigianale. Alcuni commercianti impugnano il predetto provvedimento comunaleavanti al TAR. Il Collegio accoglie le doglianze motivate nel ricorso introduttivo, reputando la predetta ordinanza illegittima. Il Comune si costituisce in giudizio sostenendo che: “il divieto in questione è stato adottato “a tutela della salute e della sicurezza dei propri cittadini residenti nelle frazioni di Mardimago e di Sarzano”, giacché la strada comunale non sarebbe più “in grado di assorbire l'elevato numero di transiti di autoveicoli, soprattutto per quanto riguarda i mezzi pesanti in questione”. I giudici del Collegio ritengono che il ricorso, proposto dai commercianti, solleva due importanti problemi di illegittimità: da un lato, si contesta una non corretta ponderazione degli interessi in gioco anche in ragione di un’istruttoria deficitaria, avendo l’Amministrazione comunale trascurato le ripercussioni che tale provvedimento avrebbe potuto avere sulla viabilità provinciale, con particolare riguardo all’accessibilità all’area artigianale; dall’altro, si contesta la mancanza della partecipazione degli altri enti provinciali, mediante l’adozione di una Conferenza dei Servizi. Il TAR sostiene che il Comune di Rovigo abbia agito illegittimamente, in quanto ha adottato un provvedimento “in violazione del principio di leale collaborazione e del diritto di partecipazione degli altri enti interessati dalle ricadute viarie che esso avrebbe determinato.” In conclusione, secondo i giudici del Collegio, “tale violazione si è tradotta conseguentemente in un insanabile difetto di istruttoria, che ha falsato l'esatta portata di tutti gli interessi in gioco, compreso quello imprenditoriale delle ditte ricorrenti, impedendone un'adeguata ponderazione da parte dell'Amministrazione procedente.” |
Inserito in data 09/01/2018 TAR – TRENTO, Prima Sezione, sentenza n. 4 del 08 gennaio 2018 La certificazione di autenticità della firma digitale. Il TAR si pronuncia in tema di procedure telematiche, con particolare riguardo alla produzione del certificato della firma digitale nelle gare di appalto, al fine di assicurare l’originalità della firma apposta. La società ricorrente viene invitata, a mezzo di lettera di invito, a partecipare alla gara telematica per l’affidamento dei lavori di “completamento delle nuove reti fognarie bianche e nere al servizio delle frazioni del comune di Valfloriana”. L’anzidetta lettera di invito contiene integralmente tutte le modalità per partecipare alla gara, compresa l’indicazione del formato delle firme da apporre sui files ovvero, “Lista delle lavorazioni e forniture", che contiene le firme in formato PAdES-T (.pdf) del Responsabile della Struttura di merito e del Dirigente del Servizio Appalti e già compilato con le modalità sopra indicate da parte del concorrente; - si attiva la funzione del software di firma che permette di apporre la propria firma sul file selezionato; - si carica a sistema il file così firmato, che avrà ora estensione .pdf.p7m, a corredo dell'offerta”. La società ricorrente viene esclusa dall’aggiudicazione dell’appalto, in quanto la Commissione di gara rileva che: “il file denominato "Lista delle lavorazioni e Forniture" allegato dall'impresa S.T.E. Costruzioni Generali srl risulta essere una copia riprodotta mediante scanner rispetto al modulo fornito dall'Amministrazione e pertanto privo dei certificati di firma del "Servizio Competente" e della "Stazione Appaltante”. L’anzidetta società impugna il provvedimento di esclusione, deducendo: la “violazione della lexspecialis ed in particolare del paragrafo 3.1.1 della lettera d'invito; violazione dell'art. 83, comma 8, del decreto legislativo n. 50/2016 e dell'art. 57, comma 5, D.P.P. n. 9-84/Leg in data 11 maggio 2012; eccesso di potere per travisamento dei fatti e ingiustizia manifesta.” ed anchela “violazione dell'art. 83, comma 9, del decreto legislativo n. 50/2016; eccesso di potere per travisamento e/o erronea valutazione dei fatti, difetto di istruttoria, disparità di trattamento e ingiustizia manifesta. I giudici del TAR vengono investiti da un ricorso concernente questioni innovative. Con sentenza n. 4050 del 03 novembre 2016, il Consiglio di Stato ha fatto luce sulle modalità di svolgimento delle gare di appalto telematiche, affermando che le predette gare si caratterizzano per l’utilizzo di una piattaforma on–line di e-procurement e di strumenti di comunicazione digitali (quali firma digitale e pec), che rendono la gara più efficiente, veloce e sicura rispetto al modo tradizionale, basato esclusivamente sull’invio cartaceo della documentazione e delle offerte. In occasione di una vicenda analoga, il TAR della medesima sezione ha chiarito che: “il formalismo che caratterizza la disciplina delle procedure di gara corrisponde anche alla necessità di garantire l'imparzialità dell'azione amministrativa e la parità di condizioni tra i concorrenti", sicché "solo in presenza di un'equivoca formulazione della lettera di invito, a fronte cioè di una pluralità di possibili interpretazioni, può ammettersi la preferenza per quella che può condurre alla partecipazione del maggior numero di aspiranti, ma non quando la prescrizione sia univoca e venga imposta dall'amministrazione appaltante a pena di esclusione", e che la misura espulsiva sancita dall'art. 57, comma 6 per il caso di mancato utilizzo del modulo relativo alla lista delle lavorazioni e forniture predisposto dalla stazione appaltante soddisfa, "viepiù in ragione della tipologia di gara e dello svolgimento della stessa in via telematica, le prevalenti esigenze di certezza e celerità perseguite dall'amministrazione". (TAR – TRENTO, sentenza n. 305 del 20 novembre 2017) Infine, la Corte sottolinea, nel caso concreto esaminato, che non sussiste alcuna violazione della lexspecialis ed in particolare del paragrafo 3.1.1 della lettera d'invito, in quanto sono state inviate tutte le informazioni necessarie per la corretta formulazione dell’offerta non solo sotto il profilo sostanziale ma anche, sotto il profilo formale ed in merito alla paventata violazione della disposizione dell’art. 83, comma 9, del D. L. n. 50/2016, per mancata attivazione del c.d. soccorso istruttorio, la Corte sostiene che non sussista alcuna violazione, in quanto la Commissione di gara non ha correttamente attivato la predetta procedura, avendo rilevato irregolarità formali. |
Inserito in data 07/01/2018 TAR LAZIO - ROMA, Terza Sezione, sentenza n. 107 del 05 gennaio 2018 Ai fini di una eventuale impugnazione, il termine decorre dalla comunicazione dell’aggiudicazione definitiva dell’appalto approvata ex lege. Con la sentenza n. 107 del 05 gennaio 2018, il TAR Lazio si pronuncia su un tema abbastanza controverso in giurisprudenza: da quale momento decorre il dies a quo per l’eventuale impugnazione della comunicazione dell’aggiudicazione definitiva dell’appalto approvata dal competente organo. Con lettera di invito del 16 maggio 2017, la società G.S. comunica di voler affidare, mediante procedura negoziata, “il servizio di progettazione di prevenzione incendi del complesso immobiliare della Stazione Roma Termini” ed invita alcune imprese a presentare le proprie offerte entro la data del 5 giugno 2017. L'importo stimato del contratto da affidare era di Euro 326.941,04 (inferiore alla soglia comunitaria vigente per i c.d. settori speciali). La gara sarebbe stata aggiudicata mediante applicazione del criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa “sulla base degli elementi indicati al successivo paragrafo 6”. In particolare, la Commissione avrebbe assegnato un punteggio massimo di 70 punti per l'offerta tecnica migliore e un punteggio massimo di 30 punti per la migliore offerta economica. Al punto 4 della lettera di invito, è previsto che "Qualora ritenuto opportuno, la SA si riserva la facoltà di esaminare le offerte tecniche e successivamente le offerte economiche prima della verifica dell'idoneità degli offerenti. In tal caso troveranno applicazione le disposizioni di cui all'art. 133, co. 8 del d.lgs. n. 50/2016". Al predetto invito, rispondono quattro imprese. La ricorrente società Gae E. presenta la migliore offerta tecnica ottenendo il punteggio massimo di 70. La società G.S. comunica alla Gae E., tramite pec del 28/06/2017, che l’appalto viene aggiudicato da un’altra società. La Gae E. chiede accesso ai documenti di gara ed in data 04/08/17, la stazione Appaltante provvede a consegnare tutta la documentazione inerente alla procedura della gara di appalto. La Gae E. impugna, avanti al Tar Lazio-Roma, l’aggiudicazione in favore di un’altra società dell’appalto de quo, sulla base di sette motivazioni. La resistente G.S. preliminarmente solleva l’eccezione di irricevibilità del gravame per tardività, in quanto “in quanto la comunicazione di aggiudicazione indirizzata alla Gae E., come documentata anche da quest'ultima, risale al 28.6.2017, mentre l'accesso ai documenti di gara è stato richiesto dalla Gae soltanto il successivo 28 luglio; il ricorso, infine, è stato spedito a notifica soltanto il 7 settembre 2017, quando il termine breve per la proposizione del ricorso era ormai ampiamente scaduto.” Il Collegio ritiene che non sia assolutamente fondata la questione preliminare sollevata dalla resistente, in quanto la comunicazione del 28/06/2017 deve essere intesa come un’informazione preliminare relativa all’esito dei lavori della Commissione. I giudici del Collegio precisano a tal riguardo che la procedura di affidamento dell’appalto è sottoposta alla disciplina del nuovo Codice Appalti (D. Lgs. n. 50 del 2016). Il Collegio chiarisce che il nuovo Codice ha ridisegnato in parte la disciplina relativa alla conclusione della procedura di selezione delle offerte. Specificatamente, l'art. 32, comma 5, prevede che “la stazione appaltante, previa verifica dell'aggiudicazione provvisoria ai sensi dell'art. 33, comma 1, provvede all'aggiudicazione”; l’art. 33, comma 1, sancisce che “La proposta di aggiudicazione è soggetta ad approvazione dell'organo competente secondo l'ordinamento della stazione appaltante e nel rispetto dei termini previsti, decorrenti dal ricevimento della proposta di aggiudicazione da parte dell'organo competente secondo l'ordinamento della stazione appaltante e nel rispetto dei termini previsti, decorrenti dal ricevimento della proposta di aggiudicazione da parte dell'organo competente”. Secondo recente giurisprudenza (TAR Lombardia, 8 luglio 2016, n. 1383), si ritiene, che:“la comunicazione di cui all'art. 76, comma 5, lett. a), che deve essere fatta d'ufficio immediatamente (e comunque non oltre gg. 5) da parte della S.A., nel riferirsi all' “aggiudicazione” (non ulteriormente qualificata), si riferisca in realtà all'atto conseguente all'approvazione dell'organo competente e non alla “proposta di aggiudicazione” (di cui all'art. 33) o “aggiudicazione provvisoria” secondo la terminologia del codice previgente (l'espressione ritorna peraltro nell'art. 32, comma 5, precitato dell'attuale Codice Appalti). La proposta di aggiudicazione, peraltro, fa nascere una mera aspettativa in capo all'interessato alla positiva definizione del procedimento stesso, in quanto in essa non si individua il provvedimento conclusivo della procedura di evidenza pubblica, avendo per sua natura un'efficacia destinata ad essere superata. Non a caso l'art. 204 del nuovo Codice Appalti sancisce espressamente l'inammissibilità della impugnazione della proposta di aggiudicazione di cui agli artt. 32 e 33 citati.” Alla luce del predetto orientamento giurisprudenziale e del quadro normativo di riferimento,il Collegio sostiene che la decadenza della ricorrente dall'impugnativa per superamento del termine di rito, potrebbe essere dichiarata soltanto di fronte ad una comunicazione della S.A. che in termini chiari e univoci, risulti idonea a portare a conoscenza della destinataria Gae E. l'aggiudicazione definitiva dell'appalto nei confronti di un’altra società e non si afferma in alcun punto del documento che vi è stata aggiudicazione approvata dal competente organo di G. S.. |
Inserito in data 05/01/2018 CONSIGLIO DI STATO, Sezione Quinta, ordinanza n. 56 del 04 gennaio 2018 Nel processo amministrativo telematico, il ricorso notificato in modalità cartacea con firma autografa del difensore è inficiato di nullità. Il Collegio del Consiglio di Stato si pronuncia in tema di processo amministrativo e le modalità di notifica del ricorso introduttivo del giudizio alla luce dell’art. 136, co. 2-bis, cod. proc. amm, stabilendo che: “l'atto di appello è stato notificato in modalità cartacea con firma autografa del difensore e, dunque, non essendo stato firmato digitalmente (mediante l'utilizzo del formato PAdES) è nullo per violazione dell'art. 136, comma 2-bis, Cod. proc. amm. (a tenore del quale "[...] tutti gli atti e i provvedimenti del giudice, dei suoi ausiliari, del personale degli uffici giudiziari e delle parti sono sottoscritti con firma digitale") e dell'art. 9 (Atti delle parti e degli ausiliari del giudice), comma 1, d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40 (Regolamento recante le regole tecnico-operative per l'attuazione del processo amministrativo telematico) (in base al quale gli atti processuali "sono redatti in formato di documento informatico sottoscritto con firma digitale conforme ai requisiti di cui all'articolo 24 del CAD"), norme il cui combinato disposto vuole che l'appello, atto processuale introduttivo del giudizio di secondo grado, abbia la forma risultante da un'estrazione di formato digitale pdf nativo, sottoscritto dal legale con firma digitale PAdES.” Il Consiglio di Stato ha sottolineato che il ricorso in appello redatto in formato cartaceo, sottoscritto con firma autografa del difensore ed in egual modo notificato alla parte appellata deve ritenersi meramente irregolare anziché nullo o inesistente, sulla base di una duplice motivazione: non rientra tra le ipotesi di nullità sancite dalla legge e l’atto in questione raggiunge comunque il suo fine tipico, essendo rintracciabile la paternità e realizzando comunque la chiamata in ius del convenuto ed ottenendo la sua costituzione in giudizio. |
Inserito in data 04/01/2018 TAR CAMPANIA - NAPOLI, Ottava Sezione, sentenza n. 37 del 03 gennaio 2018 Tempo ragionevole e modalità di pagamento dell’indennizzo per eccessiva durata del processo nel caso di ottemperanza. Il ricorrente agisce per l’ottemperanza ad un decreto decisorio, emesso dalla Corte di appello di Napoli, a mezzo del quale, in accoglimento dell’istanza proposta ai sensi della Legge Pinto, viene liquidato un equo indennizzo in favore del predetto ricorrente e le spese di lite in danno del Ministero dell’Economia e delle Finanze. Contro tale decreto non è stata mai proposta alcuna impugnazione e pertanto, ha acquistato la natura definitiva. Il citato Ministero non si adopera al fine di effettuare il pagamento dovuto. Il TAR si pronuncia favorevolmente nei confronti del ricorrente. I giudici del Collegio rilevano che nel caso di specie sussistono i presupposti per l’accoglimento del ricorso, essendo il decreto de quo divenuto definitivo, in seguito alla mancata proposizione di impugnazione avverso il medesimo ed essendo trascorso anche il termine di centoventi giorni dalla data della notifica del decreto decisorio in forma esecutiva ex art. 14, co. 1, del D. L. n. 669 del 1996 convertito in legge 28 febbraio 1997 n. 30, senza che il Ministero abbia adempiuto al pagamento di quanto dovuto nei confronti del ricorrente. Nelle more del processo, è intervenuta una modifica legislativa, con la legge di stabilità 2016,che ha inserito l’art. 5-sexies nella L. Pinto. Quest'ultimo articolo ha mutato le modalità di pagamento delle somme dovute per condanne ai sensi della stessa legge Pinto, introducendo delle disposizioni che incidono anche sulla proponibilità dei processi di esecuzione di tali pronunce e pertanto, anche dei giudizi di ottemperanza. Viene, infatti, richiesto al creditore di rilasciare una dichiarazione di autocertificazione e sostitutiva di notorietà, attestante la non avvenuta riscossione di quanto dovuto e altri dati e documenti inerenti al pagamento, pena l'impossibilità di ottenere dalla p.a. debitrice il pagamento e di agire in via esecutiva. Nello specifico, i giudici del TAR sostengono che per i processi di ottemperanza già incardinati alla data del 01 gennaio 2016, deve trovare applicazione il comma 11 dell'art. 5-sexies, in quanto disciplina i termini di applicabilità della normativa in questione, mentre il comma 12 dello stesso articolo risolve la problematica del contenuto degli obblighi di comunicazione anche nelle more di adozione dei decreti ministeriali che approveranno i modelli di dichiarazione. Il comma 11sancisce, infatti, che "nel processo di esecuzione forzata, anche in corso, non può essere disposto il pagamento di somme o l'assegnazione di crediti in favore dei creditori di somme liquidate a norma della presente legge in caso di mancato, incompleto o irregolare adempimento degli obblighi di comunicazione. La disposizione di cui al presente comma si applica anche al pagamento compiuto dal commissario ad acta". Sulla base di tale quadro normativo, il TAR decide che: “In particolare, tenendosi conto delle disposizioni di cui al comma 11 dell'emendato art. 5-sexies della legge Pinto, la domanda di ottemperanza proposta prima dell'entrata in vigore della novella legislativa può essere accolta, ma l'ordine giudiziale susseguente, volto a disporre le misure necessarie ad assicurare l'esecuzione del giudicato, deve essere emesso nel rispetto delle modalità legali attualmente vigenti, ovverosia considerando il comma 11 che, per i processi di esecuzione in corso, prevede l'assolvimento degli obblighi di comunicazione, e cioè il rilascio da parte dei creditori, anche in assenza dei decreti attuativi, di una "dichiarazione, ai sensi degli articoli 46 e 47 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445, attestante la mancata riscossione di somme per il medesimo titolo, l'esercizio di azioni giudiziarie per lo stesso credito, l'ammontare degli importi che l'amministrazione è ancora tenuta a corrispondere, la modalità di riscossione prescelta ai sensi del comma 9 del presente articolo...". Il Collegio ritiene, inoltre, che, per le esecuzioni in corso, come quella del caso di specie, il riferimento all'assolvimento degli obblighi di comunicazione sia riferibile solo alla presentazione della dichiarazione e non anche al decorso dei sei mesi. Quest'ultimo termine dilatorio esula del tutto dagli obblighi di comunicazione imposti al creditore. La disposizione del comma 11 si richiama, infatti, ai soli obblighi di comunicazione e non all'intera procedura di liquidazione, e il riferimento della disposizione a una fase giudiziaria prettamente esecutiva - quale quella del giudizio di ottemperanza o di esecuzione forzata nel processo civile - fa venir meno l'esigenza di garantire uno spatiumdeliberandi all'amministrazione per pagare, mentre fa salva quella di evitare duplicazioni di pagamento e, in ogni caso, di avere una chiara situazione debitoria. Tale interpretazione è, peraltro, conforme all'esigenza che il giudicato trovi pronta esecuzione, in linea con il principio costituzionale di pienezza della tutela giurisdizionale di cui all'art. 24 Cost., così come con i principi in tema di equità del processo ed effettività della tutela, di cui agli artt. 6 e 13 della Convenzione CEDU. Inoltre, anche in giurisprudenza è stato da tempo affermato che, in sede di giudizio di ottemperanza, le azioni sostitutive poste in essere dal giudice o, per esso, dal commissario ad acta per eseguire il giudicato, possono anche esulare dal rispetto delle ordinarie procedure cui è tenuta l'amministrazione nell'ambito della sua azione, anche in ipotesi riguardanti il pagamento di somme di denaro (T.A.R. Lazio, Roma, sez. III-quater, 8 giugno 2015, n. 7987; T.A.R. Molise, 17 aprile 2015, n. 147; Cons. Stato, sez. III, 7 giugno 2013, n. 3124; Cons. Stato, sez. V, 1 marzo 2012, n. 1194; T.A.R. Lombardia, Milano, sez. III, 21 giugno 2012, n. 1763).” |
Inserito in data 03/01/2018 CONSIGLIO DI STATO, Terza Sezione, sentenza n. 6195 del 30 dicembre 2017 La straordinaria e temporanea gestione dell’impresa ai sensi della Legge n. 90 del 2014. Con la sentenza n. 6195 del 30 dicembre 2017, il Consiglio di Sato si pronuncia in tema di straordinaria e temporanea gestione dell’impresa ai sensi della Legge n. 90 del 2014. Il caso esaminato trae origine dalla procedura di gara indetta dal Comune di Arcore per l’affidamento del servizio di refezione scolastica. L’appellante ha preso parte alla gara, aggiudicandosi provvisoriamente la concessione del servizio. La Prefettura di Roma dispone la temporanea e straordinaria gestione dell’impresa ai sensi dell’art. 31 del D.L. n. 90 del 2014. Il Comune dispone però la revoca immediata, comunicando di affidare il servizio alla seconda classificata tra i partecipanti alla procedura di evidenza pubblica. L’appellante chiede, al Comune di Arcore, l’annullamento in autotutela del provvedimento di revocadell’aggiudicazione. Il provvedimento comunale viene impugnato davanti al TAR al fine di chiederne l’annullamento. Il TAR ha dichiarato inammissibile il ricorso. Il Consiglio di Stato si pronuncia in merito, facendo luce sulla disciplina della straordinaria e temporanea gestione dell’impresa ai sensi dell’art. 32 della Legge n. 90 del 2014. In punto di diritto il Collegio osserva che: “ La motivazione del primo giudice non è condivisibile, anzitutto in punto di diritto, perché la disposizione dell'art. 32 del d.l. n. 90 del 2014, al comma 1, stabilisce che la straordinaria e temporanea gestione dell'impresa operi "limitatamente alla completa esecuzione del contratto d'appalto ovvero dell'accordo contrattuale o della concessione" e, al comma 2, che la sua durata sia commisurata "in ragione delle esigenze funzionali alla realizzazione dell'opera pubblica, al servizio o alla fornitura oggetto del contratto ovvero dell'accordo contrattuale e comunque non oltre il collaudo". L'operatività limitata quoadeffectum dell'istituto non estende l'efficacia sospensiva dei poteri gestori spettanti agli amministratori a quei contratti e/o rapporti che non siano espresso e specifico oggetto di gestione straordinaria da parte dell'autorità prefettizia, dando questa luogo solo ad una "gestione separata di quella parte dell'azienda che dovrà eseguire l'appalto pubblico" (così anche l'ANAC nelle Seconde Linee Guida per l'applicazione delle misure straordinarie di gestione, sostegno e monitoraggio di imprese nell'ambito della prevenzione anticorruzione e antimafia adottate il 28 gennaio 2015), sicché rispetto a tali contratti gli amministratori della società mantengono inalterati i propri poteri, non escluso quello di conferire la procura ad litem per impugnare i provvedimenti di revoca e/o recesso esercitati dalla stazione appaltante, consequenziali all'informativa antimafia, rispetto a rapporti in essere con l'Amministrazione sino a quel momento, almeno e appunto, non ricompresi nel provvedimento di straordinaria e temporanea gestione ai sensi dell'art. 32 del d.l. n. 90 del 2012.” |
Inserito in data 30/12/2017 TAR PIEMONTE - TORINO, Seconda Sezione, sentenza n. 1378 del 29 dicembre 2017. Il giudice ordinario è competente a pronunciarsi sul provvedimento di convalida del sequestro cautelare amministrativo. Con la sentenza n. 1378 del 2017, il TAR Piemonte si pronuncia al fine di fare chiarezza sul discusso riparto di giurisdizione in relazione al provvedimento di convalida del sequestro cautelare amministrativo. I NAS dei Carabinieri effettuano un’ispezione presso la proprietà dei ricorrenti e rilevano la presenza di ventinove cani, detenuti in condizioni non compatibili con la nature degli stessi sia per numero sia per condizioni di custodia sia per promiscuità. Ordinano pertanto il sequestro amministrativo. Tale provvedimento viene convalidato con ordinanza del direttore del capo di polizia municipale. Avverso la predetta ordinanza, presentano opposizione, la quale viene parzialmente accolta. Nello specifico, i ricorrenti lamentano la violazione e falsa applicazione del DPR n. 320/1954 e della L. n. 281/199, in combinato disposto con il regolamento di attuazione della legge regionale Piemonte n. 34/1193, oltre la violazione e falsa applicazione degli artt. 50 e 54 del D.Lgs. n. 267/2000. Il Tar dichiara il ricorso in parte inammissibile ed in parte improcedibile. I giudici del TAR colgono l’occasione per chiarire quale natura vanta l’atto impugnato. Il provvedimento sindacale oggetto di censure è stato adottato ai sensi della L. n. 689/1981, in seguito dell'opposizione che i ricorrenti hanno proposto al sequestro adottato dai Nas. Il provvedimento confermato in sede di opposizione, mantiene la propria natura cautelare, destinato pertanto a perdere automaticamente efficacia nell’ipotesi in cui non intervenga la confisca (ex lege entro sei mesi). Secondo costante giurisprudenza, “La giurisprudenza amministrativa, esprimendo un orientamento condivisibile, ha avuto modo di chiarire che la giurisdizione sul provvedimento di convalida del sequestro cautelare amministrativo spetta al giudice ordinario, inerendo ad un procedimento volto all’irrogazione di sanzione amministrativa. (a titolo esemplificativo TAR Basilicata, 5 settembre 2011, n. 459; TAR Campania, Napoli, sez. III, 20 agosto 2010, n. 17205; questo stesso Tribunale, sez. I, 20 gennaio 2006, n. 103). Peraltro, la stessa Corte di Cassazione ha affermato che né l'atto che dispone la misura cautelare, né il provvedimento di rigetto dell'opposizione in sede amministrativa contro la medesima (ovvero dell'istanza di dissequestro) sono impugnabili in sede giurisdizionale, mentre l'accertamento dell'illegittimità della suddetta misura può essere richiesto con ricorso ex art. 22 della legge n. 689/1981 contro il provvedimento di confisca (Cass., sez. III, 9 agosto 2000, n. 10534) (Tar Veneto n. 834/2014).” |
Inserito in data 23/12/2017 CONSIGLIO DI STATO – ADUNANZA PLENARIA, sentenza n. 13 del 22 dicembre 2017 Il vincolo preliminare nascente dalle proposte di dichiarazione di notevole interesse pubblico, formulate prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 42 del 2004, cessa nell’ipotesi in cui il relativo procedimento non si sia concluso entro 180 giorni. Una società produttrice di energia rinnovabile propone ricorso in appello contro il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo al fine di riformare la sentenza emessa dal TAR per il Molise, concernete il diniego dell’autorizzazione per la realizzazione di un impianto di produzione di energia eolica. La società chiede, alla Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici del Molise, l’esistenza o meno di procedimenti di tutela paesaggistica o di accertamento della sussistenza di beni archeologici, in corso alla data di presentazione della sua istanza. Dapprima, la Soprintendenza afferma che non sussistono vincoli nell’intero territorio. Successivamente, la Soprintendenza comunica alla società che risultano vincoli di tutela paesaggistica a seguito delle proposte di dichiarazione di notevole interesse pubblico, risalenti all’anno 2001 ed all’anno 2002. La società replica sostenendo che sono solo delle “mere proposte di vincolo”, il cui procedimento non si è mai concluso. Il TAR decide in favore del Ministerodei beni e delle attività culturali e del turismo, reputando preferibile l’interpretazione secondo la quale la proposta di vincolo formulata prima dell’entrata in vigore del D. Lgs. n. 42 del 2004 conserva la propria efficacia anche, nell’ipotesi in cui non ci sia approvazione mediante adozione della dichiarazione di notevole interesse pubblico. Avverso tale decisione, la Società propone appello. All’esito dell’adunanza, la VI Sezione ravvisa un contrasto giurisprudenziale. Decide pertanto di deferire la quaestio iuris all’Adunanza Plenaria: “se, a mente del combinato disposto degli articoli 140,141 e 157, co. 2 d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 - come modificati dapprima con il d.lgs. 24 marzo 2006 n. 157, e poi, con il d.lgs. 26 marzo 2008 n. 63 - le proposte di vincolo formulate prima dell'entrata in vigore del medesimo decreto legislativo, e per le quali non vi sia stata conclusione del relativo procedimento con l'adozione del decreto ministeriale recante la dichiarazione di notevole interesse pubblico, cessino di avere effetto”. Il Supremo Consesso al plenum ricostruisce il quadro normativo di riferimento. La normativa anteriore all’entrata in vigore del D. Lgs. n. 42 del 2004 prevedeva che la tutela paesaggistica aveva il suo inizio sin dal momento in cui la proposta di dichiarazione di notevole interesse pubblico veniva pubblica nell’albo del Comune di riferimento e perdurava sine die, in quanto non era previsto un termine di efficacia della misura ovvero di consumazione del potere vincolistico, consentendo che l’adozione del provvedimento finale poteva avvenire dopo molto tempo, senza pregiudicare l’effetto preliminare del vincolo. L’entrata in vigore del D. Lgs. n. 42 del 2004 ha suscitato notevoli perplessità sulla conservazione dell’efficacia limitativa delle proposte di vincolo anteriori al predetto decreto legislativo, nel caso in cui i relativi procedimenti non siano conclusi nel termine legale, alla luce delle modifiche all’art. 141. Secondo un orientamento maggioritario della giurisprudenza, bisognerebbe ravvisare un legame di continuità tra la precedente disciplina e quella contenuta nel D. Lgs. n. 42 del 2004, in ossequio sia ad un’interpretazione costituzionalmente orientata che persegue il fine ultimo di tutelare il paesaggio, evitando di travolgere negativamente delle proposte di vincolo non ancora approvate sia alla luce della scelta del legislatore di non voler novellare l’art. 157, comma 2, del Codice che sancisce la non applicabilità della decadenza alle proposte formulate anteriormente alla sua entrata in vigore (cft.Cons. di Stato, VI sezione, 27 luglio 2015 n. 3663). Un recente orientamento minoritariosostiene che per le “proposte di vincolo più antiche (..) valga piuttosto proprio l'assunto logico contrario, ossia che la mancata conclusione del provvedimento di trasformazione del vincolo da proposto a definitivo denoti invece l'affievolimento e poi lo svanire, col passar del tempo, dell'interesse pubblico che aveva inizialmente giustificato la misura precauzionale (connessa alla proposta di vincolo) tesa ad assicurare particolare protezione a determinati beni o loro insiemi ...” (Cons. di Stato, VI sezione, sentenza 16 novembre 2016 n. 4746). L’Adunanza Plenaria risolve tale contrasto, statuendo che: “Il combinato disposto - nell'ordine logico - dell'art. 157, comma 2, dell'art. 141, comma 5, dell'art. 140, comma 1 e dell'art. 139, comma 5 del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, deve interpretarsi nel senso che il vincolo preliminare nascente dalle proposte di dichiarazione di notevole interesse pubblico formulate prima dell'entrata in vigore del medesimo decreto legislativo - come modificato con il d.lgs. 24 marzo 2006, n. 157 e con il d.lgs. 26 marzo 2008, n. 63 - cessa qualora il relativo procedimento non si sia concluso entro 180 giorni". "L'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato può modulare la portata temporale delle proprie pronunce, in particolare limitandone gli effetti al futuro, al verificarsi delle seguenti condizioni: a) un'obiettiva e rilevante incertezza circa la portata delle disposizioni da interpretare; b) l'esistenza di un orientamento prevalente contrario all'interpretazione adottata; c) la necessità di tutelare uno o più principi costituzionali o, comunque, di evitare gravi ripercussioni socio-economiche”. “Il termine di efficacia di 180 giorni del vincolo preliminare nascente dalle proposte di dichiarazione di notevole interesse pubblico formulate prima dell'entrata in vigore del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 decorre dalla pubblicazione della presente sentenza”. In conclusione, il vincolo preliminare nascente dalle proposte di dichiarazione di notevole interesse pubblico, sorte in data antecedente all’entrata in vigore del D. Lgs. n. 42 del 2004, cessa nell’ipotesi in cui il relativo procedimento non si sia concluso entro i 180 giorni. |
Inserito in data 22/12/2017 CONSIGLIO DI STATO – ADUNANZA PLENARIA, sentenza n. 12 del 20 dicembre 2017 I casi di revocazione delle sentenze, tassativamente previsti dagli artt. 395 e 396 c.p.c., soggiacciono alla stretta interpretazione ai sensi dell’art. 14 delle preleggi. Il caso di specie trae origine dal ricorso proposto avanti al Consiglio di Stato, da parte di alcuni ricorrenti che hanno svolto funzioni assistenziali presso una struttura universitaria pubblica. I predetti ricorrenti sostengono di avere svolto la propria attività professionale sulla base di contratti a termine ed a tempo indeterminato, remunerati a gettone e con inquadramento nella categoria del personale non docente di “elevata professionalità”. Gli anzidetti ricorrenti propongono ricorso avanti al TAR per la Campania al fine di ottenere il riconoscimento ab origine dell’esistenza di un rapporto di lavoro dipendente con l’Università, sostenendo che la qualificazione di “attività professionale”, attribuita ai propri compiti espletati, dissimula un vero e proprio rapporto di lavoro subordinato e pertanto, chiedono il riconoscimento del diritto al versamento dei relativi contributi previdenziali. Il TAR accoglie in parte il ricorso, ritenendo di assimilare la loro attività ai “ricercatori universitari”. L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ritiene applicabile alla controversia in oggetto, invece, l’art. 45, co. 17 del D. Lgs. n. 80 del 1998(confluito nell’art. 69, co. 7, del T.U. n. 165 del 2001), il quale sancisce che le liti relative al pubblico impiego “privatizzato”, attinenti al rapporto di lavoro sorto anteriormente al 1998, rimangono attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, nell’ipotesi in cui vengano proposte, a pena di decadenza, entro il 15 settembre 2000. Alcuni ricorrenti, soccombenti avanti all’Adunanza Plenaria, propongono ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’UomoCorte, la quale ha censurato il diniego di accesso alla giustizia conseguente al mutamento di indirizzi giurisprudenziali e normativi ed ha riconosciuto che il termine fissato dalla norma, “a pena di decadenza, entro il 15 settembre 2000”,sia “finalizzato alla buona amministrazione della giustizia” e “in sé non eccessivamente breve”. I ricorrenti richiedono pertanto che venga sollevata la questione di legittimità costituzionale in relazione all’art. 106 c.p.a. e degli artt. 395 e 396 c.p.c. per violazione degli artt. 111 e 117, co. 1 Cost. e nel merito del ricorso per revocazione, chiedono al Consiglio di Stato di “prendere atto della sentenza della Corte europea per i diritti umani e da essa trarre tutte le conseguenze che, nell'ordinamento italiano, ne derivano ai sensi dell'art. 117, co. 1, Cost come interpretato dalla Corte costituzionale. Si chiede, pertanto, in conformità al sistema di tutela dei diritti convenzionali previsto come interpretato dalla Corte europea, che i ricorrenti vengano rimessi nei termini di legge e che a loro venga applicato l'art. 45, co. 17 del decreto legislativo n. 80 del 1998, oggi art. 69 co. 7 del T.U. n. 165/2001, nella sola interpretazione resa possibile dalla sentenza della corte europea, e cioè nel senso della perdurante giurisdizione amministrativa, delle controversie riguardanti vicende del pubblico impiego, precedenti la traslazione della giurisdizione”, con il fine precipuo di ottenere da parte del giudice amministrativo una diretta applicazione al giudicato della Corte europea, evitando il controllo di costituzionalità della norma contenuta nel D. Lgs. n. 165/2001. La Corte Costituzionale si pronuncia in merito alla predetta questione di legittimità con sentenza n. 123 del 26 maggio 2017, dichiarandola infondata. Il giudizio, pertanto, trova seguito avanti l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato. Il Supremo Consesso al plenum riprende l’analisi effettuata dal Giudice di legittimità al n. 15 ed in particolare: “nelle materie diverse da quella penale, dalla giurisprudenza convenzionale non emerge, allo stato, l'esistenza di un obbligo generale di adottare la misura ripristinatoria della riapertura del processo, e che la decisione di prevederla è rimessa agli Stati contraenti, i quali, peraltro, sono incoraggiati a provvedere in tal senso, pur con la dovuta attenzione per i vari e confliggenti interessi in gioco") ed approda alla conclusione (considerando n. 17) per cui nel "nostro ordinamento la riapertura del processo non penale, con il conseguente travolgimento del giudicato, esige una delicata ponderazione, alla luce dell'art. 24 Cost., fra il diritto di azione degli interessati e il diritto di difesa dei terzi, e tale ponderazione spetta in via prioritaria al legislatore.” e sulla scorta di tale analisi, ritiene che il ricorso per revocazione, avendo il petitum per l’eventuale fase rescissoria postulante la reiezione degli appelli proposti dalle amministrazioni e, per l'effetto, la conferma delle sentenze di primo grado impugnate e la corresponsione agli odierni ricorrenti del pagamento della contribuzione previdenziale e dell'indennità di fine rapporto, deve ritenersi inammissibile in quanto risulta essere proposto per una ipotesi non rientrante tra quelle contemplate tassativamente dall’ordinamento giuridico ovvero, “attesa la loro eccezionalità, i casi di revocazione della sentenza, tassativamente previsti dall'art. 395 cod. proc. civ., sono di stretta interpretazione, ai sensi dell'art. 14 delle preleggi.” |
Inserito in data 19/12/2017 CONSIGLIO DI STATO, Quinta Sezione, sentenza n. 5934 del 18 dicembre 2017 Funzioni e competenze del RUP. Una società cooperativa propone appello avverso la sentenza emessa dal TAR Piemonte – Torino, nella caus promossa contro il consorzio Valorizzazione La Venaria Reale e nei confronti del Consorzio Nazionale Servizi soc. coop., concernente l’annullamento del provvedimento con cui il Rup della gara di appalto per l’affidamento del contratto misto di concessione e appalto relativo ai servizi di biglietteria, vigilanza e sorveglianza, accoglienza e assistenza al pubblico, attività didattiche e laboratori presso la Reggia di Venaria Reale ha aggiudicato definitivamente l’appalto alConsorzio Nazionale Servizi soc. coop. Il TAR per il Piemonte ha accolto il ricorso dell’appellante società cooperativa e per l’effetto, ha annullato il provvedimento del Rup, mediante il quale ha aggiudicato il servizio per cui è causa al Consorzio Nazionale Servizi; disponendo inoltre che il Rup provveda, ai sensi e per gli effetti dell’art. 88, co. 3, del D.Lgs. n. 163/2006 ad esaminare la nota con la quale la aggiudicataria provvisoria ha riscontrato la richiesta di chiarimenti del Rup, concludendo il procedimento di verifica con provvedimento espresso ed assumendo le determinazioni conseguenziali. I giudici del Consiglio di Stato ritengono che l’appello sia infondato. Nello specifico il Collegio si sofferma sull’esame delle funzioni e delle competenze del Rup, facendo luce sulla normativa di riferimento. L’art. 6 della Legge n. 241 del 1990 prevede che: “Il responsabile del procedimento adotta, ove ne abbia la competenza, il provvedimento finale, ovvero trasmette gli atti all'organo competente per l'adozione. L'organo competente per l'adozione del provvedimento finale, ove diverso dal responsabile del procedimento, non può discostarsi dalle risultanze dell'istruttoria condotta dal responsabile del procedimento se non indicandone la motivazione nel provvedimento finale”. I giudici sostengono, pertanto, che il Rup, per ripartizione interna di competenze, possiede non solo il potere di manifestare all’esterno la volontà della stazione appaltante ma anche, la competenza di adottare il provvedimento finale della procedura. L’art. 10, co. 2, del D. Lgs. n. 163 del 2006 prevede che: “Il responsabile del procedimento svolge tutti i compiti relativi alle procedure di affidamento previste dal presente codice, ivi compresi gli affidamenti in economia, e alla vigilanza sulla corretta esecuzione dei contratti, che non siano specificamente attribuiti ad altri organi o soggetti”. Nel caso di specie, il Rup aveva emanato il provvedimento finale e pertanto, aveva anche la competenza a nominare la commissione giudicatrice ai sensi dell’art. 84, co. 2, del D. Lgs. n. 163 del 2006. Quest’ultima norma stabilisce infatti che la nomina della commissione competa all’organo della stazione appaltante “competente ad effettuare la scelta del soggetto affidatario del contratto”. I giudici del Collegio osservano inoltre che l’art. 84 del D. Lgs. n. 163 del 2006 si limita a prevedere che il Presidente deve essere un dirigente o un funzionario con incarichi apicali della stazione appaltante. Per quanto concerne i Commissari, la norma non sancisce alcun criterio selettivo: bisogna seguire i principi di imparzialità e trasparenza dell’azione amministrativa. Nel caso di specie, il Rup ha proceduto secondo norma, richiedendo altresì, alla Fondazione Musei al Ministero per i beni e le attività culturali e il turismo, al Teatro Stabile di Torino ed all’Ente Regionale per il diritto allo studio di proporre una “rosa di figure professionali competenti in materia, da nominare come membri della commissione giudicatrice”. Infine, al fine di evitare errate valutazioni, il Consiglio di Stato chiarisce quale sia la differenza tra Rup e Commissione, in quanto entrambi vantano ambiti di azione e ruoli differenti: la Commissione è deputata a giudicare le offerte (tecnica ed economica); il RUP ha invece essenzialmente una funzione di gestione del procedimento di gara e il ruolo di fornire alla stazione appaltante gli elementi idonei per una corretta e consapevole formazione della volontà contrattuale dell'Amministrazione. |
Inserito in data 15/12/2017 CONSIGLIO DI STATO, Quinta Sezione, sentenza n. 5854 del 13 dicembre 2017 Il rispetto del c.d. “principio di rotazione” nei contratti di servizi e forniture sotto soglia. I Giudici della Quinta Sezione del Consiglio di Stato si pronunciano in merito al rispetto del c.d. “principio di rotazione”. In particolare, la ditta appellante lamenta, principalmente, deduce l’errata applicazione del c.d. principio di rotazione di cui all’art. 36, co. 1, del D. Lgs. n. 50 del 2016, in quanto la predetta norma non può giustificare il mancato invito dell’operatore economico che, nell’anno precedente, era risultato affidatario dello stesso servizio oggetto della gara. Il Consiglio di Stato, riprendendo una precedente propria decisione, presa dalla Sesta Sezione, con sentenza del 31 agosto 2017 n. 4125, sostiene che il principio di rotazione per gare e lavori, servizi e forniture negli appalti c.d. “sotto soglia” sia obbligatorio. A tal riguardo, i giudici del Collegio statuiscono che: “il principio di rotazione - che per espressa previsione normativa deve orientare le stazioni appaltanti nella fase di consultazione degli operatori economici da consultare e da invitare a presentare le offerte - trova fondamento nella esigenza di evitare il consolidamento di rendite di posizione in capo al gestore uscente (la cui posizione di vantaggio deriva soprattutto dalle informazioni acquisite durante il pregresso affidamento), soprattutto nei mercati in cui il numero di agenti economici attivi non è elevato.Pertanto, anche al fine di ostacolare le pratiche di affidamenti senza gara ripetuti nel tempo che ostacolino l'ingresso delle piccole e medie imprese e di favorire, per contro, la distribuzione temporale delle opportunità di aggiudicazione tra tutti gli operatori potenzialmente idonei, il principio in questione comporta, in linea generale, che l'invito all'affidatario uscente riveste carattere eccezionale.” I Giudici specificano inoltre che nell’ipotesi in cui la stazione appaltante abbia l’intenzione di procedere comunque all’invito di un gestore uscente, dovrà motivare tale decisione, facendo riferimento: all’eventuale numero ridotto degli operatori presenti sul mercato; al grado di soddisfazione maturato a conclusione del precedente rapporto contrattuale ovvero all’oggetto ed alle caratteristiche del mercato di riferimento. Nel caso di specie, esaminato dai giudici del Consiglio di Stato, la stazione appaltante, quale il comune di Trieste, aveva due possibili scelte da effettuare: non invitare il gestore uscente oppure, nel caso contrario, motivare la propria scelta, indicando le ragioni a causa delle quali riteneva di non poter prescindere dall’invito. Il Consiglio di Stato ritiene pertanto che la scelta del Comune di Trieste, ovvero di non invitare il gestore uscente, sia del tutto legittima. |
Inserito in data 14/12/2017 TAR MOLISE – CAMPOBASSO, Prima Sezione, sentenza n. 529 del 12 dicembre 2017 Il principio del giusto processo deve trovare spazio anche nel procedimento disciplinare. Un assistente capo della Polizia di Stato rassegna al suo Questore una relazione di servizio al fine di segnalare alcune criticità all’interno del proprio Ufficio. Ottiene, inoltre, un colloquio con la Dirigente al fine di spiegare le ragioni sottostanti la stesura e l’invio della predetta relazione. Tale colloquio si svolge a porte chiuse. A conclusione, la dirigente segnala per iscritto al dirigente della Divisione del Personale della Questura che l’assistente capo ha assunto un comportamento irriguardoso. Successivamente, viene sollevata una contestazione d’addebito e l’applicazione della misura disciplinare in danno dell’assistente capo. Quest’ultimo impugna i predetti atti sulla base dei seguenti motivi: “ 1) violazione dell'art. 2967 c.c. e difetto di istruttoria del procedimento; 2) violazione e falsa applicazione dell'art. 120 del T.U. 10.1.1957 n. 3; 3) violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 737/1981 e del D.P.R.n. 782/1985, violazione dell'art. 3 della legge n. 241/1990, violazione dell'art. 97 Cost., violazione del DPCM n. 214/2012, difetto di motivazione, contraddittorietà, illogicità nella motivazione, eccesso di potere, erroneità manifesta.” Il Collegio accoglie il ricorso proposto dall’assistente capo della Polizia di Statosia sulla base di una pregressa giurisprudenza di legittimità sia sulla base dei precetti emanati dalla Corte di Giustizia, oltre che sulla base della normativa nazionale. Con sentenza n. 182 del 2008, la Corte Costituzionale ha statuito che: “la garanzia costituzionale del diritto di difesa (art. 24 Cost.) è limitata al procedimento giurisdizionale e non può, quindi, essere invocata in materia di procedimento disciplinare che, viceversa, ha natura amministrativa e sfocia in un provvedimento non giurisdizionale (sentenze n. 289 del 1992 e nn. 122 e 32 del 1974).Ha, tuttavia, sottolineato che l'art. 24 Cost. se indubbiamente si dispiega nella pienezza del suo valore prescrittivo solo con riferimento ai procedimenti giurisdizionali, non manca tuttavia di riflettersi in maniera più attenuata sui procedimenti amministrativi, in relazione ai quali, in compenso, si impongono al più alto grado le garanzie di imparzialità e di trasparenza che circondano l'agire amministrativo (sentenze n. 460 del 2000 e n. 505 del 1995).Un procedimento disciplinare che, come quello in esame, può concludersi con la destituzione, tocca le condizioni di vita della persona, incidendo sulla sua sfera lavorativa, e richiede perciò il rispetto di garanzie procedurali per la contestazione degli addebiti e per la partecipazione dell'interessato al procedimento.” Con sentenza C-32/95P. del 24 ottobre 1996, la Corte di Giustizia dell’UE ha interpretato il concetto di diritto di difesa nel seguente modo: “impone che i destinatari di decisioni che pregiudichino in maniera sensibile i loro interessi siano messi in condizione di far conoscere utilmente il loro punto di vista”. Ed ancora, i giudici del Tar puntualizzano che l’art. 13 del D.P.R. n. 737/1981 disciplina le modalità con cui devono essere irrogate le sanzioni disciplinari per gli appartenenti alla Polizia di Stato, sancendo che: “Nello svolgimento del procedimento deve essere garantito il contraddittorio”. La Legge n. 241/1190 ha egualmente introdotto il principio del giusto procedimento ossia, la determinazione del pubblico interesse si deve realizzare anche attraverso l’istaurazione del contraddittorio nei confronti dei portatori di contrapposti interessi coinvolti dall’esercizio del potere pubblico. Alla luce delle suestese considerazioni, il Tar decide che: “Il rispetto di tale regola non può esaurirsi nel passaggio formale dell'audizione o nell'acquisizione acritica delle deduzioni scritte dell'incolpato, ma deve integrare una completa valutazione delle circostanze e dei fatti alla luce degli apporti partecipativi, valutazione che deve altresì emergere dalla motivazione del provvedimento conclusivo del procedimento disciplinare. Nel caso di specie, tale emersione non si è verificata, sicché anche il censurato profilo del difetto di motivazione del provvedimento impugnato è da ritenersi attendibile.” |
Inserito in data 08/12/2017 TAR LAZIO - ROMA, Prima Sezione, sentenza n. 12121 del 07 dicembre 2017 I termini previsti dal Regolamento unico in materia di esercizio del potere sanzionatorio da parte dell’ANAC hanno natura ordinatoria. La vicenda trae origine dall’impugnazione avverso un provvedimento, adottato dall’ANAC, a mezzo del quale si dispone nei confronti di una società la dichiarazione di decadenza di determinate attestazioni di qualificazione ad essa rilasciate sulla base di documentazione che non ha trovato riscontro oggettivo da parte dei soggetti emittenti e/o depositari, irrogando una sanzione pecuniaria di € 3.000,00 e disponendo l’annotazione per tre mesi nel casellario informatico dell’adozione del provvedimento di decadenza. La società chiede che venga annullato il predetto provvedimento, in quanto sostiene che vi sia: violazione del principio di tempestività di cui all’art. 8 D. Lgs. n. 163/2006; violazione e falsa applicazione dell’art. 40, comma 9 quater, D. Lgs. n. 163/06; violazione e falsa applicazione dell’art. 70 del D.p.r. n. 207/2010; violazione e falsa applicazione degli artt. 15 e 25 D.p.r. n. 34/2000 e violazione di ogni norma e principio in materia di colpa professionale, irragionevolezza, erroneità e/o carenza dei presupposti, carenza d’istruttoria, motivazione erronea, carente e perplessa e contradditorietà. Il TAR rigetta il ricorso proposto dalla società nei confronti dell’ANAC, ritenendolo infondato. I giudici del TAR ritengono che “Gli artt. 6, comma 1, lett. b), e 35, comma 1, lett. b) del Regolamento unico in materia di esercizio del potere sanzionatorio da parte dell’ANAC, pur prevedendo una scansione temporale dell’attività dell’Autorità, non qualificano espressamente i termini previsti come perentori, né individuano ipotesi di decadenza dalla potestà sanzionatoria, né, infine, prevedono una specifica illegittimità del provvedimento tardivamente adottato. Da tanto discende la natura ordinatoria del termine, così che al superamento dello stesso non consegue l’esaurirsi del potere di provvedere in capo all’Amministrazione.” I giudici chiariscono che a favore della natura meramente sollecitatoria o ordinatoria del termine e della consequenziale mera irregolarità dell'atto adottato dopo la scadenza del medesimo, depongono pure la ricorrenza di un interesse pubblico di particolare rilievo, al cui raggiungimento è finalizzata la norma sanzionatoria, nonché la natura non legislativa dell'atto che individua il termine in questione, trovando un chiaro riscontro per consolidato orientamento giurisprudenziale: Consiglio di Stato, sez. VI, 2 maggio 2015, n. 468, Tar Lazio, Roma, sez. I, 17 maggio 2016, n. 5812 e 12 aprile 2017, n. 4518. In merito al contestato comportamento qualificabile in termine di colpa grave nei confronti dell’ANAC, il TAR sostiene che non può essere ascritta tale responsabilità nei confronti dell’Autorità anzidetta, in quanto “l’ascrivibilità ad un'ipotesi di colpa grave della violazione dell'ordinario obbligo di diligenza che grava sull'operatore economico che proponga una domanda di attestazione da utilizzare al fine di partecipare a pubblici appalti, ritiene il Collegio sufficiente richiamare il consolidato orientamento del giudice di ultimo grado, secondo cui "l'accertata omissione delle verifiche esigibili in base all'ordinaria diligenza" legittima l'Autorità "del tutto ragionevolmente, a formulare l'imputazione in termini di colpa grave" atteso che il criterio indicato dall'art. 40, comma 9 quater, del d.lgs. 163/2006, "specifica che la colpa grave (così come il dolo) può essere desunta dalla rilevanza o dalla gravità dei fatti oggetto della falsa dichiarazione o della presentazione di falsa documentazione, con ciò evidenziando un concetto di "colpa" del tutto indipendente dall'elemento soggettivo, e declinato unicamente sull'effetto e sulla portata della condotta in esame" (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, sez. VI, 2 febbraio 2015, n. 468). Alla luce delle considerazioni suesposte dei giudici del TAR, si può ritenere che il comportamento tenuto dell’Anac sia corretto e rispettoso dei parametri di legge, dato che nessuna norma solleva l’impresa dall’ onere di verifica della domanda di attestazione di qualificazione. Conseguentemente, la Società organismo di attestazione avrebbe potuto esercitare i propri poteri di controllo, solo in seguito al sollecito effettuato dall’impresa in questione. A parere dei giudici del TAR, sussiste invece una responsabilità per colpa grave proprio in capo alla società ricorrente, in quanto non si è adoperata in tale senso e a nulla rileva pertanto la circostanza che l’Autorità abbia utilizzato, nel provvedimento impugnato, ulteriori argomentazioni, secondo cui l’onere si sarebbe spinto alla consultazione del registro delle imprese. Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, “quando il provvedimento amministrativo impugnato si fonda su una pluralità di argomenti autonomi, è sufficiente accertare la resistenza di uno solo di essi ai mezzi di impugnazione per escluderne l'annullamento (cfr., da ultimo, Consiglio di Stato, sez. IV, 20 aprile 2016, n. 1557).” |
Inserito in data 07/12/2017 TAR LAZIO - ROMA, Terza Sezione, sentenza n. 12045 del 06 dicembre 2017
La notifica telematica degli atti processuali alle Pubbliche Amministrazioni è valida, se l’indirizzo della pec è inserito nel registro tenuto dal Ministero della Giustizia. Il TAR Roma si pronuncia in merito alla domanda di inammissibilità dell’impugnativa proposta dalla controinteressata società Ka. S.r.l., avverso il ricorso promosso dalla Violatech s.r.l. contro Regione Lazio e Azienda Unità Locale di Viterbo (non costituita in giudizio), in materia di contratti pubblici, sostenendo quanto segue: “(…) per essere stato notificato il ricorso introduttivo a un indirizzo p.e.c. dell'ASL di Viterbo e della Regione Lazio diverso da quello estratto dal Registro Generale degli Indirizzi Eelettronici, c.d. ReGinde, tenuto dal Ministero della Giustizia (…)” L’art. 14 del D. M. n. 40/2016 prevede che le notificazioni nei confronti delle amministrazioni non costituite in giudizio sono eseguite agli indirizzi p.e.c. di cui all’art. 16, comma 12, del D. L. n. 179 del 2012, convertito dalla L. n. 221/2012. La Legge n. 221 del 2012, come modificata dal d.l. n. 90/2014, convertito in legge n. 114/2014, onera le amministrazioni pubbliche di comunicare entro il 30 novembre 2014 l’indirizzo p.e.c. ai fini della formazione dell’elenco presso il Ministero della Giustizia. Ed ancora, l’art. 16-ter del d.l. n. 179/2012 stabilisce che, “a decorrere dal 15 dicembre 2013, ai fini della notificazione e comunicazione degli atti in materia civile, penale, amministrativa e stragiudiziale si intendono per pubblici elenchi quelli previsti dagli articoli 4 e 16, comma 12, del presente decreto; dall'articolo 16, comma 6, del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2, dall'articolo 6-bis del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, nonché il registro generale degli indirizzi elettronici, gestito dal Ministero della giustizia” (comma 1) e che "le disposizioni del comma 1 si applicano anche alla giustizia amministrativa” (comma 1-bis) Alla luce del quadro normativo ricostruito, il Collegio ritiene che, ai fini della notificazione di un atto processuale ad un’amministrazione pubblica, si possa utilizzare esclusivamente l’indirizzo p.e.c. inserito nell’appositi registro tenuto presso il Ministero della Giustizia. I giudici del Collegio stabiliscono pertanto che: “la notifica dell'atto introduttivo del giudizio venga effettuata a un indirizzo p.e.c. diverso da quello estraibile dal registro de quo, la notifica è nulla e, come tale, suscettibile di essere sanata esclusivamente mediante la costituzione in giudizio della parte interessata.” |
Inserito in data 06/12/2017 CONSIGLIO DI STATO, Sezione Quinta, sentenza n. 5693 del 04 dicembre 2017 Lo stravolgimento delle procedure di valutazione rispetto ai criteri stabiliti nella lexspecialis a tutela della trasparenza e dell’imparzialità è un vizio che inficia interamente la procedura selettiva. Una società propone appello avverso la sentenza emessa dal TAR Lombardia – Sez. staccata di Brescia, concernente l’affidamento di servizi di ristorazione. L’appellante sostiene che non siano stati rispettati i criteri stabiliti nel bando di gara per l’aggiudicazione con riferimento al subappalto, lamentando un atteggiamento ostruzionistico della stazione appaltante, in quanto le ha precluso l’accesso all’offerta tecnica della vincitrice ed alle giustificazioni sulla sua congruità economica. Il giudice di prime cure accoglie il ricorso ed annulla i provvedimenti impugnati dalla società, disponendo la procedura selettiva. L’originaria aggiudicataria propone pertanto appello avverso tale decisione. Il Collegio rigetta l’appello, ritenendolo infondato. Il Consiglio di Sato sostiene che la procedura di aggiudicazione, seguita nel caso di specie, sia diversa rispetto a quella prevista dalla lexspecialis ed anche incompatibile sia riguardo agli “obiettivi” sia riguardo agli “effetti”, in quanto la disciplina codificata presenta il fine precipuo di assicurare un doppio livello di giudizio, nell’ipotesi in cui la necessaria autonomia delle valutazioni espresse dai singoli commissari appaia chiaramente finalizzata a garantire una maggiore trasparenza e ponderatezza dell’iter valutativo della commissione di gara. Tale finalità appare leso dal momento in cui, avviene una scelta concordata e palesata mediante un solo giudizio, precludendo la possibilità di evincere il contenuto del preventivo giudizio formulato dal singolo commissario. In conclusione, il Collegio statuisce che: “laddove - come nel caso di specie - non venga riscontrata la mancata valutazione di un'offerta, bensì uno stravolgimento (in termini generali) delle stesse procedure di valutazione rispetto ai criteri indicati nella lexspecialis a tutela della trasparenza e dell'imparzialità amministrativa, non può operare a priori il criterio della conservazione degli atti e ben può il giudice rilevare se il vulnus arrecato ai suddetti principi generali (di matrice altresì eurounitaria) abbia avuto un'incidenza così strutturale sullo svolgimento della procedura di gara da comportarne l'invalidità.” |
Inserito in data 04/12/2017 CONSIGLIO DI STATO, Sezione Terza, sentenza n. 5641 del 01 dicembre 2017 L’art. 4 della Legge n. 302/1990“Limiti alla concessione dei benefici di legge ai superstiti della vittima della criminalità organizzata” deve essere soggetta ad un’interpretazione estensiva. Il Consiglio di Stato ha rigettato l’appello proposto dal Ministero dell’Interno e confermata, altresì, la decisione di primo grado, che ha ritenuto illegittimo il rigetto pronunciato da parte del Ministero dell’Interno relativamente all’istanza di riconoscimento dei benefici di cui all’art. 4 della Legge n. 302 del 1990 rubricato come “Limiti alla concessione dei benefici di legge ai superstiti della vittima della criminalità organizzata”, presentata da un autista di autovettura blindata adibita a scorta, rimasto gravemente ferito durante un attentato camorristico a danno del magistrato, da lui scortato. Il Ministero degli Interni rigetta la domanda proposta dall’autista, in quanto l’istante presenta un legame di parentela con due cugini, i quali hanno riportato condanne ex art. 416 bis c.p. Il Collegio ritiene che non vi siano i presupposti per effettuare un’interpretazione estensiva della norma in commento. Il Consiglio di Stato ha statuito che il procedimento interpretativo per analogia, come sostenuto dall’Avvocatura dello Stato, non è applicabile alle norme eccezionali (art. 14 disp. prel.). Il Collegio ritiene che, ai fini di una corretta soluzione della questione esegetica prospettata, sia necessario individuare la ratio della norma. Quest’ultima contempla infatti i “familiari della vittima”e non, la vittima stessa. In conclusione, il Consiglio di Stato statuisce che: “Nel caso di specie, la vittima, oltre ad essere totalmente estranea ad ambienti e logiche criminali, svolgeva, al momento dell'agguato, una funzione istituzionale di contrasto alle associazioni criminali (autista di un magistrato sottoposto a particolari misure di protezione), che lo ha messo in condizione di rischiare la propria vita, e lo ha altresì indotto a compiere azioni tali da salvare persino la vita altrui. In nessun atto si adombrano sospetti di vicinanza agli ambienti mafiosi, né si indicano elementi concreti, o rapporti, che possano minimamente offuscare la limpidezza e la significatività del comportamento della vittima, prima, durante e dopo i fatti. L'appello è pertanto respinto. Ne consegue l'obbligo per l'amministrazione di provvedere al riconoscimento dell'indennizzo ed alla liquidazione delle somme spettanti.” |
Inserito in data 30/09/2017 CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 19 settembre 2017, n. 6 La notifica a mezzo PEC è valida anche prima dell’entrata in vigore del PAT Con la pronuncia emarginata in epigrafe, l’Adunanza Plenaria ha risolto il contrasto giurisprudenziale in materia di notifica del ricorso introduttivo del giudizio amministrativo a mezzo di posta elettronica certificata (“PEC”). Nella specie, il Supremo Consesso al plenum conferma l’ammissibilità di siffatta notificazione anche in assenza dell’autorizzazione presidenziale ex art. 52, comma 2, c.p.a., anche prima dell’entrata in vigore delle norme tecniche e regolamentari relative al processo amministrativo telematico (“PAT”) di cui al d.P.C.M. 16 febbraio 2016 n. 40 (“Regole tecnico - operative per la sperimentazione, la graduale applicazione, l’aggiornamento del processo amministrativo telematico”). Se da un lato, l’orientamento minoritario asseriva l’inammissibilità del ricorso giurisdizionale notificato a mezzo PEC, in assenza di apposita autorizzazione presidenziale ex art. 52 co. 2, Cpa, dall’altro, l’orientamento prevalente riconosceva, al contrario, l’immediata applicazione nel processo amministrativo delle norme sancite dagli artt. 1 e 3-bis della legge n. 53/1994, secondo cui “la notificazione degli atti in materia civile, amministrativa e stragiudiziale può essere eseguita a mezzo di posta elettronica certificata” (cfr. ex plurimis, Cons. Stato, sez. IV, 3 marzo 2017 n. 998; Id, 22 novembre 2016, n. 4895; sez. V, 4 novembre 2016, n. 4631; sez. VI, 26 ottobre 2016, n. 4490; sez. III, 10 agosto 2016, n. 3565; sez. III, 6 luglio 2016, n. 3007; sez. III, 14 gennaio 2016, n. 91; sez. VI, 22 ottobre 2015, n. 4862; sez. III, 9 luglio 2015, n. 4270; sez. VI, 28 maggio 2015, n. 2682; C.g.a.r.s., 8 luglio 2015, n. 615). In definitiva, secondo tale prevalente indirizzo, “stante l’immediata applicabilità della l. n. 53/1994, la mancata autorizzazione presidenziale non può considerarsi ostativa alla validità ed efficacia della notificazione del ricorso a mezzo PEC, atteso che la disposizione di cui all’art. 52, co. 2, Cpa, si riferisce a “forme speciali” di notifica, quale non è . . . quella in esame”. L’Adunanza Plenaria rileva come, nel testo vigente - dopo le ulteriori modificazioni introdotte dall’art. 46, lett. a) d.l. 14 giugno 2014 n. 90, conv. in l. 11 agosto 2014 n. 114 - l’art. 1 della legge n. 53/1994 dispone che “ L'avvocato o il procuratore legale, munito di procura alle liti a norma dell'art. 83 del codice di procedura civile e della autorizzazione del consiglio dell'ordine nel cui albo è iscritto a norma dell'art. 7 della presente legge, può eseguire la notificazione di atti in materia civile, amministrativa e stragiudiziale a mezzo del servizio postale, secondo le modalità previste dalla legge 20 novembre 1982, n. 890, salvo che l'autorità giudiziaria disponga che la notifica sia eseguita personalmente. Quando ricorrono i requisiti di cui al periodo precedente, fatta eccezione per l'autorizzazione del consiglio dell'ordine, la notificazione degli atti in materia civile, amministrativa e stragiudiziale può essere eseguita a mezzo di posta elettronica certificata”. Dalla lettura delle successive versioni dell’art. 1 della legge n. 53/1994, pertanto, appare possibile affermare che il legislatore considera - almeno dal 1 gennaio 2012 - la notificazione a mezzo PEC di atti in materia civile, amministrativa e stragiudiziale, come un mezzo ordinario di notificazione, che, in quanto tale, non necessita di particolari autorizzazioni da parte del giudice. In definitiva è dunque possibile riconoscere alla notifica a mezzo PEC natura di mezzo ordinario di notificazione, peraltro, di immediata operatività nell’ambito del processo amministrativo, senza che alcun ostacolo si possa riscontrare nel disposto dell’art. 16-quater del D.L. 18 ottobre 2012, n. 179 (inserito dall'art. 1, comma 19, n. 2), l. 24 dicembre 2012, n. 228, a decorrere dal 1° gennaio 2013); ciò in quanto il comma 3- bis, che prevede che “le disposizioni dei commi 2 e 3 non si applicano alla giustizia amministrativa”, lungi dal poter essere interpretato nel senso di non consentire l’applicabilità immediata al processo amministrativo della notifica a mezzo PEC, esclude proprio che disposizioni specificamente previste per il processo civile e penale - e segnatamente quella sul differimento dell’entrata in vigore - possano intendersi estese anche al processo amministrativo, per di più producendo un effetto di “paralisi” della notifica a mezzo PEC nell’ambito di quest’ultimo. DU
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Inserito in data 11/08/2017 TAR LOMBARDIA - MILANO, SEZ. III - 8 agosto 2017, n. 1752 Istanza di assegnazione temporanea ex art. 42-bis, del D. lgs. n. 151/2001 Il ricorrente, agente scelto della Polizia di Stato e padre di una bimba ancora in tenera età, impugna il diniego paventato dall’Amministrazione competente a fronte di una sua istanza di assegnazione temporanea ex art. 42-bis, del D. lgs. n. 151/2001. Ne contesta, in specie, l’eccesso di potere manifestato dal Ministero di appartenenza, in considerazione delle prospettazioni fondanti il diniego assolutamente irrazionali, prive di logica e del tutto contraddittorie. L’altra parte invece, in sede di costituzione in giudizio, paventa – piuttosto - che la disciplina di cui all’articolo 42-bis del D. lgs. n. 151/2001 non configurerebbe una posizione di diritto soggettivo e che l’amministrazione, nell’ambito della propria valutazione discrezionale, non avrebbe considerato le esigenze delle sedi richieste prevalenti rispetto a quelle della sede di appartenenza. Il Collegio milanese statuisce, invece, la fondatezza delle doglianze di parte ricorrente. Ricorda, infatti, come il comma 1 dell’art. 42-bis del D. lgs. 26 marzo 2001, n. 151, recante Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53, nel testo vigente in ragione delle modifiche disposte dall’art. 14, comma 7, della legge 7 agosto 2015, n. 124, così recita «Il genitore con figli minori fino a tre anni di età dipendente di amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, può essere assegnato, a richiesta, anche in modo frazionato e per un periodo complessivamente non superiore a tre anni, ad una sede di servizio ubicata nella stessa provincia o regione nella quale l’altro genitore esercita la propria attività lavorativa, subordinatamente alla sussistenza di un posto vacante e disponibile di corrispondente posizione retributiva e previo assenso delle amministrazioni di provenienza e destinazione. L’eventuale dissenso deve essere motivato e limitato a casi o esigenze eccezionali. L’assenso o il dissenso devono essere comunicati all’interessato entro trenta giorni dalla domanda.». Insiste, ancora, riportando interventi recenti della giurisprudenza amministrativa che ha avuto condivisibilmente modo di affermare che «…è pacifico, nella giurisprudenza amministrativa, che l’articolo 42 bis del decreto legislativo 151 del 2001 trova applicazione anche al personale delle forze di polizia (tra le tante Consiglio di Stato, sez. III, 01/04/2016, n. 1317, Cons. Stato, sez. III, 16 dicembre 2013, n. 6061, T.A.R. Milano, (Lombardia), sez. III, 29/12/2016, n. 2481. 5. Tale disposizione è rivolta a dare protezione a valori di rilievo costituzionale e, pertanto, un’eventuale dissenso “deve essere motivato e limitato a casi o esigenze eccezionali” come chiarito testualmente dalla suddetta disposizione, a seguito della recente modifica normativa per effetto dell’articolo 14, comma settimo, della legge n. 124 del 2015. Conseguentemente, le ordinarie esigenze di servizio, evidenziate dall’amministrazione nel provvedimento impugnato, non possono costituire motivi ostativi al riconoscimento del beneficio previsto dalla suddetta disposizione normativa, introdotta dal legislatore a tutela dei minori (vedi recentemente Consiglio di Stato, sez. III, ord. 26 febbraio 2016, n. 685, Cons. St., sez. IV, 14.5.2015, n. 2426) ben potendo l’amministrazione sopperire a dette carenze mediante altri istituti…» (TAR Lombardia – Milano, Sez. III, 25 maggio 2017, n. 1181). In ragione di tutto ciò, non sussistendo i “casi o esigenze eccezionali” che potrebbero giustificare un diniego, si accoglie il ricorso, affermando come l’attività discrezionale dell’amministrazione nella vicenda risulta limitata alla individuazione del reparto cui assegnare il ricorrente fra quelli indicati nella istanza di assegnazione temporanea. CC
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Inserito in data 10/08/2017 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 9 agosto 2017, n. 3967 Sulla effettiva portata dell’errore revocatorio I Giudici della terza sezione intervengono sulla natura dell’errore revocatorio, paventato – nel caso di specie – dalle Amministrazioni appellanti in merito alla pronuncia ivi gravata. Più nel dettaglio, esse contestano che la prospettata erroneità della tempistica delle notifiche dell’atto di appello – valutata come tardiva dal Collegio durante la prima fase di giudizio, sia tale da aver dato luogo ad un errore revocatorio – ex art. 365 n. 4 c.p.c.. Ad avviso degli appellanti, in sostanza, la decisione oggi impugnata sarebbe stata emessa sulla base di un’erronea valutazione della documentazione relativa alla notificazione dell’atto di appello depositata in atti. Il Collegio contesta una simile asserzione ricordando, invece, come ”l'errore revocatorio è sempre escluso qualora il punto relativo sia stato espressamente preso in considerazione dal giudice, in quanto in tale ipotesi non è consentito alla parte soccombente proporre un istanza di revocazione, che aprirebbe un'inammissibile terzo grado di giudizio” (Cfr. Cons. Stato, sez. III, 30.9.2016, n. 4049). Tanto sarebbe potuto accadere se fosse stata accolta la tesi degli appellanti. Il profilo da costoro dedotto, infatti, affermano i Giudici dirime un punto controverso della causa in risposta ad una specifica eccezione preliminare delle parti controinteressate, e quindi è frutto dell’apprezzamento, della valutazione e dell’interpretazione del giudice delle risultanze processuali. In particolare, la sentenza qui gravata per revocazione esamina accuratamente la disciplina di cui all’art. 93, comma 2, c.p.a. ed i suoi risvolti applicativi, individuando, per giunta, la ratio sottesa a tale disciplina “nell’esigenza di sostituire al termine perentorio stabilito dal codice per la proposizione dell’impugnazione (e, ormai, scaduto, ma per una causa ritenuta ad essa non imputabile) un nuovo termine di decadenza (questa volta assegnato, su istanza della parte interessata, dal Presidente del Consiglio di Stato), in riferimento al quale dev’essere verificata la tempestività della nuova notificazione” e concludendo, in definitiva, che la norma deve essere interpretata come impositiva di un adempimento processuale “la cui inosservanza implica il consolidamento della decadenza della parte appellante dal potere di impugnazione”. E’ dunque evidente che non possa configurarsi alcun errore revocatorio, in quanto una valutazione dei fatti processuali si è svolta.
Proprio perché tale, dunque, il Collegio esclude ogni prospettata ipotesi rescissoria e rigetta le doglianze palesate dalle Amministrazioni appellanti. CC
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Inserito in data 09/08/2017 TAR LOMBARDIA - MILANO, SEZ. III - 8 agosto 2017, n. 1754 Le prestazioni sanitarie costituiscono un diritto “finanziariamente condizionato” Con la pronuncia in epigrafe, il Tar ha chiarito che al di fuori dei vincoli relativi ai livelli essenziali di assistenza e da oggettivi criteri di economicità e di appropriatezza, le scelte organizzative in materia di servizio pubblico sanitario rientrano nella sfera di massima discrezionalità politico-amministrativa, demandata dal d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502 all'Amministrazione regionale (v., ex plurimis, Cons. Stato, sez. III, 6 febbraio 2015, n. 604; Cons. Stato, sez. III, 7 dicembre 2015, n. 5538). Ad avviso del Supremo Consesso Amministrativo compete all'Amministrazione sanitaria, quindi, il compito di fissare le condizioni e i limiti e, più in generale, la cornice delle linee organizzative e delle modalità procedurali entro la quale si attua il concreto esercizio del diritto alla salute e l'effettiva erogazione delle prestazioni sanitarie. Il giudice amministrativo deve limitarsi, pertanto, a valutare se sussistano profili di evidente illogicità, di contraddittorietà, di ingiustizia manifesta, di arbitrarietà o di irragionevolezza nella scelta amministrativa (v., sul punto, Cons. Stato, sez. III, 6 febbraio 2015, n. 604; Cons. Stato, sez. III, 10 giugno 2016, n. 2501). Il riconoscimento del diritto alla salute non è assoluto e incontra limiti sia esterni - posti dall'esistenza di diritti costituzionali di pari rango - sia interni, posti appunto dall'organizzazione del Servizio Sanitario Nazionale. Il più rilevante limite interno è certamente quello finanziario, che si riflette in modo inevitabile, sull'organizzazione regionale del servizio sanitario. Evidenzia il Collegio come la Corte Costituzionale ha ribadito, ormai da tempo, la configurazione del diritto alle prestazioni sanitarie come "finanziariamente condizionato", giacché "l'esigenza di assicurare la universalità e la completezza del sistema assistenziale nel nostro Paese si è scontrata, e si scontra ancora attualmente, con la limitatezza delle disponibilità finanziarie che annualmente è possibile destinare, nel quadro di una programmazione generale degli interventi di carattere assistenziale e sociale, al settore sanitario" (Corte cost., 27 luglio 2011, n. 248). A fronte di tale incisivo limite, ne deriva che la scelta delle Regioni di porre a carico del SSR (e quindi della finanza pubblica) determinate prestazioni – oltre quelle rispondenti a livelli essenziali di assistenza, stabiliti a livello nazionale – deve rispondere a stringenti criteri di appropriatezza, al fine di non disperdere le limitate risorse finanziarie. Il criterio di appropriatezza di determinate categorie di prestazioni sanitarie, come scelta di programmazione volta al contenimento della spesa pubblica, assume, dunque, connotazioni di ampia discrezionalità, sindacabile in sede giurisdizionale solo entro i consueti limiti della manifesta irragionevolezza ed errore di fatto (T.A.R. Napoli sez. I, 11 febbraio 2016, n. 831). DU
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Inserito in data 08/08/2017 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, DECRETO PRESIDENZIALE 19 luglio 2017, n. 3015 Sulla inappellabilità del decreto presidenziale emesso ai sensi dell’art. 56 C.p.A. Nella decisione emarginata in epigrafe il Consiglio di Stato afferma che il decreto presidenziale emesso ai sensi dell’art. 56 del c.p.a. non è appellabile avendo tale misura cautelare un carattere “eccezionale” con funzione strettamente interinale e, pertanto, assume efficacia sino alla Camera di consiglio la quale costituisce “la giusta sede per l’esame della istanza cautelare”. La Sezione aggiunge, altresì, che con riferimento alla misura cautelare ex art. 56 C.p.A. non è previsto dal sistema processuale amministrativo nessun distinto ed autonomo diritto di appello della misura stessa. In senso contrario, vedi Consiglio di Stato, sez. III, 11 dicembre 2014 n. 5650 ove, diversamente, era stato ritenuto ammissibile l’appello avverso il decreto presidenziale ex art. 56 c.p.a. non essendo espressamente previsto il divieto di appello della misura cautelare dall’art. 56 c.p.a. , e dovendo la disposizione predetta “essere interpretata secondo ragionevolezza, giacché prevale la funzione cautelare anticipatoria sottesa alle misure cautelari provvisorie, quando l’esigenza cautelare rappresentata è, per la natura degli interessi coinvolti o per la specificità della statuizione della P.A., di natura tale da dover esser protetta senza neppure attenderne la trattazione collegiale in camera di consiglio, anche in sede d’appello”. PC
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Inserito in data 07/08/2017 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V - 4 agosto 2017, n. 3907 Motivazione per relationem: è sufficiente indicare estremi o tipologia dell’atto richiamato Ai sensi del comma 3 dell’articolo 3 della l. 241 del 1990, “se le ragioni della decisione risultano da altro atto dell'amministrazione richiamato dalla decisione stessa, insieme alla comunicazione di quest'ultima deve essere indicato e reso disponibile, a norma della presente legge, anche l'atto cui essa si richiama”. “Ai fini della motivazione per relationem è sufficiente che siano indicati gli estremi o la tipologia dell'atto richiamato, mentre non è necessario che esso sia allegato materialmente o riprodotto, dovendo piuttosto essere messo a disposizione ed esibito ad istanza di parte (in tal senso – ex multis -: Cons. Stato, III, 20 marzo 2015, n. 1537)”. “Il richiamato articolo 3 della l. 241 del 1990 non si limita a garantire al destinatario del provvedimento la possibilità di agire tempestivamente in giudizio avverso una determinazione amministrativa lesiva di carattere immotivato, ma è volta a garantire – in senso più ampio – un’adeguata partecipazione procedimentale e la piena e contestuale conoscenza delle ragioni sottese a un atto amministrativo illegittimo e svantaggioso.” Un consolidato e condivisibile orientamento giurisprudenziale esclude, peraltro, la possibilità di applicare il comma 2 dell’articolo 21-octies della l. 241 del 1990 (in tema di cc.dd. ‘illegittimità non invalidanti’) a fronte di un atto amministrativo che non sia stato adottato in violazione delle norme sul procedimento o sulla forma degli atti, ma che risulti in radice carente di motivazione (in tal senso – ex multis – Cons. Stato, V. 27 giugno 2017, n. 3136; id., VI, 7 agosto 2015, n. 3099). GB
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Inserito in data 04/08/2017 TRIBUNALE REGIONALE DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA DI TRENTO, SEZ. UNICA, 3 agosto 2017, n. 249 Assegnazione di sede farmaceutica e posizione del farmicista socio di una s.n.c. Per un primo profilo, il Collegio rileva che la “titolarità dell’esercizio della farmacia privata è riservata a persone fisiche, a società di persone ed a società cooperative a responsabilità limitata (art. 7 Legge n. 362/1991), e che la partecipazione a tali società è incompatibile con la posizione di titolare, gestore provvisorio, direttore o collaboratore (solo) di altra farmacia, essendo inoltre previsto che, nel caso di sospensione del socio direttore responsabile, la direzione della farmacia gestita da una società viene affidata ad un altro dei soci (art. 8)”. Ne consegue che “già nell’ambito della normativa regolante il riordino del settore farmaceutico non è ravvisabile alcuna discrasia fra la titolarità di farmacie esercitate in forma individuale e quella inerente le farmacie esercitate in forma collettiva, nei limiti delle tipologie ammesse, al cui interno la direzione compete ad uno dei soci con possibilità di avvicendamento degli stessi”. Sotto altro profilo, i Giudici rilevano che “nelle società di persone (ad eccezione delle società in accomandita semplice), come tali sfornite di personalità giuridica, sussiste la responsabilità illimitata e solidale dei soci per le obbligazioni sociali, il che comporta, per ciascun socio, in termini giuridici di dover rispondere dell’adempimento “con tutti i suoi beni presenti e futuri” (art. 2740 cod. civ.), ed in termini economici di sopportare un rischio di impresa non limitato al denaro o ai beni conferiti, a ciò corrispondendo l’attribuzione ex lege (artt. 2257 e 2258 cod. civ.) del potere di amministrazione e, come riconosciuto dalla dottrina, di concorrere nella direzione dell’impresa sociale”. Alla luce delle considerazioni di cui sopra, anche sotto il profilo civilistico, “non sussistono valide ragioni per discriminare la titolarità di una farmacia operante quale impresa individuale e quella di una farmacia organizzata in impresa collettiva, esercitata nelle forme di società di persone ed in particolare di società in nome collettivo, al cui interno deve ritenersi che ciascun socio sia compartecipe alla titolarità dell’esercizio farmaceutico”. EF
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Inserito in data 03/08/2017 TAR TOSCANA - FIRENZE, SEZ. I - 1 agosto 2017, n. 1011 La risoluzione anticipata di un precedente contratto non determina la esclusione automatica per un nuovo affidamento Nella sentenza emarginata in epigrafe, si afferma che la risoluzione anticipata (non contestata o divenuta definitiva a seguito di giudizio) di un precedente contratto, per gravi illeciti commessi dal concorrente (art. 80 co. 5, lett. C del d.lgs n. 50/2016), non determina automaticamente la esclusione automatica dalla procedura di gara, dovendo la stazione appaltante dimostrare - eventualmente in sede giudiziale - la prova della gravità e della rilevanza dell’inadempimento contrattuale pregresso e, conseguentemente, la inaffidabilità del concorrente sul quale, dunque, non grava l’onere di dimostrare la sua affidabilità. Si evidenzia, altresì, che al fine di disporre la esclusione dalla gara, non è sufficiente che la stazione appaltante richiami l’esistenza di una risoluzione anticipata non contestata, “dovendo invece tale esclusione essere limitata ai soli casi in cui sia dimostrato in concreto, con riferimento alle specifiche esigenze della singola procedura di gara, il nesso causale tra il pregresso illecito professionale e la esclusione fondata su un giudizio discrezionale di inaffidabilità”. Detto altrimenti, non ogni inadempimento pregresso, per quanto grave e tale da aver condotto alla risoluzione di un precedente contratto d’appalto, giustifica l’esclusione dalla partecipazione a gare successive, occorrendo un provvedimento discrezionale della appaltante contenente una valutazione prognostica circa la affidabilità o inaffidabilità della concorrente di eseguire correttamente le prestazioni oggetto del nuovo affidamento. PC
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Inserito in data 02/08/2017 CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, ORDINANZA 28 luglio 2017, n. 4 Legittimazione della parte vittoriosa e difetto di giurisdizione del giudice amministrativo La controversia sottoposta dal Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana all’esame dell’Adunanza Plenaria della pronuncia in epigrafe, riguarda la legittimazione della parte vittoriosa in primo grado a sollevare per la prima volta in appello la questione sul difetto di giurisdizione del giudice adito. È noto come siffatta problematica sia stata risolta dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con la sentenza 20 ottobre 2016, n. 21260 - resa con il contributo di una relazione dell’Ufficio Studi, Massimario e Formazione della Giustizia Amministrativa inviata all’Ufficio del massimario della Cassazione su richiesta del Primo presidente della Suprema Corte al Presidente del Consiglio di Stato – con la quale la Corte regolatrice ha condiviso le conclusioni cui è pervenuto il Consiglio di Stato circa l’ammissibilità di essa, (a partire dalla sentenza della Quinta Sezione 7 giugno 2012, n. 656) prendendo però le mosse dal principio per cui la questione di giurisdizione costituisce un capo della pronuncia in ordine al quale si individua una parte vittoriosa e una parte soccombente, piuttosto che dalla tesi, sostenuta dal Consiglio di Stato, basata sul concetto di abuso del processo. Afferma il Collegio il principio generale secondo il quale l’appello può essere proposto solo dalla parte soccombente in quanto la soccombenza “del potere di impugnativa rappresenta l’antecedente necessario” (così la richiamata sentenza della Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 20 ottobre 2016, n. 21260). Con la pronuncia in epigrafe, quindi, l’Adunanza Plenaria riconferma le conclusioni cui erano pervenute le sezioni semplici, pur con le puntualizzazioni della Corte di cassazione, affermando, ai sensi dell’art. 99, quinto comma, del codice del processo amministrativo il seguente principio di diritto: “la parte risultata vittoriosa di fronte al tribunale amministrativo sul capo di domanda relativo alla giurisdizione non è legittimata a contestare in appello la giurisdizione del giudice amministrativo”. Infine il Collegio si sofferma su un profilo: la mancata rilevazione da parte del giudice rimettente della questione relativa all’ordine logico delle questioni da trattare. Come infatti evidenziato dalla Adunanza Plenaria (ad es. sentenza n. 4 del 2011) “la necessità di definire la controversia muovendo dall'esame delle questioni preliminari, costituisce, oltre che una regola di giudizio da sempre pacificamente ritenuta applicabile, anche una espressa previsione positiva, ora stabilita dal codice del processo amministrativo. Se dunque, per norma, tutte le questioni pregiudiziali di rito o preliminari di merito (cfr. art. 187 cod. proc. civ.) vanno esaminate prima di affrontare il merito della controversia, ciò a maggior ragione vale per le eccezioni relative al difetto di giurisdizione le quali hanno precedenza su tutte le altre questioni anche processuali (cfr. Ap. n. 10 del 2011). Infatti, come è stato precisamente osservato, la questione relativa alla giurisdizione del giudice adito va necessariamente definita con assoluta priorità rispetto ad ogni altra questione, in rito e nel merito, atteso che il potere del giudice adito di definire la controversia sottoposta al suo esame postula che su di essa egli sia munito della potestas iudicandi, imprescindibile presupposto processuale della sua determinazione”. In tale prospettiva – ad avviso del Supremo Consesso al plenum - vagliare l’appello incidentale sul difetto di giurisdizione solo dopo aver giudicato fondato nel merito l’appello principale rischia di risultare, in definitiva, alquanto contraddittorio poiché se il difetto di giurisdizione sussiste veramente tutto l’esame del merito (ricorso principale) sarà stato svolto da un giudice non titolato a farlo, in quanto privo di potestas iudicandi. Deve ricordarsi che le sentenze rese dal Consiglio di Stato sono suscettibili di essere impugnate per difetto di giurisdizione e che quindi la parte ivi vittoriosa nel merito è potenzialmente esposta all’alea di siffatta impugnazione. Tuttavia, al Collegio “non sembra immediatamente trasponibile nel processo amministrativo l’impostazione consolidata nella giurisprudenza della Suprema Corte (a far tempo da SS.UU. n. 5456 del 2009), secondo cui, in sintesi, nel giudizio civile di legittimità la parte vittoriosa nel merito non ha interesse a chiedere appunto che la Cassazione dichiari il difetto di giurisdizione di quel plesso giurisdizionale ordinario che le ha definitivamente dato ragione.” Il Collegio al Plenum, rilevando la rimessione di siffatta causa alla Suprema Corte di Cassazione, restituisce gli atti al Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, ai sensi dell'art. 99, co. 1, ultimo periodo, e 4, c.p.a. DU
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Inserito in data 01/08/2017 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL’ADUNANZA PLENARIA, 31 luglio 2017, n. 3805 Sull’interpretazione dei principi di diritto enunciati dall’Adunanza Plenaria Il Collegio ritiene di dover rimettere all’esame dell’Adunanza Plenaria la questione “se, ed in quale misura, ai principi da essa enunciati possa applicarsi l’ «autorità di cosa giudicata», e, dunque, in quale misura con riferimento a detto principio, possa ricorrere l’ipotesi revocatoria, di cui all’art. 395 n. 5 c.p.c., una volta che lo stesso risultasse «non applicato» dalla Sezione, che non ha invece disposto ai sensi dell’art. 99, co. 3, Cpa.”. “Allo steso tempo (ed in eventuale connessione con l’affermazione innanzi sollecitata), il Collegio reputa opportuno che l’Adunanza Plenaria affermi, in via generale, se l’interpretazione del principio di diritto da essa enunciato, ove ne sia in discussione la «portata» competa alla medesima Adunanza Plenaria, cui il giudice remittente, ove abbia perplessità (ex officio o a ciò sollecitato dalle parti), è tenuto a rimettere la questione, ovvero se tale interpretazione possa essere svolta dalla stessa Sezione cui è assegnato il ricorso, esulando tale fattispecie dall’obbligo di cui all’art. 99, co. 3, Cpa.” “A favore della prima conclusione, milita la considerazione che, diversamente opinando, la interpretazione «resa a valle» dalla Sezione semplice potrebbe incidere sul contenuto precettivo e nomofilattico del principio enunciato dall’Adunanza Plenaria. A favore della seconda conclusione, militano considerazioni volte ad evitare un eccessivo «ingessamento» del rapporto tra Adunanza Plenaria e Sezione semplice, che comporterebbe sia una incisione sensibile dei normali poteri di interpretazione del giudice di rinvio, sia la possibilità di appesantimenti processuali, dovuta a reiterate «navette» tra Sezione ed Adunanza Plenaria. GB
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Inserito in data 31/07/2017 TAR TOSCANA - FIRENZE, SEZ. I - 27 luglio 2017, n. 985 Carenza di potere della P.A.: si radica la giurisdizione del G.O. Nella fattispecie posta al suo esame, il Collegio dichiara inammissibile il ricorso per difetto di giurisdizione, spettando questa al giudice ordinario. Oltre a dolersi della concreta applicazione del canone, parte ricorrente contesta infatti la qualificazione della pretesa, che non sarebbe in alcun modo riconducibile all'esercizio di un potere amministrativo da parte dell’Agenzia del Demanio. La controversia sfugge perciò all’inquadramento in una delle fattispecie disciplinate dall’art. 133 c.p.a., “senza che la circostanza che le parti siano entrambe delle pubbliche amministrazioni sposti i termini della questione”. In particolare, se il giudice amministrativo è il giudice del potere amministrativo che si pretende illegittimamente esercitato, di converso “spetta al giudice ordinario la giurisdizione in tutte le controversie in cui si denunci un comportamento della P.A. privo di ogni interferenza con un atto autoritativo, non potendosi reputare neanche mediatamente espressione dell’esercizio del potere autoritativo, ovvero quando questo sia anche in astratto inesistente” (si argomenta da Cass. civ., sez. un., 29 dicembre 2016 n. 27455). Invero, affinché “possa radicarsi la giurisdizione del giudice amministrativo è necessario il concorso di due presupposti: a) l'uno soggettivo, consistente nel rientrare il soggetto procedente fra le pubbliche amministrazioni come definite dal comma 2 del citato art. 7 [c.p.a.]; b) l'altro oggettivo, consistente nell'avere la controversia a oggetto non qualsivoglia atto o attività dei soggetti suindicati, ma atti o condotte riconducibili all'esercizio delle funzioni istituzionali del soggetto procedente” (Cons. Stato, sez. IV, 28 novembre 2016 n. 5011). EF
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Inserito in data 27/07/2017 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, 24 luglio 2017, n. 3665 Per le regole organizzative non vale il principio di leale collaborazione Nella pronuncia in epigrafe, il Consiglio di Stato si sofferma sulla «valorizzazione dei beni culturali» e sulla «disciplina e l’esercizio delle funzioni dirette alla migliore conoscenza, utilizzazione e fruizione di quel patrimonio», richiamando la giurisprudenza della Corte Costituzionale in relazione alla questione sulla competenza legislativa Stato-Regioni alla luce del principio di leale collaborazione. In particolare, la Corte ha affermato che si realizza un concorso di competenze statali e regionali nella fase di organizzazione degli uffici – non anche nella fase di svolgimento comune di attività amministrativa di gestione dell’area da valorizzare - risolto secondo le tecniche della prevalenza o della leale collaborazione, poiché è stato sancito che «nonostante tale diversificazione, l’ontologica e teleologica contiguità delle suddette aree determina, nella naturale dinamica della produzione legislativa, la possibilità (…) che alla predisposizione di strumenti concreti di tutela del patrimonio culturale si accompagnino contestualmente, quali naturali appendici, anche interventi diretti alla valorizzazione dello stesso» (Corte cost. n. 140 del 2015). Nella specie, l’orientamento citato, prendendo le mosse dal combinato disposto dell’art. 118 Cost. e dell’art. 114, enuclea il principio di sussidiarietà amministrativa verticale, che impone che le funzioni pubbliche vengano preferibilmente attribuite agli enti territoriali che si trovano in una posizione di maggiore vicinanza ai cittadini. Sul piano legislativo, occorre, invece, ricostruire il quadro normativo rilevante distinguendo il profilo di disciplina afferente all’organizzazione del Ministero e quello relativo allo svolgimento delle funzioni amministrative. Il 23 gennaio 2016 è stato adottato il decreto ministeriale per la “Riorganizzazione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo”, ai sensi dell’articolo 1, comma 327, della legge 28 dicembre 2015, n. 208, che ha inciso profondamente sulla organizzazione centrale e periferica del Ministero. È evidente come già a livello costituzionale, l’art. 117 Cost. sia chiaro nel ripartire tra Stato e Regioni le funzioni legislative esclusive in materia di organizzazione statale e organizzazione delle autonomie regionali e locali, senza prevedere alcun tipo di cooperazione. Il Collegio evidenzia come “non sarebbe conforme al modello delineato, in mancanza di una espressa e giustificata previsione, postulare, evocando il principio di leale collaborazione, un coinvolgimento delle Regioni o degli enti locali, nel momento di regolazione della fase afferente all’organizzazione degli uffici statali e alla costruzione delle relazioni organizzative tra gli uffici stessi”. Diversamente, le funzioni amministrative si svolgono in attuazione del principio di sussidiarietà, nel cui ambito il legislatore ha contemplato forme di leale cooperazione nella fase concreta afferente all’attività amministrativa nel settore del patrimonio culturale. Si tratta, pertanto, di una cooperazione che attiene all’esercizio delle funzioni amministrative e non, si ribadisce, a quella a monte della creazione dell’ufficio che quelle funzioni poi dovrà espletare. Nonostante vi sia stretta connessione tra organizzazione e attività amministrativa – in ossequio al principio di buon andamento – essa non rende possibile lo spostamento di regole organizzative le regole che la Costituzione e le fonti primarie hanno previsto a livello di attività amministrativa. DU
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Inserito in data 26/07/2017 TAR CALABRIA - CATANZARO, SEZ. II - 20 luglio 2017, n. 1170 Occupazione illegittima; Transito debito risarcitorio per creazione di nuovo ente. Legittimazione passiva e prescrizione La controversia decisa dal Collegio riguarda una ipotesi di successione a titolo particolare tra enti locali, verificatasi a seguito di distacco e di creazione di un ulteriore nuovo ente locale. Più esattamente si tratta di stabilire quale sia l’ente legittimato passivo innanzi ad una pretesa risarcitoria avanzata dal privato a seguito di una procedura ablativa rivelatasi illegittima. Il Collegio chiarisce che “al fine di accertare quale tra i due enti sia legittimato passivo dinnanzi alla pretesa creditoria privata a seguito di una occupazione illegittima (procedura di esproprio illegittima), occorre indagare sul momento in cui è sorto il debito risarcitorio, ossia se in epoca anteriore o successiva alla costituzione della nuova Provincia”. Inoltre rileva “la natura permanente dell'illecito della P.A. finché dura l’illegittima occupazione del bene in assenza di un valido titolo che determini il trasferimento della proprietà in capo ad essa, onde non si configura alcuna prescrizione del relativo diritto al risarcimento” per come le amministrazioni resistenti asseriscono nelle rispettive difese. Conseguentemente, “il termine quinquennale di detta prescrizione non decorre finché v’è tal illecito ed al più esso inizia a farlo solo dalla proposizione della domanda per quanto riguarda la reintegrazione per equivalente o dalle singole annualità relativamente alla domanda risarcitoria sul mancato godimento del bene (cfr. Cons. St., IV, n. 4636 del 2016; IV, n.5364 del 2016)”. Alla luce di tali principi, la domanda risarcitoria a seguito di occupazione illegittima non può dirsi prescritta né per l’ente originario né per il nuovo ente. Inoltre, in punto di illiceità della condotta tenuta dalle Amministrazioni, si mette in rilievo l’arresto della Adunanza plenaria del supremo consesso amministrativo (n. 2 del 2016) ove si afferma il generale principio secondo il quale, “quale che sia la sua forma di manifestazione (vie di fatto, occupazione usurpativa, occupazione acquisitiva), la condotta illecita della P.A. incidente sul diritto di proprietà non può comportare l’acquisizione del fondo e configura un illecito permanente ex art. 2043 c.c. – con la conseguente decorrenza del termine di prescrizione quinquennale dalla proposizione della domanda basata sull’occupazione contra ius”. PC
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Inserito in data 25/07/2017 TAR LAZIO - ROMA, SEZ. II QUATER - 20 luglio 2017, n. 8818 Accordi di programma: potere di ratifica del Consiglio comunale e merito dell’accordo L’istituto dell’accordo di programma “costituisce un'ipotesi di urbanistica negoziata”. “Esso rappresenta una speciale tipologia di accordo tra pubbliche amministrazioni finalizzato alla definizione ed attuazione, con eventuale incidenza sugli strumenti urbanistici, di opere, interventi o programmi che richiedono per la loro completa realizzazione l'azione integrata e coordinata di comuni, province e regioni, di amministrazioni statali o di altri soggetti pubblici (Cons. St., sez. IV, 21 novembre 2005, n. 6467).” In base al comma 5 dell’art. 34 d.lgs. 267/2000, “ove l'accordo comporti variazione degli strumenti urbanistici, l'adesione del sindaco allo stesso deve essere ratificata dal consiglio comunale entro trenta giorni a pena di decadenza”. Si tratta di un “meccanismo di ratifica ex lege, in cui, l’incompetenza del Sindaco firmatario dell’accordo è presupposta ab origine e necessita del placet dell’organo consiliare per consentire all’atto di spiegare i suoi effetti.” “La questione che si pone, dunque, all’attenzione del collegio è se in sede di ratifica ex art. 34, il consiglio comunale possa entrare nel merito dei contenuti dell’accordo di programma già firmato e negare la ratifica per ragioni sostanziali”. La risposta è negativa per ragioni di ordine letterale e sistematico. “In primo luogo, la disposizione del comma 5 parla espressamente di “ratifica” e quindi non può lasciare dubbi in ordine al fatto che si riferisca a quella forma di atto amministrativo che mira a preservare gli effetti di un atto adottato da organo incompetente, con l’unica precisazione che trattasi di incompetenza sancita direttamente dalla legge, tenuto conto che è la stessa legge a preoccuparsi di fare in modo che lo strumento negoziato (accordo) acquisti il crisma di provvedimento amministrativo vero e proprio laddove esso impinga in ambiti di stretta competenza dell’ente pubblico, quali le modifiche agli strumenti urbanistici.” “Che si tratti di un provvedimento di mera assunzione di competenza non vi sono dubbi, perché, diversamente opinando, il legislatore avrebbe utilizzato un termine diverso e presumibilmente avrebbe fatto riferimento non alla ratifica, bensì alla “convalida”, che è il provvedimento con il quale l’amministrazione elimina un vizio di legittimità dall’atto che ne era affetto.” “In secondo luogo, la funzione di formale presa d’atto della ratifica di cui al comma 5, risiede nell’essenza stessa del sistema di attività amministrativa negoziata di cui all’art. 34 d.lgs. 267/2000, che è frutto del binomio conferenza di servizi - accordo, secondo quanto stabilito dallo stesso art. 34. Ne discende che non può esservi spazio per un intervento, da parte del consiglio comunale, che entri nel merito dell’accordo già negoziato. “La circostanza che il successivo comma 5 imponga la ratifica del consiglio comunale “ove l'accordo comporti variazione degli strumenti urbanistici” costituisce dunque circostanza eccezionale, isolata, coerente con il sistema, ma di fatto circoscritta al caso di specie e finalizzata a evitare che le variazioni degli strumenti urbanistici […] avvengano senza il consenso del Comune, che di fatto va a approvare, con la ratifica, l’operato di un organo – il Sindaco – che in materia urbanistica non ha alcuna competenza specifica tale da legittimare la presenza del suo solo consenso per apportare variazioni decisive nel tessuto urbanistico”. “Proprio in ragione dell’eccezionalità di questa attribuzione di potere, è evidente che la ratifica non può essere intesa come disponibilità di un potere di autotutela nel merito della scelta frutto dell’azione concordata degli enti locali nella conferenza di servizi e poi nel successivo accordo di programma.” Non risulta, pertanto, legittimo che il Comune “si spinga oltre, fino a negare la ratifica per ragioni che, di fatto, esulano dai suoi poteri e dalla sua sfera di competenza, in quanto neppure aventi ad oggetto valutazioni di carattere urbanistico”. GB
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Inserito in data 24/07/2017 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, 24 luglio 2017, n. 3664 Richiesta di titolo edilizio in presenza di giudicato civile sullo stesso Con la sentenza in esame, il Consiglio di Stato ritiene che: “la consumazione del potere di impugnare, giusta l’art. 358 del codice di procedura civile, applicabile al procedimento amministrativo, presuppone necessariamente l’intervenuta declaratoria di inammissibilità o improcedibilità del primo gravame, potendo altrimenti essere proposto un secondo atto di appello”. Invero, tale principio è stato affermato anche dalla Corte di Cassazione (cfr. Cass. 23-1-1998, n. 643; 21-7-2000, n. 9569; 7 -9-1999, n. 9475), la quale ha precisato che “il principio di consumazione del potere di impugnazione non esclude che, dopo la proposizione di una impugnazione viziata, possa esserne proposta una seconda immune dai vizi della precedente e destinata a sostituirla, evidenziandosi che la consumazione del diritto di impugnazione presuppone l’esistenza – al tempo della proposizione della seconda impugnazione – di una declaratoria di inammissibilità o improcedibilità della precedente, sicché, in mancanza di tale (preesistente) declaratoria, ben è consentita la proposizione di una (altra) impugnazione (di contenuto identico o diverso), in sostituzione della precedente, sempreché il relativo termine non sia decorso”. Ciò premesso, il Collegio conferma l’orientamento giurisprudenziale (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 12-3-2013, n. 1482; V, 10-12-1990, n. 856) secondo cui, “in presenza di un giudicato civile, a questo deve essere data esecuzione e, dunque, l’amministrazione non può esimersi dal rilasciare il titolo edilizio necessario”. D’altra parte, “la portata oggettiva e soggettiva del giudicato, nell’imporre una esecuzione materiale di quanto illecitamente realizzato, in realtà esclude la stessa necessità giuridica (id est: imprescindibilità) della concessione edilizia, rilevando che in effetti proprio la puntualità e cogenza del giudicato a tutela del diritto dominicale esclude ogni potere dell’amministrazione di sottrarsi (ovvero di consentire di sottrarsi) al dictum giurisdizionale” (cfr. Cons. Stato, IV, n. 1482/2013). Peraltro, “ove la richiesta del titolo edilizio venga comunque proposta, il Comune deve provvedere in merito”. Orbene, nell’affermare tali principi, involgenti proprio l’impugnativa di dinieghi edilizi resi nel corso di procedimenti di esecuzione civile, il Consiglio di Stato non ha mai declinato la giurisdizione in materia. È ben vero che “il titolo edilizio costituisce un elemento che il giudice dell’esecuzione, all’interno del procedimento giurisdizionale ex art. 612 c.p.c., ha ritenuto necessario per poter dar luogo all’esecuzione della sentenza”. Tuttavia, la sua richiesta innesca un procedimento amministrativo, “il quale si conclude con un provvedimento amministrativo, sulla cui cognizione di legittimità non v’è dubbio che ci sia giurisdizione del giudice amministrativo”. Vuole in buona sostanza affermarsi che “tale procedimento amministrativo ed il provvedimento conclusivo di esso, pur se occasionati dal giudizio di esecuzione civile pendente, mantengono la loro autonomia in termini di atti qualificabili come amministrativi e, pertanto, l’ordinario loro regime di impugnazione e di cognizione”. EF
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Inserito in data 20/07/2017 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 11 luglio 2017, n. 3415 Sul conflitto di interessi in tema di gare pubbliche: art. 42, c. 2', D.lgs. 50/16 Nella pronuncia in epigrafe viene confermata la sentenza resa dal Giudice di prime cure nella quale, dando ragione al ricorrente non aggiudicatario, è stata dichiarata la inefficacia del contratto di aggiudicazione per la rilevata situazione di conflitto di interessi esistente tra la stazione appaltante e la società aggiudicataria (la odierna appellante).
La Sezione chiarisce e specifica la portata generale dell’art. 42, comma 2, d.lgs. n. 50 del 2016, riferendosi la locuzione “personale”, in essa contenuta, non solo ai dipendenti in senso stretto dei soggetti giuridici ivi richiamati, ma anche a quanti siano – in base ad un titolo giuridico – in grado di impegnare nei confronti dei terzi i propri danti causa o, comunque, “rivestano un ruolo tale da poterne obiettivamente influenzare l’attività esterna”.
La norma ha infatti una manifesta funzione preventiva la quale, “se và applicata ai c.d. dipendenti operativi, ossia i lavoratori subordinati, a fortiori deve essere applicata anche agli altri organi ed uffici direttivi e di vertice (nonché dirigenti ed amministratori pubblici) dovendo la disposizione essere letta in combinato disposto con l’art. 7 D.P.R. 2013 n. 62 (Codice di comportamento dei pubblici dipendenti). Motivo per cui il Collegio afferma che “ E’ legittima l’esclusione dalla gara per l’affidamento di servizi assicurativi, disposta ai sensi dell’art. 42, comma 2, d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, per conflitto di interesse nascente dai particolari rapporti (societari e personali) tra l’operatore economico (in particolare l’agente generale di una Compagnia di assicurazione territorialmente competente per l’esecuzione del servizio oggetto della gara) ed una terza società incaricata di redigere i Capitolati di gara”.
(1) Ha chiarito la Sezione che l’espressione “personale”, contenuta nel comma 2 dell’art. 42, d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 si riferisce non solo ai dipendenti in senso stretto (ossia, i lavoratori subordinati) dei soggetti giuridici ivi richiamati, ma anche a quanti, in base ad un valido titolo giuridico (legislativo o contrattuale), siano in grado di validamente impegnare, nei confronti dei terzi, i propri danti causa o comunque rivestano, di fatto o di diritto, un ruolo tale da poterne obiettivamente influenzare l’attività esterna. Diversamente, si entrerebbe nella contraddizione di escludere dalla portata della norma – dalla manifesta funzione preventiva – proprio quei soggetti che più di altri sono in grado di condizionare l’operato dei vari operatori del settore (pubblici e privati) e dunque si darebbe vita a situazioni di conflitto che la norma vuol prevenire, ossia i componenti degli organi di amministrazione e controllo. Invero, se la norma sul conflitto di interessi si applica sicuramente ai dipendenti “operativi”, a maggior ragione andrà applicata anche agli organi ed uffici direttivi e di vertice (nonché ai dirigenti e amministratori pubblici), come si evince proprio dal richiamo all’art. 7, d.P.R. 16 aprile 2013, n. 62 (Codice di comportamento dei pubblici dipendenti), per indicare le ampie categorie di soggetti cui fare riferimento.
Ha ancora ricordato il giudice di appello che le ipotesi previste nel comma 2 dell’art. 42, d.lgs. n. 56 del 2016 (in termini generali ed astratti) si riferiscono a situazioni in grado di compromettere, anche solo potenzialmente, l’imparzialità richiesta nell’esercizio del potere decisionale. Si verificano quando il “dipendente” pubblico (ad esempio, il Rup ed i titolari degli uffici competenti ad adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti endoprocedimentali ed il provvedimento finale, esecuzione contratto e collaudi) ovvero colui (anche un soggetto privato) che sia chiamato a svolgere una funzione strumentale alla conduzione della gara d’appalto, è portatore di interessi della propria o dell’altrui sfera privata, che potrebbero influenzare negativamente l’esercizio imparziale ed obiettivo delle sue funzioni. La definizione normativa, del resto, appare coerente con lo ius receptum per cui le regole sull’incompatibilità, oltre ad assicurare l’imparzialità dell’azione amministrativa, sono rivolte ad assicurare il prestigio della Pubblica amministrazione, ponendola al di sopra di ogni sospetto, indipendentemente dal fatto che la situazione incompatibile abbia in concreto creato o meno un risultato illegittimo (Cons. St., sez. VI, 13 febbraio 2004, n. 563). PC |
Inserito in data 19/07/2017 TAR PIEMONTE - TORINO, SEZ. II - 17 luglio 2017, n. 861 Sulla revoca dell’aggiudicazione di un immobile pubblico Con la pronuncia in epigrafe, il Consesso Amministrativo piemontese asserisce che la verifica dei requisiti soggettivi dell’aggiudicatario, prevista dall’art. 38 comma 6, non produce ipso iure la trasformazione dell’aggiudicazione da “provvisoria” a “definitiva”, ma richiede l’adozione da parte dell’amministrazione di un atto formale di accertamento, che nella specie è mancato. A tal fine, il TAR rinviando a taluni consolidati principi giurisprudenziali, evidenzia come “nelle procedure di evidenza pubblica l'aggiudicazione provvisoria è un atto endoprocedimentale, di natura provvisoria, che si inserisce nell'ambito della procedura di scelta del contraente come sub-procedimento e quindi come fase necessaria, ma non decisiva, atteso che la definitiva individuazione del contraente risulta consacrata solo con l'aggiudicazione definitiva, quindi inidonea ad attribuire in modo stabile il bene della vita; ne deriva che all’amministrazione è riconosciuta la possibilità di procedere alla sua revoca o al suo annullamento ovvero, ancora, di non procedere affatto all'aggiudicazione definitiva” (Consiglio di Stato sez. IV 12 gennaio 2016 n. 67). Ad avviso del Collegio la sussistenza di ragioni di pubblico interesse, non sarebbe neanche da classificare come attività di secondo grado - diversamente dal ritiro dell'aggiudicazione definitiva - atteso che l'aggiudicatario provvisorio vanta solo un'aspettativa non qualificata o di mero fatto alla conclusione del procedimento e che la non conferma o revoca dell'aggiudicazione provvisoria non costituisce attività di secondo grado, ma rientra nell'unico procedimento di gara e nella medesima sequenza procedimentale. Nel caso di specie – rileva il Consesso – “i provvedimenti impugnati sono stati adottati allorchè la procedura di gara era pervenuta alla fase della sola aggiudicazione provvisoria, e sono stati determinati da un esplicito ripensamento dell’amministrazione comunale in ordine alla destinazione funzionale del bene oggetto della procedura di gara.” In un primo tempo il consiglio comunale aveva ritenuto che l’immobile potesse essere alienato per esigenze sostanzialmente “di cassa”; tuttavia, nel corso del giudizio, emerge come la decisione era stata assunta non senza perplessità e riserve, principalmente legata alle preponderanti esigenze di bilancio. Invero, dal tenore del provvedimento e della sua motivazione si rileva come “l’amministrazione non abbia ancora le idee sufficientemente chiare su quale concreta destinazione pubblica imprimere al bene: viene ipotizzato l’utilizzo da parte del Parco Nazionale, a cui anche il Comune pare aver aderito, ma nel contempo non si escludono altre finalità istituzionali, allo stato ancora tutte da definire”. È evidente come siffatte incertezze non sono in grado di configurare - come adotto da parte ricorrente - un profilo di illegittimità del provvedimento impugnato, perché se pure non è chiara la concreta destinazione pubblica che l’amministrazione intende imprimere al bene, è però chiaro, per contro, che l’amministrazione intende vincolare il bene ad un utilizzo pubblico/istituzionale, quale che sia; e in tale prospettiva ritiene indispensabile conservare la proprietà dell’immobile per poter valutare in tempi più o meno prossimi a quale concreta finalità istituzionale destinare l’immobile. Si tratta, secondo il Collegio, di un interesse pubblico meritevole di tutela, benchè non ancora pervenuto ad una definizione di dettaglio, tanto più in considerazione della fase in cui, nel caso di specie, è sopravvenuta la decisione dell’amministrazione di revocare la procedura di gara, e cioè subito dopo l’aggiudicazione provvisoria e prima dell’aggiudicazione definitiva: ossia “una fase in cui, alla luce dei principi giurisprudenziali sopra richiamati, l’aggiudicatario provvisorio non è ancora titolare in modo stabile del bene della vita, ma di una mera aspettativa non qualificata o di fatto alla conclusione del procedimento”, sicchè all’amministrazione è riconosciuta la possibilità di procedere alla revoca o all’annullamento dell’aggiudicazione o anche dell’intera procedura di gara, senza neppure speciali oneri motivazionali. DU |
Inserito in data 18/07/2017 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 11 luglio 2017, n. 3400 Requisiti di professionalità delle Commissioni giudicatrici In base ad un condiviso orientamento, nelle gare pubbliche, la legittima composizione della Commissione presuppone solo la prevalente, seppure non esclusiva, presenza di membri esperti del settore oggetto dell'appalto (in tal senso – ex multis -: Cons. Stato, V, 9 aprile 2015; id., VI, 2 luglio 2015, n. 3295; id., V, 5 maggio 2016, n. 1817). Né può essere condivisa la tesi secondo cui, il rispetto del requisito di professionalità e omogeneità di cui all’articolo 84, comma 2 del decreto legislativo n. 163 del 2006 potrebbe dirsi soddisfatto solo in caso di membri della Commissione con specifiche esperienze in settori progettuali identici a quello posto a fondamento della gara. “La proposta soluzione interpretativa, laddove condivisa, finirebbe per eccedere dai confini della (pur rigorosa) previsione di legge, rendendo praticamente impossibile – e comunque estremamente difficoltoso – per gli Enti la valida formazione di Commissioni giudicatrici, in assenza di effettive ragioni giustificatrici.” GB
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Inserito in data 17/07/2017 TAR LAZIO - ROMA, SEZ. III - 14 luglio 2017, n. 8529 ASN: occorre anche una disamina qualitativa sulle pubblicazioni L'art. 16 della Legge n. 240/2010 (“Norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e reclutamento, nonché delega al Governo per incentivare la qualità e l'efficienza del sistema universitario”) ha istituito l’“abilitazione scientifica nazionale”, quale requisito di qualificazione necessario per la partecipazione alle procedure selettive per l’accesso alla prima ed alla seconda fascia dei professori universitari. L'abilitazione viene attribuita, previa sintetica descrizione del contributo individuale alle attività di ricerca e sviluppo svolte dal candidato, con motivato giudizio fondato sulla valutazione analitica dei titoli e delle pubblicazioni scientifiche ed espresso “sulla base di criteri e parametri differenziati per funzioni e per area disciplinare, definiti con decreto del Ministro” (art. 16, comma 3, lett. a), L. n. 240/2010). In particolare l’art. 3 del D.M. n. 76/2012 prevede che “nelle procedure di abilitazione per l'accesso alle funzioni di professore di prima e di seconda fascia, la commissione formula un motivato giudizio di merito sulla qualificazione scientifica del candidato basato sulla valutazione analitica dei titoli e delle pubblicazioni presentate. La valutazione si basa sui criteri e i parametri definiti per ciascuna fascia agli articoli 4 e 5”, i quali, per la valutazione delle pubblicazioni scientifiche, stabiliscono che la Commissione si attiene, tra gli altri parametri, all'impatto della produzione scientifica complessiva all'interno del settore concorsuale valutata mediante gli indicatori di cui all'art. 6 e agli allegati A e E del D.M. cit.. L’art. 6, comma 5, del medesimo D.M. n. 76/2012, stabilisce che “le Commissioni possano discostarsi dai criteri e parametri disciplinati dal D.M. 76/2012, incluso quello della valutazione dell'impatto della produzione scientifica, dandone motivazione sia al momento della fissazione dei criteri di valutazione dei candidati sia nel giudizio finale espresso sui medesimi”. Alla luce di tali premesse il Collegio accoglie la tesi ricorsuale, che censura “la Commissione per avere sostanzialmente esaurito la valutazione nel solo calcolo della produttività scientifica della ricorrente, ritenendola inidonea alla prima fascia soltanto in ragione del mancato superamento delle tre mediane di settore (rispettivamente relative: ai libri; agli articoli in rivista e ai capitoli di libro; alle pubblicazioni in riviste di classe A), senza che questo rilievo sia stato accompagnato da una adeguata disamina di tipo qualitativo sulle pubblicazioni e sugli altri titoli posseduti dalla ricorrente”. Non a caso l’Amministrazione, con la circolare dell’11 gennaio 2013, n. 754 ha chiarito le modalità di valutazione alle quali devono attenersi le commissioni per l’abilitazione scientifica nazionale dei candidati, “affermando, in particolare, che la valutazione complessiva del candidato deve fondarsi sull’analisi di merito della produzione scientifica dello stesso”. Secondo la menzionata circolare, quindi, “il superamento degli indicatori numerici specifici non costituisce di per sé condizione sufficiente ai fini del conseguimento dell’abilitazione. Di norma, pertanto, l’abilitazione deve essere attribuita esclusivamente ai candidati che abbiano soddisfatto entrambe le condizioni (superamento degli indicatori di impatto della produzione scientifica e positivo giudizio di merito)”. Tuttavia, “le commissioni, come già osservato, ai sensi dell’art. 6, comma 5 del decreto ministeriale 76/2012, possono discostarsi da tale regola generale. Ciò comporta che le commissioni possano non attribuire l’abilitazione ai candidati che pure superino le mediane per il settore di appartenenza, purché ciò avvenga sulla base di un giudizio di merito negativo della commissione, ovvero possono attribuire l’abilitazione ai candidati che, pur non avendo superato le mediane prescritte, siano valutati dalla commissione con un giudizio di merito estremamente positivo”. L’articolata disciplina in esame è espressione di “un principio generale volto a selezionare i docenti che siano al di sopra della media nazionale degli insegnati del settore di riferimento; ciò al fine evidente di evitare un appiattimento nella selezione dei professori di prima e di seconda fascia e del ruolo peculiare che i candidati andranno a rivestire”. Nel caso posto al vaglio del Consesso, dunque, “la Commissione avrebbe dovuto indicare le ragioni per cui non ha concesso l’abilitazione all’interessata, non solo soffermandosi sulla (presunta) insufficienza quantitativa delle sua produzione scientifica, ma anche attraverso un’adeguata valutazione del suo merito scientifico, la quale doveva necessariamente investire sia le pubblicazioni che i titoli presentati”. Si deve infatti sempre rammentare la già citata regola basilare introdotta dal MIUR con il decreto ministeriale n. 76 del 2012 (recante il regolamento sui criteri e i parametri che le Commissioni di valutazione debbono osservare) secondo cui “1. Nelle procedure di abilitazione per l'accesso alle funzioni di professore di prima e di seconda fascia, la commissione formula un motivato giudizio di merito sulla qualificazione scientifica del candidato basato sulla valutazione analitica dei titoli e delle pubblicazioni presentate. La valutazione si basa sui criteri e i parametri definiti per ciascuna fascia agli articoli 4 e 5” (art. 1, comma 1, D.M. cit.). Del resto, come più volte ritenuto da questa Sezione “nelle ipotesi, come quella in esame, in cui è attribuita all'Amministrazione un'ampia discrezionalità, è necessaria una ancor più rigorosa motivazione che dia conto in concreto degli elementi sui quali la Commissione ha fondato il proprio giudizio, in modo da comprendere quale sia stato l’iter logico seguito….” (cfr. TAR Lazio, Sez. III, 30.12.2014, n. 13288; id. 31.3.2015, n. 4776). Va precisato altresì che, “ai fini del conseguimento dell’abilitazione, rispetto al superamento delle mediane, essendo gli indici correlati alle stesse a carattere meramente quantitativo (cfr. allegati A e B al D.M. n.76 del 2012), risulta preminente il giudizio di merito della Commissione sulla maturità scientifica raggiunta dai candidati, ex art. 5 del D.M. n.76 del 2012” (cfr., “ex plurimis”, TAR Lazio, sez. III, 22 settembre 2016, n. 9901; id. sez. III-bis, 7 luglio 2016, n. 7828; v. altresì sez. III n. 11500 del 2014 ). EF
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Inserito in data 07/07/2017 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI - 5 luglio 2017, n. 3292 La revocazione è un rimedio eccezionale che non può convertirsi in un terzo grado di giudizio Con la pronuncia in commento la Sesta Sezione dichiara inammissibile il ricorso avente ad oggetto la revocazione della sentenza n. 3 del 2015 proposto da una società, per mancata pronuncia del Consiglio di Stato sulla domanda di risarcimento da ritardo. In particolare, in virtù del rinvio di cui all’art. 106 cod. proc. amm. è possibile in tale sede richiamre il disposto dell’art. 395, comma 1, numero 4, cod. proc. civ., il quale dispone che la revocazione è ammissibile «se la sentenza è l’effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa», specificando che «vi è questo errore quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita, e tanto nell’uno quanto nell’altro caso se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare». Inoltre, la giurisprudenza amministrativa è costante nel ritenere che l’istituto della revocazione è un rimedio eccezionale che non può convertirsi in un terzo grado di giudizio (tra le altre, Cons. Stato, sez. VI, 18 marzo 2014, n. 1334). Nella specie, si ritiene costantemente che per aversi errore di fatto revocatorio e conseguente «abbaglio dei sensi» del giudice devono sussistere, contestualmente, tre requisiti: quali l’attinenza dell’errore ad un punto non controverso e sul quale la decisione non abbia espressamente motivato; la «pura e semplice errata od omessa percezione del contenuto meramente materiale» di atti ritualmente prodotti nel giudizio; la valenza decisiva dell’errore sulla decisione, essendo necessario che vi sia «un rapporto di causalità tra l’erronea supposizione e la pronuncia stessa». Devono, invece, ritenersi vizi logici e dunque errori di diritto quelli consistenti nell’erronea interpretazione e valutazione dei fatti e, più in generale, delle risultanze processuali (Cons. Stato, sez. V, 21 ottobre 2010, n. 7599; id., sez. VI, 5 settembre 2011, n. 4987). In definitiva, «mentre l’errore di fatto revocatorio è configurabile nell’attività preliminare del giudice di lettura e percezione degli atti acquisiti al processo, quanto alla loro esistenza ed al significato letterale» esso non ricorre, tra l’altro, «nell’ipotesi di erroneo, inesatto o incompleto apprezzamento delle risultanze processuali», che può dare luogo «se mai ad un errore di giudizio, non censurabile mediante la revocazione» (Cons. Stato, Ad. plen., 10 gennaio 2013, n. 1). In più si aggiunga che da alcuni passaggi motivazionali della sentenza impugnata si afferma che il ritardo dell’Autorità nella determinazione delle tariffe è addebitabile alla condotta della società, la quale non avrebbe fornito la documentazione richiesta. Ne deriva l’esclusione di ogni responsabilità per danno da ritardo. In altri termini, osserva il Collegio, la rilevata infondatezza della domanda d’annullamento ha comportato la statuizione sulla carenza di interesse a coltivare la domanda risarcitoria. DU
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Inserito in data 06/07/2017 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL'ADUNANZA PLENARIA - 5 luglio 2017, n. 3319 Sul valore del diploma di fisioterapista rilasciato ex l. 19/5/1971, n. 403 Il Collegio rimette all’esame dell’Adunanza Plenaria la questione concernente “il valore da riconoscere ai fini di un’iscrizione universitaria al diploma di fisioterapista rilasciato ai sensi della l. 19 maggio 1971, n. 403. Secondo un primo orientamento, “il diploma di masso fisioterapista, rilasciato ai sensi della l. 19 maggio 1971, n. 403, consentirebbe senz’altro l’accesso ad una facoltà universitaria, nella specie alla facoltà di fisioterapia”. Tale orientamento, espresso da C.d.S., sez. VI 5 marzo 2015, n. 1105, e più di recente da C.G.A., 10 maggio 2017, n. 212, parte anzitutto dal dato per cui il diploma di cui alla l. 403/1971, in considerazione del D.M. 27 luglio 2000 e dell’art. 4 l. 42/1999, è equipollente al diploma di cui al d. lgs. 502/1999. Ciò posto, per implicito ma inequivocabilmente, rileva che il diploma di cui al d. lgs. 502/1999 è un diploma universitario, che per il conseguimento richiede di aver già conseguito un diploma di scuola secondaria superiore di durata quinquennale. Su questa base di equipollenza, tale orientamento ritiene quindi che il diplomato di cui alla l. 403/1971 possa per ciò solo iscriversi alla facoltà universitaria di proprio interesse, appunto perché in possesso di un diploma che presuppone il previo ottenimento di un diploma di scuola secondaria superiore della durata indicata. Il Collegio osserva, tuttavia, che l’equiparazione invocata dall’appellante dovrebbe essere disposta da una norma espressa. Si potrebbe affermare, infatti, che le disposizioni in materia di equiparazione abbiano un carattere eccezionale, poiché «ciò che si equipara è per definizione diverso», con la conseguente inammissibilità di interpretazioni analogiche o estensive. GB
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Inserito in data 05/07/2017 TAR TOSCANA - FIRENZE, SEZ. I, 3 luglio 2017, n. 898 Diniego di accesso, esposto e diritto all’ostensibilità della fase di pre - iniziativa La pronuncia dei Giudici fiorentini traccia, con estremo dettaglio, i confini del diritto di accesso – specie in un’ipotesi particolare, pari a quella oggetto dell’odierno contenzioso. La parte ricorrente, in specie una società – impresa agricola - operante nel territorio toscano, era stata destinataria di una serie di esposti, presentati all’Ente comunale, riguardo ai quali aveva postulato la provenienza che, invece, era stata occultata dall’Amministrazione competente. Impugnato il diniego di accesso, il Collegio ne condivide le motivazioni, in ragione del fatto che l'esposto, una volta pervenuto nella sfera di conoscenza dell'amministrazione, costituisce un documento che assume rilievo procedimentale come presupposto di un'attività ispettiva o di un intervento in autotutela, e di conseguenza il denunciante perde consapevolmente e scientemente il “controllo” e la disponibilità sulla propria segnalazione: quest’ultima, infatti, uscita dalla sfera volitiva del suo autore diventa un elemento del procedimento amministrativo, come tale nella disponibilità dell'amministrazione. La sua divulgazione, pertanto, non è preclusa da esigenze di tutela della riservatezza, giacché il predetto diritto non assume un'estensione tale da includere il diritto all'anonimato di colui che rende una dichiarazione che comunque va ad incidere nella sfera giuridica di terzi (Cfr. Cons. St., sez. V, 19 maggio 2009 n. 3081; T.A.R. Sicilia, Catania, sez. III, 11 febbraio 2016 n. 396). Né, ricordano ancora i Giudici toscani, il nostro ordinamento, ispirato a principi democratici di trasparenza, imparzialità e responsabilità ammette la possibilità di denunce segrete: sicché colui il quale subisce un procedimento di controllo o ispettivo ha un interesse qualificato a conoscere integralmente tutti i documenti amministrativi utilizzati nell'esercizio del potere di vigilanza, a cominciare dagli atti di iniziativa e di preiniziativa, quali, appunto, denunce, segnalazioni o esposti (Cfr. T.A.R. Lombardia, Brescia, sez. I, 12 luglio 2016 n. 980, T.A.R. Campania, sez. VI, 4 febbraio 2016 n. 639). Di conseguenza, il ricorso va accolto e, per l’effetto, il Collegio annulla gli atti impugnati e condanna il Comune a consentire alla società ricorrente l’accesso e l’estrazione di copia dei documenti richiesti. CC
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Inserito in data 04/07/2017 CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 3 luglio 2017, n. 3 Cessione del ramo di azienda e validità delle attestazioni SOA
Nella decisione emarginata in epigrafe, il Supremo Consesso amministrativo prende posizione sull’annosa questione relativa alla permanenza della validità dei requisiti di cui alle attestazioni SOA in capo alla società cedente un suo ramo aziendale.
Più precisamente, la controversia ha ad oggetto la impugnazione, da parte della società seconda classificata, della aggiudicazione in favore della prima classificata (la cedente il ramo di azienda), sul presupposto che quest’ultima avrebbe perduto la qualificazione utile alla partecipazione alla gara di appalto, in conseguenza del contratto di cessione del suo ramo di azienda intervenuto nel periodo compreso tra la domanda di partecipazione alla gara e la successiva presentazione dell’offerta.
Il Giudice di prime cure, “dando atto della esistenza in giurisprudenza di due contrapposti orientamenti in ordine agli effetti della cessione d’azienda sulla qualificazione SOA posseduta dalla cedente”, aveva giudicato il ricorso infondato, aderendo alle pronunce giurisprudenziali “che avevano ravvisato in tale atto negoziale una soluzione di continuità nel possesso del requisito di qualificazione in capo alla società resistente”.
Avverso la decisione del T.a.r. viene proposta impugnativa sul rilievo che la conferma postuma delle qualificazioni de quibus in capo alla aggiudicataria era, peraltro, già stata smentita da altrettante precedenti pronunce dello stesso Consiglio di Stato; in particolare, si allude alla sentenza n. 5573/2014 della III Sezione ove si è affermato che “nel caso di cessione di ramo d’azienda né il cedente né il cessionario possono valersi dell’attestazione di qualificazione posseduta dall’azienda ceduta, pur potendone richiedere una nuova alla società di attestazione”.
Chiariti i termini del contrasto giurisprudenziale sorto sul punto, la questione viene deferita alla Adunanza Plenaria oggetto della presente disamina. In particolare, ci si chiede se:
i) ai sensi dell’art. 76, comma 11, d.P.R. 5 ottobre 2010, n. 207, debba affermarsi il principio per il quale, in mancanza di nuova richiesta di attestazione SOA, la cessione del ramo d’azienda comporti sempre, in virtù dell’effetto traslativo, il venir meno della qualificazione o, piuttosto, se debba prevalere la tesi che limita le fattispecie di cessione, contemplate dal comma 11 art. 76 solo a quelle che, dando vita ad un nuovo soggetto, presuppongono che il cedente se ne sia definitivamente spogliato, così escludendo le diverse fattispecie di cessione di parti del compendio aziendale, le quali, ancorché qualificate dalle parti come trasferimento di “rami aziendali”, si riferiscano, in concreto, a porzioni prive di autonomia funzionale e risultano pertanto inidonee a consentire al soggetto cessionario di ottenere la qualificazione;
ii) se l’accertamento effettuato dalle SOA, su richiesta o in sede di verifica periodica, valga sempre e solo per il futuro, oppure se, nei casi in cui l’organismo SOA accerti ex post il mantenimento dei requisiti speciali in capo alla cedente, nonostante l’avvenuta cessione di una parte del compendio aziendale, l’attestazione possa anche valere ai fini della conservazione della qualificazione senza soluzione di continuità.
Ora, con riferimento alla prima questione, l’Adunanza dà atto della presenza di due opposti orientamenti.
Secondo un primo approccio, c.d. formalistico perché rigidamente ancorato al principio del consenso traslativo ed alla concezione astratta della causa contrattuale (cfr. Cons. St., sez. IV, 29 febbraio 2016, n. 811, n. 812 e n. 813), “nel caso di cessione di ramo d’azienda, il cedente perde automaticamente le qualificazioni, ancorché resti - per avventura - in dotazione di requisiti sufficienti per una determinata qualificazione, poiché ciò non lo esonera dal chiedere a una Società Organismo di Attestazione l’attestazione di qualificazione che, a norma dell’art. 60, comma 2, d.P.R. n. 207 del 2010, costituisce condizione necessaria e sufficiente per la dimostrazione dell’esistenza dei requisiti di capacità tecnica e finanziaria ai fini dell’affidamento di lavori pubblici”. Secondo questo orientamento non potrebbe darsi rilievo alla conferma ex post dei requisiti operati dalla SOA in sede di verifica triennale, poiché essa giammai potrebbe avere un effetto sanante, stante l’effetto traslativo della cessione.
Per converso, secondo altro orientamento, (approccio c.d. “sostanzialistico” ed al quale aderisce l’ordinanza di rimessione all’Adunanza plenaria, giacché si fonda su un approccio concreto al contenuto negoziale e sulla vincolatività della conferma dell’attestazione SOA (Cons. St., sez. III, 9 gennaio 2017, n. 30; id., sez. V, 18 ottobre 2016, n. 4347 e n. 4348; id. 17 dicembre 2015, n. 5706) “bisogna escludere qualsiasi automatismo decadenziale (a danno della cedente) conseguente alla cessione d’azienda, occorrendo aver riguardo alla causa in concreto del negozio di cessione e al sottostante regolamento di interessi voluto dalle parti, in tutta la sua ampiezza, complessità e particolarità, per determinare se la cessione dei beni aziendali comporti o meno la perdita dei requisiti di cui alle attestazioni SOA in capo alla cedente”.
Nella decisione in commento l’Adunanza aderisce alla tesi sostanzialistica affermando che la disposizione di cui all’art. 76, comma 11 d.P.R. n. 207 del 2010, che attribuisce la facoltà alla cedente di chiedere una nuova attestazione SOA per i requisiti oggetto di trasferimento “deve essere interpretata nel senso che “la cessione del ramo d’azienda non comporta automaticamente la perdita della qualificazione, occorrendo procedere a una valutazione in concreto dell’atto di cessione, da condursi sulla base degli scopi perseguiti dalle parti e dell’oggetto del trasferimento”, non traducendosi, pertanto, nella automatica decadenza dei requisiti de quibus all’atto della cessione contrattuale.
Ne discende che in caso di trasferimento del ramo d’azienda “non sono automaticamente trasferiti anche i requisiti di cui all’art. 79, comma 1, d.P.R. n. 207 del 2010”.
Viene, altresì, chiarito nella decisione che qui ci occupa che “la verifica operata dall’organismo attestatore ha un’efficacia probatoria e non già sostanziale e che gli atti di accertamento hanno intrinseca valenza retroattiva, perché dichiarano una realtà giuridica preesistente.
Ne discende che postulare l’efficacia ex nunc della verifica positiva da parte dell’organismo SOA sarebbe in contrasto con la sua natura. Pertanto, nella suddetta ipotesi di cessione di ramo di aziendam il successivo accertamento positivo effettuato dalla SOA, su richiesta o in sede di verifica periodica, in ordine al mantenimento dei requisiti di qualificazione da parte dell’impresa cedente, comporta la conservazione dell’attestazione da parte della stessa senza soluzione di continuità.
D’altra parte, rileva la Adunanza che, non ammettere una soluzione di continuità alle attestazioni SOA determinerebbe l’effetto distorto di generare qualificazioni per così dire intermittenti, dunque in contrasto con la normativa di riferimento. PC
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Inserito in data 03/07/2017 TAR TOSCANA - FIRENZE, SEZ. I - 27 giugno 2017, n. 879 Esclusi i benefici combattentistici per i militari impegnati in missioni per conto dell’ONU Con la pronuncia indicata in epigrafe, il Collegio riprende la giurisprudenza del Consiglio di Stato da tempo consolidata “nell’escludere l’applicabilità, ai militari operanti in zone d’intervento per conto dell’ONU, della supervalutazione prevista dalla legge n. 390/1950, la quale si riferisce ai soli militari impegnati nelle campagne di guerra del periodo bellico 1940 – 1945, senza possibilità di estensione ad eventuali campagne successive. Se così è, l’art. unico delle legge n. 1746/1962 deve intendersi come originariamente riferito agli incrementi stipendiali previsti dagli artt. 9 e 7 del r.d. n. 1427/1922, i quali potevano logicamente trovare applicazione solo in presenza di una struttura stipendiale fondata su un sistema di progressione economica per classi e scatti, e pertanto non sono più attuali – sono divenuti inapplicabili – a far tempo dal 1 gennaio 1987, a seguito dell’estensione anche al personale militare non dirigenziale dell’istituto della retribuzione individuale di anzianità (R.I.A.) in luogo dei precedenti meccanismi di progressione economica per classi e scatti, ai sensi dell’art. 1 co. 3 del d.l. n. 379/1987, convertito con modificazioni dalla legge n. 478/1987” (in questi termini, Cons. Stato, sez. IV, 21 ottobre 2014, n. 5172; id., 8 maggio 2013, n. 2480; id., 25 maggio 2012, n. 3084; id., 19 ottobre 2007, n. 5475). Invero, tale interpretazione della legge n. 1746/1962, assurgendo a diritto vivente, “ha superato il vaglio della Corte Costituzionale, la quale, con sentenza 11 novembre 2016, n. 240, ha respinto la questione di legittimità sottopostale in relazione all’art. 3 Cost.”. In particolare, il Tar ritiene di non doversi discostare dalle indicazioni della Consulta e precisa che: - “la legge n. 1746/1962 trova occasione in un episodio drammatico (l’eccidio di militari italiani a Kindu, nell’ex Congo belga, avvenuto nel novembre del 1961) ed ha lo scopo di fronteggiare una situazione nuova e all’epoca non disciplinata (la partecipazione delle forze armate italiane a missioni in zone di conflitto per conto dell'ONU), attraverso l’estensione al personale della missione della disciplina prevista per le campagne di guerra”; - “è di molti anni successiva la nascita di una legislazione specificamente dedicata alle "missioni di pace" condotte sotto l'egida delle Nazioni Unite, di regola dettata per singole missioni o per gruppi di missioni: fra le molte disposizioni, la Corte ricorda il d.l. 7 gennaio 2000, n. 1 (Disposizioni urgenti per prorogare la partecipazione militare italiana a missioni internazionali di pace), convertito dall'art. 1, comma 1, della legge 7 marzo 2000, n. 44; l'art. 3 della legge 3 agosto 2009, n. 108 (Proroga della partecipazione italiana a missioni internazionali); la recente legge 21 luglio 2016, n. 145 (Disposizioni concernenti la partecipazione dell'Italia alle missioni internazionali), in vigore dal 31 dicembre 2016”; - “tale disciplina specifica contiene tra l'altro previsioni dettagliate in materia di trattamento economico e previdenziale, di indennità di missione e di coperture assicurative specifiche in favore del personale militare coinvolto (sono riconosciuti: il trattamento di missione all'estero; la percezione di altre indennità o rimborsi, tra le quali l'indennità di lungo servizio all'estero; l'estensione delle disposizioni in materia di missione all'estero; il godimento di un trattamento assicurativo specifico)”; - “per effetto del mutato contesto internazionale e dell'evoluzione dell'ordinamento militare, non è più possibile arrestarsi alla generale equiparazione posta dalla legge del 1962 tra i militari impegnati in missioni per conto dell'ONU ed i “combattenti” impegnati in “campagne di guerra”, in quanto per i primi il legislatore ha di volta in volta individuato regole specifiche incidenti sul trattamento retributivo e pensionistico nonché dirette anche a compensare gli specifici rischi connessi agli interventi”; - “il legislatore ha sempre dimostrato di aver avuto presente la distinzione tra campagne di guerra e missioni ONU, tanto che ha ritenuto di estendere ai partecipanti alle suddette missioni alcune provvidenze riservate alle campagne di guerra, mentre per le altre ha escluso espressamente tale estensione”; - “il concetto di "combattente" è riferito dalla legge ai partecipanti a vario titolo al secondo conflitto mondiale, come testimonia il decreto legislativo 4 marzo 1948, n. 137, che individua i destinatari di tali benefici (militari, militarizzati, prigionieri e partigiani)”; - “l’art. 18 del d.P.R. n. 1092/1973… si applica a situazioni ben diverse da quelle dell'impiego di militari nelle missioni ONU”; - “l'esame della disciplina entrata in vigore successivamente alla legge n. 1746/1962 restituisce un quadro particolarmente articolato, stratificatosi nel corso degli ultimi decenni, nei quali buona parte dei benefici sono stati destinati esclusivamente a soggetti coinvolti a vario titolo nell'ultimo conflitto mondiale, e solo alcuni di tali benefici sono stati successivamente estesi anche ai militari impiegati nelle missioni ONU, il tutto in conseguenza di scelte non irragionevoli del legislatore”; - “guerre e missioni di pace non sono equiparabili sotto il profilo dei rischi mortali egualmente presenti in entrambe le situazioni: ben diversa è infatti la situazione di una partecipazione di limitati contingenti di soldati professionisti in missioni svolte in territorio estero e quella di “guerre” o “crisi internazionali” che imponessero addirittura il ricorso alla leva obbligatoria generalizzata, e tanto basta a giustificare la scelta del legislatore di non estendere tout court ai militari impegnati in missioni ONU tutti i benefici combattentistici, quali essi siano”; - “non sussiste alcuna sperequazione tra la posizione del militare che nell'ambito di un servizio svolto professionalmente decida volontariamente di partecipare a missioni internazionali – e che quindi riceva un peculiare trattamento retributivo e stipendiale, comunque migliorativo rispetto a quello normalmente percepito nel corso del rapporto di lavoro – e quella dell'arruolato in seguito a provvedimenti più o meno generali di richiamo alle armi, cui spetterebbe, allo stato della legislazione esistente, oltre alla sola supervalutazione di cui all'art. 18 del d.P.R. n. 1092 del 1973, un compenso giornaliero, il cosiddetto “soldo”, poco più che simbolico”. EF
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Inserito in data 30/06/2017 TAR TOSCANA - FIRENZE, SEZ. I - 27 giugno 2017, n. 891 La residenza dei concorrenti come requisito di partecipazione al concorso L’art. 35, comma 5 ter, del d.lgs. n. 165/2001 statuisce che “il principio della parità di condizioni per l'accesso ai pubblici uffici è garantito, mediante specifiche disposizioni del bando, con riferimento al luogo di residenza dei concorrenti, quando tale requisito sia strumentale all'assolvimento di servizi altrimenti non attuabili o almeno non attuabili con identico risultato”. Orbene, secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata di tale norma, non è ammissibile qualificare il requisito della residenza presso il Comune che ha indetto la selezione come aprioristica condizione di partecipazione alla procedura concorsuale (TAR Sicilia, Palermo, III, 31.5.2011, n. 1010) anziché, ad esempio, quale obbligo da assolvere in caso di assunzione in servizio ad esito della procedura stessa. Secondo la giurisprudenza costituzionale, infatti, "l'accesso in condizioni di parità ai pubblici uffici può subire deroghe, con specifico riferimento al luogo di residenza dei concorrenti, quando il requisito medesimo sia ricollegabile, come mezzo al fine, all'assolvimento di servizi altrimenti non attuabili o almeno non attuabili con identico risultato" (sent. n. 158 del 1969, n. 86 del 1963, n. 13 del 1961, n. 15 del 1960, secondo la ricostruzione effettuata dall'ordinanza n. 33 del 1988). Peraltro, "non é razionale né corrisponde propriamente al fine di una migliore organizzazione del servizio, che sia data prevalenza assoluta, in materia di assunzioni impiegatizie, a situazioni estrinseche di residenza su situazioni intrinseche di merito.", con la conseguenza che deve considerarsi illegittima una norma che "escludendo la possibilità di valutazione del merito comparativo, concede un aprioristico titolo preferenziale ai soli residenti in sede regionale"(vedi sentenza n. 158 del 1969). Risultano ammesse, pertanto, ragionevoli discriminazioni fra concorrenti basate sulla residenza purché queste siano corrispondenti a situazioni connesse con l'esistenza di particolari e razionali motivi di più idonea organizzazione di servizi. Si riconduce, infatti, una valutazione di illegittimità alle norme che annettono all'elemento residenza un "valore condizionante", tale da conferire ad esso la priorità su ogni altra valutazione comparativa di merito. Tali considerazioni sono suffragate dall’articolo 39 del Trattato dell’Unione che assicura la libera circolazione dei lavoratori all’interno della Comunità europea, intesa come abolizione di qualsiasi discriminazione, fondata sulla nazionalità, tra i lavoratori degli Stati membri, per quanto riguarda l’impiego, la retribuzione e le altre condizioni di lavoro, nonché come diritto di spostarsi liberamente a scopi lavorativi nel territorio degli Stati membri e di prendere dimora in uno di questi al fine di svolgervi un’attività di lavoro. GB
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Inserito in data 29/06/2017 TRIBUNALE REGIONALE DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA DI TRENTO - SEZIONE UNICA, 27 giugno 2017, n. 213 Finanziamenti richiesti da una Fondazione collegata ad una società detenuta da ente pubblico. Diniego Nel giudizio emarginato in epigrafe, la ricorrente agisce per l’annullamento del provvedimento di diniego di accoglimento della domanda presentata alla Agenzia per la incentivazione delle attività economiche, al fine di ottenere la erogazione di fondi pubblici, così come previsto dalla legge provinciale 13 dicembre 1999 n. 6. La ricorrente, se è vero che è una Fondazione senza scopo di lucro, è anche vero che svolge attività d’impresa, risultando fondata da una società per azioni detenuta al cento per cento da un ente pubblico. La suddetta legge, al fine della individuazione dei criteri da adottare per la individuazione dei beneficiari degli incentivi pubblici, richiama la Raccomandazione della Commissione Europea 2003/361/CE del 6 maggio 2003 ove viene previsto che “le grandi imprese possano accedere ai contributi nel rispetto della normativa unionale in materia di aiuti di importanza minore e che le domande di contributo vengano esaminate secondo procedure di tipo valutativo o negoziale, sulla base dell’importo richiesto”. Nella decisione in commento si rileva, preliminarmente, la natura giuridica della ricorrente la quale, sebbene abbia natura non lucrativa, svolge anche attività di impresa. Più precisamente trattasi di Fondazione c.d. di partecipazione “caratterizzata da una pluralità di fondatori che possono partecipare attivamente alla gestione dell’ente”. Ebbene, ha chiarito il Tar che “mentre al fine della definizione della categoria micro, piccola e media, delle imprese caratterizzate da relazioni di associazione o di collegamento, la Raccomandazione della Commissione europea 2003/361/CE prevede (art. 6) le modalità di determinazione dei dati riguardanti gli effettivi e le soglie finanziarie da impiegarsi per stabilire la dimensione dell’impresa, nell’ipotesi specifica di coinvolgimento dell’ente pubblico di cui al citato par. 4 dell’art. 3, la definizione di grande impresa (“non può essere considerata PMI”) consegue direttamente dal controllo diretto o indiretto dell’ente pubblico di almeno il 25% del capitale o dei diritti di voto”. PC
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Inserito in data 28/06/2017 TAR LOMBARDIA - MILANO, SEZ. III - 27 giugno 2017, n. 1453 Precisazioni sulla giurisdizione in materia di “ecotasse” Il Tar ha chiarito come la qualificazione tributaria di taluni prelievi, finisca con il ridondare inesorabilmente sulla giurisdizione del giudice tributario. Nella specie, la controversia verteva sul diniego di riduzione di un tributo per il conferimento di rifiuti in discarica, la cd. “ecotassa”, e per questo ritenuta dal Supremo Consesso amministrativo imprescindibilmente collegata alla natura fiscale del rapporto. Ad avviso della Terza Sezione, infatti, la fattispecie in esame, presentando i tre caratteri enucleati dalla giurisprudenza costituzionale della doverosità della prestazione, della mancanza di un rapporto sinallagmatico tra parti e del collegamento della prestazione alla pubblica spesa, rientra a pieno regime nel paradigma del prelievo tributario. Il suddetto approdo si allinea inoltre con il dato normativo di cui all’art. 2, D.Lgs. n. 546/1992, ai sensi del quale appartengono alla giurisdizione tributaria tutte le controversie aventi ad oggetto i tributi di ogni genere e specie comunque denominati, compresi quelli regionali, provinciali e comunali, restando escluse dalla giurisdizione tributaria soltanto le controversie riguardanti gli atti della esecuzione forzata tributaria successivi alla notifica della cartella di pagamento. Inoltre, l'obbligo di pagamento dell'ecotassa sorge da presupposti interamente regolati dalla legge, senza che siano riservati alla PA spazi di discrezionalità circa la concreta individuazione dei soggetti obbligati, dei presupposti oggettivi o del quantum del corrispettivo dovuto, ragion per cui la giurisdizione del giudice tributario è da intendersi come imprescindibilmente collegata unicamente alla natura fiscale del rapporto. In ordine alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sulle controversie relative al “ciclo dei rifiuti”, il Collegio osserva che “come si desume chiaramente dalle note sentenze della Corte costituzionale n. 204 del 2004 e n. 191 del 2006 e dalla stessa formulazione dell’art. 7, comma 1, c.p.a., la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo presuppone sempre che l’oggetto della controversia abbia un collegamento, sia pure indiretto o mediato, con l’esercizio del potere. Nei casi in cui, invece, la questione oggetto della controversia sia meramente patrimoniale e risultino ad essa estranee al thema decidendum le modalità attraverso la quali il potere è stato esercitato, la controversia rimane fuori dalla giurisdizione amministrativa, pur in ambiti ricollegabili alla sua giurisdizione esclusiva. Tanto si deve ritenere perché difetta la condizione primaria richiesta dall’art. 7, comma 1, c.p.a., in conformità alla tradizionale riconducibilità della giurisdizione amministrativa ad una controversia sull'esercizio del potere o sul suo mancato esercizio” (così anche Cons. Stato sez. V 31 gennaio 2017 n. 382). Pertanto, il Tar ha dichiarato il ricorso inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo. DU
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Inserito in data 27/06/2017 TAR TOSCANA - FIRENZE, SEZ. I, 22 giugno 2017, n. 858 P.A.: recupero al netto delle ritenute di somme indebitamente erogate La pronuncia è particolarmente significativa giacchè, con essa, il Collegio toscano – dato il reiterarsi – da parte dell’Amministrazione - della condotta quivi censurata, rimette la questione, oggetto dell’odierno contenzioso, all’attenzione della Procura regionale della Corte dei Conti, al Presidente del Consiglio dei Ministri ed anche al Ministro dell’Economia. In sostanza, è condannata l’Amministrazione finanziaria per aver disposto la ripetizione di somme, erroneamente erogate ai propri dipendenti, al lordo e non al netto delle ritenute previdenziali, fiscali ed assistenziali. I Giudici non esitano a ricordare come costituisca ius receptum che il datore di lavoro possa ripetere l'indebito nei confronti del lavoratore soltanto nei limiti di quanto effettivamente percepito da quest'ultimo, restando esclusa la possibilità di ripetere importi al lordo di ritenute fiscali, invero mai entrate nella sfera patrimoniale del dipendente. Da questo punto di vista è coerente l’insegnamento sia della Suprema Corte che dei Collegi amministrativi (Cfr. Cass. Civ., sez. I, 4 settembre 2014, n. 18674; id., Sez. Lav., 2 febbraio 2012, n. 1464; TAR Toscana, sez. I, 25 gennaio 2017, n. 199;T.A.R. Lazio Roma Sez. I bis, 24/03/2016, n. 3753; TAR Bologna, sez. I, 4 giugno 2015, n. 525). Ribadito, dunque, tale punto di partenza, i Giudici fiorentini definiscono temeraria la richiesta della suddetta Amministrazione, sostenendo che non risulta né logico, né equo, né lecito chiedere all’interessato un adempimento che può essere posto in essere direttamente dall’Amministrazione stessa senza gravare sul soggetto interessato in maniera non coerente con i fini del dovuto recupero delle somme erogate a titolo di imposte e contributi. Il Collegio conclude la pronuncia con il medesimo tono incalzante fin qui accennato, non riconoscendo alcuno spessore giuridico agli atti adottati dall’Amministrazione resistente ed oggi impugnati. Ricorda, infatti, come – in forza della teoria della disapplicazione - una circolare amministrativa (o altro atto analogo) contra legem possa essere disapplicata anche d'ufficio dal giudice investito dell'impugnazione dell'atto che ne faccia applicazione. In tal guisa, riconoscendosi tale facoltà, il Collegio accoglie le censure di parte ricorrente e, peraltro, ravvisando negligenza ed imperizia nella condotta amministrativa, tale da ingenerare un contenzioso ormai divenuto frequente, ne denuncia la mala gestio alle Autorità competenti – come sopra detto. CC
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Inserito in data 26/06/2017 TAR UMBRIA - PERUGIA, SEZ. I, 16 giugno 2017, n. 457 Valutazione delle offerte anomale: criteri e giustificazioni del ribasso I Giudici umbri, rigettando le doglianze di una ditta esclusa nel corso di una gara per mancato superamento della verifica di anomalia dell’offerta, ribadiscono il contenuto dell’art. 97, d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 (Codice dei Contratti pubblici). Questo, come si ricorda, serve a far fornire all’eventuale ditta concorrente le spiegazioni sul prezzo o sui costi proposti nelle offerte se queste appaiono anormalmente basse, sulla base di un giudizio tecnico sulla congruità, serietà, sostenibilità e realizzabilità dell'offerta. Tanto è accaduto nel caso di specie ove, tuttavia, le giustificazioni rese dall’offerente non sono state ritenute idonee: esse sono state fondate, infatti, su elementi estranei all’offerta medesima. La candidata ha supportato la propria offerta anormalmente bassa, adducendo possibili, futuri guadagni derivanti dall’esecuzione del contratto mediante utili conseguibili eventualmente solo in un tempo successivo per mezzo di un negozio giuridico differente. Ad avviso del Collegio, invece, occorre che le giustificazioni rese dall’offerente nell’ambito del giudizio di anomalia della propria offerta debbano riguardare elementi che concernono l’offerta stessa, tra cui l’economia del processo di fabbricazione dei prodotti, dei servizi prestati o del metodo di costruzione; le soluzioni tecniche prescelte o le condizioni eccezionalmente favorevoli di cui dispone l’offerente per fornire i prodotti, per prestare i servizi o per eseguire i lavori; l’originalità dei lavori, delle forniture o dei servizi proposti.
Si comprende, dunque, l’intento annullatorio dei Giudici nei riguardi delle censure sollevate da parte ricorrente, stante l’estraneità e l’aleatorietà degli strumenti, dalla medesima richiamati, per sorreggere l’anomalia della propria offerta. CC
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Inserito in data 23/06/2017 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 23 giugno 2017, n. 3087 Il condono edilizio deve essere correlato da adeguata motivazione Con la sentenza indicata in epigrafe, il Consesso conferma il costante orientamento giurisprudenziale secondo cui “il rilascio del titolo abilitativo – sia per la realizzazione di opere, sia per il condono di quelle realizzate – si deve basare sulla esplicitazione delle specifiche ragioni che abbiano indotto ad accogliere l’istanza, con richiami alla concreta situazione di fatto”. In particolare, il Collegio richiama i principi formulati dall’Adunanza Plenaria, con la sentenza n. 9 del 2001, secondo cui il potere di annullamento dei titoli abilitati delle autorità, delegate o subdelegate, preposte alla tutela del vincolo “poteva essere esercitato per qualsiasi motivo di legittimità e, dunque, per tutte le ipotesi riconducibili all’eccesso di potere” (tra le altre, v. anche Sez. VI, 30 marzo 2017, n. 1485; Sez. VI, 9 aprile 2013, n. 1905). Pertanto, i Giudici ritengono di non dover disattendere il provvedimento con cui una Soprintendenza ha constatato l’inadeguata motivazione di un condono edilizio, “il cui richiamo generico alla assenza di lesioni alle esigenza di tutela del vincolo ha comportato un vizio di eccesso di potere”. EF
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Inserito in data 22/06/2017 TAR LOMBARDIA - MILANO, SEZ. III - 22 giugno 2017, n. 1409 Diritto di accesso agli atti adottati in seduta riservata da un Comune L’art. 22 c. 3 della legge 241/90 stabilisce che tutti i documenti amministrativi sono accessibili, ad eccezione di quelli indicati all'articolo 24, commi 1, 2, 3, 5 e 6, riservando così alla legge la disciplina della segretezza documentale. A sua volta l’art. 24 prevede che l’accesso è escluso nei casi di segreto o di divieto di divulgazione espressamente previsti dalla legge e dal regolamento governativo di cui al comma 6 mentre all’amministrazione compete, ai sensi del comma 2, di individuare gli atti coperti da segreto, secondo le norme di legge che lo prevedono. Tra i casi di segreto espressamente previsti dall’ordinamento non rientrano le opinioni espresse ed i voti dati dai consiglieri comunali nell’esercizio delle loro funzioni e non ostano motivi di riservatezza in merito alla condotta della persona oggetto dell’attività di indagine da parte del consiglio comunale, in quanto è il richiedente l’accesso. Né d’altro canto l’attività d’indagine del consiglio comunale, volta a far valere una responsabilità politica, ha le stesse garanzie delle indagini penali della polizia e della magistratura. Neppure eventuali testimonianze di impiegati comunali possono essere secretate in quanto attinenti ad attività amministrativa. Infatti il segreto d’ufficio, cioè l’obbligo di non comunicare all’esterno dell’amministrazione notizie o informazioni di cui siano venuti a conoscenza nell’esercizio delle loro funzioni, ovvero che riguardino l’attività amministrativa in corso di svolgimento o già conclusa, non può prevalere sul diritto d’accesso ai sensi dell’art. 28 della L. 241/90. A ciò si aggiunge che l’art. 24 della legge n. 241 del 1990 garantisce comunque l’accesso a quegli atti la cui conoscenza sia necessaria per curare o difendere i propri interessi giuridici (comma 7).
Principio rafforzato dalla giurisprudenza costante secondo cui ,“qualora l’accesso ai documenti amministrativi sia motivato dalla cura o la difesa di propri interessi giuridici, esso prevale sull’esigenza di riservatezza dei terzi (Consiglio di Stato, VI, 5 marzo 2015, n. 1113; IV, 10 marzo 2014, n. 1134)”. GB
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Inserito in data 21/06/2017 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 21 giugno 2017, n. 3005 La P.A. può acquisire la proprietà di un bene privato tramite specificazione? Nella vicenda oggetto della pronuncia in epigrafe, l’amministrazione, per effetto delle opere realizzate, trasformava irreversibilmente un terreno privato ad uso pubblico, senza che fosse stata perfezionata alcuna procedura di esproprio. Ad avviso della VI Sezione, l’orientamento riportato dalla difesa dell’amministrazione, ricavato in via interpretativa dall’art. 940 c.c., e per il quale nell’istituto della specificazione “se taluno ha adoperato una materia che non gli apparteneva per formare una nuova cosa, possa o non possa la materia riprendere la sua prima forma, ne acquista la proprietà pagando al proprietario il prezzo della materia, salvo che il valore della materia sorpassi notevolmente quello della mano d’opera”, va disatteso. E’ infatti evidente, da una semplice lettura della norma, che l’art. 940 c.c. presuppone la trasformazione di una cosa mobile, e quindi non contempla il caso di attività compiute su un fondo. E’ del tutto noto che in passato la fattispecie descritta comportava l’acquisto della proprietà del bene così trasformato in capo all’amministrazione, tenuta soltanto al risarcimento del danno, in base ad un istituto di creazione giurisprudenziale, denominato per tal motivo “occupazione acquisitiva” ovvero “espropriazione di fatto”, E’ però altrettanto noto che, a partire dalle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo 30 maggio 2000 Belvedere Alberghiera S.r.l. contro Italia, causa n.31524/96 e 11 dicembre 2003 Carbonara e Ventura contro Italia causa n.24638/94, tale istituto è stato ritenuto in contrasto con l’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo - CEDU, che stabilisce: “(Protezione della proprietà) Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni (comma 1). Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e alle condizioni previste dalla legge e dai principi generali di diritto internazionale (comma2). Le disposizioni precedenti non ledono il diritto degli Stati di applicare quelle leggi che giudicano necessarie per disciplinare l’uso dei beni in relazione all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri tributi o ammende (comma 3).” Il passaggio di proprietà in capo all’amministrazione può infatti avvenire - escluse le ipotesi particolari, nella specie nemmeno allegate, di un accordo transattivo o di un’usucapione di cui effettivamente ricorrano tutti i presupposti - solo in due casi. Il primo è quello in cui il privato agisca contro l’amministrazione non per la restituzione del bene - come invece qui è avvenuto - ma soltanto per la condanna all’equivalente in denaro, domanda in cui si ritiene implicita una rinuncia abdicativa al diritto. Il secondo è quello in cui l’amministrazione emetta un provvedimento di acquisizione ai sensi dell’art. 42 bis del citato T.U. 327/2001, norma che è stata introdotta dall'art. 34, comma 1, d.l. 6 luglio 2011 n.98, convertito con modificazioni dalla l. 15 luglio 2011 n.111, prevede in estrema sintesi una procedura espropriativa abbreviata, con onere rafforzato di motivazione, ed è stata giudicata conforme a Costituzione, anche sotto il profilo del rispetto della CEDU, da C. cost. 30 aprile 2015 n.71. Tuttavia, nel caso in esame non si è verificata alcuna delle predette ipotesi, sicché, per ragioni ignote, del citato art. 42 bis l’amministrazione non ha ritenuto di fare uso. Ne è derivato il rigetto del ricorso e la condanna alle spese di giudizio dell’amministrazione. DU
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Inserito in data 20/06/2017 TRIBUNALE REGIONALE DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA DI TRENTO - SEZIONE UNICA, 19 giugno 2017, n. 211 Risarcimento del danno causato dall’affidamento incolpevole su provvedimenti edilizi dichiarati illegittimi. Giurisdizione Nel giudizio emarginato in epigrafe, avente ad oggetto la domanda risarcitoria per affidamento incolpevole ingenerato dall’adozione di provvedimenti favorevoli successivamente dichiarati illegittimi, il Collegio condivide ed accoglie la eccezione preliminare, riguardante il difetto di giurisdizione, formulata dalla convenuta amministrazione comunale, esulando tale domanda dalla giurisdizione del giudice amministrativo e ricadendo - al contrario – in quella del giudice ordinario. Preliminarmente viene rilevato che “l’interesse legittimo pretensivo che radica la giurisdizione generale di legittimità si sostanzia nell’interesse ad ottenere provvedimenti favorevoli, non potendo coincidere con il mero interesse a che l’amministrazione provveda sulle istanze del privato adottando provvedimenti legittimi”. Secondariamente, viene chiarito che la questione non può neanche ricadere nella giurisdizione esclusiva ex art. 133 co. 1 lett. f del c.p.a. (controversie aventi ad oggetto gli atti e i provvedimenti delle pubbliche amministrazioni in materia urbanistica e edilizia, “non riguardando più né atti e provvedimenti (peraltro già adottati) né - più in generale - l’esercizio del potere amministrativo (già espletatosi con l’approvazione del piano di lottizzazione e con il rilascio delle concessioni edilizie). In conclusione viene affermato che la domanda della ricorrente ricade nella giurisdizione ordinaria in quanto essa non attiene, come detto, né ad atti, né a provvedimenti, “involgendo la questione non solo l’apprezzamento del comportamento tenuto dalla pubblica amministrazione, ma, altresì, la sua attitudine a determinare come conseguenza causale l’insorgenza di un incolpevole affidamento nella permanenza della situazione di vantaggio ottenuta (cfr. Cass. SU, ord. 4.9.2015 n. 17586; idem 22.1.2015 n. 1162, 3.5.2013 n. 10305 e 23.3.2011 n. 6594). PC
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Inserito in data 19/06/2017 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA, 12 giugno 2017, n. 2808 Rimesse alla CGUE alcune questioni relative alla concessione del gioco del lotto Con la sentenza indicata in epigrafe, la V Sezione rimette alla Corte di Giustizia UE, ai sensi dell’art. 267 TFUE, le seguenti questioni pregiudiziali: A) “se il diritto dell’Unione - e, in particolare, il diritto di stabilimento e la libera prestazione di servizi nonché i principi di non discriminazione, trasparenza, libertà di concorrenza, proporzionalità e coerenza - debba essere interpretato nel senso che osta ad una disciplina come quella posta dell’art. 1, comma 653, della legge di stabilità 2015 e dai relativi atti attuativi, che prevede un modello di concessionario monoproviding esclusivo in relazione al servizio del gioco del Lotto, e non già per altri giochi, concorsi pronostici e scommesse”; B) “se il diritto dell’Unione - e, in particolare, il diritto di stabilimento e la libera prestazione di servizi e la direttiva 2014/23/UE, nonché i principi di non discriminazione, trasparenza, libertà di concorrenza, proporzionalità e coerenza - debba essere interpretato nel senso che osta ad un bando di gara che prevede una base d’asta di gran lunga superiore ed ingiustificata rispetto ai requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico-organizzativi, del tipo di quelli previsti dai punti 5.3, 5.4, 11, 12.4 e 15.3 del capitolati d’oneri della gara per l’assegnazione della concessione del gioco del Lotto”; C) “se il diritto dell’Unione - e, in particolare, il diritto di stabilimento e la libera prestazione di servizi nonché e la direttiva 2014/23/UE, nonché i principi di non discriminazione, trasparenza, libertà di concorrenza, proporzionalità e coerenza - deve essere interpretato nel senso che osta ad una disciplina che prevede l’imposizione di un’alternatività di fatto fra divenire assegnatari di una nuova concessione e continuare ad esercitare la libertà di prestazione dei diversi servizi di scommessa su base transfrontaliera, alternatività del tipo di quella che discende dall’art. 30 dello Schema di Convenzione, cosi che la decisione di partecipare alla gara per l’attribuzione della nuova concessione comporterebbe la rinunzia all’attività transfrontaliera, nonostante la legittimità di quest’ultima attività sia stata riconosciuta più volte dalla Corte di Giustizia”. D’altra parte, il Collegio chiosa come tali questioni, oltre ad essere rilevanti per la decisione della causa, escludono l’applicabilità della cosiddetta teoria dell'atto chiaro, “in base alla quale il giudice nazionale non deve nemmeno operare il rinvio pregiudiziale, qualora il contenuto della norma comunitaria che intende applicare si ponga agli occhi dell'interprete con un'evidenza tale da non lasciare spazio al alcun ragionevole dubbio” (cfr., per tutte, Corte Giust. CE, 6 ottobre 1982, C-283/81, Cilfit). Peraltro, come è noto, “il mancato rinvio pregiudiziale, al di fuori dell’ipotesi dell’atto chiaro sopra indicata costituisce, nel nostro ordinamento nazionale, un caso di responsabilità del giudice ex legge 27 febbraio 2015, n. 18 che ha modificato l’art. 2, comma 3 Legge 13 aprile 1988, n. 117 sul Risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati e ha introdotto il comma 3-bis al predetto art. 2, prevedendo proprio la fattispecie di mancato rinvio alla Corte di Giustizia”. EF
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Inserito in data 16/06/2017 TAR TOSCANA - FIRENZE, SEZ. I - 16 giugno 2017, n. 834 Concorso per ricercatore universitario:Criteri di valutazione delle pubblicazioni Nella valutazione delle opere prodotte in collaborazione fra più autori, laddove non sia possibile determinare con esattezza “le quote del lavoro scientifico” riferibili in modo esclusivo a ciascuno di essi, “il contributo del singolo viene considerato paritetico ed equivalente a quello degli altri coautori”, atteso che , in tale specifica ipotesi, “l'elaborato costituisce nella sua interezza il risultato dell’apporto comune e inscindibile di tutti”. Dalla mancata specifica attribuzione di apporti più chiaramente distinguibili, si desume, infatti, la volontà implicita dei coautori di ritenere assolutamente equivalente il loro apporto (come evenienza normale) e quindi, giustificato e razionale il criterio di attribuzione paritaria ai coautori dei lavori collettivi (Cons. Stato, sez. VI, 8 ottobre 2013 n. 4943). Deve pertanto attribuirsi carattere meramente indicativo al criterio volto a riconoscere maggiore rilievo al posizionamento del nominativo del singolo coautore (in particolare, a quelli indicati come primo e come ultimo nell'ambito dell'elenco), in specie laddove la Commissione abbia congruamente optato per un diverso criterio (anche laddove tale ultimo criterio si traduca nella motivata attribuzione di un valore ponderale analogo a tutti gli apporti indicati)” (Cons. Stato, sez. VI, 8 ottobre 2013 n. 4943, nello stesso senso Cons. St., sez. VI, 28 marzo 2003, n. 1615). GB |
Inserito in data 15/06/2017 TAR CAMPANIA - NAPOLI, SEZ. I, 13 giugno 2017, n. 3226 Appalti e rito super accelerato. Il termine previsto dal comma 6 bis dell’art. 120 si estende sia alle udienze camerali che a quelle pubbliche Nella sentenza emarginata in epigrafe riguardante il nuovo rito super accelerato in materia di appalti, il Giudice amministrativo campano – preliminarmente - non ritiene di poter condividere le osservazioni rese in giudizio dalla società appaltante (resistente e ricorrente incidentale) secondo cui “il termine di 6 giorni liberi previsto dal nuovo rito super accelerato riguarderebbe l’ipotesi di trattazione del giudizio in udienza pubblica - e non in camera di consiglio – in materia di appalti pubblici”. Invero, afferma il T.A.R. che “il termine di 6 giorni liberi previsti per il deposito dei documenti, delle memorie e delle eventuali repliche dall’art. 120, comma 6 bis, c.p.a riguarda sia l’ipotesi di trattazione del giudizio in udienza pubblica che in camera di consiglio del c.d. rito superaccelerato in materia di appalti pubblici”. Al riguardo viene chiarito che sebbene nel comma 6 bis dell’art. 120 c.p.a. figurano disposizioni che riguardano pacificamente l’udienza pubblica (cfr. secondo periodo) ed altre che, viceversa, disciplinano la camera di consiglio (primo periodo e parte finale dell’ultimo periodo), “deve ritenersi che tale disposizione estenda ad entrambe le ipotesi di rito la previsione sui termini di deposito dei documenti, delle memorie e delle eventuali repliche”. Ed infatti, “laddove il legislatore, nell’ultimo periodo del citato comma 6 bis, ha utilizzato il termine udienza, ha inteso riferirsi sia all’udienza pubblica che all’udienza camerale, tenuto conto dell’esigenza di speditezza del nuovo rito che impone la previsione, in ogni caso e a prescindere dalle formalità del giudizio, di termini chiari e ridotti per il deposito di atti processuali”. Peraltro, a conferma della predetta interpretazione, si osserva che il comma 9 del medesimo art. 120 c.p.a. prevede un unico termine processuale per il deposito della sentenza (7 giorni), disponendo espressamente che esso si applica sia nel caso dell’udienza pubblica che della camera di consiglio, uniformando così la disciplina dei termini processuali in entrambe le ipotesi di possibile sbocco del rito c.d. “super speciale” in materia di appalti pubblici. In secondo luogo, sempre in punto di rito, viene accolta la eccezione di rito sollevata dalla ricorrente principale in merito alla irricevibilità del ricorso incidentale escludente proposto dalla società resistente (la ricorrente incidentale) in quanto “tardivamente proposto e notificato oltre il termine di 30 giorni che vanno fatti decorrere, non dalla notifica del ricorso principale, ma dalla conoscenza del provvedimento di ammissione della ricorrente principale”. Al riguardo, chiarisce il Collegio che “la previsione di un rito superaccelerato introdotto dall’art. 204 comma 1 lett. d) del D.Lgs. n. 50/2016 per l'impugnativa dei provvedimenti di esclusione ed ammissione è volta, nella sua ratio legis, a consentire la pronta definizione del giudizio prima che si giunga al provvedimento di aggiudicazione e, quindi, a definire la platea dei soggetti ammessi alla gara in un momento antecedente all'esame delle offerte e alla conseguente aggiudicazione (cfr. Consiglio di Stato, parere n. 855/2016 sul codice degli appalti pubblici)”. La ratio sottesa alla novella legislativa è, dunque, quella di evitare che con l’impugnazione dell’aggiudicazione possano essere fatti valere vizi attinenti alla fase della verifica dei requisiti di partecipazione alla gara (cioè la fase di ammissione), il cui eventuale accoglimento “farebbe regredire il procedimento alla fase appunto di ammissione, con grave spreco di tempo e di energie lavorative, oltre pericolo di perdita di eventuali finanziamenti, il tutto nell’ottica dei principi di efficienza, speditezza ed economicità, oltre che di proporzionalità del procedimento di gara (Consiglio di Stato, parere n. 782/2017 sul decreto correttivo al nuovo codice degli appalti pubblici)”. Tale norma pone evidentemente un onere di immediata impugnativa dei provvedimenti in questione, a pena di decadenza, non consentendo di far valere successivamente i vizi inerenti agli atti non impugnati. Ed invero “l’omessa attivazione del rimedio processuale entro il termine preclude al concorrente la possibilità di dedurre le relative censure in sede di impugnazione della successiva aggiudicazione, ovvero di paralizzare, mediante lo strumento del ricorso incidentale, il gravame principale proposto da altro partecipante avverso la sua ammissione alla procedura. Peraltro, a conferma di quanto appena detto, si veda l’art. 120, comma 2 bis, del c.p.a. ove si statuisce che “l'omessa impugnazione preclude la facoltà di far valere l'illegittimità derivata dei successivi atti delle procedure di affidamento, anche con ricorso incidentale”. PC
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Inserito in data 14/06/2017 TAR LOMBARDIA - MILANO, SEZ. III - 13 giugno 2017, n. 1326 Sulla responsabilità da inquinamento Con la sentenza in epigrafe, il TAR afferma che la fonte dell'obbligo di procedere alla messa in sicurezza e all'eventuale bonifica del sito inquinato si identifica nella responsabilità dell'autore dell'inquinamento, che quindi va puntualmente e precisamente individuato da parte dell’Autorità amministrativa, sulla base di un rigoroso accertamento anche in caso di vicende societarie complesse, che nel caso di specie coinvolgevano un noto gruppo industriale. Prendendo le mosse dalla Direttiva 2004/35/CE, che all’art. 2 definisce “operatore” “qualsiasi persona fisica o giuridica, sia essa pubblica o privata, che esercita o controlla un'attività professionale”, riconduce a tale figura la responsabilità per danno ambientale. Tuttavia, il Supremo Consesso rileva come nel caso in esame siano del tutto assenti un’analisi e un accertamento in concreto del ruolo effettivamente svolto dalla ricorrente con specifico riferimento al ramo industriale interessato e ritenuto ‘responsabile’ della condotta inquinante, tenuto conto della complessa articolazione, anche nel tempo, del gruppo industriale. Il Tar ha inoltre aggiunto che l'inquadramento della contaminazione come situazione permanente non esime dall’individuazione del soggetto responsabile, rilevando quel concetto ai fini dell'applicazione delle procedure amministrative di bonifica più recentemente introdotte nel nostro ordinamento anche a contaminazioni storiche, con conseguente applicazione dei relativi limiti tabellari o di rischio e delle relative fasi procedurali. Invero, nell'ipotesi di mancata individuazione del responsabile o di mancata esecuzione degli interventi in esame da parte sua – e sempreché non provvedano spontaneamente né il proprietario del sito, né altri soggetti interessati – le opere di recupero ambientale devono essere eseguite dall'Amministrazione competente (art. 250, d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152), che potrà poi rivalersi sul proprietario del sito, nei limiti del valore dell'area bonificata, anche esercitando, ove la rivalsa non vada a buon fine, le garanzie gravanti sul terreno oggetto dei medesimi interventi (art. 253, d.lgs. n. 152 del 2006). DU
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Inserito in data 13/06/2017 TAR SARDEGNA - CAGLIARI, SEZ. II, 8 giugno 2017, n. 394 Determinazione regionale di diniego autorizzazione paesaggistica: silenzio assenso I Giudici sardi accolgono il ricorso prospettato da cittadini che, a seguito di un’istanza di autorizzazione paesaggistica, ricevevano una determinazione di diniego da parte della Regione. In specie, i ricorrenti ne contestavano la legittimità – affermando che la volontà dell’Ente regionale si fosse formata in violazione dell’articolo 146, commi 5 e 8, del d.lgs. n. 42 del 2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio). Tali ultime disposizioni prevedono, infatti, la necessaria e previa acquisizione – da parte della Regione - di un parere tecnico ad hoc rilasciato dalla Soprintendenza. Nel caso di specie, questo si otteneva in forza del “comportamento silenzioso” del suddetto Organo tecnico, con la conseguenza che avrebbe dovuto comunque vincolare la susseguente determinazione regionale – a dispetto di quanto, invece, accaduto. Ricorda, infatti, il Collegio cagliaritano, come anche a tali fattispecie si applichi l’articolo 17-bis della legge n. 241 del 1990, secondo cui le disposizioni sulla formazione del silenzio-assenso tra amministrazioni pubbliche «si applicano anche ai casi in cui è prevista l'acquisizione di assensi, concerti o nulla osta comunque denominati di amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali e della salute dei cittadini, per l'adozione di provvedimenti normativi e amministrativi di competenza di amministrazioni pubbliche. In tali casi, ove disposizioni di legge o i provvedimenti di cui all'articolo 2 non prevedano un termine diverso, il termine entro il quale le amministrazioni competenti comunicano il proprio assenso, concerto o nulla osta è di novanta giorni dal ricevimento della richiesta da parte dell'amministrazione procedente. Decorsi i suddetti termini senza che sia stato comunicato l'assenso, il concerto o il nulla osta, lo stesso si intende acquisito» (comma 3 dell’art. 17-bis cit.). Pertanto, posto che tanto è accaduto nella vicenda in esame, la Regione, per la natura vincolante del parere favorevole della Soprintendenza (Cfr. art. 146, comma 5, cit.), era tenuta al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, non potendo rimettere in discussione il risultato procedimentale cui si era pervenuti – sebbene per silentium. Sulla base di tali valutazioni, pertanto, si accoglie il ricorso, con il conseguente annullamento della determinazione regionale di diniego dell’autorizzazione paesaggistica – evidentemente emessa in modo erroneo dalla Regione sarda. CC |
Inserito in data 12/06/2017 TAR TOSCANA - FIRENZE, SEZ. III - 8 giugno 2017, n. 783 In base a quali presupposti si può aderire al contratto stipulato da altra P.A.? Con la pronuncia indicata in epigrafe, il Collegio esamina la fattispecie dell’adesione di una amministrazione aggiudicatrice ad un contratto stipulato da altra amministrazione, rilevandone la problematicità “sia sul piano dell’inquadramento normativo sia su quello della compatibilità con i principi comunitari che disciplinano la concorrenza fra operatori economici nel mercato delle commesse pubbliche”. In particolare, il Consiglio di Stato, nella sentenza 442 del 2016 (da cui vorrebbe trarre le mosse il provvedimento impugnato) ha qualificato sul piano civilistico il contratto contenente la clausola di adesione come “contratto ad oggetto multiplo” avente ad oggetto servizi “identici o analoghi” che possono essere estesi ad amministrazioni diverse da quelle che hanno indetto la procedura di gara “qualora individuate o individuabili in base a criteri enunciati a priori dalla lex specialis”. Invero, il fondamento normativo della estensione contrattuale a nuove amministrazioni è stato ravvisato nei principi di economicità e buon andamento della p.a., “ai quali risponderebbero sistemi di aggiudicazione volti ad sollevare le amministrazioni e le imprese dagli oneri connessi alla indizione ed alla partecipazione di “gare fotocopia”, e, più specificamente, nelle numerose norme sparse nell’ordinamento nazionale e comunitario che prevedono e promuovono (fino renderle in taluni casi obbligatorie) i sistemi centralizzati di acquisizione di beni e servizi attraverso le cd. “centrali di committenza”. Il tutto con la precisazione che proprio nell’ordinamento della sanità l’impulso legislativo alle centralizzazione degli acquisiti si sarebbe tradotto in specifiche disposizioni che consentono alle aziende sanitarie locali di stipulare contratti aderendo a convenzioni quadro (art. 17 d.l. 98/2011) e di accedere alle convenzioni stipulate dalle centrali di acquisito appositamente istituite dalle regioni (art. 1 comma 449 L. 296/2006)”. Più di recente il Consiglio di Stato ha approfondito l’argomento nell’ordinanza di rimessione alla Corte di giustizia n. 1690 del 2017 (resa in un giudizio che vedeva parte ricorrente anche l’Autorità garante per la concorrenza) nella quale “il contratto con clausola di adesione non è stato più ricondotto alle discipline generali e di settore sulle centrali di committenza ma all’istituto dell’accordo quadro. Ciò soprattutto al fine di rinvenire una base normativa del fenomeno anche nel diritto comunitario, vista la sua atipicità nel panorama dei sistemi di aggiudicazione”. Orbene, “l’operazione ermeneutica compiuta dalla citata ordinanza merita, a giudizio del Collegio, condivisione”. E’ infatti “nella disciplina degli accordi quadro che le fonti comunitarie stabiliscono a quali condizioni il contratto stipulato fra un’amministrazione aggiudicatrice (sia essa o meno una centrale di committenza) ed un operatore economico all’esito di una gara possa essere utilizzato da amministrazioni aggiudicatrici diverse, prevedendo che queste debbano essere chiaramente individuate nell’avviso di indizione di gara (art. 33 comma 2 direttiva 24/2014) anche quando la stessa venga bandita da una centrale di committenza (la quale dovrebbe preventivamente rendere identificabili alle imprese interessate le identità delle amministrazioni aggiudicatrici che potenzialmente potrebbero far ricorso all’accordo quadro e la data in cui le stesse hanno acquisito il diritto di avvalersene – 60° considerando direttiva 24/2014)”. Tale disciplina, pur essendo dettata con specifico riguardo agli accordi quadro, “è espressione del più generale principio comunitario di pubblicità che sta alla base di tutti i confronti concorrenziali e risulta quindi applicabile anche nel caso in cui il contratto aperto non abbia carattere normativo ma definisca in modo puntuale quantità e qualità delle prestazioni da eseguire”. Siffatta situazione, tuttavia, “non può ravvisarsi nei casi in cui la variazione del contratto in corso d’opera non sia richiesta dalla medesima amministrazione in favore della quale l’aggiudicatario sta già eseguendo la prestazione ma da una diversa amministrazione che vorrebbe aderirvi ex novo avvalendosi della clausola di estensione”. A tal proposito, questa stessa Sezione ha già affermato che “ la adesione, in forza di specifica clausola, ad un contratto stipulato da altra amministrazione aggiudicatrice ha come presupposto l’identità dell’oggetto dei due contratti o, comunque, che le prestazioni acquisite attraverso l’estensione siano determinabili in base a criteri trasparenti che possano evincersi dalla stessa lex specialis in modo che nessuna incertezza possa sussistere al riguardo” (TAR Toscana, III, 183/ 2017; Cons. Stato, V, 663/2014). Pertanto, “appare incompatibile con il modulo della adesione una rinegoziazione delle condizioni contrattuali operata sulla base di scelte discrezionali della stazione appaltante che non siano state oggetto di un previo confronto concorrenziale aperto a tutte le imprese in possesso dei necessari requisiti”. Tali affermazioni trovano, peraltro, supporto anche “nella disciplina dell’accordo quadro (che come si è detto può costituire l’unico paradigma normativo di riferimento in cui inquadrare la fattispecie della adesione) nella quale è chiaramente previsto che il contenuto dei contratti esecutivi può essere specificato in una fase successiva ma solo se e nella parte in cui ciò sia espressamente previsto e consentito nei documenti di gara relativi all’aggiudicazione dell’accordo base”. EF
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Inserito in data 09/06/2017 CORTE COSTITUZIONALE - SENTENZA 26 maggio 2017, n. 121 Tetto massimo orario lavorativo settimanale, incostituzionale la legge regionale I Giudici della Consulta accolgono, con la pronuncia in esame, le doglianze relative ad una legge regionale in tema di delimitazione dell’orario di lavoro settimanale. In specie, è censurata una legge pugliese nella parte in cui impone a tutte le aziende sanitarie locali (ASL) locali l’obbligo del rispetto nei confronti di tutto il personale sanitario, medici ed infermieri, del tetto massimo di quarantotto ore settimanali di lavoro, ricomprendendovi sia il lavoro svolto all’esterno degli istituti di pena, che quello svolto in regime di parasubordinazione all’interno degli stessi. Ad avviso del Collegio costituzionale, una simile statuizione da parte del Legislatore regionale è eccessiva, posto che la disciplina dei vari profili del tempo della prestazione lavorativa, così come l’inquadramento di una prestazione lavorativa come autonoma o parasubordinata, siano da ricondurre alla materia dell’ordinamento civile (Cfr. ex plurimis, sentenze n. 257 del 2016, n. 18 del 2013, n. 290, n. 215 e n. 213 del 2012, n. 339 e n. 77 del 2011, n. 324 del 2010). Sulla base di tali approdi, pertanto, il Collegio ritiene che le suddette previsioni del Legislatore pugliese siano violative dell’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione e, come tali, abbiano invaso la competenza legislativa dello Stato. Si ravvede, altresì, l’avvenuta contravvenzione rispetto ai vincoli europei, con conseguente violazione anche dell’art. 117, primo comma, della Costituzione. Risulta, pertanto, inevitabile la declaratoria di incostituzionalità dell’art. 21, comma 7 della legge della Regione Puglia 25 febbraio 2010, n. 4 (Norme urgenti in materia di sanità e servizi sociali) – cui giunge il Collegio. CC
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Inserito in data 08/06/2017 CORTE COSTITUZIONALE - SENTENZA 26 maggio 2017, n. 124 Trattamento economico dei magistrati. Tetto massimo e cumulo fra trattamento retributivo e pensionistico. Infondatezza Nella sentenza emarginata in epigrafe, il Collegio della Consulta respinge le doglianze formulate dal T.A.R. Lazio in talune ordinanze di rimessione riguardanti la applicazione del tetto massimo di 240.000,00 euro annui per il trattamento economico dei magistrati, anche di nomina governativa. Più precisamente, le questioni di legittimità costituzionale concernono gli artt. 23 ter D.L. 6.12.2011 n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011 n. 214 e l’art. 13, comma 1, D.L. 24.04.2014 n. 66, convertito, con modificazioni dalla legge 23 giugno 2014 n. 89 i quali, sostanzialmente, vietano alle amministrazioni e agli enti pubblici di erogare trattamenti economici che superino il limite di 240.000,00 euro annui. In particolare, i dubbi di legittimità costituzionale delle predette disposizioni vengono sollevati con riferimento agli artt. 3, 4, 36, 38, 100, 101, 104 e 108 della Costituzione, sinteticamente riguardanti la violazione del diritto al lavoro e ad una equa retribuzione proporzionata alla quantità ed alla qualità del lavoro prestato; la disparità di trattamento fra soggetti che svolgono medesime attività nonché una irrazionale organizzazione della Giustizia amministrativa; l’indebolimento delle garanzie di indipendenza nell’esercizio delle funzioni giurisdizionali. La Consulta ritiene imprescindibile una preliminare disamina della disciplina del limite massimo delle retribuzioni e delle pensioni giacché essa rappresenta il paradigma generale da cui prender le mosse.
Secondo la Corte, detta disciplina “si iscrive in un contesto di risorse pubbliche limitate le quali debbono esser ripartite in maniera congrua e trasparente”. Questo limite si rivolge al legislatore affinché questi effettui “scelte coerenti, preordinate a bilanciare molteplici valori di rango costituzionale, come la parità di trattamento (art. 3 Cost.), il diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto e comunque idonea a garantire un’esistenza libera e dignitosa (art. 36, primo comma, Cost.), il diritto ad un’adeguata tutela previdenziale (art. 38, secondo comma, Cost.), il buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.).
Occorre, cioè, tener conto delle risorse pubbliche concretamente disponibili, senza svilire il lavoro prestato da chi esprime professionalità elevate. Viene, altresì, rilevato che “la indicazione precisa di un limite massimo alle retribuzioni pubbliche non contrasta con i princìpi appena richiamati in quanto essa persegue finalità di contenimento e complessiva razionalizzazione della spesa, in una prospettiva di garanzia degli altri interessi generali coinvolti, in presenza di risorse limitate”. La Corte conclude affermando che “sono infondate le questioni di legittimità costituzionale delle leggi che vietano alle Amministrazioni ed agli enti pubblici di erogare trattamenti economici che superino il tetto massimo di € 240.000 nonché quelle che vietano alle medesime di erogare, a beneficio di soggetti già titolari di trattamenti pensionistici erogati da gestioni previdenziali pubbliche (ivi compresi i vitalizi), trattamenti economici onnicomprensivi che, sommati al trattamento pensionistico, superino il limite di 240.000,00 euro annui”. PC
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Inserito in data 07/06/2017 CONSIGLIO DI STATO, SEZ IV, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL’ADUNANZA PLENARIA, 6 giugno 2017, n. 2719 Sulla praticabilità del principio della compensatio lucri cum damno Nell’ordinanza in esame, viene deferita all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato la questione “se sia possibile o meno sottrarre dal complessivo importo dovuto al danneggiato a titolo di risarcimento del danno gli emolumenti di carattere indennitario versati da assicuratori privati o sociali ovvero da enti pubblici, specie previdenziali. Il punto di diritto oggetto dell’ordinanza verte, dunque, sulla corretta interpretazione del principio, forgiato in ambito pretorio, della compensatio lucri cum damno atteso il mancato consolidamento di un unanime consenso ermeneutico in relazione alla sua praticabilità. Al tradizionale e tuttora maggioritario indirizzo giurisprudenziale contrario a riconoscere l’operatività del principio della compensatio lucri cum damno si contrappone, infatti, un orientamento critico di segno opposto. L’orientamento tradizionale fornisce al quesito una risposta negativa sulla base di una rigorosa interpretazione del requisito della unicità (ovvero identità) della causa. Secondo questa impostazione esegetica, cui si è uniformata la sentenza gravata, affinché possa richiamarsi il principio della compensatio lucri cum damno il vantaggio deve derivare direttamente dal fatto illecito e non da fattori causativi distinti ed ulteriori, pur se questi a loro volta conseguano ope legis (ovvero ex contractu) al dato materiale del pregiudizio subito dal danneggiato: il nesso che lega illecito e vantaggio deve, quindi, essere anche materialisticamente immediato e non tollera intermediazioni eziologiche di alcun genere. In questo senso si è espressa la Cassazione civile, sez III,, 30 settembre 2014, n. 20548 la quale ha affermato che “il principio della compensatio lucri cum damno trova applicazione unicamente quando sia il pregiudizio che l'incremento patrimoniale siano conseguenza del medesimo fatto illecito, sicché non può essere detratto quanto già percepito dal danneggiato a titolo di pensione di inabilità o di reversibilità, ovvero a titolo di assegni, di equo indennizzo o di qualsiasi altra speciale erogazione connessa alla morte o all'invalidità, trattandosi di attribuzioni che si fondano su un titolo diverso dall'atto illecito e non hanno finalità risarcitorie”. Parimenti significativa dell’humus concettuale sotteso all’indirizzo esegetico in discorso è, poi, Cass. civ., Sez. III, 2 marzo 2010, n. 4950, ad avviso della quale il principio della compensatio lucri cum damno trova applicazione solo quando il lucro sia conseguenza immediata e diretta dello stesso fatto illecito che ha prodotto il danno, non potendo il lucro compensarsi con il danno se trae la sua fonte da titolo diverso.” Secondo l’orientamento minoritario di segno opposto,” la diversità di presupposti fra le varie provvidenze indennitarie previste dal contratto o dalla legge ed il risarcimento del danno da illecito civile (sia esso contrattuale od extracontrattuale) non giustifica le conclusioni cui perviene l’orientamento tradizionale: l’oggettiva identità del pregiudizio che ambedue gli istituti vanno a riparare, si sostiene, ne esclude la cumulabilità ed impone, di contro, di defalcare dalla somma dovuta a titolo di risarcimento l’eventuale importo riconosciuto al danneggiato in via indennitaria, che, in quanto avvinto al fatto illecito da un nesso (di carattere normativo o negoziale) di regolarità causale, né è, agli effetti giuridici, conseguenza “immediata e diretta” nell’accezione che di essa dà il diritto vivente”. Questo secondo indirizzo si fonda sull’interpretazione dell’art.1223 c.c. che , nel perimetrare, ai fini della responsabilità civile, la rilevanza giuridica dell’evento materiale di danno, stabilisce che tutto ciò che è conseguenza immediata e diretta della condotta del danneggiante rileva nell’ottica della responsabilità civile. Secondo tale orientamento, “ove la legge od il contratto stipulato dal danneggiato con terzi contemplino, in dipendenza di un danno, benefici, indennità, provvidenze o trattamenti preferenziali di vario genere, i conseguenti vantaggi economici sono legati alla condotta del danneggiante (che quel danno ha provocato) da un nesso eziologico che non può non essere qualificato, in ottica giuridica, esso pure immediato e diretto, stante la strutturale ed ineludibile cogenza della legge (cui, quoad effectum, è parificato il contratto – art. 1372 c.c.)”. Laddove il danno sia, dunque, anche “elemento costitutivo di una fattispecie, di fonte normativa o negoziale, costitutiva di una provvidenza a favore del danneggiato, non può essere negato che, alla luce dell’unitaria teoria della causalità accolta nel nostro ordinamento (articoli 40 e seguenti c.p.), siffatta provvidenza sia un effetto giuridico immediato e diretto della condotta che quel danno ha provocato, giacché da esso deriva secondo un processo di lineare regolarità causale.” A ciò si aggiunga che, “l’eventuale somma percepita dal danneggiato a titolo indennitario esclude comunque funditus la sussistenza stessa, in parte qua, di un danno: un danno indennizzato, infatti, non è più, per la parte indennizzata, tale, almeno nell’orbita di un sistema di responsabilità civile come il nostro che, salvo spunti di carattere (ancora) settoriale, rifugge da intenti punitivi, sanzionatori o, comunque, lato sensu afflittivi per il danneggiante e si pone il solo scopo di rimediare, mediante la ricostituzione del patrimonio del danneggiato, ad un’alterazione patrimoniale o patrimonialmente valutabile della di lui sfera giuridica occorsa non jure e contra jus”. “Del resto, il cumulo di benefici di carattere indennitario, da un lato, e del risarcimento del danno, dall’altro, determinerebbe una locupletazione del danneggiato (il cui patrimonio, dopo l’evento di danno, risulterebbe addirittura incrementato rispetto a prima), strutturalmente incompatibile con la richiamata natura meramente reintegratoria della responsabilità civile”. “L’adesione a tale approccio ermeneutico consentirebbe, infine all’assicuratore privato o sociale, ovvero agli enti di previdenza, di agire in rivalsa nei confronti del danneggiante per ripetere l’importo della provvidenza indennitaria corrisposta”. Rilevato il contrasto interpretativo e dato atto che le Sezioni Unite, seppure adite, non hanno affrontato il merito del problema, sulla scorta della sua ravvisata possibile irrilevanza nel caso concreto, la Quarta Sezione rimette la questione all’Adunanza Plenaria. GB
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Inserito in data 06/06/2017 TAR LAZIO - ROMA, SEZ. II- QUATER, 24 maggio 2017, n. 6171 L’internazionalità del reclutamento dei direttori museali non estende la platea dei partecipanti Nella pronuncia in esame, il Collegio, prendendo le mosse dal contesto normativo vigente, desume una deroga al sistema di reclutamento dei dirigenti provenienti ab externo per il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo (da ora “MIBACT”), rispetto alla regola generale declinata nell’art. 19, comma 6, d.lgs. 165/2001, nella previsione dell’art. 14, comma 2-bis, d.l. 83/2014, convertito in l. 106/2014, che non si limita a svincolare il meccanismo dal conteggio dei contingenti di personale dirigenziale che possono essere reclutati al di fuori dell’amministrazione, ma si estende sino a trasformare la procedura di reperimento di tale personale di altissima professionalità, escludendo che il suo avvio sia condizionato dalla previa ricerca all’interno del ruolo dell’amministrazione di dipendenti in possesso del background culturale e professionale preteso per divenire titolari dell’incarico e per esercitare la relativa funzione. Nella specie, la ricorrente impugnava i decreti di nomina, le graduatorie, relative alle posizioni dirigenziali per l’assegnazione delle quali aveva presentato domanda, poiché restava esclusa nella fase selettiva, a causa dell’illegittimità della valutazione, nonché il bando. Evidenzia il Collegio che “il voto numerico attribuito dalle competenti commissioni alle prove scritte od orali di un concorso pubblico o di un esame esprime e sintetizza il giudizio tecnico-discrezionale della commissione stessa, contenendo in sé la motivazione, senza bisogno di ulteriori spiegazioni o chiarimenti, e ciò in quanto la motivazione espressa numericamente, oltre a rispondere ad un evidente principio di economicità amministrativa di valutazione, assicura la necessaria chiarezza e graduazione delle valutazioni compiute dalla commissione nell'àmbito del punteggio disponibile e del potere amministrativo da essa esercitato, sempreché siano stati puntualmente predeterminati dalla commissione esaminatrice i criteri in base ai quali essa procederà alla valutazione delle prove” (cfr., tra le altre, Cons. Stato, Sez. V, 22 dicembre 2014 n. 6306). Ad avviso del Collegio, tuttavia, nel caso di specie, la magmatica riconduzione dei punti non consente di comprendere il reale punteggio attribuito a ciascun candidato, anche in ordine al criterio di graduazione di ogni singolo punto da assegnare all’andamento della prova orale, a conclusione del colloquio sostenuto. Inoltre, decisiva, per la dichiarazione di illegittimità della procedura di svolgimento della c.d. prova orale, appare la circostanza che quest’ultima sia avvenuta “a porte chiuse” o “da remoto”, attraverso skype, senza che sia stato verbalizzato nulla circa la presenza di uditori estranei ai membri della commissione durante lo svolgimento del colloquio e in spregio ai principi di trasparenza e parità di trattamento tra i candidati. In base a quanto previsto dal bando non è inoltre possibile estendere la platea degli aspiranti alla posizione dirigenziale in esame, ricomprendendo anche cittadini non italiani, sebbene il carattere “internazionale” dell’esperienza maturata dal cittadino all’estero sia stata valorizzata nell’odierna procedura concorsuale. In definitiva, il Collegio annulla il bando, laddove non escluda la partecipazione di stranieri alla selezione, nonché gli atti di ciascuna selezione avvenuta con i criteri dichiarati illegittimi. DU
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Inserito in data 05/06/2017 TAR CAMPANIA - NAPOLI, SEZ. I, 29 maggio 2017, n. 2843 L’onere di immediata impugnazione è esigibile solo se opera l’art. 29 D.Lgs 50/16 L’onere di immediata impugnazione dell’ammissione alla gara “risulta esigibile solo a fronte della contestuale operatività della disposizione che consente l’immediata conoscenza dell’ammissione alla gara da parte delle imprese partecipanti e, segnatamente, dell’art. 29 del D.Lgs. n. 50/2016 (pubblicazione sul profilo del committente nella sezione “Amministrazione trasparente” con l’applicazione delle disposizioni in materia di accesso civico ex D.Lgs. n. 33/2013)”. In proposito, il citato art. 120, comma 2 bis prevede che “Il provvedimento che determina le esclusioni dalla procedura di affidamento e le ammissioni ad essa all'esito della valutazione dei requisiti soggettivi, economico-finanziari e tecnico-professionali va impugnato nel termine di trenta giorni, decorrente dalla sua pubblicazione sul profilo del committente della stazione appaltante, ai sensi dell'articolo 29, comma 1, del codice dei contratti pubblici adottato in attuazione della legge 28 gennaio 2016, n. 11”. Del resto, come affermato dalla recente giurisprudenza amministrativa (Consiglio di Stato, Sez. III, sent. 4994/2016; T.A.R. Puglia, n. 340/2017; T.A.R. Toscana n. 239/2017; T.A.R. Basilicata, n. 24/2017), “in difetto del contestuale funzionamento delle regole che assicurano la pubblicità e la comunicazione dei provvedimenti di cui si introduce l’onere di immediata impugnazione - che devono, perciò, intendersi legate da un vincolo funzionale inscindibile - la relativa prescrizione processuale si rivela del tutto inattuabile, per la mancanza del presupposto logico della sua operatività e, cioè, la predisposizione di un apparato regolativo che garantisca la tempestiva informazione degli interessati circa il contenuto del provvedimento da gravare nel ristretto termine di decadenza ivi stabilito”. Si è infatti rilevato che “il neonato rito speciale in materia di impugnazione contro esclusioni ed ammissioni costituisce eccezione al regime ‘ordinario’ del processo appalti (a sua volta eccezione rispetto al rito ordinario e allo stesso rito accelerato ex art. 119 c.p.a.) e, perciò, deve essere applicato solo nel caso espressamente previsto (T.A.R. Puglia - Bari I, 7 dicembre 2016 n. 1367), e cioè quando sia stato emanato il provvedimento di cui all’art. 29, comma 1, secondo periodo del d.lgs. n. 50/2016; in caso contrario l’impugnativa non può che essere rivolta, congiuntamente, avverso l’ammissione dell’aggiudicatario ed il provvedimento di aggiudicazione laddove il secondo sia, come dedotto nel primo motivo, conseguenza del primo” (T.A.R. Toscana, n. 239/2017). Pertanto, una volta esclusa l’applicazione del nuovo rito superaccelerato di cui all’art. 120 comma 2 bis del c.p.a., “non vi è che da richiamare l’orientamento giurisprudenziale precedente che nega valenza procedimentale autonoma all’atto di ammissione alla gara e che ne ammette l’impugnazione solo unitamente al provvedimento di aggiudicazione”. EF |
Inserito in data 03/06/2017 TAR TOSCANA - FIRENZE, SEZ. I - 29 maggio 2017, n. 745 Reclutamento di personale ad opera di un Organismo di diritto pubblico e giurisdizione La pronuncia in esame si colloca in un ambito importante ed estremamente attuale, quale quello relativo allo status delle società in house e degli organismi di diritto pubblico e sui conseguenti riflessi in punto di giurisdizione. In specie, il Collegio toscano accoglie l’eccezione circa il difetto della propria giurisdizione – come sollevata dall’Organismo resistente e, attraverso un significativo excursus giurisprudenziale e normativo, declina l’odierno contenzioso all’Autorità giurisdizionale ordinaria. Più nel dettaglio, i Giudici fiorentini ricordano che l’articolo 18 del D.L. 1112/08 – intitolato “Reclutamento del personale delle aziende e istituzioni pubbliche” – recava una disciplina di stampo pubblicistico in merito all’adozione di provvedimenti per la gestione e reclutamento di professionalità in seno alle società pubbliche. Sottolineano, altresì, la subentrata modifica normativa, peraltro recentissima, ad opera della riforma sulle società a partecipazione pubblica - introdotta dal D.Lgs. 19/08/2016, n. 175 (attuativa della delega conferita dalla legge Madia n. 124/2015) – con cui, invece, si è inteso conferire un’impronta privatistica in tema di pubblico impiego. Basti pensare che il comma 1 dell’articolo 19 del suddetto D. Lgs. dispone che “Salvo quanto previsto dal presente decreto, ai rapporti di lavoro dei dipendenti delle società a controllo pubblico si applicano le disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile, dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa”. E come, altresì, persino il Giudice regolatore della giurisdizione abbia da ultimo chiarito che "il D.L. 25 giugno 2008, n. 112, art. 18, il quale detta regole diverse per le procedure di reclutamento del personale da parte, da un lato, delle società in mano pubblica di gestione dei servizi pubblici locali (comma 1), e, dall'altro, delle altre società a partecipazione pubblica totale o di controllo (comma 2), è una norma di diritto sostanziale, la quale non incide in alcun modo sui criteri di riparto della giurisdizione in materia di assunzione dei dipendenti…. Le procedure seguite dalle società cosidette in house providing per l'assunzione di personale dipendente sono sottoposte alla giurisdizione del Giudice ordinario" (Cfr. SC. Sez. Un. n. 7759/17). Pertanto, sulla falsariga di tali nuovi approdi ed operando anche in ragione di esigenze di speditezza, certezza giuridica e celerità, in doveroso e disciplinato rispetto dell’articolo 111 – 8’ co. - della Costituzione, il Collegio fiorentino declina la propria giurisdizione, dichiarando quella del Giudice ordinario. CC |
Inserito in data 01/06/2017 TAR VENETO - VENEZIA, SEZ. I - ORDINANZA 26 maggio 2017, n. 512 Diritto di accesso, azione ex art. 116, 2’ c. CpA soggetto legittimato, controinteressato Nella ordinanza emarginata in epigrafe si afferma, preliminarmente, che la facoltà di azionare la tutela in materia di accesso in via incidentale ex art. 116 comma 2 c.p.a. “può essere riconosciuta solo alla parte ricorrente nel giudizio principale e non anche alla contro interessata nel medesimo giudizio per la quale, infatti, si pone una carenza di legittimazione attiva”. A fortiori, alla società contro interessata, “non avendo la stessa proposto alcuna domanda sostanziale, neppure in via incidentale o riconvenzionale, nell’ambito del ricorso principale, non può esser riconosciuto il potere processuale d’innestare all’interno di quest’ultimo giudizio, il ricorso incidentale previsto dall’art. 116, comma 2, c.p.a., avente natura strumentale rispetto ad un’azione già incardinata, ferma restando, ovviamente la possibilità di proporre un autonomo processo di accesso”. Secondariamente, con riguardo al diniego opposto dalla Amministrazione alla società ricorrente nel giudizio principale, circa la istanza di accesso fatta da quest’ultima, il predetto diniego viene dal Collegio reputato illegittimo “non essendo condivisibile l’assunto dell’Amministrazione secondo cui l’accesso alla documentazione amministrativa, ai sensi dell’art. 53, comma 2, lett. c), del D.lgs n. 50 del 2016, è differito fino al momento dell’aggiudicazione”. Ed infatti, chiarisce il Collegio che, “ la norma si riferisce solamente al contenuto delle offerte, ed è chiaramente posta a presidio della segretezza delle offerte tecnico-economiche, ma non impedisce l’accesso alla documentazione amministrativa contenuta normalmente nella busta A, relativa ai requisiti soggettivi dei concorrenti, essendo peraltro la conoscenza di tale documentazione elemento imprescindibile per l’esercizio del diritto di difesa in relazione al nuovo sistema delineato dall’art. 120, comma 2-bis, c.p.a., che onera i concorrenti dell’impugnazione immediata delle ammissioni e delle esclusioni”.
Pertanto la istanza di accesso presentata dalla ricorrente deve essere accolta. PC
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Inserito in data 31/05/2017 TAR CALABRIA - CATANZARO, SEZ. II - 29 maggio 2017, n. 867 Principio della parità di accesso tra uomini e donne nelle Giunte municipali “Il principio della parità di accesso alle cariche amministrative tra uomini e donne costituisce espressione di un principio fondamentale del nostro ordinamento costituzionale, sancito dagli artt. 3, 49, 51 e 97 Cost., sicché lo stesso opera direttamente quale limite conformativo all'esercizio del potere amministrativo, anche in mancanza di specifiche disposizioni attuative.” Sul piano legislativo, l’art. 1, comma 137°, della Legge 7 aprile 2014, n. 56 (“Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni”) costituisce la “trasposizione in sede normativa dei precitati principi”. Ai sensi della predetta disposizione, “nelle giunte dei comuni con popolazione superiore a 3.000 abitanti, nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura inferiore al 40 per cento, con arrotondamento aritmetico.” In coerenza con i principi espressi dalla Corte Costituzionale con la sentenza 14.1.2010 n. 4, secondo cui gli articoli della Costituzione 51, comma 1, e 117 comma 7 hanno la finalità di ottenere “un riequilibrio della rappresentanza politica dei due sessi”, anche la disposizione di cui al comma 137°dell’art.1 della Legge 7 aprile 2014, n. 56 acquista “carattere permanente e finalistico.” Da una mera interpretazione letterale e sistematica della suddetta norma “emerge chiaramente l’intenzione del legislatore di attribuire valore cogente e precettivo alla percentuale indicata, come altresì rimarcato dall’endiadi «arrotondamento aritmetico», che denota la scelta di voler ancorare la percentuale minima di rappresentanza ad un valore numerico oggettivo, preciso e puntuale.” Richiamando la giurisprudenza del Consiglio di Stato, il Tar chiarisce che “il limite intrinseco di operatività dell' art. 1, comma 137, della legge Delrio” risiede unicamente “nell'effettiva impossibilità, di carattere tendenzialmente oggettivo, di assicurare nella composizione della Giunta comunale la presenza dei due generi nella misura stabilita dalla legge” .“Tale impossibilità deve esser adeguatamente provata attraverso lo svolgimento da parte del Sindaco di una preventiva, accurata ed approfondita attività istruttoria preordinata ad acquisire la disponibilità allo svolgimento delle funzioni assessorili da parte di persone di entrambi i generi, ed alla necessità di un'adeguata e puntuale motivazione sulle ragioni della mancata applicabilità del principio di pari opportunità (Cons. Stato sez V n.406/2016)”. GB
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Inserito in data 30/05/2017 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 29 maggio 2017, n. 2533 Il rito appalti si applica anche agli affidamenti in house Con la pronuncia rassegnata in epigrafe, la Quinta Sezione reputa che “anche le impugnazioni di affidamenti in house di contratti pubblici di lavori servizi e forniture siano soggetti allo speciale “rito appalti” di cui agli artt. 119, comma 1, lett. a), e 120 del codice del processo amministrativo, con il corollario del dimezzamento del termine per proporre il ricorso di primo grado, ai sensi del comma 5 di quest’ultima disposizione”. A tale conclusione giunge il Collegio prendendo le mosse dall’ampiezza delle formule impiegate dal legislatore: «procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture» e «atti delle procedure di affidamento», utilizzate nelle disposizioni richiamate. Come osservato, infatti, esse s’incentrano sul concetto di «procedure», che nella sua latitudine è idoneo a racchiudere tutta l’attività della pubblica amministrazione espressiva del suo potere di supremazia, che si manifesta attraverso atti autoritativi e nelle forme tipiche del procedimento amministrativo. Con specifico riguardo alla materia degli affidamenti di contratti di lavori servizi e forniture, il concetto di «procedure» è pertanto idoneo ad individuare nel suo complesso la fase che precede la stipula del contratto, ove l’affidamento in questione è sempre espressione della presupposta potestà autoritativa della pubblica amministrazione, manifestatasi nelle forme del procedimento amministrativo cui quest’ultima è soggetta in via generale, nell’esercizio dei suoi poteri, ancorché intesi con modalità estremamente semplificate, con conseguenze che si riflettono in punto di riparto, determinando la giurisdizione del giudice amministrativo. Ad avviso del Supremo Consesso, depone nel senso suddetto anche la medesima esigenza di spiccata celerità e la pienezza di tutela assicurata dai provvedimenti adottabili ai sensi degli artt. 120 – 124 c.p.a., dei contratti così stipulati. In particolare, spicca la possibilità per il giudice di dichiarare l’inefficacia del contratto stipulato sulla base del provvedimento autoritativo di affidamento, incidendo così sul rapporto negoziale già instaurato “a valle” di quest’ultimo. Da questa ampiezza di poteri e dalle conseguenti ricadute su assetti contrattuali già instauratisi si coglie pertanto la necessità sul piano logico e di complessiva coerenza normativa di assoggettare anche gli affidamenti in house al rito concernente in generale i contratti di lavori, servizi e forniture. In caso contrario, rimarrebbero immuni dal rischio di declaratoria giurisdizionale di inefficacia proprio gli affidamenti connotati maxime dalla violazione del principio generale, di matrice anche europea, dell’evidenza pubblica. DU
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Inserito in data 29/05/2017 TAR CALABRIA - CATANZARO, SEZ. II, 22 maggio 2017, n. 852 Si al decreto di acquisizione sanante dopo la scadenza del termine fissato in sentenza La questione posta al vaglio del Tar Catanzaro concerne la “possibilità o meno per l’amministrazione, condannata con sentenza a restituire l’immobile e pagare le somme dovute oppure, in alternativa, ad emettere il decreto di acquisizione sanante ex art.42-bis, di emettere il detto decreto una volta scaduto il termine fissato in sentenza”. A tal proposito, il Supremo Consesso (sent. n. 2/2016) ritiene che, in tali casi, “non vi è ragione di discostarsi dai principi recentemente enucleati dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio (cfr. sentenza 15 gennaio 2013, n. 2), in sintonia con la Corte europea dei diritti dell’uomo (cfr. sentenza 18 novembre 2004, Zazanis), alla stregua dei quali l’effettività delle tutela giurisdizionale e il carattere poliforme del giudicato amministrativo, impongono di darvi esecuzione secondo buona fede e senza che sia frustrata la legittima aspettativa del privato alla definizione stabile del contenzioso e del contesto procedimentale: in tali casi, la totale inerzia dell’autorità o l’attività elusiva di carattere soprassessorio posta in essere da quest’ultima, consentiranno al giudice adito in sede di ottemperanza di intervenire, secondo lo schema disegnato dagli artt. 112 e ss. c.p.a., direttamente o (più normalmente) di nominare un commissario ad acta che procederà, nel rispetto delle prescrizioni e dei limiti dianzi illustrati, a valutare se esistono le eccezionali condizioni legittimanti l’acquisizione coattiva del bene ex art. 42-bis”. Sulla base di tali principi, il Collegio ritiene di potere trarre le seguenti conseguenze: a) “a fronte di un giudicato alternativo, quale quello in questione, in caso di inadempienza dell’amministrazione, parte ricorrente potrà ricorrere allo strumento del ricorso per l’ottemperanza e, in tal caso, il commissario, se nominato dal giudice a mente dell’art.114, co 3, lett. d) c.p.a. ed insediatosi a seguito della persistenza dell’inottemperanza, darà esecuzione al giudicato e pertanto potrà emanare anche il provvedimento di acquisizione coattiva, in quanto previsto in sentenza”; b) “la circostanza che in sentenza sia stato previsto un termine entro il quale restituire l’immobile e corrispondere le somme dovute oppure emanare il decreto di acquisizione coattiva non esclude la legittimità del provvedimento ex art.42-bis cit. emesso successivamente, ove tale adempimento costituisca pur sempre esecuzione secondo buona fede della sentenza e non frustri la legittima aspettativa del privato alla definizione stabile del contenzioso e del contesto procedimentale”; c) “l’amministrazione, condannata in via alternativa, perde il potere di emanare il provvedimento di acquisizione ex art.42-bis cit. solo se, a seguito dell’instaurazione del giudizio di ottemperanza (volto all’esecuzione del giudicato nella sua interezza), nella persistenza dell’inadempienza, si insedi il commissario ad acta nominato a provvedere in sua sostituzione”. Conclusivamente, ritiene il Collegio che “persista il potere dell’amministrazione a emanare il provvedimento ex art.42-bis del d.P.R. n.327/2000 anche successivamente al termine fissato in sentenza, nella sussistenza dei presupposti di cui si è detto”. EF
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Inserito in data 26/05/2017 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 24 maggio 2017, n. 2444 Il dimezzamento dei termini si applica anche per impugnare gli atti di esclusione Il comma 5 dell’art. 120 cod. proc. amm. - che assoggetta al termine di «trenta giorni» il ricorso in sede giurisdizionale contro gli atti delle procedure di affidamento di contratti pubblici di lavori, servizi e forniture- si applica anche agli “atti di esclusione di concorrenti adottati dalla stazione appaltante nell’ambito della procedura di gara”. Tale assunto si desume da una “interpretazione letterale”delle formule normative in materia di appalti, corroborata da “un argomento di ordine logico”. Sul piano testuale, l’art. 120 cod. proc. amm. assoggetta, “al c.d. rito appalti, ovvero al giudizio ordinario di legittimità che si svolge davanti al giudice amministrativo, e che ha ad oggetto la complessiva attività della pubblica amministrazione finalizzata alla conclusione di contratti, gli «atti delle procedure di affidamento» relative «a pubblici lavori, servizi o forniture». In termini analoghi dispone “l’art. 119, comma 1, lett. a), cod. proc. amm., attraverso l’impiego dell’espressione «procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture».” Entrambe le formule normative hanno “carattere generale” e si riferiscono “a tutti gli atti che si collocano nella fase c.d. pubblicistica di selezione del contraente privato e che precedono la stipula del contratto.” Da ciò discende l’applicazione di tale regime “anche gli atti di esclusione di concorrenti adottati dalla stazione appaltante nell’ambito della procedura di gara”. Sul piano logico, “deve essere esclusa l’opzione volta a distinguere regimi processuali diversi, sotto il fondamentale profilo del termine per proporre l’impugnativa giurisdizionale, nell’ambito di un’unica attività amministrativa quale appunto quella ad evidenza pubblica che precede la stipula di contratti”. Se si guarda, peraltro, all’«intenzione del legislatore», “appare manifestamente irrazionale assoggettare a termini differenziati, ed in particolare esentare alcuni atti della procedura di gara dal dimezzamento del termine per ricorrere ai sensi del citato art. 120, comma 5, pur a fronte dell’unitaria esigenza di politica legislativa di celere definizione del contenzioso relativo all’attività contrattuale della pubblica amministrazione. Si tratta in particolare dell’esigenza che è alla base della specialità del rito appalti e della conseguente deroga prevista in materia rispetto al termine ordinario per ricorrere in sede giurisdizionale amministrativa.” GB
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Inserito in data 25/05/2017 TRIBUNALE REGIONALE DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA DI TRENTO - SEZ. UNICA, 24 maggio 2017, n. 179 Concordato preventivo con continuità aziendale: illegittimità della esclusione dalla gara per mancata produzione di autorizzazione del Giudice delegato Nella controversia i cui estremi sono emarginati in epigrafe ed avente ad oggetto la impugnativa delle note della Amministrazione provinciale con cui veniva richiesto alla ricorrente, società in concordato preventivo con continuità aziendale, di presentare - ai fini della ammissione alla gara per l’affidamento di lavori pubblici - l'autorizzazione del Giudice delegato, di cui all'articolo 110 del decreto legislativo n. 50/2016, il T.A.R. chiarisce preliminarmente che “il concordato con continuità aziendale non costituisce motivo di esclusione dalla partecipazione alle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti di lavori, forniture e servizi, e dalla stipula dei relativi contratti”. In secondo luogo si evidenzia che la procedura di concordato, per le finalità proprie della partecipazione alle gare pubbliche e degli adempimenti necessari, si esaurisce con il decreto di omologa ex art. 181 L.F., il quale rappresenta per la impresa assoggettatane, il passaggio dal regime di spossessamento attenuato, proprio della procedura, al riacquisto della piena capacità di agire. Motivo per cui è illegittima la richiesta, avanzata dalla Amministrazione trentina, di ottenere la autorizzazione del Giudice delegato al fine di poter partecipare alla gara, “pena la esclusione dalla stessa”, non sol perché contrastante con l’insegnamento giurisprudenziale in materia secondo il quale “il decreto di omologa conclude la procedura di concordato”, ma anche perché subordinare la ammissione alla gara al rilascio della predetta autorizzazione “contrasta con l’intero impianto normativo della legge fallimentare rivelandosi irragionevole, considerati i tempi normalmente non ristretti e neppure esattamente prevedibili, necessari per la chiusura della liquidazione, assoggettando la parte interessata ad un prolungato ed ingiustificato obbligo dimostrativo ed allegativo”. Ne consegue l’annullamento degli atti impugnati, ferme le ulteriori determinazioni dell’amministrazione nel rispetto della presente decisione. PC
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Inserito in data 24/05/2017 TAR CALABRIA - CATANZARO, SEZ. I - 22 maggio 2017, n. 830 Diritto di accesso e contratto secretato ex art. 162 d.lgs. n. 50/16: bilanciamento I Giudici calabresi accolgono le doglianze della ditta ricorrente che, avendo preso parte ad una gara pubblica relativa a un contratto secretato ex art. 162 d.lgs. n. 50/16 - Codice dei Contratti pubblici, ha ricevuto un diniego tacito dinanzi alla propria istanza di accesso prospettata all’Amministrazione aggiudicatrice. Il Collegio, se da un lato evidenzia come la segretezza imposta sulla gara incide senza dubbio sul diritto d’accesso, dall’altra parte ammonisce l’Amministrazione intimata, regolarmente costituitasi in giudizio, circa l’assenza di previsioni specifiche limitatamente alla ostensibilità di informazioni proprie di tali categorie di contratti secretati. Si ricorda, pertanto, la necessità di contemperare l’interesse alla non divulgazione di notizie sensibili e il diritto di difesa, garantito dall’art. 24 Cost., al cui esercizio l’accesso è finalizzato; e come, altresì, le procedure del tipo di quelle odierne siano puntualmente sottoposte al vaglio del Giudice contabile. In ragione della suddetta stratificazione giurisprudenziale e normativa e, pertanto, dell’estrema delicatezza della questione affrontata, i Giudici ricordano l’importanza dell’interprete. E’ a questi, infatti, che spetta valutare, caso per caso, l’opportunità o meno circa l’accessibilità dei documenti. Un ruolo simile non è stato tenuto dall’Amministrazione resistente che, a fronte dell’istanza, non ha palesato specifiche ragioni per le quali tutti gli atti della procedura ad evidenza pubblica debbano ritenersi segreti. Né, peraltro, ha tenuto nella giusta considerazione il fatto che l’istanza fosse stata presentata da uno dei soggetti partecipanti alla gara e, quindi, perfettamente legittimato.
In ragione di ciò, il ricorso va accolto. CC
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Inserito in data 23/05/2017 TAR TOSCANA - FIRENZE, SEZ. I - 16 maggio 2017, n. 689 Riparametrazione delle offerte tecnica ed economica I Giudici fiorentini intervengono in tema di riparametrazione delle offerte, respingendo le doglianze di una ditta che, collocatasi seconda, impugna l’esito della gara proprio alla luce della suddetta tecnica, esercitata presuntivamente in modo iniquo. Più nel dettaglio, la ricorrente ritiene che la commissione giudicatrice avrebbe proceduto all’assegnazione dei punteggi relativi alle offerte economiche previa riparametrazione degli stessi al punteggio massimo previsto dalla legge di gara, mentre i punteggi relativi alle offerte tecniche sarebbero stati attribuiti senza riparametrazione. Questo modo di procedere avrebbe alterato l’esito del confronto tra i concorrenti e lo stesso rapporto tra elemento economico ed elemento tecnico espresso dalla lex specialis: eseguendo la riparametrazione delle offerte tecniche, infatti, sarebbe la ricorrente a risultare vincitrice. Il Collegio toscano, invece, non giunge alla medesima valutazione. Si ritiene, infatti, che il punto di equilibrio tra riparametrazione delle offerte economiche o tecniche, o separatamente di una delle due – come nel caso di specie – appartenga soltanto alla discrezionalità della stazione appaltante. Ad essa spetta ponderare gli elementi di valutazione e comparazione delle offerte nelle gare da aggiudicarsi secondo il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa. Ricordano i Giudici che la riparametrazione ha la funzione di garantire l’equilibrio tra elementi qualitativi e quantitativi di giudizio, in modo da assicurare la completa attuazione della volontà manifestata al riguardo dalla stazione appaltante: applicando la riparametrazione a una delle componenti dell’offerta, o a entrambe, il peso ne viene valorizzato, nel senso che il concorrente titolare dell’offerta anche di poco migliore rispetto alle altre si vede assegnato il punteggio massimo astrattamente previsto, come se si trattasse di un’offerta tecnicamente eccellente, ovvero considerevolmente conveniente sul piano economico. Pertanto, muovendosi da tali valutazioni, non vi è stato alcun vizio metodologico – quale quello addebitato alla stazione appaltante dalla ditta ricorrente. Il fatto che siano stati riparametrate solo le offerte economiche dipende, infatti, unicamente da una valutazione discrezionale nei cui confronti la ricorrente si è limitata a critiche generiche, inidonee a evidenziare obiettivi profili di manifesta illogicità o irragionevolezza. Il ricorso, pertanto, va rigettato, con conseguente soccombenza della ricorrente. CC
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Inserito in data 22/05/2017 TAR VALLE D’AOSTA, SEZ. UNICA - ORDINANZA 9 maggio 2017, n. 13 Consiglieri regionali sospesi ex art. 8, d.lgs. n. 235/12 e quorum strutturale I Giudici aostani si pronunciano in tema di sospensione (necessitata) dalla carica dei Consiglieri regionali – ex art. 8, d.lgs. n. 235/12 (cd. Legge Severino) - a seguito di condanna penale non definitiva, e sulle relative ripercussioni sull’operatività dell’Organo rappresentativo interno alla Regione. Più nel dettaglio, il Collegio respinge le censure mosse dai ricorrenti esclusi, ritenendo non condivisibile l’asserito difetto funzionale dell’Organo inciso dalla suddetta sospensione. Si ricorda, infatti, che la volontà del Legislatore del 2012 è, indubbiamente, quella di evitare che soggetti non più ritenuti idonei – a seguito di condanna – possano influenzare l’operatività dell’organismo. E’ talmente netta la volontà di depotenziare tali soggetti al punto da impedirne il computo nel quorum strutturale: ovvero, si intende evitare che persino con l’assenza questi possano aver parte nel funzionamento del Soggetto pubblico. Pertanto, a dispetto della previsione dello Statuto aostano – come è noto di rango costituzionale – tesa a custodire un quorum strutturale “ordinario”, i Giudici evidenziano l’impossibilità di modificare la ratio della Legge Severino e, per l’effetto, respingono le doglianze dei consiglieri esclusi, poiché non aventi titolo alcuno per accedere alle decisioni consiliari – alla luce delle suddette previsioni del Legislatore nazionale. CC
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Inserito in data 19/05/2017 CORTE COSTITUZIONALE - SENTENZA 11 maggio 2017, n. 108 Contrasto alla diffusione gioco d’azzardo patologico (GAP), distanze minime Il Collegio della Consulta respinge le doglianze sollevate dal TAR pugliese – sezione distaccata di Lecce - che dubita della legittimità costituzionale dell’art. 7 della legge della Regione Puglia 13 dicembre 2013, n. 43, recante «Contrasto alla diffusione del gioco d’azzardo patologico (GAP). In particolare, i Giudici rimettenti contestano la parte in cui il Legislatore regionale ha vietato il rilascio dell’autorizzazione all’esercizio di sale da gioco e all’installazione di apparecchi da gioco nel caso di ubicazione a distanza inferiore a cinquecento metri pedonali dai luoghi cosiddetti “sensibili” ivi indicati. Viene, in primo luogo, rigettata la prima doglianza di incostituzionalità – relativa al possibile vulnus all’art. 117 Cost. – posto che l’intervento del Legislatore pugliese, volto a regolamentare l’allocazione di sale da gioco nei pressi di punti cc.dd. maggiormente sensibili, è diretto alla tutela della salute – in linea, del resto, con i recenti interventi legislativi sul punto, sia in ambito nazionale che comunitario. I Giudici della Consulta, in sostanza, racchiudono ed allocano l’operato del Legislatore pugliese nel quadro dell’art. 117 – 3’ co. Cost. – ovvero in materia di tutela della salute; in un ambito, quindi, rientrante nella potestà legislativa concorrente. La Regione, quindi, ha potuto legiferare sul punto, sia pure nel quadro dei principi fondanti la materia – fissati dal Legislatore nazionale; non vi è stato, dunque, alcun superamento del parametro costituzionale di cui all’articolo 117 – come prospettato dai Rimettenti – posto che non di «ordine pubblico e sicurezza» (art. 117, secondo comma, lettera h, Cost.) si tratta. Parimenti destituita di fondamento la seconda censura, riguardo alla dedotta violazione dei principi fondamentali posti dallo Stato nella materia di competenza concorrente della «tutela della salute». La Corte, infatti, dopo aver richiamato il diritto vivente in punto di legittimità degli interventi di contrasto della ludopatia basati sul rispetto di distanze minime dai luoghi “sensibili” senza la necessità della previa definizione della relativa pianificazione a livello nazionale, ha escluso la violazione – da parte del Legislatore pugliese - anche di questo parametro. In guisa di ciò, dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 7 della legge della Regione Puglia 13 dicembre 2013, n. 43, recante «Contrasto alla diffusione del gioco d’azzardo patologico (GAP)», come sollevate dai Giudici amministrativi leccesi. CC
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Inserito in data 18/05/2017 TAR VALLE D’AOSTA, SEZ. UNICA - 15 maggio 2017, n. 29 Giudizio sull’anomalia delle offerte e spessore del sindacato del GA Il Collegio valdostano ricorda, con la pronuncia in commento, l’effettiva natura del giudizio sull’anomalia delle offerte presentate nel corso di una gara pubblica. A fronte delle censure sollevate dalla ditta ricorrente, che contesta l’operato della Stazione appaltante sia sotto il profilo procedimentale che sotto l’aspetto prettamente contenutistico dell’opinione espressa, i Giudici confermano, invece, l’azione del Soggetto pubblico, ricordando principi basilari che persistono, anche alla luce della sopravvenuta disciplina ex D. Lgs. 50/2016. Il Tribunale valdostano rammenta, infatti, come il giudizio sull’anomalia delle offerte presentate in una pubblica gara di appalto è un giudizio ampiamente discrezionale, espressione paradigmatica di discrezionalità tecnica, sindacabile solo in caso di manifesta e macroscopica erroneità e irragionevolezza, sicché il giudice amministrativo può sindacare le valutazioni della P.A., sotto i profili suindicati, ma non può procedere ad un’autonoma verifica della congruità dell’offerta e delle sue singole voci, il che costituirebbe un’indebita invasione della sfera propria dell’Amministrazione (così, da ultimo, Cons. Stato, Sez. III, 6.II.2017, n. 514). Ribadisce, altresì, come nell’esercizio del contestato giudizio di anomalia si persegua unicamente un interesse, quello pubblico. Non v’è traccia alcuna del carattere sanzionatorio ravvisato dall’odierno ricorrente; vi è, semmai, la necessità di accertare se in concreto l’offerta, nel suo complesso, sia attendibile ed affidabile in relazione alla corretta esecuzione dell’appalto. Il giudizio di anomalia, ricordano i Giudici, mira quindi a garantire e tutelare l’interesse pubblico concretamente perseguito dall’Amministrazione attraverso la procedura di gara per la effettiva scelta del miglior contraente possibile ai fini dell’esecuzione dell’appalto, così che l’esclusione dalla gara dell’offerente per l’anomalia della sua offerta è l’effetto della valutazione (operata dall’Amministrazione appaltante) di complessiva inadeguatezza della stessa rispetto al fine da raggiungere (cfr., da ultimo, Cons. Stato, Sez. VI, 21.XI. 2016, n. 4888). Sulla base di tali valutazioni e considerata, altresì, la totale carenza di mezzi istruttori – volti a palesare l’erroneità del suddetto giudizio – come lamentata da parte ricorrente, i Giudici rigettano il ricorso, stante l’infondatezza delle doglianze della ditta ricorrente. CC
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Inserito in data 17/05/2017 TAR TOSCANA - FIRENZE, SEZ. I - 16 maggio 2017, n. 694 Illegittimità delle ordinanze sindacali extra ordinem qualora non sorrette da adeguata istruttoria Nella sentenza emarginata in epigrafe, avente ad oggetto la contestazione di una ordinanza sindacale di divieto di accesso ai parchi pubblici ai cani anche se accompagnati dai padroni, il Collegio accoglie il ricorso e ritiene la ordinanza impugnata illegittima in quanto essa non è stata preceduta dall’accertamento di un’emergenza sanitaria o di igiene pubblica . Ha, infatti, ricordato il Tar che “l’esercizio del potere sindacale extra ordinem presuppone il requisito della necessità di un intervento immediato, al fine di rimuovere uno stato di grave pericolo per l'igiene e/o la salute pubblica e caratterizzato da una situazione eccezionale e/o imprevedibile da fronteggiare per mezzo di misure straordinarie di carattere provvisorio e, pertanto, non adeguatamente contrastabile tramite l'utilizzo degli ordinari mezzi di carattere definitivo previsti dall'ordinamento giuridico”. Ciò in quanto, le ordinanze contingibili e urgenti, derogando al principio di tipicità dei provvedimenti amministrativi, “impongono la precisa indicazione del limite temporale di efficacia, in quanto solo in via temporanea può essere consentito l'uso di strumenti extra ordinem, che permettono la compressione di diritti ed interessi privati con mezzi diversi da quelli tipici indicati dalla legge”. Nel caso di specie si rileva che il provvedimento impugnato, oltre a non recare alcuna indicazione in ordine ai suoi limiti temporali di efficacia, “non è sorretto da una adeguata istruttoria in ordine all’esistenza effettiva di un’emergenza sanitaria o di igiene pubblica, tale evidentemente non potendo considerarsi la mera rilevazione di escrementi canini in ambito urbano comunale”. D’altra parte il Tar ha ricordato che la Regione Toscana, con la legge n. 59 del 2009 ha disciplinato la tutela degli animali da affezione, stabilendo all'art. 19 che “ai cani accompagnati dal proprietario o da altro detentore è consentito l'accesso a tutte le aree pubbliche e di uso pubblico, compresi i giardini, i parchi e le spiagge; in tali luoghi è obbligatorio l'uso del guinzaglio e della museruola qualora previsto dalle norme statali”. Stabilendo al secondo comma che è vietato l'accesso ai cani solamente “in aree destinate e attrezzate per particolari scopi, come le aree gioco per bambini, qualora a tal fine sono chiaramente delimitate e segnalate con appositi cartelli di divieto”. PC
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Inserito in data 16/05/2017 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 15 maggio 2017, n. 2299 Il GA non può entrare nel merito delle valutazioni della Commissione avanzamento Ufficiali Con la sentenza in esame, il Consiglio di Stato traccia le coordinate in ordine allo scrutinio giurisdizionale delle decisioni assunte dalla Commissione per il giudizio di avanzamento di cui agli artt. 25 e 26, l. 1137/1955, abrogati a seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 66/2010. A tal proposito, la Quarta Sezione nega al Giudice Amministrativo “il potere di entrare nel merito delle valutazioni della Commissione di avanzamento per gli Ufficiali delle forze armate, dovendo il giudizio essere limitato ad una generale verifica della logicità e razionalità dei criteri seguiti in sede di scrutinio” (Cons. St., Sez. IV, 11 dicembre 2014, n. 6084). Invero, “Questa tipologia di sindacato si applica sia in relazione ai quattro elementi di cui al comma secondo dell’art. 26, che in relazione al complessivo giudizio globale che ne deriva” (Cons. St., Se. IV, 11 febbraio 2011, n. 926). In particolare, “il Giudice amministrativo non può sostituirsi alla Commissione di avanzamento nella valutazione della qualità dei singoli elementi presi in considerazione dall'art. 26 L. n. 1137/1955 (che prescrive che la valutazione per l'avanzamento a scelta degli ufficiali, deve essere effettuata sulla base di una molteplicità di elementi, ossia, qualità morali, di carattere e fisiche; benemerenze di guerra, comportamento in guerra e qualità professionali dimostrate durante la carriera, specialmente nel grado rivestito, con particolare riguardo all'esercizio del comando o delle attribuzioni specifiche, qualora richiesti da tale legge ai fini dell'avanzamento, al servizio prestato presso reparti o in imbarco; doti intellettuali e di cultura con particolare riguardo ai risultati di corsi, esami, esperimenti)”. In conclusione, devono ritenersi inammissibili “le censure fondate su una analisi puntuale delle presunte aporie motivazionali a sostegno dei punti assegnati per ciascuna delle lettere di cui all'art. 26 suddetto o peggio, per ciascuna delle qualità prese in considerazioni dalle singole lettere” (Cons. St., Sez. IV, 1 marzo 2006, n. 1008). EF
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Inserito in data 15/05/2017 CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 12 maggio 2017, n. 2 L’impossibilità sopravvenuta di esecuzione in forma specifica dell’obbligazione nascente da giudicato Con la sentenza in epigrafe, l’Adunanza Plenaria si è pronunciata sull’ottemperanza della sentenza n. 6/2016 emessa dall’Adunanza Plenaria, la quale, a sua volta, dichiarava esclusa la possibilità di ammettere la c.d. regolarizzazione del DURC negativo, sancendo il principio per cui “l’impresa deve essere in regola con l’assolvimento degli obblighi previdenziali ed assistenziali fin dalla presentazione dell’offerta e conservare tale stato per tutta la durata della procedura di aggiudicazione e del rapporto con la stazione appaltante, restando dunque irrilevante un eventuale adempimento tardivo dell’obbligazione contributiva, ai fini della partecipazione alla gara d’appalto.” Con il presente ricorso in ottemperanza, le ricorrenti lamentano l’inadempimento del giudicato formatosi sulla sentenza della citata Plenaria da parte dell’Amministrazione. Nel dettaglio, il danno lamentato è proprio quello connesso all’impossibilità di ottenere l’esecuzione in forma specifica del giudicato, a causa dell’avvenuta ultimazione dei lavori oggetto della gara anteriormente alla pubblicazione della predetta sentenza dell’Adunanza plenaria. Il Supremo Consesso al plenum, prendendo le mosse dalla natura dell’azione prevista dall’art. 112, comma 3, c.p.a., ne enuclea i presupposti e ne perimetra l’ambito soggettivo, pervenendo così ad un’attenta ricostruzione della forma di responsabilità ad essa sottesa. Come emerge dalla lettera della citata norma, l’azione suddetta fornisce un rimedio risarcitorio, che evoca l’istituto della responsabilità civile. Tuttavia, rispetto al tradizionale risarcimento del danno – ad avviso della Plenaria - l’azione in esame presenta significativi profili di peculiarità. Nella specie, siffatta previsione consente l’estensione del rimedio in esame alle ipotesi in cui il danno, pur in assenza di violazione o elusione del giudicato, è comunque “connesso” all’impossibilità di ottenerne l’esecuzione in forma specifica. Da questo punto di vista, la norma ha una portata non solo processuale ma anche sostanziale, perché, in deroga alla disciplina generale della responsabilità civile - ossia quella prevista dall’art.1218 c.c. - ammette una forma di responsabilità che prescinde dall’inadempimento imputabile alla parte tenuta ad eseguire il giudicato. Secondo quanto si legge nella pronuncia in esame “al giudicato amministrativo che riconosca la fondatezza della pretesa sostanziale, nasce ex lege, in capo all’amministrazione (ed in certi casi anche in capo alle parti private soccombenti) un’obbligazione, il cui oggetto (la prestazione) consiste proprio nel concedere “in natura” (cioè in forma specifica) il bene della vita di cui è stata riconosciuta la spettanza”. Ne deriva che, rispetto alla disciplina civilistica sull’inadempimento dell’obbligazione, l’art. 112, comma 3, c.p.a. introduce “un elemento di specialità”, perché dispone che l’impossibilità derivante da causa non imputabile - non dovuta cioè a violazione o elusione del giudicato - non estingue l’obbligazione, ma la converte, ex lege, in una diversa obbligazione, di natura “risarcitoria”, avente ad oggetto l’equivalente monetario del bene della vita riconosciuto dal giudicato (ossia in debito di valore). Ad avviso del Supremo Collegio si profila, quindi, una forma di responsabilità oggettiva un’ottica, per l’appunto, “rimediale” della tutela, perché non è ammessa alcuna prova liberatoria fondata sulla carenza dell’elemento soggettivo, stante la sussistenza degli altri elementi minimi ed essenziali ai fini della configurazione di un illecito: ossia il rapporto di causalità e l’antigiuridicità della condotta (questo orientamento si è andato delineando a partire dalle sentenze n. 204 del 2004 e n. 191 del 2006 della Corte costituzionale). Quanto ai soggetti cui estendere il suddetto obbligo risarcitorio, si tratta di questione di rilevanza cruciale, in quanto le società ricorrenti hanno chiesto la condanna in solido sia dell’amministrazione sia della parte privata che, nelle more del giudizio, come anticipato, eseguiva il contratto, rendendo impossibile l’esecuzione in forma specifica del subentro nel rapporto contrattuale. A tale riguardo, richiamando quella giurisprudenza amministrativa che ammette la possibilità per il giudice amministrativo sia di pronunciare la condanna in solido al risarcimento del danno sia di ripartire le quote interne di responsabilità, l’Adunanza dichiara gravante su tutte la parti soccombenti l’obbligo di eseguire il giudicato, ivi compresa la parte privata. In base all’art. 41, comma 2, ultimo periodo c.p.a., infatti, il privato non è destinatario di una domanda di risarcimento del danno contro di lui diretta, ma solo destinatario della notificazione della domanda proposta contro l’amministrazione, al fine di rendere possibile l’opponibilità del giudicato. Ne deriva che lo speciale regime di responsabilità oggettiva sopra delineato, possa estendersi anche ai privati soccombenti. Così argomentando, si delinea, inoltre, un’azione di regresso esperibile dall’amministrazione, collegata a un’obbligazione risarcitoria di natura solidale o di azione di ingiustificato arricchimento per il disequilibrio causale derivante dal collegamento tra le posizioni sostanziali in gioco (in presenza, tuttavia, di un’apposita domanda in tal senso, non sussistente nel caso di specie). Tuttavia la peculiarità della vicenda, legata e influenzata dall’andamento processuale della controversia che ne è insorta, non è idonea – ad avviso del Collegio - a far venir meno l’obbligazione ex lege scaturente dal fatto oggettivo dell’impossibilità di eseguire il giudicato, proprio per la chiarita irrilevanza di una colpa. Le sopra evidenziate caratteristiche in termini “oggettivi” della responsabilità delineata dall’art. 112, comma 3, c.p.a., peraltro, si allineano peraltro ad un costante orientamento espresso dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea, che, in materia di mancata aggiudicazione di un contratto d’appalto, sgancia la responsabilità dell’amministrazione aggiudicatrice dalla colpa, poiché riconduce il rimedio risarcitorio al principio di effettività della tutela previsto dalla stessa normativa comunitaria (Corte di giustizia, sez. III, 30 settembre 2010, C-314/09, Stadt Graz). La Plenaria ribadisce, inoltre, i più volte ribaditi principi elaborati dalla giurisprudenza in materia di quantificazione del danno da mancata aggiudicazione. In particolare, dichiara che, nel caso di mancata aggiudicazione, “il risarcimento del danno conseguente al lucro cessante si identifica con l’interesse c.d. positivo, che ricomprende sia il mancato profitto (che l’impresa avrebbe ricavato dall’esecuzione dell’appalto), sia il danno c.d. curricolare (ovvero il pregiudizio subìto dall’impresa a causa del mancato arricchimento del curriculum e dell’immagine professionale per non poter indicare in esso l’avvenuta esecuzione dell’appalto)”, poiché considerato chance di aggiudicarsi ulteriori e futuri appalti. Il Supremo Consesso non manca di precisare che spetta all’impresa danneggiata la prova dell’utile che in concreto avrebbe conseguito, qualora fosse risultata aggiudicataria dell’appalto, chiarendo che “nell’azione di responsabilità per danni, il principio dispositivo opera con pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell’azione di annullamento”, che si giustifica “in quanto sussista la necessità di equilibrare l’asimmetria informativa tra amministrazione e privato, la quale contraddistingue l’esercizio del pubblico potere ed il correlato rimedio dell’azione di impugnazione, mentre non si riscontra in quella di risarcimento dei danni”. Quanto al “mancato utile”, il Consiglio al plenum ne chiarisce la portata: spetta integralmente “solo se si dimostri di non aver utilizzato o potuto altrimenti utilizzare maestranze e mezzi, in quanto tenuti a disposizione in vista della commessa”. In difetto di tale dimostrazione, viceversa, vale la presunzione che l’impresa abbia riutilizzato mezzi e manodopera per altri lavori ovvero che avrebbe dovuto agire in tal senso, secondo i dettami dell’ordinaria diligenza, volta a escludere ogni forma di concorso del danneggiato nell’aggravamento del danno, a titolo di aliunde perceptum vel percipiendum. DU
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Inserito in data 12/05/2017 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 9 MAGGIO 2017, n. 2119 Termine dimididato anche per impugnare il diniego di sostituzione del contraente Nella sentenza emarginata in epigrafe, avente ad oggetto la impugnazione della sentenza resa dal T.A.R. riguardante il diniego di subentro nel contratto per i lavori di riqualificazione di un complesso edilizio, il Collegio, non condividendo il motivo di doglianza formulato dalla impresa ricorrente (secondo cui il termine dimidiato previsto dall’art. 120 comma 5 del c.p.a. avrebbe carattere eccezionale, applicabile esclusivamente per il caso di ricorso avverso provvedimenti di aggiudicazione, pertanto non estensibile analogicamente ad ipotesi non espressamente disciplinate), partendo dal dato letterale della disposizione su richiamata, afferma che “non è, corretto affermare che la dimidiazione del termine per ricorrere riguardi solo i giudizi aventi ad oggetto l’impugnazione del provvedimento di aggiudicazione, risultando la norma applicabile a tutti gli atti che concernono le procedure di affidamento dei contratti pubblici, ivi compresi quelli che intervengono nell’eventuale fase di sostituzione del contraente, disciplinata dall’art. 116 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163”. Invero, come viene sostenuto dal Collegio, anche in relazione al diniego di subentro di nuovo contraente (e più in generale agli atti che si inseriscono nell’ambito delle procedure di affidamento) “si pone quell’esigenza di certezza delle situazioni giuridiche e di celere definizione delle controversie che è alla base del dimezzamento del termine per impugnare”. Ne consegue che il diniego di autorizzazione al subentro, espresso ai sensi dell’art. 116, comma 2, del citato decreto legislativo n. 163 del 2006, va impugnato nel termine breve di trenta giorni. Conseguentemente la Sezione ritiene inconferente il riferimento fatto dall’appellante al divieto di applicazione analogica delle norme di carattere eccezionale, “atteso che la fattispecie per cui è causa rientra, pleno iure, tra quelle espressamente disciplinate dall’art. 120, comma 5, del codice del processo amministrativo”. PC
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Inserito in data 11/05/2017 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 10 maggio 2017, n. 2173 Il collegamento sostanziale tra imprese è una situazione di fatto Con la pronuncia in epigrafe, il Consiglio di Stato accoglie la domanda di annullamento dell’aggiudicazione di un appalto, per un’asserita situazione di collegamento sostanziale fra un’impresa partecipante alla gara e il raggruppamento temporaneo di imprese (da ora “r.t.i”) aggiudicatario, ribaltando il giudizio di primo grado. Ad avviso del Collegio, emerge con evidenza la violazione dell’art. 38, comma 1, lettera m-quater), del d.lgs. nr. 163/2006, lamentata dal ricorrente, poiché il r.t.i. aggiudicatario avrebbe dovuto essere escluso dalla gara, in considerazione della situazione di collegamento sostanziale esistente fra la sua mandante e altra impresa partecipante in costituendo r.t.i., essendo emerso che la medesima persona fisica ricopriva la carica di Presidente del Consiglio di Amministrazione in entrambe le società. Ripercorrendo l’evoluzione normativo – giurisprudenziale del “collegamento sostanziale” fra imprese partecipanti a una medesima gara - culminata nell’introduzione nel 2009 della citata lettera m-quater) – emerge come il legislatore abbia cristallizzato il principio comunitario per cui “non può mai predicarsi una presunzione assoluta di condizionamento delle offerte, tale da comportare l’automatica esclusione delle imprese interessate, atteso che tale grave determinazione può conseguire soltanto all’esito di una valutazione discrezionale fondata su di un quadro indiziario tale da denunciare univocamente che le due offerte possano essere ascrivibili a un unico centro decisionale”. Al riguardo, sottolinea il Supremo Consesso che la formula degli “indizi gravi, precisi e concordanti”, è da tempo impiegata dalla giurisprudenza (nel silenzio del legislatore) per fornire alle stazioni appaltanti un parametro obiettivo e tendenzialmente certo su cui esercitare una valutazione discrezionale, in ordine alle situazioni di collegamento fatto fra imprese concorrenti. Tale formula è stata però recepita solo parzialmente dalla novella del 2009, laddove si è preferito, laddove si è preferito fare un più generico riferimento a “univoci elementi”, con la precisazione che questi devono attenere a una realtà oggettivamente verificabile, e cioè a una accertata “relazione di fatto” tra imprese partecipanti a una medesima gara, ed essere idonei a denunciare la verosimile provenienza delle relative offerte da un unico centro decisionale. Così stando le cose, è proprio prendendo le mosse dalla comunanza dell’organo di vertice fra le due imprese partecipanti alla procedura selettiva per cui è causa, che la Sezione deduce quell’elemento che, per la sua consistenza e gravità, è idoneo e sufficiente - anche di per sé solo - a denunciare l’esistenza di una relazione di fatto tra i concorrenti interessati, tale da far ritenere che le rispettive offerte potessero provenire da un unico centro decisionale Inoltre, nel corso del giudizio il Collegio rilevava ulteriori rapporti di collaborazione intrattenuti in passato dalle due imprese de quibus, segno, quest’ultimo, che, al di là del dato “formale” della comunanza della persona del Presidente, è un ulteriore indice dei suddetti rapporti di cointeressenza e sinergia. Invero, dal delineato assetto societario, non può ritenersi possibile escludere in radice la reciproca conoscenza o conoscibilità delle rispettive strategie imprenditoriali e, quindi, anche delle offerte formulate nella gara di che trattasi. Il Collegio ribadisce che per pacifica e consolidata giurisprudenza, ai fini della sussistenza della situazione di collegamento sostanziale fra imprese rilevante ai fini della loro esclusione dalla gara, la valutazione da compiere sull’unicità del centro decisionale postula che sia provata l’astratta idoneità della situazione a determinare un concordamento delle offerte, e non anche necessariamente che l’alterazione del confronto concorrenziale vi sia stata effettivamente e in concreto (cfr. ex plurimis Cons. Stato, sez. V, 16 febbraio 2017, nr. 496; id., sez. III, 23 dicembre 2014, nr. 6379; id., sez. V, 18 luglio 2012, nr. 4189). In definitiva, e contrariamente a quanto ritenuto dal primo giudice, nel caso esaminato sussisteva una situazione idonea a determinare l’esclusione dalla procedura selettiva delle imprese in questione, e quindi anche del r.t.i. risultato aggiudicatario. DU
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Inserito in data 10/05/2017 TAR LAZIO - ROMA, SEZ. II - 9 maggio 2017, n. 5573 Sulla proroga automatica delle concessioni demaniali marittime Il caso in esame, sottoposto al vaglio del Collegio, verte su una richiesta di proroga di concessione d’area demaniale marittima di una S.r.l. per effetto dell’art. 34 duodecies del d.l. n. 179/2012, negata dal Comune. Quest’ultimo, infatti, riteneva il termine di concessione prorogabile solo in presenza di una certa rilevanza economica degli investimenti e delle opere da realizzare, per concessioni di durata compresa tra i sei ed i venti anni. Con motivi aggiunti, ritualmente notificati, parte ricorrente chiedeva altresì, l’annullamento della determinazione con la quale, consequenzialmente, era stato disposto lo sgombero dell'area demaniale occupata dal proprio stabilimento balneare, nonché degli ordini di introito, emessi a titolo di indennizzo per occupazione senza titolo di area demaniale marittima dei periodi successivi alla scadenza, poiché illegittimi e posti in essere in violazione degli artt. 3 e ss. e 21 nonies della l. n. 241/1990. Il Tar adito respinge le censure di parte ricorrente ritenendole infondate. Il Collegio affronta la questione prendendo le mosse dall’articolata esegesi normativa dell’attuale disciplina in materia di concessioni demaniali marittime. Nella specie, evidenzia che, sebbene da un lato, l’art. 1, comma 18 del d.l. n. 194/2009, originariamente, si limitava “solo a prorogare fino al 31.12.2012 la scadenza delle concessioni in essere al momento dell’entrata in vigore del citato decreto legge”, dall’altro, le modifiche introdotte in sede di conversione, ne avessero prolungato il termine, “facendo salve”, così, le disposizioni di cui all’art. 3, comma 4 bis, del d.l. n. 400/1993 (“Disposizioni per la determinazione dei canoni relativi a concessioni demaniali marittime”), come convertito dalla legge n. 494/1993. Il Collegio osserva, inoltre, come l’art. 3 della legge finanziaria 2007 prescrive che, sebbene le concessioni possano avere durata superiore a sei anni e comunque non superiore a venti anni in ragione dell'entità e della rilevanza economica delle opere da realizzare, siffatte disposizioni, esse non si applicano alle concessioni rilasciate nell'ambito delle rispettive circoscrizioni territoriali dalle autorità portuali di cui alla legge 28 gennaio 1994, n. 84 (“Riordino delle disposizione in materia di Autorità Portuali”). Quindi, dal quadro normativo attualmente vigente è possibile dedurre un termine di durata delle concessioni di beni demaniali marittimi con finalità turistico-ricreative, prorogabile, ma in ossequio al limite massimo ex art. 3 d.l. n. 400/1993, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 494/1993. È in questo quadro che, ad avviso del Collegio, s’inserisce la disposizione di cui all’art. 34 duodecies del d.l. n. 179/2012 invocata, che ha appunto disposto la proroga automatica delle suddette concessioni fino al 31.12.2020. Tuttavia, tale modifica ha sollevato non pochi dubbi di compatibilità della disciplina così delineata con i principi comunitari (libertà di stabilimento, non discriminazione, tutela della concorrenza, trasparenza, parità di trattamento), suscitando tutta una serie di problemi interpretativi, poi risolti con la sentenza del 14 luglio 2016, dalla Corte di Giustizia, che ne ha sancito il contrasto in contrasto sia con l’art. 12, par. 1-2, della direttiva 2006/123/CE sia con l’art. 49 TFUE, qualora si procedesse senza il previo espletamento di procedure di selezione tra i candidati. Così argomentando, il Supremo Consesso, per un’interpretazione dell’attuale disciplina conforme al diritto comunitario conclude anch’esso per il divieto di rinnovo automatico predetto, se effettuato senza il previo espletamento della procedura ad evidenza pubblica e rigetta il ricorso. Quanto alle richieste di indennizzo dell’Amministrazione per occupazione sine titulo dell’area demaniale, il Tar ritiene che costituiscono mera conferma dell’avvenuta scadenza della concessione in esame, alla stessa stregua del provvedimento di sgombero. DU
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Inserito in data 09/05/2017 TAR TOSCANA - FIRENZE, SEZ. I - 5 maggio 2017, n. 647 La Regione predispone elenco Comuni abilitati ad imporre l’imposta di soggiorno L’art. 4, co.1, d.lgs. n. 23/2011 consente ai comuni capoluogo e alle unioni di comuni di istituire un’imposta di soggiorno a carico di coloro che alloggiano nelle strutture ricreative situate sul proprio territorio. Per gli altri comuni, invece, risulterebbe necessaria “l’inclusione nell'elenco regionale delle località turistiche, previo accertamento da parte della regione stessa della vocazione turistica del comune”. “Secondo una condivisibile interpretazione l'attribuzione alla Regione, ai sensi dell'art. 4, d.lgs. 14 marzo 2011 n. 23, del compito di predisporre gli elenchi dei Comuni abilitati ad imporre l'imposta di soggiorno, s'inquadra nel riparto di competenze tra Stato e Regioni disegnato dall'art. 117 Cost. che, nell'ambito della legislazione concorrente, assegna alla Regione il coordinamento del sistema tributario”. Da ciò discende che, “ anche per ragioni di ordine costituzionale, riveste carattere fondamentale l'accertamento dell'effettiva vocazione turistica del Comune nel quale si intenda istituire l'imposta di soggiorno; accertamento che l'art. 4 del d.lgs. n. 23/2011 ha rimesso all'esclusivo scrutinio della Regione (con l'eccezione delle Unioni di Comuni e dei capoluoghi di Provincia per i quali vige una sorta di presunzione di legge), con una disposizione da ritenersi ragionevole e volta a conservare la corrispondenza tra carattere prevalentemente turistico del soggiorno dei non residenti e imposizione tributaria” (T.A.R. Molise, 25/07/2014, n. 4779). Né risulta sufficiente “l’inclusione nell’elenco dei comuni ad economia prevalentemente turistica, adottato ai sensi della l. reg. n. 28/1999, di recepimento del d.lgs. n. 114/1998”, la cui finalità è diversa da quella di cui al del d.lgs. n. 23/2011, “al quale si riconnette un potere impositivo che, per il suo corretto esercizio, richiede il rigoroso rispetto di tutti i passaggi procedurali dal medesimo stabiliti”. GB
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Inserito in data 08/05/2017 TAR CAMPANIA - NAPOLI, SEZ. VIII, 5 maggio 2017, n. 2420 Procura alle liti nel PAT: ammissibile anche se apposta a margine La procura ad litem può essere ritualmente apposta a margine dell’atto introduttivo del giudizio. Tale assunto si desume dal tenore dell’art. 8, comma 3, DPCM 40/2016 che, nel rendere alcune precisazioni in ordine alla procura alle liti, non ne esclude l’apposizione a margine. Ai sensi del predetto articolo, infatti, “La procura alle liti si considera apposta in calce all'atto cui si riferisce: a) quando è rilasciata su documento informatico separato depositato con modalità telematiche unitamente all'atto a cui si riferisce; b) quando è rilasciata su foglio separato del quale è estratta copia informatica, anche per immagine, depositato con modalità telematiche unitamente all'atto a cui si riferisce. GB
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Inserito in data 06/05/2017 TAR CAMPANIA - NAPOLI, SEZ. III - 3 maggio 2017, n. 2358 Sull’obbligo legale inderogabile di indicare gli oneri di sicurezza aziendali La questione posta al vaglio del Collegio campano involge principalmente la legittimità dell’esclusione da una gara di un operatore per “insussistenza della dichiarazione relativa agli oneri di sicurezza aziendali interni, in base a quanto dispone l’art. 95, comma 10, del d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50”, a tenore del quale: <<Nell'offerta economica l'operatore deve indicare i propri costi aziendali concernenti l'adempimento delle disposizioni in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro>>. Invero, è acclarato che “la nuova disciplina fissa un obbligo legale inderogabile a carico dei partecipanti alla gara pubblica, cosicché resta ininfluente che gli atti della procedura non dispongano espressamente al riguardo, operando piuttosto il meccanismo dell’eterointegrazione con l’obbligo discendente dalla norma primaria”. Né, d’altra parte, può ammettersi il soccorso istruttorio (previsto dall’art. 83, nono comma, del d.lgs. n. 50 del 2016 per <<la mancanza, l'incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale degli elementi e del documento di gara unico europeo di cui all'articolo 85, con esclusione di quelle afferenti all'offerta tecnica ed economica>>), “in quanto gli oneri di sicurezza interni attengono direttamente all’offerta economica e, per la loro finalità di tutela della sicurezza del lavoro, ne costituiscono elemento essenziale” (cfr. T.A.R. Campania, sez. I di Salerno, 5/1/2017 n. 34 e T.A.R. Veneto, sez. I, 21/2/2017 n. 182). In particolare, le argomentazioni ex adverso addotte vanno disattese, fondandosi su un orientamento maturato nel regime previgente, in base alla sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 19 del 2016 (orientamento di recente ribadito, ma pur tuttavia con esplicito riferimento alle “gare bandite anteriormente all'entrata in vigore del c.d. nuovo Codice dei contratti pubblici”: Cons. Stato, sez. V, 7/3/2017 n. 1073; conf., Cons. Stato, sez. V, 7/11/2016 n. 4646). Neppure rileva “il richiamo alle ordinanze C.G.U.E. (Sesta Sezione) del 10/11/2016, trattandosi anche in tal caso di decisione emessa nei riguardi della normativa previgente ed in relazione alla Direttiva abrogata 2004/18 (come esplicitato ai punti 21, 22 e 23 dell’ordinanza nella causa C-697/15; idem per le ulteriori ordinanze CGUE, in differenti punti)”. Difatti, in relazione al regime antecedente, “la Corte di Giustizia ha ritenuto contrastante con il principio della parità di trattamento e con l’obbligo di trasparenza l’esclusione per omessa separata indicazione nell’offerta dei costi aziendali, la quale sia frutto di un’interpretazione e non risulti espressamente, oltre che dai documenti di gara, “dalla normativa nazionale” (cfr. punto 34 ord. cit.)”. Viceversa, con l’entrata in vigore del d.lgs. n. 50 del 2016 è superata ogni incertezza interpretativa, nel senso sopra illustrato dell’inderogabilità dell’obbligo derivante dall’art. 95, comma 10 (cfr. T.A.R. Campania, sez. I di Salerno, 6/7/2016 n. 1604: “tale disposizione configura un preciso ed ineludibile obbligo legale in sede di predisposizione dell’offerta economica”; cfr., altresì, T.A.R. Veneto, sez. I, 21/2/2017 n. 182, cit.: “in presenza di una così esplicita disposizione di legge, è del tutto irrilevante che né la lex specialis di gara (bando e disciplinare), né il modello di offerta economica predisposto dalla stazione appaltante avessero previsto la dichiarazione separata di tali oneri, discendendo direttamente ed inequivocabilmente dalla legge l’obbligo (rectius, l’onere) di effettuare la dichiarazione stessa: il ché – occorre aggiungere – è proprio il quid novi contenuto nella disciplina dettata sul punto dall’art. 95, comma 10, cit., che ha inteso porre fine, una volta per tutte, ai ben noti contrasti insorti nel preesistente assetto normativo”; (…) né, va infine rimarcato, emergono allo stato profili di incompatibilità fra le disposizioni di diritto interno che impongono, ora in modo tassativo, l’indicazione degli oneri in questione ed il pertinente paradigma normativo eurounitario (C.d.S., Sez. V, ord. n. 5582/2016, cit.)”). EF
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Inserito in data 05/05/2017 TAR SARDEGNA - CAGLIARI, SEZ. I - 3 maggio 2017, n. 281 L’amicizia su Facebook con gli esaminatori non è causa di incompatibilità “Nei pubblici concorsi i componenti delle commissioni esaminatrici hanno l’obbligo di astenersi solo ed esclusivamente se ricorre una delle condizioni tassativamente previste dall’art. 51 del c.p.c., senza che le cause di incompatibilità previste dalla predetta norma, proprio per detto motivo, possano essere oggetto di estensione analogica (Cons. Stato, sez. V, 24 luglio 2014, n. 3956, T.a.r. Sardegna, Cagliari, Sez. I, 28 dicembre 2016, n. 986)”. Le c.d. “amicizie su Facebook”non concretizzano una delle cause di incompatibilità di cui all’art. 51 c.p.c., risultando “del tutto irrilevanti”, atteso che “lo stesso funzionamento del social network consente di entrare in contatto con persone che nella vita quotidiana sono del tutto sconosciute”. “Come è noto, Facebook implica una possibile diffusione del materiale pubblicato sul profilo dell'utente a un numero imprecisato e non prevedibile di soggetti se l’utente stesso non provvede ad effettuare restrizioni che peraltro il social network consente. “ “Né si può pretendere che gli utenti (escluso un utilizzo sconveniente del mezzo) debbano controllare ogni possibile controindicazione del social network posto che esso, per come si è evoluto, costituisce ormai una modalità di comunicazione difficilmente classificabile.” Allo stesso modo, le foto “scaricate” dal social network “non valgono a provare la “commensalità abituale” prevista dall’art. 51 c.p.c., intesa come non occasionalità della stessa. La suddetta prova dell’abitualità “non può essere certo fornita mediante Facebook”. GB
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Inserito in data 04/05/2017 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 27 aprile 2017, n. 1960 I “claims” dalla veridicità non verificabile, integrano pratiche di pubblicità ingannevole Con la sentenza in epigrafe, la Sesta Sezione accoglie l’appello dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, avente ad oggetto pratiche di pubblicità ingannevole poste in essere da una nota multinazionale nel campo delle acque minerali. Nella specie, la scorrettezza lamentata - che si appuntava sull’apoditticità dei messaggi della campagna pubblicitaria, con la quale la società affermava il contenimento nel consumo di plastica delle bottiglie del 30% e, dunque, di energia nella produzione, pari a 16.000 ettari di nuovo bosco – si estrinsecava nell’uso da parte del professionista di “claims” pubblicitari diffusi, in cui la compatibilità ambientale delle bottiglie veniva prospettata ai consumatori attraverso “vanti prestazionali specifici e quantificati”. Si accertava, segnatamente, “la scorrettezza dei messaggi, per ciò che riguarda le affermazioni rivolte a enfatizzare la compatibilità ambientale della nuova linea di bottiglie utilizzate per la commercializzazione dell’acqua minerale, in relazione a una caratteristica percepita dai consumatori come fondamentale nelle proprie scelte di acquisto, in quanto, nei termini vantati, sfornite di qualsiasi evidenza documentale attendibile idonea a renderle verificabili, come previsto ai sensi degli articoli 20 e 21, comma 1, lett. b) del codice del consumo”. Dinanzi a tali asserzioni, l’Autorità avviava il procedimento, rilevando il possibile contrasto dei messaggi descritti con gli articoli 20 e 21, lett. b), del codice del consumo, con riferimento, in particolare, alla possibile ingannevolezza dei messaggi rispetto ai risultati ottenuti dal professionista nella riduzione del peso delle bottiglie utilizzate e al conseguente risparmio energetico. Contestualmente, venivano richieste alla multinazionale informazioni e documentazione giustificative, idonee a comprovare le affermazioni contenute nei messaggi, le quali – emergeva nel corso dell’istruttoria – venivano acquisite da quest’ultima, con l’avvio del procedimento stesso. Così, l’Autorità vietava la diffusione ulteriore dei messaggi pubblicitari, comminando alla società una sanzione amministrativa pecuniaria di 70.000 euro. Ripercorrendo la tesi difensiva dell’Autorità, il Supremo Consesso richiama, in via preliminare, gli orientamenti del 25.5.2016 della Commissione europea, per l'attuazione/applicazione della direttiva 2005/29/CE, relativa alle pratiche commerciali sleali poste in essere dagli imprenditori nei confronti dei consumatori. In particolare, siffatti orientamenti chiariscono che, quando le asserzioni non sono veritiere o non possono essere altrimenti verificate, la pratica è di frequente definita «greenwashing», ovvero appropriazione indebita di virtù ambientaliste finalizzata alla creazione di un'immagine "verde". L’obiettivo è quello di creare una base giuridica, sintetizzabile in due principi essenziali: a) “i professionisti devono presentare le loro dichiarazioni ecologiche in modo chiaro, specifico, accurato e inequivocabile, al fine di assicurare che i consumatori non siano indotti in errore” (ai sensi dell’art. 6 e 7 della Direttiva); b) “i professionisti devono disporre di prove a sostegno delle loro dichiarazioni ed essere pronti a fornirle alle autorità di vigilanza competenti in modo comprensibile qualora la dichiarazione sia contestata” (ai sensi dell’art. 12 della Direttiva). A tal fine, è necessario che le asserzioni ambientali siano comprovate. Ad avviso della Sesta Sezione, la questione cruciale s’incentra nel vagliare la complessiva verificabilità e attendibilità della documentazione presentata dal professionista su richiesta dell’autorità, a fronte del carattere assertivo e della precisione quantitativa con cui, nel messaggio stampa, si esprimevano i vanti ambientali della bottiglia “eco friendly”.
Non emergendo nel caso di specie, alcuno studio del professionista, idoneo a dimostrare e/o certificare la veridicità e attendibilità delle affermazioni circa le caratteristiche dei prodotti pubblicizzati, il Collegio ritiene che i suddetti “claims” integrino una pratica commerciale da ritenersi scorretta, ai sensi del Codice del Consumo. DU
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Inserito in data 03/05/2017 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 27 aprile 2017, n. 1955 La precedente risoluzione contrattuale non definitiva non comporta esclusione dalla gara Nella decisione emarginata in epigrafe il Collegio chiarisce che l’art. 80 comma 5 lett. c) del nuovo codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 50/2016), “consente alle stazioni appaltanti di escludere dalle procedure di affidamento le società partecipanti che abbiano commesso gravi illeciti professionali tali da renderne dubbia la loro integrità o affidabilità, tra i quali, le significative carenze nella esecuzione dei lavori di un precedente appalto o concessione che, dunque, ne abbiano causato la risoluzione anticipata”. Prosegue il Collegio, “è inoltre necessario che l’illecito professionale risulti confermato all’esito di un giudizio già definito” e non pendente. Situazione non riscontrabile nel caso di specie in quanto la risoluzione contrattuale precedentemente pronunciata da altra Stazione appaltante risulta essere “impugnata in sede civile ed in sede amministrativa”, cosicché è pacifico ritenere che il giudizio avente ad oggetto la risoluzione anticipata del rapporto non sia ancora giunto a definizione. Sostanzialmente il Collegio mette in rilievo che la disposizione predetta si applica soltanto qualora gli illeciti professionali giustificanti una risoluzione anticipata non siano contestati in giudizio dall’appaltatore privato, oppure qualora siano stati giudizialmente accertati. Situazione non riscontrabile nel caso posto alla attenzione del Collegio proprio perché difetta il presupposto della acquiescenza e/o della definitività in quanto la esclusione è stata prontamente impugnata dalla società esclusa innanzi alla Autorità, sia amministrativa che civile. In particolare il Collegio specifica che “sebbene la elencazione dei gravi illeciti professionali contenuta nella norma predetta non sia tassativa, ma esemplificativa”, è altresì vero “l’elenco esemplificativo contenuto in essa si riferisca espressamente a significative carenze nell’esecuzione di un precedente contratto di appalto o di concessione che ne hanno causato la risoluzione anticipata, non contestata in giudizio, ovvero confermata all’esito di un giudizio, ovvero hanno dato luogo ad una condanna al risarcimento del danno o ad altre sanzioni”. La Sezione giunge alla predetta conclusione in base ad una interpretazione letterale (ex art. 12 delle preleggi) della disposizione che vuole che al provvedimento di risoluzione “sia stata prestata acquiescenza o che lo stesso sia stato confermato in sede giurisdizionale”. PC
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Inserito in data 02/05/2017 TAR LAZIO - ROMA, SEZ. III, 28 aprile 2017, n. 5038 Effetti della translatio iudicii sulla domanda “riproposta” Il ricorso giunge al Collegio romano a seguito della translatio iudicii operata in applicazione dell’art. 11 c.p.a., dopo che l’AGO aveva declinato la giurisdizione. E’ vero che, in quella sede, “il ricorrente aveva proposto –in consonanza con i poteri riconosciuti alla giurisdizione ordinaria cui egli si era rivolto- una domanda che non comprendeva un petitum di annullamento degli atti della procedura concorsuale, bensì una domanda di accertamento del diritto alla superiore qualifica ed al risarcimento dei danni” conseguenti al mancato riconoscimento da parte dell’Amministrazione interessata. In particolare, occorre considerare che <<(come affermato dal Giudice della giurisdizione: cfr. Cassazione civile sez. lav. 22 luglio 2016 n. 15223), l'unicità del giudizio, dal quale discende la salvezza degli effetti della domanda originaria, riconosciuta dall'art. 59 della l. n. 69 del 2009, sussiste anche quando la domanda non venga "riassunta", bensì "riproposta", con le modifiche rese necessarie dalla diversità di rito e di poteri delle diverse giurisdizioni in rilievo, sicché al momento della prosecuzione la parte può anche formulare una nuova e distinta domanda, connessa con quella originariamente proposta, dovendosi riconoscere all'atto di prosecuzione anche natura di atto introduttivo di un nuovo giudizio limitatamente al diverso "petitum" ed alla diversa "causa petendi", senza che, rispetto ad esso, operino gli effetti che discendono dalla "translatio", ferma restando la maturazione delle sole decadenze sostanziali e non anche di quelle endoprocessuali, suscettibili di operare soltanto in relazione al rito applicabile dinanzi al giudice "ad quem">>. Nel merito, i Giudici escludono la violazione del principio di non discriminazione tra lavoratori a tempo determinato e a tempo indeterminato, allorquando, per tale voce, la P.A. abbia riconosciuto il servizio prestato dal dipendente ceduto per mobilità. EF |
Inserito in data 29/04/2017 TAR LAZIO - ROMA, SEZ. II - ORDINANZA CAUTELARE 27 aprile 2017, n. 2012 Sospesa ordinanza contingibile e urgente che vieta foto a pagamento con i centurioni Nella pronuncia in esame il Tar sospende in via cautelare l’efficacia dell’ordinanza contingibile ed urgente con la quale “è stato disposto il divieto in un’ampia zona, costituente praticamente tutto il Centro storico di Roma, di qualsiasi attività che prevede la disponibilità di essere ritratto come soggetto di abbigliamento storico, in fotografie o filmati, dietro corrispettivo in denaro". Il Tar, rilevando che “le ordinanze contingibili ed urgenti rappresentano il rimedio approntato dall'ordinamento per far fronte a situazioni di emergenza impreviste”, non ravvisa la sussistenza di tale presupposto nel caso di specie. Le deroghe alla normativa primaria, da parte delle autorità amministrative munite di potere di ordinanza sono consentite, infatti, solo se «temporalmente delimitate» e, comunque, nei limiti della «concreta situazione di fatto che si tratta di fronteggiare» (Corte Cost., sentenza n. 115 del 2011). In particolare, “gli episodi richiamati nelle relazioni depositate in atti, non appaiono di entità tale da configurare una vera e propria emergenza, non altrimenti fronteggiabile (cfr. Cons. St., sez. III, sentenza n. 2697 del 29.5.2015) e non giustificano, pertanto, il divieto indiscriminato e più volte reiterato, di svolgere un’attività lecita e comunque avente caratteristiche analoghe a quella dei c.d. artisti di strada, oggetto di specifica regolamentazione da parte di Roma Capitale”.
Peraltro, non risulta neppure avviata da parte del comune la regolamentazione dell’attività svolta dai c.d. centurioni. GB
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Inserito in data 28/04/2017 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 24 aprile 2017, n. 1894 La dismissione di partecipazioni pubbliche costituisce iure privatorum La vicenda oggetto della pronuncia in epigrafe, prende le mosse dalla declinazione di giurisdizione del giudice amministrativo, su una controversia avente ad oggetto la procedura ad evidenza pubblica per la cessione delle azioni di una società per azioni e il collegato diritto di prelazione. Nella specie, con ricorso al T.A.R., s’impugnavano gli atti, con i quali l’amministrazione comunale rendeva nota l’impossibilità di procedere all’aggiudicazione definitiva - e alla stipula del contratto - per effetto dell’esercizio del diritto di prelazione da parte della controinteressata, secondo quanto previsto dallo statuto della società, nonché il bando di gara, nella parte in cui subordinava il perfezionamento dell’aggiudicazione definitiva - e la stipula del contratto - al mancato esercizio del diritto di prelazione da parte degli altri soci. Ad avviso del Supremo Consesso, nel caso in esame, ad esser contestato non è tanto l’esito della gara e le sue modalità di svolgimento, ma il valido esercizio da parte del socio privato del diritto di prelazione, riconosciuto da una clausola dello statuto societario. L’oggetto principale della lite è, quindi, la validità di un atto negoziale (la clausola statutaria che prevede il diritto di prelazione) e il conseguente legittimo esercizio di un diritto soggettivo (il diritto di prelazione), il che conferma la sussistenza della giurisdizione ordinaria. Richiamato il criterio generale di riparto di giurisdizione in materia di società a partecipazione pubbliche, sancito dalle Sezioni Unite del 20 settembre 2013, la Quinta Sezione conferma quanto sostenuto dal Giudice di primo grado. Secondo la suddetta pronuncia: “In tema di riparto di giurisdizione, spettano alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie aventi ad oggetto l'attività unilaterale prodromica alla vicenda societaria, considerata dal legislatore di natura pubblicistica, con la quale un ente pubblico delibera di costituire una società o di parteciparvi o di procedere ad un atto modificativo o estintivo della società medesima o di interferire, nei casi previsti dalla legge, nella vita della stessa. Sono, invece, attribuite alla giurisdizione ordinaria le controversie aventi ad oggetto gli atti societari a valle della scelta di fondo di utilizzo del modello societario, i quali restano interamente soggetti alle regole del diritto commerciale proprie del modello recepito. Ne consegue che appartengono alla giurisdizione ordinaria le domande relative alla validità ed efficacia della costituzione della società mista pubblico-privata, nonché all'acquisizione, da parte del socio privato minoritario, del quarantanove per cento delle azioni della società stessa, mentre appartengono al giudice amministrativo le controversie aventi ad oggetto la procedura di selezione del socio privato, la conseguente aggiudicazione, nonché quella relativa all'affidamento della gestione del servizio” (così nella sent. n. 21588). La Quinta sezione dichiara, dunque, che l’applicazione di tali principi alla fattispecie in esame conduce al riconoscimento della giurisdizione ordinaria, poiché la scelta dell’ente pubblico di dismettere l’intero pacchetto pubblico costituisce, invero, “scelta a valle” del modello societario, anche considerato che, per effetto di essa, il soggetto pubblico si ritrae completamente dalla vicenda, lasciandovi solo soggetti privati, per cui non si pongono problemi di selezione pubblicistica di un socio destinato a usufruire della collaborazione privilegiata con il soggetto pubblico, come accade, invece, nella fase iniziale di scelta del partner privato. DU
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Inserito in data 27/04/2017 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, ORDINANZA CAUTELARE 21 aprile 2017, n. 1662 Legittime le vaccinazioni obbligatorie per l’accesso ai servizi educativi comunali Con Ordinanza cautelare i Giudici della terza Sezione si pronunciano in tema di legittimità o meno delle vaccinazioni obbligatorie, in special modo per l’accesso ai servizi educativi comunali. Il Collegio, infatti, respinge l’istanza cautelare di sospensione dell’efficacia di una pronuncia con cui il Tar friulano aveva rigettato le rimostranze dei genitori, odierni appellanti, avverso la statuita obbligatorietà. I Giudici del gravame, anticipando in parte le ragioni della prossima pronuncia, sottolineano come la tutela della salute pubblica, e in particolare della comunità in età prescolare, assume un valore dirimente, che prevale sulle prerogative sottese alla responsabilità genitoriale. Peraltro, insiste il Collegio, la prescrizione di vaccinazioni obbligatorie per l’accesso ai servizi educativi comunali, oltre ad essere coerente con il sistema normativo generale in materia sanitaria e con le esigenze di profilassi imposte dai cambiamenti in atto (minore copertura vaccinale in Europa e aumento dell’esposizione al contatto con soggetti provenienti da Paesi in cui anche malattie debellate in Europa sono ancora presenti), non si pone in conflitto con i principi di precauzione e proporzionalità – come addotto, invece, dagli appellanti. In particolare, a dispetto del timore genitoriale che la vaccinazione possa essere nociva alla salute umana, si contrappone la valutazione – avallata dall’assenza di prove contrarie – che un tale atteggiamento preventivo, quale quello imposto ed oggi gravato, sia funzionale all’età prescolare e proporzionale all’importanza di tutelare la salute delle generazioni future. In ragione di ciò, con un arresto netto e deciso, i Giudici della terza Sezione respingono la domanda cautelare. CC
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Inserito in data 26/04/2017 TAR CAMPANIA - NAPOLI, SEZ. I, ORDINANZA CAUTELARE 19 aprile 2017, n. 581 Prova della notifica del ricorso a mezzo p.e.c. – insufficienza della scansione per immagini Nella ordinanza emarginata in epigrafe, il Collegio si pronuncia in merito alla prova in giudizio della notifica di un ricorso a mezzo di posta elettronica certificata ( c.d. p.e.c.). A comprova dell’avvenuta notifica, parte ricorrente deposita la scansione per immagini della ricevuta di accettazione e della ricevuta di avvenuta consegna dell’impugnazione trasmessa via p.e.c. alla Amministrazione (peraltro non costituitasi in giudizio). Partendo dal dato normativo (art. 14 Decreto Presidente Consiglio dei Ministri n. 40 del 2016), il Collegio avanza dubbi in merito alla rituale instaurazione del contraddittorio in quanto la norma stabilisce che “ai fini della dimostrazione della regolare instaurazione del contraddittorio, non è sufficiente l’inserimento nel fascicolo informatico della mera scansione per immagini della ricevuta di avvenuta consegna che non contenga i documenti notificati via p.e.c. in formato cliccabile” giacché “una tale modalità di notifica non consente al Collegio di verificare quale atto sia stato concretamente notificato alla controparte”. Detto altrimenti, il mero deposito della scansione per immagini della ricevuta di accettazione e della ricevuta di avvenuta consegna non è sufficiente al fine di una corretta instaurazione del contraddittorio. Pertanto, il Collegio invita la ricorrente a regolarizzare il contraddittorio mediante comprova della ritualità della notifica ai sensi dell’art. 14 sopra richiamato “mediante trasmissione informatica delle ricevute di accettazione e di avvenuta consegna con allegati i documenti notificati via p.e.c.”. Peraltro, aggiunge il Collegio, “la disposta regolarizzazione non dà luogo ad elusione dei termini decadenziali, controvertendosi in materia di diritti soggettivi rientranti nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai sensi dell’art. 133, lett. e), n. 2) del c.p.a.”. PC
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Inserito in data 24/04/2017 TAR TOSCANA - FIRENZE, SEZ. I, 18 aprile 2017, n. 582 Sulla decorrenza del termine per impugnare l’ammissione alla gara Con ricorso incidentale si contesta l’ammissione alla gara del RTI ricorrente di cui viene rilevata l’assenza di alcuni requisiti di ammissione. A tal uopo, l’art. 120, co. 2 bis, c.p.a. dispone che “Il provvedimento che determina le esclusioni dalla procedura di affidamento e le ammissioni ad essa all'esito della valutazione dei requisiti soggettivi, economico-finanziari e tecnico-professionali va impugnato nel termine di trenta giorni, decorrente dalla sua pubblicazione sul profilo del committente della stazione appaltante” e “l'omessa impugnazione preclude la facoltà di far valere l’illegittimità derivata dei successivi atti delle procedure di affidamento, anche con ricorso incidentale”. Invero, la “norma in parola non pone dubbi interpretativi conseguendone l’irricevibilità del ricorso proposto avverso l’aggiudicazione nel quale si sollevano censure contro il provvedimento di ammissione dell’aggiudicatario che, come tali, avrebbero dovuto essere tempestivamente proposte entro il termine di cui all’art. 120, comma 2 bis c.p.a.” (T.A.R. Campania, sez. VIII, 2 febbraio 2017, n. 696, T.A.R. Lazio, sez. I, 4 aprile 2017, n. 4190). Alla luce di quanto suddetto, deve confutarsi la tesi di parte ricorrente “secondo cui il ricorso sarebbe tempestivo non avendo la stazione appaltante provveduto alla pubblicazione del provvedimento di ammissione alla gara dei concorrenti con le modalità previste dall’art. 29, d.lgs. n. 50/2016 sul profilo del committente, nella sezione "Amministrazione trasparente", con l'applicazione delle disposizioni di cui al d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33”. D’altra parte, anche a prescindere dalla pubblicazione del provvedimento de quo con le modalità di cui al citato art. 29 “non può esservi dubbio che parte ricorrente ne fosse a conoscenza, dal momento che la stazione appaltante aveva provveduto ad informarla ...con comunicazione e-mail, allegando il verbale della seduta pubblica appena conclusa recante i punteggi conseguiti da ciascun operatore economico e dunque anche l’ammissione alla gara degli RTP partecipanti”. In conclusione, deve ritenersi che “la vigenza dell’art. 29, d.lgs. n. 50/2016 non reca motivi per discostarsi, anche nella materia della contrattualistica pubblica, dal consolidato principio per cui in difetto della formale comunicazione dell'atto e nel caso in cui il ricorrente viene ad aver contezza dell'atto prima della sua comunicazione formale, il termine di impugnazione decorre dal momento dell'avvenuta conoscenza dell'atto purché siano percepibili quei profili che ne rendono evidente l'immediata e concreta lesività per la sfera giuridica dell'interessato” (tra le tante, Cons. Stato, sez. III, 17 marzo 2017 n. 1212; id., sez. IV, 19 agosto 2016 n. 3645). EF
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Inserito in data 21/04/2017 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL'ADUNANZA PLENARIA - 19 aprile 2017, n. 1830 Obbligo di motivazione annullamento d’ufficio concessione edilizia in sanatoria Nell’ordinanza in esame, la Quarta Sezione del Consiglio di Stato deferisce all’Adunanza plenaria la questione relativa alla sussistenza di un obbligo di motivazione dell’annullamento d’ufficio della concessione edilizia in sanatoria, qualora tale annullamento sia stato previsto a notevole distanza temporale dal suo rilascio. Il Collegio motiva l’opportunità del suddetto deferimento a causa di un irrisolto contrasto giurisprudenziale in materia. Secondo un orientamento più recente, il potere di annullamento “ha un presupposto rigido (l’illegittimità dell’atto da annullare) e due presupposti riferiti a concetti indeterminati, affidati all’apprezzamento discrezionale dell’amministrazione (la ragionevolezza del termine di adozione dell’atto; la sussistenza dell’interesse pubblico alla sua rimozione unitamente alla considerazione dell’interesse dei destinatari). Pertanto, la rimozione dell’atto presuppone “una necessaria valutazione dell’interesse pubblico in concreto in rapporto agli interessi dei destinatari (e dei controinteressati) degli originari provvedimenti, in un tempo ragionevole”. Esigenza ancora più sentita in presenza di un provvedimento in materia edilizia “ destinato ad esaurirsi con l’adozione dell’atto permissivo, dove assume maggiore rilevanza l’interesse dei privati destinatari dell’atto ampliativo e minore rilevanza quello pubblico all’eliminazione di effetti che si sono prodotti in via definitiva. Con l’ulteriore corollario che l’interesse pubblico alla rimozione attuale dell’atto non può coincidere con l’esigenza del mero ripristino della legalità violata e deve essere integrato da ragioni differenti.” Secondo l’orientamento maggioritario, invece, non è necessaria una valutazione dell’interesse pubblico in concreto, in quanto “il provvedimento di annullamento di concessione edilizia illegittima è da ritenersi in re ipsa correlato alla necessità di curare l’interesse pubblico concreto ed attuale al ripristino della legalità violata, atteso che il rilascio del titolo edilizio comporta la sussistenza di una permanente situazione contra legem e di conseguenza ingenera nell’amministrazione il potere-dovere di annullare in ogni tempo la concessione illegittimamente assentita (CdS sez. IV, n. 3660 del 2016; CdS, sez. V, n. 5691 del 2012)”. Rilevato il suddetto contrasto la Sezione rimette all’Adunanza Plenaria la seguente questione: “Se, nella vigenza dell’art. 21- nonies, come introdotto dalla legge n. 15 del 2005, l’annullamento di un provvedimento amministrativo illegittimo, sub specie di concessione in sanatoria, intervenuta ad una distanza temporale considerevole dal provvedimento annullato, debba o meno essere motivata in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico valutato in concreto in correlazione ai contrapposti interessi dei privati destinatari del provvedimento ampliativo e agli eventuali interessi dei controinteressati, indipendentemente dalla circostanza che il comportamento dei privati possa aver determinato o reso possibile il provvedimento illegittimo, anche in considerazione della valenza – sia pure solo a fini interpretativi – della ulteriore novella apportata al citato articolo, la quale appare richiedere tale valutazione comparativa anche per il provvedimento emesso nel termine di 18 mesi, individuato come ragionevole, e appare consentire un legittimo provvedimento di annullamento successivo solo nel caso di false rappresentazioni accertate con sentenza penale passata in giudicato”. GB
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Inserito in data 20/04/2017 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 19 aprile 2017, n. 1828 Sul silenzio-assenso in materia edilizia e la cedevolezza delle norme regionali Nella specie, la controversia oggetto della pronuncia segnalata verte intorno al diniego del provvedimento di rilascio del permesso di costruire reso dal comune resistente nei confronti del privato appellante. Il Collegio fornisce un interessante excursus normativo sul silenzio-assenso in materia edilizia in raccordo alle norme regionali, talora confliggenti con le norme di principio statali anche nei casi di competenza legislativa concorrente. Ad avviso del Collegio, l’esistenza di una legge regionale che, ai fini specifici del rilancio economico attraverso la riqualificazione e la trasformazione urbanistica ed edilizia (si tratta della legge n. 19 del 2009) ammetta ampliamenti volumetrici di edifici residenziali, va intesa come “disciplina derogatoria e temporanea, di stretta interpretazione e senza possibilità di applicazioni estensive, proprio al fine di evitare lo stravolgimento dell’ordinata pianificazione del territorio” (così anche CdS., sez. IV, n. 3805 del 2016; sez. VI, 21 marzo 2016 n. 1153). In materia edilizia, l’art. 20, co. 8 del DPR 380/2001 (“Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia”), in relazione al silenzio-assenso, prevede che «… decorso inutilmente il termine per l'adozione del provvedimento conclusivo, ove il dirigente… non abbia opposto motivato diniego, sulla domanda di permesso di costruire si intende formato il silenzio - assenso…», tranne per i casi in cui sussistano vincoli idrogeologici, ambientali, paesaggistici o culturali, Sebbene siffatta norma rappresenti un principio generale in materia edilizia, il Collegio ritiene “non sicura la sua applicabilità al caso in esame”. Prendendo le mosse dall'art. 20 della l. 7 agosto 1990 n. 241, emerge come - fuori dai casi di SCIA - «…nei procedimenti ad istanza di parte per il rilascio di provvedimenti amministrativi, il silenzio dell'amministrazione competente equivale a provvedimento di accoglimento della domanda, senza necessità di ulteriori istanze o diffide, se la medesima… non comunica all'interessato, nel termine di cui all'art. 2, commi 2 o 3, il provvedimento di diniego…» o non indice una conferenza di servizi, ferma in ogni caso la possibilità, per la P.A. competente, di assumere determinazioni in autotutela, ai sensi dei successivi artt. 21-quinquies e 21-nonies. Tuttavia, la giurisprudenza costituzionale e amministrativa declina all’unisono l’applicabilità dell'istituto al settore edilizio come la regola, il quale, quindi, non può dirsi in sé in contrasto coi principi generali, ove esso riguardi casi di attività vincolata (cfr. C. cost., 5 maggio 1994 n. 169; id., 27 luglio 1995 n. 408). Invero, pure il permesso di costruire, conseguendo la verifica di conformità urbanistico - edilizia del progetto presentato con le norme in materia e con quanto previsto dagli atti di pianificazione, è un provvedimento tendenzialmente vincolato (cfr., da ultimo, Cons. St., sez. IV, 5 settembre 2016 n. 5805). Tuttavia, il decorso del tempo, senza che la P.A. abbia provveduto, rende sì possibile l'esistenza di un provvedimento implicito di accoglimento dell'istanza del privato, però a condizione della «… piena conformità delle opere in materia urbanistica…» (cfr. Sez. IV, n. 3805 del 2016). Chiarisce il Supremo Consesso Amministrativo che, affinché il relativo assetto si possa dire legittimo, “occorre che sussistano tutte le condizioni normativamente previste per la sua emanazione, non potendosi ottenere per silentium, quel che non sarebbe altrimenti possibile mediante l'esercizio espresso del potere da parte della P.A, neppure quando sia riconosciuto, come nella specie, un incentivo o un premio di cubatura se poi il relativo risultato confligga con altre e parimenti stringenti norme.” (cfr. Cons. St., sez. IV, n. 3805 del 2016 cit.; sez. V, 27 giugno 2006 n. 4114; 20 marzo 2007 n. 1339; 12 marzo 2012 n. 1364). Pertanto, in assenza dei rigorosi presupposti per la formazione del silenzio-assenso di cui al ripetuto art. 20 del DPR 380/2001, il Collegio esclude che si possa applicare nella specie l’invocata regola di cedevolezza delle norme regionali non conformi con le norme di principio statali, ma continuano ad applicarsi quelle che in ciascuna Regione disciplinano il superamento dell’inerzia procedimentale. DU
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Inserito in data 19/04/2017 TAR TOSCANA - FIRENZE, SEZ. I, 18 aprile 2017, n. 580 Affidamento del servizio di pulizia di specchi acquei di porti: requisiti Il Collegio toscano interviene con un arresto interessante che, seppur in parte, incide sui ben noti principi comunitari di libertà di stabilimento e di libera circolazione dei beni – dandone un’applicazione più circoscritta. In particolare, pronunciandosi in seno ad una gara per l’affidamento del servizio di pulizia di specchi acquei di porti, i Giudici fiorentini richiedono, quale requisito per prendervi parte, l’iscrizione del mezzo nautico al relativo registro nazionale – ex art. 146 Cod. della Navigazione. Infatti, non si valuta come sufficiente l’iscrizione del mezzo concorrente ad altri registri di altri Stati dell’Unione europea – come nel caso in esame. E, peraltro senza che ciò collida, per l’appunto, con i principi comunitari di libertà di stabilimento e di libera circolazione dei beni, si ravvede nella richiesta iscrizione in albo nazionale un maggior potere di controllo da parte dell’Amministrazione italiana. Il Tribunale, richiamando i principi già espressi dal Tar Liguria, n. 1569/07, secondo cui “il diritto internazionale pretende che il collegamento fra nave e Stato di bandiera sia non solo formale, ma effettivo (c.d. genuine link), nel senso che lo Stato deve essere in grado di esercitare il controllo effettivo sulla nave”, riconferma anche oggi tale necessità. Solo in tal modo, infatti, asserisce il Collegio, è possibile che lo Stato eserciti un controllo pieno – tanto sul mezzo, la composizione del medesimo e la relativa, regolare partecipazione ad un’eventuale gara d’appalto – quale quella qui scrutinata. In ragione di ciò, conclude il Collegio, non è arbitraria, né viziata da eccesso di potere una disposizione del bando – del tenore di quella gravata in questa sede – che prevede la necessaria iscrizione ad un registro nazionale. Si tratta, semmai, di una previsione che risponde alla finalità pubblica di rendere effettiva la possibilità di controllo dell’Amministrazione sulla nave dell’aggiudicataria. CC
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Inserito in data 18/04/2017 TAR SARDEGNA - CAGLIARI, SEZ. II, 12 aprile 2017, n. 255 Locazione immobili comunali a prezzo simbolico: annullamento d’ufficio Nella sentenza emarginata in epigrafe, riguardante l’annullamento d’ufficio di una determina dirigenziale quantificante il canone locatizio di un immobile comunale, il Tribunale regionale chiarisce che “una comunicazione d’avvio del procedimento è solo una comunicazione d’avvio, non deve già contenere i motivi del provvedimento finale”, ciò in quanto: la motivazione per la quale l’Amministrazione ha inteso avviare il procedimento per l’annullamento d’ufficio, non è elemento essenziale previsto dall’art. 8 L. 241 del 1990. Per di più, si afferma che “chiedere una adeguata motivazione già nella comunicazione d’avvio significa trasformarla in un provvedimento anticipato, cosa che è senz’altro fuori dalla prospettiva del legislatore della l. 241/90” (cfr. TAR Lombardia, Brescia, n. 314 del 18 febbraio 2011). Non viene condiviso neanche il secondo motivo di ricorso con il quale la ricorrente lamenta la violazione dell’art. 21 nonies della legge n. 241/1990 in quanto il provvedimento di annullamento in autotutela non sarebbe intervenuto, come richiesto dalla legge, entro un termine ragionevole ma ben 4 anni dopo l’adozione dell’atto annullato. Sotto tale profilo viene chiarito che “l’esigenza di assicurare la certezza dei rapporti giuridici sottesa dall’art. 21 nonies citato vale, infatti, con riferimento ai provvedimenti amministrativi volti a definire in via immediata l’assetto di interessi tra privati e pubblica amministrazione. Diversa è invece la vicenda di provvedimenti volti a regolamentare, come nella specie, rapporti di durata, in relazione ai quali l’accertamento dell’originaria illegittimità può sempre determinare un intervento in autotutela da parte dell’amministrazione al fine di scongiurare il perpetuarsi di situazioni di pregiudizio – nella specie economico - per l’ente pubblico”. Il Collegio rileva, altresì, che nell’annullamento d’ufficio, “l’interesse patrimoniale sotteso dalla determinazione dell’ente, finalizzata all’adeguamento del canone di locazione ai parametri di legge, costituisce ex se, senza necessità di ulteriori dissertazioni argomentative, una valida attestazione della sussistenza dell’interesse pubblico prevalente ai sensi dell’art. 21 nonies della legge n. 241/1990”. D’altronde, la regola generale prevista dalla normativa sulla locazione di immobili pubblici (l’art. 32, comma 8, l. 23 dicembre 1994, n. 724 e l’art. 32, comma 8, 7 dicembre 2000, n. 383), è quella della locazione ad un valore comunque non inferiore a quello di mercato, con facoltà di deroga per il caso di perseguimento di scopi di promozione sociale. Sotto tale profilo, la decisione dell’Amministrazione di applicare la regola generale di concessione in locazione al prezzo di mercato “è connotata da ampia discrezionalità, pertanto insindacabile (come noto) in sede giurisdizionale. PC
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Inserito in data 14/04/2017 TAR LOMBARDIA - MILANO, SEZ. III - 10 aprile 2017, n. 835 Valutazioni su prestazioni sanitarie e rapporto tra Stato e Regioni Il Collegio milanese interviene in un ambito parecchio delicato, quale quello relativo alla delimitazione delle competenze tra Stato e Regioni in tema di prestazioni sanitarie e relativi, necessari finanziamenti. I Giudici, infatti, accogliendo il ricorso, statuiscono l’illegittimità di una determina con cui la Giunta regionale lombarda aveva sancito la riduzione del finanziamento per le attività di riabilitazione ospedaliera svolte presso alcune sedi della Regione, a causa dell’inappropriatezza delle prestazioni erogate. Si ritiene, per l’appunto, che tale valutazione fuoriesca dall’ambito delle competenze degli Organi regionali e che, pertanto, sia stata incisa la competenza statale in materia di determinazione delle prestazioni sanitarie e, in specie, l’ articolo 9 quater, comma 1, D.L. 19 giugno 2015, n. 78, che ha attribuito tale competenza al Ministro della salute, previo accordo con le altre Regioni. Ricorda il Collegio che, la previsione appena richiamata va letta sia in ragione della competenza statale in materia sanitaria; sia considerata la necessità che l'introduzione di criteri di inappropriatezza clinica nella riabilitazione non rappresenta il riconoscimento formale di protocolli già acquisiti dalla scienza medica o comunque condivisi nel settore, ma ha un carattere tipicamente innovativo. Come tale, pertanto, diventa opportuno e prioritario che i parametri di valutazione siano univoci ed uniformi su tutto il territorio nazionale, a dispetto di quanto accaduto nella vicenda in esame – ove la Giunta lombarda aveva, invece, provveduto in maniera autonoma.
In guisa di ciò si comprende, dunque, l’intento dei Giudici milanesi e la susseguente declaratoria di illegittimità della determina regionale qui impugnata. CC
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Inserito in data 13/04/2017 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 31 marzo 2017, n. 1501 Termine per la proposizione dell’appello nel rito appalti superaccelerato: dies a quo Con la pronuncia in esame, la quinta Sezione del Collegio amministrativo interviene su questioni di natura strettamente processuale. I giudici si pronunciano, infatti, sul cd. rito appalti superaccelerato – di cui al 6’ comma – ultimo periodo - dell’art. 120 del Codice del processo amministrativo – introdotto nel corpo del suddetto Codice dall’art. 204 del D.lgs. 18 aprile 2016, n. 50. Tale norma prevede che «l’appello deve essere proposto entro trenta giorni dalla comunicazione o, se anteriore, notificazione della sentenza e non trova applicazione il termine lungo decorrente dalla sua pubblicazione». Nel caso di specie, sussistendo l’avviso di deposito della sentenza al 14 novembre 2016 e la notifica dell’appello alla data del 30 dicembre 2016, è evidente – insiste il Collegio – la tardività dell’avvio dell’odierno gravame. Sono, infatti, incontestabilmente decorsi i trenta giorni previsti dalla norma, né può condividersi l’assunto secondo cui – ad avviso di alcuni - la “comunicazione della sentenza”, che l’art. 120, comma 6-bis, Cod. proc. amm. enuclea quale dies a quo del termine per la proposizione dell’appello, non coincide con la comunicazione dell’avviso di deposito, in quanto si tratterebbe di adempimenti di diversa natura formale ed anche sostanziale, nella misura in cui il mero avviso di deposito non consente la conoscenza del corredo motivazionale della sentenza, e pertanto, conseguentemente, non garantisce la pienezza del termine breve di trenta giorni per l’impugnazione. Infatti, ritengono i Giudici della Quinta sezione, la regola è quella per cui la comunicazione della sentenza consiste nella comunicazione dell’avviso di deposito della medesima, adempimento che prelude poi alla acquisizione del testo integrale, del resto subito agevolmente reperibile nel sito istituzionale della Giustizia amministrativa, senza necessità, a fini di conoscenza, di un accesso fisico presso la segreteria del giudice amministrativo. Sulla base di tali considerazioni, pertanto, non può che ritenersi tardivo l’appello oggi in esame – considerato il lasso temporale – sopra richiamato ed effettivamente decorso. CC
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Inserito in data 12/04/2017 TAR MARCHE - ANCONA, SEZ. I - ORDINANZA DI RIMESSIONE ALLA CORTE COSTITUZIONALE, 6 aprile 2017, n. 272 Questione di legittimità costituzionale dell’art. 119 DP.R. n. 115/02 (T.U. in materia di spese di giustizia) Nell’ordinanza in esame, il Collegio solleva la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 119 del d.p.r. n. 115 del 2002 (Testo unico in materia di spese di giustizia), per contrasto con gli artt. 2, 3 e 24 della Costituzione, nella parte in cui esclude dal beneficio dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, gli enti e le associazioni che esercitano attività economica. Il Collegio richiama le argomentazioni sviluppate dal Tar di Reggio Calabria che - con ordinanza di rimessione n. 486 del 2015- aveva sollevato la medesima questione di legittimità costituzionale, dichiarata manifestamente inammissibile dalla Corte costituzionale per difetto di motivazione sulla sua rilevanza. Secondo la ricostruzione approntata dal Tar di Reggio Calabria, “affinché un ente possa essere ammesso al c.d. gratuito patrocinio (sempre che sussistano anche le ulteriori condizioni previste dalla legge quali il rispetto dei limiti reddituali e la non manifesta infondatezza della pretesa) non è sufficiente l’assenza dello scopo di lucro, ma è altresì necessario che l’ente non profit non eserciti attività economica”. Ricorre lo “scopo di lucro” “quando le modalità di gestione tendono alla realizzazione di ricavi eccedenti i costi”; “il metodo economico”, invece si configura “quando le ridette modalità di gestione tendono alla copertura dei costi con i ricavi”. “Il significato dell’espressione attività economica è chiaramente presente agli aziendalisti, che su di esso fondano la distinzione tra aziende di produzione e aziende di erogazione”. “Non può qualificarsi come economica l’attività che si svolge strutturalmente e necessariamente in perdita. Al contrario svolge attività con metodo economico il soggetto che eroga servizi di utilità sociale, anche se ispirato da un fine ideale ed anche se le condizioni di mercato non gli consentono poi di remunerare, in fatto, i fattori produttivi. Questi ultimi possono ben essere rappresentati dalle prestazioni spontanee e gratuite degli aderenti all’associazione di volontariato”. Consentire l’accesso al gratuito patrocinio ad una persona fisica che eserciti attività economica e non a un ente che eserciti la stessa attività genera una grave ed ingiustificata disparità di trattamento, con conseguente violazione del principio di uguaglianza formale e sostanziale, e comporta l’ ulteriore violazione del diritto inviolabile di azione e di difesa di cui all’art. 24 Cost “La violazione del principio di uguaglianza si apprezza anche in ragione della ingiustificata disparità di trattamento tra gli organismi di volontariato che esercitano attività economica e quelli che non la esercitano, dato che è il legislatore stesso a ritenere che, ove si tratti di attività commerciali e produttive marginali (cfr. art. 5, comma 1, lett. g, della legge quadro n. 266 del 1991), esse non incidono in alcun modo sulla disciplina giuridica degli stessi (Tar Reggio Calabria, ordinanza n. 486 del 2015, cit.).” Il Collegio ritiene, altresì, che “la citata violazione del principio di uguaglianza di cui all’articolo 3 Cost. si presenti anche nella veste dell’irragionevolezza, nella parte in cui l’articolo 119 del d.p.r. n. 115 del 2002 non consente, apparentemente, alcun sindacato sulla rilevanza o sulla marginalità dell’attività economica prestata, escludendo senz’altro dall’ammissione al gratuito patrocinio tutti gli enti che esercitino attività economica”. Per le ragioni sopra esposte, il Tribunale Amministrativo Regionale per le Marche ritenuta rilevante e non manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell’articolo 119, ultima parte, del d.p.r. 30 maggio 2002, n. 115, in relazione agli articoli 2, 3 e 24 della Costituzione, dispone l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale. GB |
Inserito in data 11/04/2017 TRIBUNALE REGIONALE DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA DI TRENTO, SEZIONE UNICA, 10 aprile 2017, n. 127 Il concordato preventivo omologato non dà diritto alle agevolazioni pubbliche Con la pronuncia in esame, i Giudici ricordano che: “La normativa comunitaria in materia di aiuti di stato di cui ai regolamenti della Commissione UE n. 651 e n. 702 del 2014 definisce in difficoltà una impresa oggetto di procedura concorsuale per insolvenza o che soddisfi le condizioni previste dal diritto nazionale per l’apertura nei suoi confronti di una tale procedura su richiesta dei creditori”. Orbene, se “si è chiusa, secondo la locuzione utilizzata dall’art. 181 del R.D. 16 marzo 1942, n. 267 e successive modificazioni, la procedura di concordato preventivo, nondimeno per la società ha preso avvio, ai sensi dell’art. 136 della richiamata legge fallimentare, la fase, di rilevanza sostanziale, di esecuzione ed adempimento del concordato, che si svolge sotto la sorveglianza del giudice delegato, secondo le modalità stabilite dal decreto di omologazione, sulla base delle previsioni contenute nel piano proposto dall’impresa per l’uscita dalla situazione di crisi e il raggiungimento di una condizione di equilibrio economico-finanziario”. Nel corso di tale fase del concordato, “la società è tenuta a proseguire l’attività d’impresa in funzione del miglior soddisfacimento dei creditori: la situazione di crisi non si è quindi risolta, né è stata ancora raggiunta una condizione di equilibrio economico-finanziario, così come l’esposizione al rischio di fallire sussiste in modo più accentuato rispetto alla generalità delle imprese. La completa esecuzione del concordato verrà, infine, accertata solo dal giudice delegato ai sensi del citato art. 136 della legge fallimentare”. E, d’altra parte, non si possono invocare “le disposizioni che consentono la partecipazione a procedure di aggiudicazione dei contratti pubblici delle imprese in concordato preventivo con continuità aziendale, proponendone, per così dire, una lettura e applicazione per analogia”. Infatti, le norme di cui agli artt. 80, comma 5 lett.b), e 110, commi 3, 4 e 5, del d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 e dell’art. 186 bis, comma 5, del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, recanti il puntuale riferimento al concordato con continuità aziendale, costituiscono “una disciplina speciale, che, pur evidenziando il favor riservato dal legislatore verso l’istituto del concordato con continuità aziendale (che può permettere alle imprese in difficoltà di superare la fase di crisi e di soddisfare i diritti dei creditori, tra l’altro, anche e proprio attraverso i flussi generati dalla prosecuzione dell’attività aziendale), si pone in deroga a regole di principio e non consente di essere utilizzata quale canone ermeneutico per l’applicazione di disposizioni, quali quelle rilevanti nel caso di specie, concernenti il settore generale delle agevolazioni alle imprese”. Del resto, deve escludersi che l’omologazione comporti l’automatica definizione della società come in bonis ai fini del riconoscimento del diritto alle agevolazioni, la cui sussistenza è esclusa sia “dal dato testuale, sia dalla lettura sistematica delle disposizioni della suddetta legge e dei relativi criteri applicativi”.
Invero, opinare diversamente significherebbe “consentire il raggiungimento della finalità del concordato (e così il soddisfacimento dei creditori) mediante risorse pubbliche, con ciò distorcendo la ratio sia del concordato stesso, teso al raggiungimento dell’equilibrio dell’impresa con le sue forze, sia del beneficio in esame, funzionale all’espansione della nuova imprenditoria e al sostegno dell’economia”. EF
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Inserito in data 10/04/2017 TAR SARDEGNA - CAGLIARI, SEZ. I - 7 aprile 2017, n. 244 Al G.O. la giurisdizione sulla dismissione di quote di società mista pubblico-privata Con la pronuncia indicata in epigrafe, il Collegio afferma che “la dismissione di quote azionarie pubbliche nelle società di gestione aeroportuale non è soggetta alle norme sull’evidenza pubblica, e nemmeno a quelle sulla contabilità generale dello Stato, risolvendosi in un’operazione che l’ente pubblico pone in essere con modalità privatistiche, dovendosi soltanto attenere ai generali principi di trasparenza e non discriminazione, il che giustifica pienamente la non ricomprensione delle relative controversie nella giurisdizione del giudice amministrativo”. In particolare, i Giudici osservano che la procedura oggetto della controversia non rientra nell’ipotesi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo di cui all’art. 133, comma 1, lett. e), relativa alle “procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi, forniture, svolte da soggetti comunque tenuti, nella scelta del contraente o del socio, all’applicazione della normativa comunitaria ovvero al rispetto dei procedimenti di evidenza pubblica previsti dalla normativa statale o regionale…”, perché “l’oggetto della gara (dismissione di quote azionarie pubbliche in una società di gestione aeroportuale) è differente da quello descritto dalla norma (lavori, servizi e forniture), tanto da essere destinatario di una disciplina ad hoc dettata da decreto ministeriale 12 novembre 1997, n. 521 -Regolamento recante norme di attuazione delle disposizioni di cui all'articolo 10, comma 13, della l. 24 dicembre 1993, n. 537- che si occupa specificamente delle società di capitali per la gestione dei servizi e infrastrutture degli aeroporti gestiti, anche in parte, da soggetti pubblici”. Invero, l’art. 2, comma 3, del citato d.m. richiama le procedure di cui al decreto legge 30 maggio 1994, n. 322, secondo cui “1. Le vigenti norme di legge e di regolamento sulla contabilità generale dello Stato non si applicano alle alienazioni delle partecipazioni dello Stato e degli enti pubblici in società per azioni e ai conferimenti delle stesse società partecipate, nonché agli atti ed alle operazioni complementari e strumentali alle medesime alienazioni inclusa la concessione di indennità e manleva secondo la prassi dei mercati. 2. L'alienazione delle partecipazioni di cui al comma 1 è effettuata con modalità trasparenti e non discriminatorie, finalizzate anche alla diffusione dell'azionariato tra il pubblico dei risparmiatori e degli investitori istituzionali. Dette modalità di alienazione sono preventivamente individuate, per ciascuna società, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dell'economia e delle finanze, di concerto con il Ministro delle attività produttive”. Neppure può trovare applicazione l’ipotesi di giurisdizione esclusiva di cui all’art. 133, comma 1, lett. c), del c.p.a., relativa alle “concessioni di pubblici servizi, escluse quelle concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi, ovvero relative a provvedimenti adottati dalla pubblica amministrazione o dal gestore di un pubblico servizio in un procedimento amministrativo, ovvero ancora relative all’affidamento di un pubblico servizio, ed alla vigilanza e controllo nei confronti del gestore, nonché afferenti alla vigilanza sul credito, sulle assicurazioni e sul mercato mobiliare, al servizio farmaceutico, ai trasporti, alle telecomunicazioni e ai servizi di pubblica utilità”. Difatti, come emerge da un condivisibile e prevalente orientamento giurisprudenziale (cfr., da ultimo, T.A.R. Torino, Sez. I, 22 febbraio 2017, n. 348), “non è a questi fini sufficiente che la controversia rientri, in termini generali, nella materia “servizi pubblici”, occorrendo, pur sempre, che l’amministrazione abbia agito esercitando il proprio potere autoritativo” (Corte Costituzionale, sentenza 6 luglio 2004, n. 204). Del resto questa soluzione pare coerente con il criterio generale di riparto delineato nella fondamentale pronuncia della Cassazione civile, a Sez. Un., 20 settembre 2013, n. 21588, secondo cui “In tema di riparto di giurisdizione, spettano alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie aventi ad oggetto l'attività unilaterale prodromica alla vicenda societaria, considerata dal legislatore di natura pubblicistica, con la quale un ente pubblico delibera di costituire una società o di parteciparvi o di procedere ad un atto modificativo o estintivo della società medesima o di interferire, nei casi previsti dalla legge, nella vita della stessa. Sono, invece, attribuite alla giurisdizione ordinaria le controversie aventi ad oggetto gli atti societari a valle della scelta di fondo di utilizzo del modello societario, i quali restano interamente soggetti alle regole del diritto commerciale proprie del modello recepito. Ne consegue che appartengono alla giurisdizione ordinaria le domande relative alla validità ed efficacia della costituzione della società mista pubblico-privata, nonché all'acquisizione, da parte del socio privato minoritario, del quarantanove per cento delle azioni della società stessa, mentre appartengono al giudice amministrativo le controversie aventi ad oggetto la procedura di selezione del socio privato, la conseguente aggiudicazione, nonché quella relativa all'affidamento della gestione del servizio (nella specie, idrico, con realizzazione anche delle opere infrastrutturali di acquedotto, fognatura e depurazione)”. Alla luce di quando suddetto, “la scelta di dismettere l’intero pacchetto pubblico costituisce “scelta a valle” del modello societario, anche considerato che, per effetto di essa, il soggetto pubblico si ritrae completamente dalla vicenda, lasciandovi solo soggetti privati, per cui non si pongono problemi di selezione pubblicistica di un socio destinato a usufruire della collaborazione privilegiata con il soggetto pubblico, come accade, invece, nella fase iniziale di scelta del partner privato”. Né, infine, depone in senso contrario il fatto che l'art. 119, comma 1, lett. c), del c.p.a. preveda un rito speciale in materia di “privatizzazione o di dismissione di imprese o beni pubblici, nonché quelli relativi alla costituzione, modificazione o soppressione di società, aziende e istituzioni da parte degli enti locali”; essendo tale previsione normativa “limitata al rito applicabile, senza che ciò implichi una riconduzione di tutte le controversie in materia alla cognizione del giudice amministrativo” (cfr. T.A.R. Venezia, Sez. I, 18 febbraio 2013, n. 241; T.A.R. Palermo, Sez. II, 14 settembre 2016, n. 2153; T.A.R. Lecce, Sez. II, 12 marzo 2014, n. 751). A tal uopo, deve ritenersi che la norma in questione, come emerge anche dalla sua collocazione all’esterno dell’art. 133 c.p.c., non modifica i normali criteri di riparto.
Del resto, “all’interno di un’unica vicenda di dismissione possono emergere senz’altro sia profili pubblicistici (si pensi alle deliberazioni con cui l’ente decida, a monte, decide la dimissione), impugnabili innanzi al G.A., sia profili privatistici, come quello ora in esame, rimessi alla cognizione del giudice ordinario; deve, quindi, ritenersi che l’art. 119, comma 1, lett. c) sopra cit. si riferisca solo ai primi e non a questi ultimi”. EF
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Inserito in data 08/04/2017 TAR LAZIO - ROMA, SEZ. I - 4 aprile 2017, n. 4190 La non tempestiva impugnazione del provvedimento finale determina la improcedibilità del ricorso avverso l’atto endoprocedimentale Nella sentenza emarginata in epigrafe, resa nell’ambito di una controversia riguardante la impugnazione di atti endoprocedimentali, il Collegio chiarisce che, in linea generale, “non è possibile la impugnazione immediata ed autonoma degli atti preparatori poiché nei provvedimenti de quibus manca il requisito della immediata lesività nei confronti dei loro destinatari”, ad eccezione dei casi in cui gli atti endoprocedimentali siano, in ragione della loro natura vincolata, “idonei a conformare in maniera netta la determinazione conclusiva del procedimento, ovvero, quando questi spieghino in via diretta ed immediata una autonoma portata pregiudizievole della sfera giuridica dei destinatari”. Viene, altresì, affermato che se è vero che la garanzia dell’ampliamento della tutela giurisdizionale attribuisca agli interessati la possibilità di impugnare gli atti preparatori immediatamente lesivi, ciò non toglie che “tale possibilità di immediata impugnazione dell'atto lesivo non può certo tradursi in un esonero dal dovere di impugnare anche l'atto finale”. Sotto tale profilo, si precisa che, se la deroga alla regola generale secondo cui va impugnato solo l’atto finale e conclusivo del procedimento, consente l'anticipazione della tutela di impugnazione degli atti preparatori, ampliando così gli strumenti di tutela degli interessati, è pur vero che i destinatari dei provvedimenti endoprocedimentali “debbono far valere (anche contro il provvedimento conclusivo del procedimento) i medesimi vizi già sollevati avverso gli atti preparatori, ancorché in via derivata; diversamente, in assenza di impugnativa del provvedimento finale, questi si consoliderà nei suoi effetti e diverrà inoppugnabile”. Tale soluzione è, ad avviso del Collegio, la più corretta dal punto di vista giuridico (non per mero formalismo o volontà di aggravare con inutili adempimenti i diritti di difesa dei soggetti interessati) perché, diversamente opinando, “sarebbe vanificata la pur meritevole esigenza di tutela di eventuali controinteressati che potrebbero essere individuati solo all’esito finale del procedimento e che, invece, rimarrebbero estranei dal giudizio avente ad oggetto un atto preparatorio, ai medesimi non notificato”. Pertanto, “è improcedibile il ricorso proposto contro l’atto endoprocedimentale con il quale la stazione appaltante ha comunicato l’intenzione di procedere in autotutela all’annullamento della gara qualora, poi, non sia stato impugnato tempestivamente lo stesso provvedimento finale di annullamento d’ufficio”. PC
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Inserito in data 07/04/2017 CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 6 aprile 2017, n. 1 L’incidenza delle sopravvenienze nel giudizio di ottemperanza Con l’articolata pronuncia emarginata in epigrafe, l’Adunanza Plenaria dichiara inammissibile il ricorso per revocazione ex artt. 106, comma 1, cod. proc. amm. e 395, n. 5), cod. proc. civ. della sentenza n. 11 del 9 giungo 2016 dell’Adunanza Plenaria concernente un giudizio di ottemperanza reso tra le parti. Con tale sentenza, l’Adunanza Plenaria respingeva i ricorsi, i quali erano vòlti a conseguire l’ottemperanza alla sentenza del Consiglio di Stato, Sezione Quinta, n. 4267/2007 e alle successive sentenze di ottemperanza della stessa Sezione - nella specie le n. 3817/2008, n. 2153/2010 e n. 8420/2010 - nonché vertenti sulle richieste di chiarimenti formulate dal commissario ad acta ai sensi degli artt. 112, comma 5, e 114, comma 7, cod. proc. amm., sulla base dell’assorbente rilievo che «le sentenze ottemperande riconoscono solo un obbligo di natura procedimentale, la cui ulteriore attuazione risulta, peraltro, ormai preclusa dall’insormontabile ostacolo rappresentato dalla sentenza della Corte di Giustizia 10 luglio 2014, C-213/13, la quale, intervenendo su un tratto di procedimento non investito dal giudicato, ha diretta applicazione e prevale, secondo un criterio di successione temporale, sulla “regola conformativa” desumibile dalle sentenze amministrative rese dalla Quinta Sezione del Consiglio di Stato nel corso della vicenda in oggetto». L’Adunanza Plenaria richiamata rimarcava al riguardo che alle sentenze pregiudiziali interpretative della Corte di giustizia doveva attribuirsi la stessa efficacia vincolante delle disposizioni interpretate, nel senso che la decisione della Corte resa in sede di rinvio pregiudiziale, oltre a vincolare il giudice che ha sollevato la questione, spiega i propri effetti anche rispetto a qualsiasi altro caso che debba essere deciso in applicazione della medesima disposizione di diritto, delineandosi una sorta di “sopravvenienza normativa”, la quale, incidendo su un procedimento ancora in corso di svolgimento e su un tratto di interesse non coperto da giudicato, determinava una vera e propria successione cronologica di regole sulla medesima situazione giuridica, rispondente ai dettami dell’ordinamento nazionale sul rapporto tra giudicato e sopravvenienze. La predetta Plenaria si poneva inoltre nel medesimo solco delle Sezioni Unite, le quali avevano recentemente ribadito che l’interpretazione, da parte del giudice amministrativo, di una norma di diritto interno in termini contrastanti con il diritto dell’Unione Europea, dà luogo alla violazione di un “limite esterno” della giurisdizione, rientrando in uno di quei “casi estremi”, in cui il giudice adotta una decisione anomala o abnorme, e in cui, pertanto, si impone la cassazione della sentenza amministrativa, la quale è “indispensabile per impedire che il provvedimento giudiziario, una volta divenuto definitivo ed efficace, esplichi i suoi effetti in contrasto con il diritto comunitario, con grave nocumento per l’ordinamento europeo e nazionale e con palese violazione del principio secondo cui l’attività di tutti gli organi dello Stato deve conformarsi alla normativa comunitaria”. Aggiungeva, infine, l’Adunanza Plenaria che “tale preminente esigenza di conformità al diritto comunitario certamente rileva anche in sede di ottemperanza”, ove “la dinamicità e la relativa flessibilità che spesso caratterizza il giudicato amministrativo nel costante dialogo che esso instaura con il successivo esercizio del potere amministrativo, permettono al giudice dell’ottemperanza - nell’ambito di ’attività in cui si sostanzia l’istituto del giudicato a formazione progressiva - non solo di completare il giudicato con nuove statuizioni ‘integrative’, ma anche di specificarne la portata e gli effetti, al fine di impedire il consolidamento di effetti irreversibili contrari al diritto sovranazionale”. Nella controversia oggetto della sentenza in esame, il mancato superamento della fase rescindente ha impedito l’ingresso delle questioni rilevanti ai fini fase rescissoria, tra queste: le questioni relative all’individuazione della disciplina, comunitaria e nazionale, del settore degli appalti pubblici di lavori applicabile ratione temporis; le questioni inerenti all’interpretazione della sentenza della Corte di Giustizia 10 luglio 2014, C-213/13 e dei suoi effetti nell’ambito del giudizio di ottemperanza; e infine, le questioni di competenza (nel procedimento) e di legittimazione (processuale) conseguenti al trasferimento, a decorrere dal 1° settembre 2015, delle attribuzioni in materia di edilizia giudiziaria dai comuni al Ministero della Giustizia, in forza dell’art. 1, comma 526, l. 23 dicembre 2014, n. 190 (“Legge di stabilità 2015”). La Plenaria ha rilevato infatti come la sentenza revocanda non abbia fatto altro che applicare, da una parte, la valutazione di incompatibilità comunitaria della procedura amministrativa in atto, con riferimento a un tratto di procedimento non ancora coperto dal giudicato; e dall’altro, abbia dato attuazione alla relativa interpretazione della Corte di giustizia alla procedura in corso, poiché, diversamente, il contrasto con la normativa europea avrebbe esposto lo Stato a responsabilità nei confronti dell’Unione europea e la stessa sentenza dell’Adunanza plenaria al vizio di violazione del limite esterno della giurisdizione in relazione alla intervenuta incompatibilità comunitaria. Ad avviso del Supremo Consesso, la revocazione ex artt. 106, c. 1 Cod .proc. amm. e 395, n. 5, Cod. proc. civ., postula che tra i due giudizi vi sia identità di soggetti e di oggetto. A tal fine, dovrà aversi riguardo ai limiti oggettivi del giudicato quali risultano determinati dal decisum, ossia alla questione principale decisa nel giudizio che sorregge causalmente gli effetti scaturenti dal dispositivo della sentenza, i quali, a seconda della natura della giurisdizione esercitata (di legittimità, esclusiva, di merito), potranno essere effetti di accertamento, di condanna o costitutivi/determinativi (questi ultimi, a loro, volta, potranno essere annullatori-demolitori, ripristinatori e/o conformativi). Infatti, come ripetutamente statuito dal Consiglio di Stato, ai fini dell’applicazione dell’art. 395, n. 5), cod. proc. civ., “perché una sentenza possa considerarsi contraria ad un precedente giudicato, occorre che le decisioni a confronto risultino fra loro incompatibili in quanto dirette a tutelare beni ed interessi di identico contenuto, nei confronti delle stesse parti, con riferimento ad identici elementi di identificazione della domanda (petitum e causa petendi) confluiti nel decisum”. All’esito di tale interpretazione/ricostruzione della portata conformativa della sentenza cognitoria ottemperanda e delle successive sentenze di ottemperanza, la Plenaria ha rilevato come la sentenza n. 11/2016 abbia accertato che la trasformazione dell’interesse procedimentale in interesse finale (e, quindi, la conclusione positiva del procedimento) fosse risultata definitivamente preclusa dalla sopravvenienza rappresentata dalla sentenza della Corte di Giustizia 10 luglio 2014, C-213/13. Invero, quest’ultima sanciva l’incompatibilità con il diritto dell’Unione Europea della procedura adottata, in forza della contrarietà dell’interesse finale reclamato da parte ricorrente con la disciplina europea. In via preliminare il Supremo Consesso rileva che, ai fini dell’integrazione del motivo revocatorio di cui all’art. 395, n. 5), cod. proc. civ., devono concorrere, in via cumulativa, due presupposti: il contrasto della sentenza revocanda con un’altra precedente avente tra le parti autorità di cosa giudicata sostanziale; e la mancata pronuncia sulla relativa eccezione da parte del giudice della sentenza revocanda. Invero, il proprium del giudizio di ottemperanza si risolve “nella concreta individuazione dell’ambito oggettivo del giudicato amministrativo che il giudice dell’ottemperanza, nella fase esecutiva, è chiamato a risolvere, tra il soddisfacimento dell’interesse sostanziale della parte e la salvaguardia della discrezionalità dell’amministrazione, quando la discrezionalità residui all’esito del giudizio”. La Plenaria evidenzia come tale problematica assuma rilevanza centrale quando si verta in materia di giudicato cognitorio sul silenzio – come nel caso di specie - particolarmente esposto alle sopravvenienze, e si tratti di valutare l’incidenza della normativa europea - cui è equiparata la sentenza della Corte di giustizia sulle questioni pregiudiziali - sull’attuazione del giudicato, tenuto conto che l’eventuale omessa considerazione di tale incidenza potrebbe dar luogo, ‘nei casi estremi’, al vizio di eccesso di potere giurisdizionale (v. sul punto, ex plurimis, Cass. Sez. Un. Civ., 8 aprile 2016, n. 6891; Cass. Sez. Un., 6 febbraio 2015, n. 2242). In definitiva, il Consiglio di Stato al plenum ritiene insussistenti i presupposti del vizio revocatorio dell’impugnata sentenza n. 11/2016 dell’Adunanza Plenaria dedotto dalla ricorrente, con conseguente declaratoria di inammissibilità del ricorso. DU
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Inserito in data 06/04/2017 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 4 aprile 2017, n.1541 Processo telematico: gli atti cartacei o sprovvisti di firma digitale sono irregolari Nel processo amministrativo telematico (PAT), la formazione, notificazione e deposito, in formato cartaceo, degli atti di parte, non implica l’inesistenza, l’ abnormità o nullità degli atti stessi, ma solo un caso di mera irregolarità. La tesi dell’inesistenza non è sostenibile perché “anche alla luce del principio di strumentalità delle forme processuali”, il ricorso non redatto o comunque non sottoscritto in forma digitale, benché certamente non conforme alle prescrizioni di legge, “non si configura in termini di non atto”. Per analoghe ragioni non appare sostenibile la tesi dell’abnormità, atteso che la riflessione sull’atto abnorme è stata sviluppata con riguardo agli atti del giudice. Né è condivisibile la tesi della nullità, in virtù del principio generale sancito dall’art. 156, primo comma, c.p.c., secondo il quale l’inosservanza di forme comporta la nullità degli atti del processo solo in caso di espressa comminatoria da parte della legge. Pertanto, nell’ambito del PAT, dal 1° gennaio 2017, la formazione, notificazione e deposito, in formato cartaceo degli atti di parte, con la mancanza di sottoscrizione digitale determinano una mera irregolarità e non una nullità degli stessi. Dal 1 gennaio 2017, il giudice amministrativo, a mente del combinato disposto degli artt. 44, comma 2, e 52, comma 1, c.p.a., deve ordinare alla parte che ha redatto, notificato o depositato un atto in formato cartaceo di regolarizzarlo in formato digitale nel termine perentorio all’uopo fissato. GB |
Inserito in data 05/04/2017 TAR LOMBARDIA - MILANO, SEZ. III - 3 aprile 2017, n. 776 La gratuità dell’accesso ai documenti esula dalla giurisdizione esclusiva del G.A. Con la pronuncia emarginata in epigrafe, il TAR dichiara il difetto della propria giurisdizione, poiché la vicenda sottoposta al suo esame si inserisce in un rapporto negoziale in cui non si ravvisano i tratti tipici dell’esercizio del potere autoritativo. Nella specie, il ricorrente - un comune - chiedeva l’accertamento del proprio diritto di accedere gratuitamente alla banca dati del centro di elaborazione della motorizzazione civile e la conseguente condanna del ministero intimato alla restituzione dei canoni indebitamente versati negli anni precedenti. Il comune ricorreva al Giudice amministrativo, invocando a sostegno della sussistenza della sua giurisdizione esclusiva gli artt. 133 c. 1, lett. a), n. 2, n. 6 e lett. d. del Codice del processo amministrativo (da ora “C.P.A.”). L’art. 133 c. 1 lett. a) n. 2 C.P.A., attribuendo alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo “le controversie in materia di formazione, conclusione ed esecuzione degli accordi tra le pubbliche amministrazioni”, si riferisce alla fattispecie sostanziale di cui all’art. 15 della L. 241/1990, che consente alle pubbliche amministrazioni di concludere tra loro accordi “per disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attività di interesse comune”. Ad avviso del Collegio la vicenda oggetto del giudizio non può essere ascritta al paradigma normativo di cui all’art. 15 della L. 241/1990: sia perché non sussisteva alcun accordo tra comune e ministero (stante il mancato rinnovo della convenzione esistente tra i due enti), sia perché il rapporto negoziale – eventualmente da costituire - non sarebbe comunque rientrato tra gli accordi di cui alla norma richiamata. Dalla convenzione novennale intercorsa, emergeva, infatti, un “contratto per adesione” in cui il comune era definito “utente”. Il TAR ritiene che la vicenda in esame non è ascrivibile all’ipotesi di cui all’art. 15 della L. 241/1990 difettando il necessario presupposto della sussistenza di un’attività di interesse comune da disciplinare in collaborazione. Come asserito dal Consiglio di Stato, "gli accordi tra enti pubblici stipulati ai sensi dell'art. 15, l. 241/1990, anche denominati contratti "a oggetto pubblico", differiscono dal contratto privatistico di cui all'art. 1321 c.c., del quale condividono solo l'elemento strutturale dell'accordo, senza che a esso si accompagni l'ulteriore elemento del carattere patrimoniale del rapporto regolato. Le amministrazioni pubbliche stipulanti partecipano all'accordo in posizione di equiordinazione, ma non già al fine di comporre un conflitto di interessi di carattere patrimoniale, bensì di coordinare i rispettivi ambiti di intervento su oggetti di interesse comune" (Cons. Stato, sez. V, 15 luglio 2013 n. 3849). Quanto all’operatività dell’art. 133, c. 1, lett. a) n. 6 C.P.A.. sulla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo di controversie in materia di diritto di accesso ai documenti amministrativi, il Collegio osserva che oggetto della controversia in questione non è il diniego di accesso a documenti amministrativi ma l’accertamento del diritto del comune ad accedervi “gratuitamente”. Il Supremo Consesso ritiene che “ci si trovi al di fuori del perimetro entro cui l’art. 133 comma 1 lett. a) n. 6 c.p.a. attribuisce al giudice amministrativo la giurisdizione esclusiva”. Riguardo all’invocato art. 133, c. 1, lett. d) C.P.A., che assegna alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie concernenti l’esercizio del diritto a chiedere ed ottenere gratuitamente l'uso delle tecnologie telematiche nelle comunicazioni con le pubbliche amministrazioni, va precisato che esso non è pertinente al caso di specie, poiché non si fa questione di richieste di comunicazioni con modalità diverse da quelle telematiche. In definitiva, in relazione alle domande formulate dal ricorrente si è al cospetto di posizioni di diritto soggettivo, imputabili alla capacità negoziale del comune, e non si configura alcuna forma di esercizio di potere autoritativo da parte del ministero. Per tali ragioni, il Tar dichiara il ricorso inammissibile per difetto di giurisdizione, che declina in favore del giudice ordinario, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 11 c.p.a. DU
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Inserito in data 04/04/2017 TAR PIEMONTE - TORINO, SEZ. I, 27 marzo 2017, n. 414 Offerta economicamente più vantaggiosa: i criteri devono essere indicati analiticamente Con la pronuncia in esame, il Collegio osserva che, secondo la concorde giurisprudenza di primo e secondo grado, “il punteggio numerico assegnato agli elementi di valutazione dell'offerta economicamente più vantaggiosa integra una sufficiente motivazione allorché siano prefissati con chiarezza e adeguato grado di dettaglio i criteri di valutazione, prevedenti un minimo ed un massimo; in questo caso, infatti, sussiste comunque la possibilità di ripercorrere il percorso valutativo e quindi di controllare la logicità e la congruità del giudizio tecnico (cfr., T.A.R. Umbria, sez. I, 11 settembre 2015, n. 365; T.A.R. Salerno, sez. II, 12 marzo 2014, n. 567; (T.A.R. Piemonte, sez. II, 15 novembre 2013, n. 1207; Cons. Stato, sez. V, 17 gennaio 2011 n. 222; sez. V, 16 giugno 2010 n. 3806; 11 maggio 2007 n. 2355; 9 aprile 2010 n. 1999)”. Viceversa, “in assenza della predisposizione di subcriteri o di griglie di valutazione particolarmente dettagliate, la Commissione di gara può supplire al deficit motivazionale, insito nel punteggio numerico abbinato a criteri preventivi di giudizio non sufficientemente specifici, esplicitando le ragioni dell'attribuzione del punteggio stesso: sicché, pur ammettendosi che la mancata predeterminazione di parametri precisi e puntuali possa far sì che l'assegnazione dei punteggi in forma esclusivamente numerica determini un deficit motivazionale, nondimeno si ammette che a tale carenza la stazione appaltante possa rimediare illustrando le ragioni della valutazione effettuata, in relazione ai vari elementi in cui si articola ciascun criterio (Cons. Stato, sez. VI, 8 marzo 2012, n. 1332 e 18 aprile 2013, n. 2142; TAR Milano, III, 16 ottobre 2012, n. 2537; TAR Umbria, 2 novembre 2011, n. 355)”. In senso conforme a questa impostazione si pongono sia le previsioni contenute all’art. 95, commi 8 e 9, d.lgs. 50/2016; sia le "Linee Guida n. 2 dell' ANAC "di attuazione del D.lgs 18 aprile 2016 n. 50 recanti offerta economicamente più vantaggiosa" del 21 settembre 2016 n. 1005", le quali prevedono che "in relazione a ciascun criterio o subcriterio di valutazione la stazione appaltante deve indicare gli specifici profili oggetto di valutazione, in maniera analitica e concreta. Con riferimento a ciascun criterio o subcriterio devono essere indicati i relativi descrittori che consentono di definire i livelli qualitativi attesi e di correlare agli stessi un determinato punteggio, assicurando la trasparenza e la coerenza delle valutazioni". EF
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Inserito in data 03/04/2017 TAR TOSCANA - FIRENZE, SEZ. I - 31 marzo 2017, n. 499 Atti a contenuto generale ed accertamento dell’obbligo di provvedere della P.A. Nella sentenza emarginata in epigrafe, avente ad oggetto la proposizione di un ricorso avverso l’asserito silenzio inadempimento della amministrazione comunale nonché per l’accertamento dell’obbligo di provvedere in capo alla stessa, il Giudice amministrativo toscano, preliminarmente, chiarisce che il ricorso ex art. 117 c.p.a. è esperibile tutte le volte in cui l’amministrazione sia rimasta inerte nonostante la presenza di un preciso obbligo di provvedere derivante dalla legge, dai principi generali o dalle peculiarità del caso (C.d.S. n. 4235 del 2016). Viene, altresì, precisato che la fondatezza della istanza può dal Giudice essere valutata “solo ove l'attività che essa avrebbe dovuto porre in essere abbia carattere vincolato, discendendone che, in caso contrario, la sentenza deve limitarsi alla declaratoria dell'obbligo di provvedere “(T.A.R. Lombardia, Milano, sez. I, 7 febbraio 2007 n. 179). Nel caso di specie, il Collegio rileva che “non appare sussistere l’affermato silenzio inadempimento dell’amministrazione comunale avendo la stessa più volte motivatamente dato riscontro all’istanza della parte”. Si evidenzia, in particolare, che il rito del silenzio non può trovare applicazione “allorquando si sia in presenza di atti a contenuto generale rimessi alla scelta discrezionale dell'Amministrazione e rispetto alla quale non sia configurabile un interesse qualificato del privato tale da poter rivendicare l'esistenza di un obbligo per l'Ente di procedere all'adozione di atti a contenuto pianificatorio” (Cons. Stato Sez. IV, 11-12-2014, n. 6081). Si precisa, ancora, che i vincoli di destinazione urbanistica sono soggetti a decadenza “solo se sono preordinati all'espropriazione e, dunque, se svuotano il contenuto del diritto di proprietà incidendo sul godimento del bene”. Non può, dunque, essere condivisa la tesi della ricorrente secondo cui la destinazione impressa alla proprietà della medesima avrebbe natura espropriativa giacché la destinazione di un’area a verde pubblico ed attrezzatura ha natura di vincolo conformativo “con la conseguenza che non era configurabile alcun obbligo per il Comune di provvedere a rimodulare ex novo tale destinazione per sua natura di durata indeterminata” (T.A.R. Toscana, sez. III, 7 gennaio 2015 n. 7). Alla luce di quanto detto, il T.A.R. dichiara inammissibile il ricorso. PC
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Inserito in data 01/04/2017 TRIBUNALE REGIONALE DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA DI TRENTO - SEZ. UNICA, 29 marzo 2017, n. 112 Rito appalti: Rapporto tra ricorso principale e ricorso incidentale Il Tar, in ordine al rapporto intercorrente fra ricorso principale ed incidentale, richiama la recente pronuncia - Consiglio di Stato, sez. III, 26.8.2016, n. 3708- che rifiuta l’interpretazione che ammette sempre l’obbligo dell’esame del ricorso principale, a prescindere da qualsivoglia scrutinio in concreto della sussistenza di un interesse (anche strumentale) alla sua decisione. Tale interpretazione risulterebbe, infatti, “del tutto incoerente sia con il richiamo all’art. 1 della direttiva n. 89/665 CEE, sia con il rispetto del principio generale, di ordine processuale, codificato dall’art. 100 c.p.c. (e da intendersi richiamato nel processo amministrativo dall’art. 39, comma 1, c.p.a.).” I suddetti principi corrispondono al “punto di equilibrio fra la tutela piena ed effettiva assicurata dalla giurisdizione amministrativa secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo (art. 1 c.p.a.) e le necessarie condizioni cui rimane assoggettato l’esperimento delle domande processuali, e dunque in primis l’effettiva sussistenza dell’interesse ad agire o resistere in giudizio (art. 100 c.p.c.).” Peraltro, in materia di appalti, la ratio sottesa alle “disposizioni specifiche” inerenti ai giudizi di cui agli artt. 120 e segg. del c.p.a. depone per l’accentuata affermazione dei principi di celerità ed efficacia della pronuncia del giudice amministrativo, il che contraddice la necessità di dover sistematicamente esaminare anche il ricorso principale, qualora quello incidentale risulti fondato e di per sé precluda la conservazione di un effettivo interesse in capo al ricorrente principale, quest’ultimo così definibile solo in relazione al momento introduttivo dell’intero giudizio. GB
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Inserito in data 31/03/2017 TAR LIGURIA - GENOVA, SEZ. II - 22 marzo 2017, n. 256 Reiezione domanda rinnovo autorizzazione al porto di pistola per difesa personale Il Collegio ligure, con la pronuncia in esame, accoglie il ricorso con cui l’istante contesta il diniego – paventato dall’Amministrazione competente – circa il rinnovo dell’autorizzazione al porto di pistola per difesa personale – da sempre richiesta per specifiche esigenze professionali. Tra le censure addotte in ricorso e condivise dai Giudici si desume il difetto di motivazione, la carenza di istruttoria e, in particolare, la violazione del principio di affidamento – considerata la pregressa, reiterata autorizzazione. I Giudici, infatti, richiamando posizioni consolidate, ritengono che se è vero che la licenza di portare rivoltelle costituisce una deroga al generale divieto di portare armi, e che la facoltà di rilasciarla è oggetto di una valutazione ampiamente discrezionale, è altrettanto vero che, in presenza di un’autorizzazione di polizia risalente nel tempo ed oggetto di plurimi rinnovi, l' amministrazione, in sede di diniego, deve darsi carico di dimostrare il venir meno delle condizioni iniziali, che avevano formato oggetto di positiva valutazione in punto di "dimostrato bisogno", ed il sopravvenire di nuove ragioni giustificative del diniego (Cons. di St., III, 6.5.2014, n. 2313). Tanto non è accaduto nel caso in esame, ove l’Amministrazione – in sede di diniego - si è limitata ad invitare il ricorrente ad avvalersi di altri mezzi – al fine di trasportare la propria merce – evitando così a monte la necessità del rinnovo di porto di pistola richiesto. I Giudici, data la genericità della difesa di parte resistente e ricordando, altresì, come sia scriminata - e dunque consentito - l’uso di un'arma legittimamente detenuta anche al fine di difendere i propri beni all'interno di un luogo ove venga esercitata un'attività imprenditoriale (art. 52 commi 2 e 3 c.p., aggiunti dall'art. 1 della 13 febbraio 2006, n. 59), avallano la posizione del ricorrente. CC
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Inserito in data 30/03/2017 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 27 marzo 2017, n. 1388 Le benedizioni pasquali rese fuori dall’orario scolastico non ledono la libertà di culto La vicenda oggetto della pronuncia in esame prende le mosse dalla concessione in uso di locali fuori dell’orario scolastico. Nella specie, il Consiglio di Stato è chiamato a vagliare la compatibilità dello svolgimento libero di un atto di culto facoltativo con l’aconfessionalità della scuola, rilevandone – ove sussistano – le potenziali conseguenze discriminatorie nei confronti di altre confessioni religiose e di lesione e compromissione della libertà di religione in senso lato. Il diritto di libertà religiosa - intesa quale libertà di non credere in alcuna religione o di credere e professarne una in particolare – rappresenta un’irrinunciabile aspetto della dignità umana, consacrato nell’art. 2 Cost., che fa dello Stato il garante del “diritto di tutti gli appartenenti alle diverse fedi o confessioni religiose di fruire delle eventuali facilitazioni disposte in via generale dalla disciplina comune ... perché ciascuno possa in concreto più agevolmente esercitare il culto della propria fede religiosa” ( così Corte Cost. sent. n. 334/1996). Ad avviso della Sesta Sezione, la benedizione pasquale, quale vero e proprio rito religioso riservato alla sfera individuale dei consociati, “non può in alcun modo incidere sullo svolgimento della didattica e della vita scolastica in generale. E ciò non diversamente dalle diverse attività “parascolastiche” che, oltretutto, possono essere programmate o autorizzate dagli organi di autonomia delle singole scuole anche senza una formale delibera.” “Com’è noto – ricorda il Collegio - la benedizione pasquale è un rito religioso, rivolto all’incontro tra chi svolge il ministero pastorale e le famiglie o le altre comunità, nei luoghi in cui queste risiedono, caratterizzato dalla brevità e dalla semplicità, senza necessità di particolari preparativi. Il fine di tale rito, per chi ne condivide l’intimo significato e ne accetta la pratica, è anche quello di ricordare la presenza di Dio nei luoghi dove si vive o si lavora, sottolineandone la stretta correlazione con le persone che a tale titolo li frequentano. Non avrebbe senso infatti la benedizione dei soli locali, senza la presenza degli appartenenti alle relative comunità di credenti, non potendo tale vicenda risolversi in una pratica di superstizione.” Di conseguenza, si tratta di un rito che può ritenersi tale in quanto celebrato in un luogo determinato da chi, spinto dalla fede, voglia prenderne parte, sicché non può estrinsecare la sua funzione autentica se celebrato in luoghi diversi da quelli adibiti al culto, quali le scuole. Ne deriva che presenziare all’evento al di fuori dall’orario scolastico - il quale viene così isolato dal contesto pubblicistico - non sia in grado di minimamente ledere - neppure indirettamente - il pensiero o il sentimento religioso o no, di chiunque altro che non vi partecipi. Infatti, il Supremo Consesso ritiene che “non può logicamente attribuirsi al rito delle benedizioni pasquali, con le limitazioni stabilite nelle prescrizioni annesse ai provvedimenti impugnati, un trattamento deteriore rispetto ad altre diverse attività “parascolastiche” non aventi alcun nesso con la religione, soprattutto ove si tenga conto della volontarietà e della facoltatività della partecipazione nella prima ipotesi, ma anche che nell’ordinamento non è rinvenibile alcun divieto di autorizzare lo svolgimento nell’edificio scolastico, ovviamente fuori dell’orario di lezione e con la più completa libertà di parteciparvi o meno, di attività (ivi inclusi gli atti di culto) di tipo religioso.” Va aggiunto che “per un elementare principio di non discriminazione, non può attribuirsi alla natura religiosa di un’attività, una valenza negativa tale da renderla vietata o intollerabile unicamente perché espressione di una fede religiosa, mentre, se non avesse tale carattere, sarebbe ritenuta ammissibile e legittima”, ciò in virtù del disposto costituzionale ex art. 20, che, nello stabilire che «il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto d’una associazione od istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative (…) per la sua costituzione, capacità giuridica e ogni forma di attività», pone un divieto di un trattamento deteriore, sotto ogni aspetto, delle manifestazioni religiose in quanto tali. Del resto, il D.P.R. 8 marzo 1999, n. 275 (“Regolamento recante norme in materia di autonomia delle istituzioni scolastiche”), all’art. 4 - relativo all’autonomia didattica – dispone che: «Le istituzioni scolastiche, nel rispetto della libertà di insegnamento, della libertà di scelta educativa delle famiglie e delle finalità generali del sistema (…) concretizzano gli obiettivi nazionali in percorsi formativi funzionali alla realizzazione del diritto ad apprendere e alla crescita educativa di tutti gli alunni, riconoscono e valorizzano le diversità, promuovono le potenzialità di ciascuno adottando tutte le iniziative utili al raggiungimento del successo formativo», intendendosi in tal modo evidentemente ampliare la sfera dell’autonomia di tali organi verso tutte quelle iniziative che si rivolgano a determinati gruppi di studenti, individuati per avere specifici interessi od appartenenze di carattere etico, religioso o culturale, in un clima di reciproca comprensione, conoscenza, accettazione e rispetto, oggi tanto più decisivo in relazione al fenomeno sempre più rilevante dell’immigrazione e della conseguente necessità di integrazione. Per tali ragioni, il Collegio ritiene i provvedimenti impugnati legittimi. DU
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Inserito in data 29/03/2017 TRIBUNALE REGIONALE DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA - SEZIONE AUTONOMA DI BOLZANO, 22 marzo 2017, n. 107 Istanza di erogazione di pasto vegano, diniego e profili di illegittimità I Giudici bolzanini, accogliendo in parte le doglianze di parte ricorrente, statuiscono l’illegittimità del provvedimento oggi impugnato. Più nel dettaglio, a fronte di un’istanza, presentata dalla mamma di un bambino prossimo all’iscrizione presso una scuola dell’infanzia, tesa ad ottenere l’erogazione di un menù vegano per il proprio figlio, l’Amministrazione comunale la rigetta senza motivazione alcuna. Il Collegio, condividendo le censure mosse in ricorso, evidenzia come l’Ente non abbia palesato nessuna ragione giuridica fondante il diniego, impedendo – in tal guisa - all’interessata di verificare la precisa corrispondenza tra situazione astratta prevista dalla norma e situazione concreta accertata dall’Amministrazione procedente. I Giudici ricordano, infatti, come l’Amministrazione non sia mai libera di agire secondo arbitrio, dovendo sempre e comunque operare secondo legge. La norma, in altri termini, delinea un’ipotesi astratta e collega al suo concreto verificarsi l’insorgere del potere di provvedere. Al di fuori di tale ipotesi quello specifico potere non può essere esercitato, pena l’illegittimità dell’atto. E’ quanto ricorre nel caso in esame, in cui l’Amministrazione non ha ancòrato ad alcun parametro normativo o regolamentare il proprio diniego che, pertanto, appare del tutto arbitrario. A fronte di ciò, il Consesso altoatesino pronuncia la declaratoria di illegittimità di un simile provvedimento. Provvede a specificare, in ultimo, il rigetto dell’altro motivo di ricorso – relativo all’adozione della lingua tedesca nell’emissione dell’odierno provvedimento censurato. Ad avviso dei Giudici, l’Amministrazione ha provveduto semplicemente ad adeguarsi alla medesima lingua adottata dall’istante – oggi ricorrente; prassi possibile in una Regione bilingue, quale quella altoatesina. Di conseguenza, sotto questo aspetto non è ravvisabile alcun profilo di irregolarità. CC
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Inserito in data 28/03/2017 TAR LOMBARDIA - MILANO, SEZ. III, 23 marzo 2017, n. 697 L’obbligazione pubblica di assistenza presuppone solo lo stato oggettivo di necessità Con la pronuncia indicata in epigrafe, il Collegio richiama l'art. 38, primo comma, della Costituzione, che sancisce il principio di solidarietà sociale, “stabilendo che lo Stato (da intendersi nel suo più ampio significato, ossia con riferimento ai vari livelli di governo) deve garantire il mantenimento e l'assistenza sociale ai soggetti indigenti ed inabili allo svolgimento di una proficua attività lavorativa”. In applicazione di tale principio l’art. 6, comma 4 della legge 328 del 2000 stabilisce che “Per i soggetti per i quali si renda necessario il ricovero stabile presso strutture residenziali, il comune nel quale essi hanno la residenza prima del ricovero, previamente informato, assume gli obblighi connessi all’eventuale integrazione economica”. Secondo la giurisprudenza un’interpretazione ragionevole dell’art. 6 c. 4 della L. 328/2000 è nel senso che “l’obbligo a carico del Comune sorge nel momento in cui si verificano le condizioni per procedere alla erogazione del contributo, momento che si verifica quando la situazione economica della persona assistita si deteriora «a tale punto da non potersi permettere di corrispondere la retta alla casa di riposo con le proprie risorse economiche» (Cons. Stato Sez. III, 10/01/2017, n. 46; Cons. St., sez. III, 23 agosto 2012, n. 4594)”. Deve, quindi, escludersi che “per le prestazioni sociali valga quanto stabilito dalla legge per le prestazioni sanitarie, cioè l’assunzione in via principale e diretta della spesa a carico dell’ente pubblico”. In merito alla definizione della condizione economica dell’assistito l'art. 2 co. 1 del d.P.C.M. n. 159/2013 prevede che "La determinazione e l'applicazione dell'indicatore ai fini dell'accesso alle prestazioni sociali agevolate, nonché della definizione del livello di compartecipazione al costo delle medesime, costituisce livello essenziale delle prestazioni, ai sensi dell'articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione, fatte salve le competente regionali in materia di normazione, programmazione e gestione delle politiche sociali e sociosanitarie e ferme restando le prerogative dei comuni". Ed, invero, l’art. 8 c.2 della Legge Regionale 12 marzo 2008, n. 3 prevede <<L’accesso agevolato alle prestazioni sociosanitarie e sociali e il relativo livello di compartecipazione al costo delle medesime è stabilito dai comuni nel rispetto della disciplina statale sull’indicatore della situazione economica equivalente e dei criteri ulteriori, che tengano conto del bisogno assistenziale, stabiliti con deliberazione della Giunta regionale>>. In sostanza, sia la norma statale che quella regionale stabiliscono chiaramente che “non solo l’accesso, ma anche la compartecipazione al costo delle prestazioni sociosanitarie e sociali è stabilito avendo come base la disciplina statale sull’indicatore della situazione economica equivalente”. La norma regionale stabilisce, inoltre, che “criteri ulteriori sono definiti dalla Giunta regionale. Deve quindi escludersi che il reddito dell’assistito ai fini dell’accesso ed ai fini della determinazione della compartecipazione possa essere definito dal Comune avendo per oggetto elementi diversi”. Per quanto riguarda poi la “definizione del c.d. minimo vitale, cioè di quella parte del reddito personale che non debba essere computato ai fini della determinazione della compartecipazione alla retta, perché destinato a soddisfare altre esigenze esistenziali fondamentali, deve escludersi che il potere comunale di determinazione sia assoluto”. Infatti, “l’art. 24, 1° comma, lett. g), L. n. 328/2000 delega il Governo un decreto legislativo recante norme per il riordino degli assegni e delle indennita' spettanti ai sensi delle leggi 10 febbraio 1962, n. 66, 26 maggio 1970, n. 381, 27 maggio 1970, n. 382, 30 marzo 1971, n. 118, e 11 febbraio 1980, n. 18, e successive modificazioni che preveda il riconoscimento degli emolumenti anche ai disabili o agli anziani ospitati in strutture residenziali, in termini di pari opportunita' con i soggetti non ricoverati, prevedendo l'utilizzo di parte degli emolumenti come partecipazione alla spesa per l'assistenza fornita, ferma restando la conservazione di una quota, pari al 50 per cento del reddito minimo di inserimento di cui all'articolo 23, a diretto beneficio dell'assistito”. Alla luce di quanto suddetto, il Tar ritiene che la fissazione di un limite d’indigenza totale o astratto è in contrasto con la quantificazione del minimo vitale effettuato dall’art. 24, 1° comma, lett. g), L. n. 328/2000, atteso che “l'obbligazione pubblica di assistenza sorge in considerazione soltanto delle condizioni oggettive e soggettive del soggetto bisognoso (stato di necessità e assenza di mezzi propri)”. In conclusione, in questa materia va ritenuta esistente l'assoluta uguaglianza tra bisognosi, malati o meno che siano, “che costituisce l'unica vera uguaglianza assoluta tra soggetti”. Ad impegnare gli obbligati, congiunti o ente pubblico, “è lo stato oggettivo di necessità - di cura come di assistenza - per nulla influenzato dalla causa del suo insorgere”. EF
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Inserito in data 27/03/2017 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 22 marzo 2017, n. 1315 Delitti spia ex art. 84 d.lgs. n. 159/11 ed informativa antimafia Nella sentenza emarginata in epigrafe, il Consiglio di Stato si pronuncia in merito alla emissione, ad opera della Prefettura, di una informativa antimafia nei riguardi di una società (operante nel settore rifiuti) e dalla stessa impugnata innanzi al T.A.R. per vederne dichiarare l’annullamento. Il Giudice di prime cure, condividendo la tesi difensiva della ricorrente (appellata in secondo grado), annullava la informativa de quo nonché gli atti adottati dalla Amministrazione sul presupposto della informativa medesima. Avverso la sentenza di annullamento viene proposto appello dalla stessa Prefettura e dal Ministero dell’Interno. I motivi di appello vengono, dal Collegio, ritenuti fondati in quanto la informativa a carico della società è stata emessa sul presupposto di una Ordinanza di custodia cautelare emessa dal G.I.P. presso il Tribunale di – omissis - nei confronti del Presidente del Consiglio di amministrazione della società oltre ad altri amministratori di società collegate alla prima “per i delitti di associazione a delinquere (art. 416 c.p.) e di traffico illecito di rifiuti (art. 260 del D.L.vo n. 152 del 2006)”. Secondo il primo Giudice, i provvedimenti penali emessi a carico dei soggetti amministratori della società non sarebbero ex se idonei a giustificare la valutazione prefettizia circa la permeabilità mafiosa degli stessi, con conseguente emanazione della informativa oggetto della impugnazione. Più precisamente, secondo il T.A.R., “non è detto che i soggetti sottoposti a misura cautelare o rinviati a giudizio con l’imputazione di essere coinvolti nel traffico illecito di rifiuti siano ipso facto a rischio di collusione con ambienti della criminalità organizzata” giacché “questa valutazione o, in altri termini, presunzione non può essere assoluta, tenuto conto degli effetti dirompenti prodotti dall’informativa, ma deve essere relativa, dovendo il Prefetto comunque verificare, prima di adottare il provvedimento, l’esistenza della concreta possibilità di interferenze mafiose”. Detto altrimenti, “a giustificare la emanazione della informativa antimafia non basta il titolo del reato riportato nel provvedimento del giudice penale, ma occorre esaminare il contenuto dell’ordinanza o della sentenza del giudice penale e rintracciare nel provvedimento stesso gli indizi da cui desumere il rischio di contiguità con la malavita organizzata, e dunque l’inaffidabilità dell’impresa”. Al contrario, stando ai motivi di doglianza proposti in appello dalle odierne appellanti (Ministero e Prefettura) “l’elencazione dei titoli di reato, contenuta nell’art. 84, comma 4, lett. a), del D.L.vo n. 159 del 2011, sarebbe di per sé esaustiva, nel senso che per quei reati il legislatore ha inteso operare a monte una valutazione circa il pericolo di infiltrazione mafiosa, in quanto si tratta di fattispecie che destano maggiore allarme sociale, intorno alle quali con maggiore regolarità statistica, gravita il mondo della criminalità organizzata di stampo mafioso”. Orbene, il Collegio condivide il motivo di doglianza esposto nel gravame e ricorda che il Prefetto “può e non deve già desumere elementi di infiltrazione mafiosa dalla contestazione dei reati previsti dall’art. 84 citato a mente del quale “le situazioni relative ai tentativi di infiltrazione mafiosa che danno luogo all’adozione dell’informazione antimafia sono desunte, tra l’altro, dai provvedimenti che dispongono una misura cautelare ovvero che recano una condanna anche non definitiva per taluni dei delitti di cui agli articoli 353, 353-bis etc. La Sezione, quindi, opera una distinzione tra “il valore estrinseco del provvedimento giurisdizionale emanato in sede penale sulla base dei delitti spia di cui all’art. 84 ed il valore intrinseco di tale provvedimento, dato dall’apprezzamento che il Prefetto compie della sentenza – o di altro provvedimento reso in sede penale. Sotto tale profilo viene in rilievo il valore intrinseco che il contenuto della sentenza assume nella valutazione discrezionale compiuta dalla Prefettura (Cons. Stato, sez. III, 24 luglio 2015, n. 3653) definendo così la informativa antimafia quale “provvedimento discrezionale, e non vincolato, che deve fondarsi su di un autonomo apprezzamento degli elementi delle indagini svolte, o dei provvedimenti emessi in sede penale, da parte dell’autorità prefettizia”. In sostanza, il provvedimento giurisdizionale emesso in sede penale deve essere considerato quale “indice sintomatico di fenomeni di infiltrazione mafiosa, ma ciò non deve far venir meno l’autonomo apprezzamento delle predette risultanze penali da parte del Prefetto che giustifichino la emissione della informativa de quo a carattere interdittivo”. Viene, altresì, evidenziato che non vi debba essere automatismo alcuno tra la “emissione del provvedimento cautelare in sede penale e l’emissione dell’informativa antimafia”. Ed invero, nel caso di specie, contrariamente al ragionamento di cui alla sentenza impugnata, l’Autorità prefettizia ha singolarmente elencato e valutato la posizione del presidente della società e degli altri soggetti amministratori delle società ricollegabili alla prima. Pertanto la Prefettura ha emesso la nota antimafia sulla base di un’autonoma e ponderata valutazione dei fatti che ne giustificano la emanazione. A completamento dell’iter argomentativo, il Collegio rileva che “il delitto di cui all’art. 260 d.lgs. n. 152 del 2006 (traffico illecito di rifiuti) è elemento in sé bastevole a giustificare l’emissione dell’informativa, perché il disvalore sociale e la portata del danno ambientale connesso al traffico illecito di rifiuti rappresentano, già da soli, ragioni sufficienti a far valutare con attenzione i contesti imprenditoriali, nei quali sono rilevati, in quanto oggettivamente esposti al rischio di infiltrazioni di malaffare che hanno caratteristiche e modalità di stampo mafioso (cfr. Cons. Stato, sez. III, 21 dicembre 2012, n. 6618; Cons. Stato, sez. III, 28 aprile 2016, n. 1632; Cons. Stato, sez. III, 28 ottobre 2016, n. 4555 e n. 4556). Per di più, “la presenza di legami con la criminalità organizzata (a fronte del grave delitto di cui all’art. 260 d.lgs. n. 152 del 2006) è data per presupposta dal legislatore, con una praesumptio iuris tantum che deve ammettere la prova contraria che, nel caso di specie, non è stata offerta dalle appellanti”. Alla luce di quanto sopra detto, il Consiglio accoglie l’appello avverso la decisione del TAR e, per l’effetto, respinge il ricorso ed i motivi aggiunti proposto innanzi al Primo Giudice. PC
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Inserito in data 25/03/2017 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL'ADUNANZA PLENARIA - 24 marzo 2017, n. 1337 Motivazione ordinanza comunale di demolizione notificata dopo anni dall’abuso non commesso dall’attuale titolare Con l’ordinanza in esame, la Sesta Sezione del Consiglio di Stato ha rimesso all’Adunanza Plenaria la questione “se l’ordinanza di demolizione di immobile abusivo (nella specie, trasferito mortis causa) debba essere congruamente motivato sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità violata quando il provvedimento sanzionatorio intervenga a una distanza temporale straordinariamente lunga dalla commissione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi del provvedimento sanzionatorio”. Oggetto della vicenda è un’ordinanza di demolizione di opere edili abusivamente realizzate, notificata dal Comune ben 32 anni dopo l’ultimazione delle stesse opere. Tale inerzia aveva ingenerato una posizione di affidamento nei proprietari dell’immobile de quo, i quali, peraltro, semplicemente ereditando la proprietà dell’edificio anni dopo il suo completamento, risultavano addirittura estranei a qualsivoglia realizzazione abusiva. Veniva, quindi, “lamentato che, nonostante il notevole lasso di tempo trascorso tra la commissione dell’abuso e la risposta sanzionatoria, con il conseguente affidamento medio tempore maturato dagli attuali proprietari, l’Amministrazione comunale non avesse dato conto alcuno, con idonea motivazione, delle ragioni di attualità, concretezza e specificità del pubblico interesse, diverso dal mero ripristino della legalità, sotteso al provvedimento sanzionatorio”. In primo grado, il ricorso veniva respinto alla luce di quell’orientamento giurisprudenziale (Consiglio di Stato, Sez. IV, 11 gennaio 2011, n. 79) secondo il quale “l’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare”. La questione è stata, poi, riproposta in appello e la Sesta Sezione, nell’ordinanza in commento, ha subito chiarito che sul tema sussistono due orientamenti giurisprudenziali. Secondo un primo orientamento (che sembrerebbe maggioritario), “l’ordinanza di demolizione di un manufatto abusivo è legittimamente adottata senza alcuna particolare motivazione e indipendentemente dal lasso temporale intercorso dalla commissione dell’abuso, dovendosi escludere in radice ogni legittimo affidamento in capo al responsabile dell’abuso o al di lui avente causa” (VI, 10 maggio 2016 n. 1774; VI, 11 dicembre 2013 n. 5943; VI, 23 ottobre 2015 n. 4880; V, 11 luglio 2014 n. 4892; IV, 4 maggio 2012 n. 2592). Lo stesso orientamento precisa, inoltre, che “ammettere la sostanziale estinzione di un abuso edilizio per decorso del tempo significherebbe configurare una sorta di sanatoria extra ordinem, di fatto, che potrebbe operare anche quando l’interessato non abbia inteso (o potuto) avvalersi del corrispondente istituto legislativamente previsto” (VI, 5 gennaio 2015 n. 13). Invece, per un secondo orientamento (conforme alla difesa degli appellanti), pur nella consapevolezza del prevalente indirizzo contrario, sussistono “casi-limite in cui può pervenirsi a considerazioni parzialmente difformi” (VI, 14 agosto 2015 n. 3933). Tali considerazioni fanno leva sul lasso temporale intercorso dalla commissione dell’abuso (o della sua conoscenza da parte dell’Amministrazione), sulla buona fede del soggetto destinatario dell’ordinanza di demolizione diverso dal responsabile dell’abuso e sull’assenza, attraverso il trasferimento del bene, di un intento volto a eludere l’applicazione del provvedimento sanzionatorio. Nello stesso solco, aggiunge la Sesta Sezione - ma il riferimento è a “semplici difformità” della costruzione dal titolo edificatorio - si pone quella giurisprudenza secondo cui “il decorso del tempo incide sulla certezza dei rapporti giuridici e può incidere significativamente con le possibilità di difesa dell’interessato sia rispetto all’amministrazione sia nei confronti del dante causa” (V, 15 luglio 2013 n. 3847, seguìta da V, 24 novembre 2013 n. 2013 e IV, 4 marzo 2014 n. 1016; la medesima decisione richiama V, 29 maggio 2006 n. 3270, che, pur facendo riferimento alla rilevanza della tipologia dell’abuso, non limita il principio della rilevanza dell’affidamento alle “semplici difformità”). Alla luce, dunque, del contrasto tra quel filone giurisprudenziale che ritiene ininfluente il decorso del tempo e quell’orientamento (invocato dagli appellanti) che, a determinate condizioni, richiede invece una specifica motivazione in ordine all’adozione di un provvedimento sanzionatorio, il Collegio ritiene di dover rimettere la questione all’Adunanza Plenaria, non prima, però, di aver fatto delle importanti osservazioni al riguardo. Il primo rilievo attiene alla circostanza che “nell’arco temporale decorrente dalla commissione dell’abuso (anno 1982) e l’adozione del provvedimento impugnato (anno 2014) sono intervenuti ben tre condoni edilizi disciplinati dalle leggi 28 febbraio 1985, n. 47, 23 dicembre 1994, n. 724 e 24 novembre 2003, n. 326. Dagli elementi di fatto forniti dagli appellanti si desume che la loro dante causa non ha ritenuto di avvalersi delle facoltà concesse dalle leggi richiamate e di ottenere il condono per l’immobile abusivamente realizzato, previa corresponsione delle somme dovute a titolo di oblazione stabilite dalla normativa sopra citata. Invero, nella prospettazione degli appellanti, il trasferimento mortis causa dell’immobile assorbirebbe l’omissione della presentazione delle domande di condono, realizzando una sorta di sanatoria extra ordinem, formatasi per il mero decorso del tempo (sia pure prolungato), ed esonerando ratione temporis gli appellanti da una presentazione, sia pur tardiva delle stesse (ammesso che -osserva la Sezione- una tale evenienza sia possibile)”. Con la seconda osservazione, invece, il Collegio evidenzia “che la sussistenza di un interesse pubblico attuale era richiesto dalla giurisprudenza per l’annullamento (in autotutela) di un preesistente provvedimento valutato in seguito illegittimo. La giurisprudenza invocata dagli appellanti estende, quindi, con una radicale innovazione di sistema, al “fatto illecito” (quale deve considerarsi una costruzione realizzata senza titolo abilitativo) quel che originariamente era richiesto solo per un “atto illegittimo”. E’ peraltro vero che un lasso di tempo straordinariamente lungo tra la commissione dell’abuso (da parte di terzi) e la sanzione, tempo intercorso anche a causa dell’inerzia serbata dall’amministrazione, potrebbe essere ritenuto in sé idoneo a giustificare un affidamento da parte del soggetto estraneo alla commissione dell’abuso; affidamento che, se non può certo elidere in radice il potere sanzionatorio, ne richiede una giustificazione in termini di attualità e concretezza, in relazione, oltre che al tempo, alla consistenza dell’abuso medesimo e ad altre circostanze fattuali che si assumano rilevanti”. FM
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Inserito in data 24/03/2017 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL’ADUNANZA PLENARIA, 23 marzo 2017 - n. 1322 Notifica del ricorso introduttivo a mezzo PEC in difetto di autorizzazione presidenziale Nell’ordinanza in esame, il Consiglio di Stato ritiene di dover devolvere all’Adunanza plenaria la questione di diritto se, nel sistema anteriore all’entrata in vigore dell’art. 14 del d.P.C.M. 16 febbraio 2016, nr. 40 (“Regolamento recante le regole tecnico-operative per l'attuazione del processo amministrativo telematico”), è ammissibile nel processo amministrativo la notifica del ricorso introduttivo a mezzo PEC anche in difetto di apposita autorizzazione presidenziale ex art. 52, comma 2, cod. proc. amm. La Sezione deferisce all’Adunanza plenaria la suddetta questione, atteso che, in relazione alla stessa sussistono difformità di indirizzi in giurisprudenza potenzialmente idonei a pregiudicare l’equa ed uniforme applicazione della normativa di riferimento. “In base all’orientamento minoritario, nel processo amministrativo, in assenza di apposita autorizzazione presidenziale ex art. 52 comma 2, cod. proc. amm. è inammissibile la notifica del ricorso giurisdizionale mediante posta elettronica certificata ai sensi della legge 21 gennaio 1994, nr. 53 (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 17 gennaio 2017, nr. 130; id., 17 gennaio 2017, nr. 156; id., 13 dicembre 2016, nr. 5226; id., sez. III, 20 gennaio 2016, nr. 189”. “L’altro orientamento, di gran lunga prevalente, riconosce, al contrario, l’immediata applicazione nel processo amministrativo delle norme sancite dagli artt. 1 e 3-bis della legge nr. 53/1994, secondo cui la notificazione degli atti in materia civile, amministrativa e stragiudiziale può essere eseguita a mezzo di posta elettronica certificata (cfr. ex plurimis e da ultimo, Cons. Stato, sez. IV, 22 novembre 2016, nr. 4895; id., sez. V, 4 novembre 2016, nr. 4631; id., sez. VI, 26 ottobre 2016, nr. 4490; id, sez. III, 10 agosto 2016, nr. 3565; id., 6 luglio 2016, nr. 3007; id., 14 gennaio 2016, nr. 91; id., sez. VI, 22 ottobre 2015, nr. 4862; id., sez. III, 9 luglio 2015, nr. 4270; id., sez. VI, 28 maggio 2015, nr. 2682; C.g.a.r.s., 8 luglio 2015, nr. 615).” GB
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Inserito in data 23/03/2017 TAR CAMPANIA - NAPOLI, SEZ. VII, 20 marzo 2017, n. 1531 Sgombero di bene appartenente al patrimonio disponibile: giurisdizione giudice ordinario La sentenza in esame affronta il tema della diversità del regime giuridico a cui i beni pubblici sono soggetti, a seconda che facciano parte del demanio pubblico (nonché del patrimonio indisponibile) oppure del patrimonio disponibile e la conseguente questione del riparto di giurisdizione. Nei fatti, un Comune aveva inteso esercitare un potere autoritativo (e non inviare una semplice diffida iure privatorum) per ordinare lo sgombero di un locale occupato, appartenente al proprio patrimonio disponibile. Orbene, chiamato a pronunciarsi sul punto, il TAR ha immediatamente rilevato il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, esponendo le ragioni per le quali la questione sottesa al rapporto controverso rientri, invece, nella giurisdizione del giudice ordinario. Il Collegio, ponendosi nel solco di una costante giurisprudenza, richiama, in primo luogo, l'art. 823 c.c., il quale stabilisce che l'Amministrazione possa ricorrere all'esercizio dei poteri amministrativi solo per tutelare i beni del demanio pubblico e del patrimonio indisponibile, con la conseguenza che, l’ordinanza in questione, essendo rivolta ad un bene appartenente al patrimonio disponibile dell'Ente Territoriale, vada qualificata come atto nullo (secondo i principi sanciti dall'art. 21 septies, l. 7 agosto 1990, n. 241), in quanto adottata in carenza assoluta di potere. Soffermandosi sulla nullità del provvedimento, il giudice di prime cure afferma poi che esso “non produce alcun effetto degradatorio delle posizioni soggettive di cui si assume la lesione, e se dalla esecuzione del provvedimento sono derivati effetti pregiudizievoli, gli stessi vanno considerati come violazioni di diritti soggettivi la cui tutela appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario” (v. Cons. Stato n. 1331/2010; T.a.r. Sicilia- Palermo n. 169/2016). Infine, ritenendo di non doversi discostare da una consolidata giurisprudenza, il Collegio Campano afferma che, “la controversia relativa ad un ordine di sgombero di un locale di proprietà comunale facente parte del patrimonio disponibile dell'ente territoriale, appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario, trattandosi di un rapporto di matrice negoziale, da cui derivano in capo ai contraenti posizioni giuridiche paritetiche qualificabili in termini di diritto soggettivo, nel cui ambito l'Amministrazione agisce "iure privatorum" - al di fuori cioè dell'esplicazione di qualsivoglia potestà pubblicistica - non soltanto nella fase genetica e funzionale del rapporto, ma anche nella fase patologica, il che, più specificamente, si traduce nell'assenza di poteri autoritativi sia sul versante della chiusura del rapporto stesso, sia su quello connesso del rilascio del bene” (cfr. ex multis T.A.R. Campania Napoli, sez. VII, n. 931/2015). FM
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Inserito in data 22/03/2017 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 21 marzo 2017, n. 1276 La libertà d’impresa è comprimibile solo dinanzi a interessi superiori
Il Collegio, chiamato a pronunciarsi sull’applicazione di una norma di legge regionale del piano arenile (art. 23 del piano), che fornisce la disciplina urbanistica ed edilizia della parte del territorio comunale compresa tra il lungomare e la battigia, ne dichiara l’illegittimità ove impedisce l’apertura di nuovi esercizi di somministrazione di alimenti e bevande e consente solo la prosecuzione delle attività già autorizzate al momento dell’adozione dello strumento urbanistico, poiché violativa della normativa statale ed espressiva di una scelta discrezionale irragionevole e contraddittoria.
Ad avviso della Sesta Sezione, siffatta previsione, si rivela, infatti, da un lato, confliggente con la disciplina normativa sulla “liberalizzazione” delle attività commerciali, dall’altro affetta dal vizio di eccesso di potere, per effetto della irragionevolezza e della contraddittorietà della scelta. In ordine al primo profilo, osserva il Collegio che il combinato disposto degli artt. 3, comma 1, D.L. n. 223 del 2006 ("Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale") e 64, D.Lgs. n. 59 del 2010 ("Attuazione della direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno") descrive un sistema di regole che, per un verso, “esclude la possibilità di limitare e contingentare le attività di somministrazione di alimenti e bevande, in coerenza con la dichiarata finalità di apertura alla concorrenza del relativo settore di mercato, e, per un altro, consente ai Comuni una programmazione limitativa dell’apertura di nuovo esercizi solo nelle situazioni in cui la salvaguardia dei preminenti valori della sostenibilità ambientale o sociale, non diversamente tutelabili, impediscano l’aggravio del carico urbanistico implicato dall’insediamento di nuove attività”. Il Supremo Consesso evidenzia il profilarsi di un regime fortemente liberalizzato, in cui le restrizioni di accesso di nuovi esercenti sono programmabili solo nei casi, eccezionali e limitati, in cui la protezione di interessi generali - superiori a quello connesso alla libertà d’impresa - esige una proporzionata ed adeguata limitazione dell’apertura di nuovi esercizi di somministrazione di alimenti e bevande. Rileva il Collegio che sebbene “discrezionale, la decisione pianificatoria in esame resta soggetta alle regole di azione stabilite dalla diposizione legislativa di riferimento e, in ogni caso, ai canoni generali della ragionevolezza e della proporzionalità (cfr. ex multis Cons St., sez. IV, 16 aprile 2015, n.1949), appare agevole il rilievo che la contestuale previsione della possibilità di aumentare la superficie degli esercizi esistenti, fino a mq 200, rivela palesi profili di contraddittorietà e di illogicità, che si traducono nel vizio di eccesso di potere per uso sviato della discrezionalità”. In tale contesto, le esigenze di tutela dell’ambiente risultano smentite e contraddette proprio dalla incoerente previsione della possibilità di aumento della superficie destinata all’esercizio delle attività esistenti di somministrazione di alimenti e bevande; “non solo, ma il combinato disposto delle due misure rivela anche un significativo profilo di sviamento, integrato dal sintomo di una decisione preordinata a cristallizzare l’assetto di mercato esistente al momento dell’adozione della delibera, impedendo, in chiave anticoncorrenziale, l’accesso ad esso di nuovi esercenti”. Per le ragioni sopra esposte, la Sesta Sezione accoglie il ricorso e annulla la disposizione censurata. DU |
Inserito in data 21/03/2017 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 15 marzo 2017, n.1175 Lesione dei diritti partecipativi, violazione delle norme sul contraddittorio nel caso di interessi contrastanti La decisione i cui estremi vengono emarginati in epigrafe, concerne una controversia avente ad oggetto la impugnazione del diniego di autorizzazione apertura di passo carrabile. In primo grado il T.A.R., non condividendo i motivi di impugnazione avverso il predetto diniego, respinge il ricorso. Più precisamente, il Giudice di prime cure ritiene di poter condividere la opposizione della Amministrazione resistente, fondata sulla base della presunta interferenza dell’ipotizzato passo carrabile con la realizzazione di un parcheggio pubblico sotterraneo, in quanto una delle rampe da realizzare sarebbe stata posta in corrispondenza del passo carrabile richiesto, con conseguente incompatibilità del progetto privato (presentato dalle società ricorrenti). In secondo grado le parti ripropongono, sostanzialmente, i medesimi motivi di impugnazione respinti dal T.A.R., fondati sulla violazione delle garanzie partecipative ex L. 241 del ’90 e riguardanti il procedimento amministrativo conclusosi con la delibera di approvazione del parcheggio pubblico nonché sulla antecedenza temporale della richiesta del permesso di passo carrabile ed il progetto di parcheggio pubblico. In particolare, “le appellanti ritengono errato il presupposto da cui il TAR avrebbe preso le mosse e, cioè, l’antecedenza cronologica del progetto inerente alla realizzazione del parcheggio interrato rispetto alla richiesta di apertura del passo carrabile”. Il Collegio afferma la fondatezza della doglianza in quanto la richiesta di passo carrabile, unitamente all’intero progetto posto in essere dalle società appellanti, precede temporalmente l’inizio del procedimento di approvazione del parcheggio. Ed è sotto tale profilo che emerge la illegittimità del comportamento dell’Amministrazione Comunale la quale, “non avrebbe coinvolto le appellanti nell’iter di approvazione del progetto del parcheggio interrato” giacché risulta “evidente l’interferenza del progetto relativo alla realizzazione del parcheggio interrato rispetto alle opere già realizzate dalle appellanti ed a quelle delle quali si richiedeva la realizzazione”. Il Collegio rileva, dunque, il mancato rispetto delle “adeguate garanzie procedimentali che la l. n. 241 del 1990 pone a favore dei soggetti coinvolti direttamente in un procedimento” o in favore di soggetti i cui interessi privatistici sono interferenti rispetto all’interesse pubblico. Tra l’altro, l’intero progetto di ammodernamento dell’edificio in cui le appellanti hanno cominciato la loro attività “risale ad epoca decisamente anteriore rispetto all’inizio del procedimento conclusosi con la delibera di approvazione del parcheggio pubblico”. La Sezione prosegue che in caso di interferenza tra interesse pubblicistico e privatistico, “se è vero che non è ragionevole pretendere la negoziazione del contenuto di un’opera pubblica con tutti i proprietari frontisti, è altresì, incontestabile che il coinvolgimento del privato debba avvenire nel momento in cui questi abbia un interesse differenziato rispetto alla generalità dei consociati”. Dunque nel caso di specie, viene ravvisata “la lesione dei diritti partecipativi sanciti dalla l. n. 241 del 1990 che, a ben vedere, potevano anche essere valutati in sede di conferenza di servizi” giacché l’Amministrazione, stante l’anteriorità delle opere realizzate dalle appellanti, “avrebbe dovuto renderle edotte dell’iter concernente la realizzazione del parcheggio interrato”. Per quanto sopra detto, il Collegio accoglie l’appello ed annulla i provvedimenti impugnati in primo grado. PC |
Inserito in data 20/03/2017 TAR CALABRIA – SEZIONE STACCATA DI REGGIO CALABRIA, 15 marzo 2017, n. 209 La clausola sociale promuove la stabilità occupazionale del personale già impiegato Con la pronuncia in esame, il Collegio avalla l’orientamento giurisprudenziale, secondo cui: “La clausola sociale dell’obbligo di continuità nell’assunzione è stata costantemente interpretata dalla giurisprudenza di questo Consiglio di Stato nel senso che l’appaltatore subentrante«deve prioritariamente assumere gli stessi addetti che operavano alle dipendenze dell’appaltatore uscente, a condizione che il loro numero e la loro qualifica siano armonizzabili con l’organizzazione d’impresa prescelta dall’imprenditore subentrante» mentre «i lavoratori, che non trovano spazio nell’organigramma dell’appaltatore subentrante e che non vengano ulteriormente impiegati dall’appaltatore uscente in altri settori, sono destinatari delle misure legislative in materia di ammortizzatori sociali» (ex multis, Consiglio di Stato, Sez. IV, 2 dicembre 2013, n. 5725); La clausola sociale, la quale prevede, secondo numerose disposizioni, «l’acquisizione del personale già impiegato nell’appalto a seguito di subentro di un nuovo appaltatore, in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro, o di clausola del contratto d’appalto», (così l’art. dell’art. 29, comma 3, del d. lgs. 276/2003, ma altrettanto rilevanti sono la generale previsione dell’art. 69, comma 1, del d. lgs. 163/2006 e quella dell’art. 63, comma 4, del d. lgs. n. 112/1999), perseguendo la prioritaria finalità di garantire la continuità dell’occupazione in favore dei medesimi lavoratori già impiegati dall’impresa uscente nell’esecuzione dell’appalto, è costituzionalmente legittima, quale forma di tutela occupazionale ed espressione del diritto al lavoro (art. 35 Cost.), se si contempera con l’organigramma dell’appaltatore subentrante e con le sue strategie aziendali, frutto, a loro volta, di quella libertà di impresa pure tutelata dall’art. 41 Cost.” (Consiglio di Stato, Sez. III, 9 dicembre 2015, n. 5598). In sostanza, il principio guida è che “la clausola di salvaguardia dei livelli occupazionali non si trasformi, da elemento afferente all’esecuzione dell’appalto, in un elemento tendenzialmente preclusivo della partecipazione”. D’altronde, la formulazione del (nuovo) art. 50 del d.lgs. 50/2016 prevede che “i bandi di gara, gli avvisi e gli inviti possono inserire, nel rispetto dei principi dell'Unione europea, specifiche clausole sociali volte a promuovere la stabilità occupazionale del personale impiegato, prevedendo l’applicazione da parte dell’aggiudicatario, dei contratti collettivi di settore di cui all’articolo 51 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81”: un richiamo, indiretto, al principio di proporzionalità per cui l’aggiudicatario dev’essere messo nelle condizioni di poter garantire l’applicazione del C.C.N.L., il che val quanto dire che non si possono imporre, con la lex specialis, condizioni che rendano soggettivamente impossibile tale obiettivo. Tali conclusioni sono state condivisibilmente ribadite dal T.A.R. Toscana, Sez. III, con sentenza n. 231 del 13 febbraio 2017 nella quale si legge che: “a) la clausola sociale deve conformarsi ai principi nazionali e comunitari in materia di libertà di iniziativa imprenditoriale e di concorrenza, risultando, altrimenti, essa lesiva della concorrenza, scoraggiando la partecipazione alla gara e limitando ultroneamente la platea dei partecipanti, nonché atta a ledere la libertà d'impresa, riconosciuta e garantita dall'art. 41 della Costituzione; b) conseguentemente, l'obbligo di riassorbimento dei lavoratori alle dipendenze dell'appaltatore uscente, nello stesso posto di lavoro e nel contesto dello stesso appalto, deve essere armonizzato e reso compatibile con l'organizzazione di impresa prescelta dall'imprenditore subentrante; c) la clausola non comporta invece alcun obbligo per l'impresa aggiudicataria di un appalto pubblico di assumere a tempo indeterminato ed in forma automatica e generalizzata il personale già utilizzato dalla precedente impresa o società affidataria (cfr. Cons. Stato, Sez. III, n. 1896/2013)”. In conclusione, il Tar afferma che la “medesima sentenza, che si richiama anche ai sensi e per gli effetti dell’art. 74, seconda parte, c.p.a., ribadisce che tale esito interpretativo non cambia alla luce della nuova disciplina dei contratti”. EF
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Inserito in data 18/03/2017 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 15 marzo 2017, n. 1173
Sull’autonomia dell’ordinamento sportivo rispetto a quello statale
Nella decisione emarginata in epigrafe, il Collegio conferma la sentenza del Giudice di prime cure nella quale viene declinata la giurisdizione del Giudice amministrativo sulla sanzione della preclusione a vita alla permanenza presso la Federazione italiana gioco calcio nei confronti del ricorrente in primo grado ed odierno appellante.
Più precisamente, il ricorso veniva dichiarato inammissibile innanzi al T.A.R. Lazio per difetto di giurisdizione del Giudice statale, affermando la giurisdizione del Giudice sportivo ai sensi dell’art. 2 c.1 d.l. 17.10.2003 n. 280.
La Sezione rileva la natura disciplinare della predetta sanzione, evidenziando che i rapporti tra ordinamento sportivo (c.d. giustizia sportiva) ed ordinamento statale sono disciplinati dall’ordinamento sportivo.
Il Collegio osserva come la disposizione di cui al citato art. 2, comma 1, riservi “all'ordinamento sportivo la disciplina delle questioni aventi ad oggetto l'osservanza e l'applicazione delle norme regolamentari, organizzative e statutarie dell'ordinamento sportivo nazionale al fine di garantire il corretto svolgimento delle attività sportive ed i comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e l'irrogazione ed applicazione delle relative sanzioni disciplinari sportive”.
Il successivo art. 3 riserva allo stesso giudice amministrativo “una tutela residuale attinente domande risarcitorie non sussistenti nel caso di specie e ciò anche per i soggetti divenuti estranei all’ordinamento sportivo, come nel caso di specie a seguito delle dimissioni rassegnate dall’interessato nel 2006”.
Del resto ciò è confermato anche da precedenti pronunce dello stesso Consiglio di Stato (sentenza VI, 24 settembre 2012, n. 5065) che ha avuto modo di ribadire “la inammissibilità, per difetto di giurisdizione amministrativa, del ricorso con cui si chiede l'annullamento delle sanzioni disciplinari inflitte dagli organi della giustizia sportiva a fronte della commissione di un illecito sportivo”.
Pertanto, per i motivi suddetti, il Collegio respinge il ricorso e per l’effetto conferma la sentenza impugnata del Giudice di prime cure. PC |
Inserito in data 17/03/2017 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III - ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL’ADUNANZA PLENARIA, 13 marzo 2017 - n. 1151 Offerta anomala: Criteri di calcolo delle offerte da accantonare nel c.d. taglio delle ali Nell’ordinanza in esame, il Consiglio di Stato sottopone al vaglio dell’Adunanza Plenaria un quesito in ordine alla corretta interpretazione delle disposizioni che disciplinano i criteri di calcolo delle offerte da accantonare nel meccanismo del c.d. “taglio delle ali”. Il Consiglio di Stato osserva preliminarmente che, nelle gare aggiudicate secondo il criterio del prezzo più basso, per individuare la soglia di anomalia oltre la quale le offerte sono considerate anormalmente basse, il legislatore ha previsto un meccanismo articolato in più fasi (Il c.d.taglio delle ali; il calcolo della media aritmetica dei ribassi percentuali di tutte le residue offerte; il calcolo dello scarto medio aritmetico dei ribassi percentuali che in tali offerte superano la predetta media; la somma dei dati relativi alla media aritmetica e allo scarto medio aritmetico). Il meccanismo del taglio delle ali, oggetto dell’ordinanza di rimessione, è “un’ operazione aritmetica di accantonamento che comporta l’esclusione, dal successivo calcolo della soglia, del dieci per cento, arrotondato all’unità superiore, rispettivamente delle offerte di maggior ribasso e di quelle di minor ribasso”. Tale meccanismo è disciplinato dall’art. 86 comma 1, del d. lgs. n. 163 del 2006 e dell’art. 121, comma 1, del d.P.R. n. 207 del 2010. In particolare, risulta controverso il secondo periodo del predetto art. 121 nella parte in cui “prevede che, nell’effettuare il c.d. taglio delle ali e nell’escludere dal calcolo il 10% delle offerte aventi il maggiore e minore ribasso, qualora vi siano una o più offerte di eguale valore rispetto a quelle comprese nel 10%, anche dette offerte devono essere accantonate nel meccanismo di calcolo della soglia di anomalia.” La Sezione rileva che sul punto si sono registrati due diversi orientamenti. Secondo un primo orientamento, da ritenersi prevalente almeno fino al 2014,” nel caso in cui siano state presentate due o più offerte, aventi la medesima riduzione percentuale, che si trovino nella fascia delle imprese rientranti nel 10%, ogni offerta deve essere considerata individualmente (c.d. criterio assoluto), perché la soluzione opposta comporterebbe il superamento del limite, fissato dal legislatore nel 10%, e si porrebbe in contrasto con il dato letterale dell’art. 86, comma 1, del d. lgs. n. 163 del 2006, in assenza di ragioni sostenibili o ispirate all’interesse pubblico (v., ex plurimis, Cons. St., sez. V, 28 agosto 2014, n. 4429).” Né vi sarebbero elementi “dai quali possa desumersi, come regola generale, che in caso di offerte con identico ribasso le stesse vadano considerate unitariamente come unica entità (c.d. criterio relativo).” L’unica eccezione a questa regola viene desunta per le offerte che, nel calcolo per il taglio delle ali, vengono a trovarsi a cavallo della percentuale del 10%”. Un secondo indirizzo interpretativo, “sostenuto dall’allora Autorità di vigilanza sui contratti pubblici nel parere n. 133 del 24 luglio 2013 e, poi, dall’ANAC nel parere n. 87 del 23 aprile 2014 e recepito, infine, dal Consiglio di Stato in diverse pronunce ha affermato che il taglio delle ali “intercetta il problema delle offerte identiche in due situazioni e, precisamente, quando vi siano più offerte identiche all’interno delle ali e quanto vi siano più offerte identiche a cavallo delle ali.” “Una volta ammesso che il tenore letterale dell’art. 86, comma 1, del d. lgs. n. 163 del 2006 possa essere superato in via interpretativa per le offerte a cavallo delle ali, non vi sono ragioni, secondo l’ANAC, per non applicare lo stesso metodo al caso delle offerte che rimangono interne alle ali.” Infatti, “identificare ciascuna offerta con uno specifico ribasso, accorpando le offerte con valori identici, consente, nella fase del taglio delle ali, di depurare la base di calcolo dai ribassi effettivamente marginali, definiti ex lege nel limite del 10%, superiore e inferiore, di oscillazione delle offerte.” A giudizio dell’ANAC, in tale prospettiva, “è irrilevante che i ribassi identici siano a cavallo o all’interno delle ali, perché si tratta comunque di valori che se considerati distintamente limitano l’utilità dell’accantonamento e ampliano eccessivamente la base di calcolo della media aritmetica e dello scarto medio aritmetico, rendendo inaffidabili i risultati” (parere n. 87 dell’8 maggio 2014). Pertanto, “per individuare le offerte da accantonare, si fa riferimento ai valori di ribasso, accorpando i valori identici, mentre nella fase successiva, calcolando la media aritmetica e lo scarto medio aritmetico, si utilizzano tutte le offerte, anche quelle con valori identici, essendo ragionevole che, allorché sia stato circoscritto in modo rigoroso l’intervallo dei ribassi attendibili ai fini del calcolo della soglia di anomalia, alla definizione delle medie partecipino tutte le offerte non accantonate (parere n. 87 dell’8 maggio 2014). Le argomentazioni dell’Autorità sono state riprese dalla più recente giurisprudenza del Consiglio di Stato la quale ha evidenziato che questa interpretazione “è più garantista dell’interesse pubblico e previene manipolazioni della gara e del suo esito, ostacolando condotte collusive in sede di formulazione delle percentuali di ribasso” (Cons. St., sez. V, 8 giugno 2015, n. 2813). Preso atto del contrasto giurisprudenziale sopra rassegnato, il Consiglio di Stato rimette all’Adunanza Plenaria la questione: “a) se nel calcolo del 10% delle offerte aventi maggiore e/o minore ribasso, ai sensi dell’art. 86, comma 1, del d. lgs. n. 163 del 2006, occorra computare tutte le offerte aventi medesimo valore (e, dunque, medesimo ribasso) singolarmente una ad una o, invece, quale unica offerta (c.d. blocco unitario), facendo detta disposizione riferimento, letteralmente, all’esclusione del 10% delle offerte aventi maggiore e minore ribasso e non dei singoli ribassi; b) se la disposizione regolamentare dell’art. 121, comma 1, secondo periodo, del d.P.R. n. 207 del 2010, nel prevedere che «qualora nell’effettuare il calcolo del dieci per cento di cui all’articolo 86, comma 1, del Codice siano presenti una o più offerte di eguale valore rispetto alle offerte da accantonare, dette offerte sono altresì da accantonare ai fini del successivo calcolo della soglia di anomalia», intenda o, comunque, presupponga che le offerte aventi eguale valore rispetto a quelle da accantonare siano considerate, “accantonate” e accorpate come un’unica offerta o, invece, si limiti a prevedere solo che debbano essere escluse (“accantonate”) dal calcolo della soglia di anomalia le offerte che, pur non rientrando nella quota algebrica del 10%, abbiano tuttavia eguale valore rispetto a quelle da accantonare e cioè, per logica necessità, a quelle situate al margine estremo delle ali (c.d. offerte a cavallo).” GB |
Inserito in data 16/03/2017 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III - ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL’ADUNANZA PLENARIA, 13 marzo 2017 - n. 1152 Il cessionario di ramo d’azienda può avvalersi della qualificazione posseduta dal cedente? Il caso portato all’attenzione del Supremo Consesso è paradigmatico e attiene alla cessione di un “ramo d’azienda” a società totalmente partecipata dal cedente, composto in larghissima parte dal solo “avviamento”, contabilizzato sulla base di un precedente contratto quadro di avvalimento tra le due società, e solo in infinitesima parte da beni materiali. La controversia verte sull’ammissibilità o meno dell’esclusione dell’aggiudicataria dalla gara per la perdita della qualificazione richiesta per la partecipazione a seguito della cessione tra il momento della domanda di partecipazione e la successiva presentazione dell’offerta. Il fuoco della discussione s’incentra sulla possibilità o meno che la vicenda negoziale sortisca effetti decadenziali automatici, a prescindere da un espresso provvedimento di decadenza per effetto della cessione sui requisiti di qualificazione. La Terza Sezione con l’ordinanza in esame ha rilevato come la medesima quaestio iuris ricevesse diverse soluzioni interpretative dalla Quarta e dalla Quinta sezione e le ha passate in rassegna come di seguito. Nella specie, le sentenze n. 811, 812 e 813 del 2016 della IV Sezione, escludevano che la circostanza della cessione di un ramo d’azienda esonerasse il soggetto cedente - che resti per avventura in dotazione di requisiti sufficienti per una determinata qualificazione - dal chiedere all’organismo di attestazione la certificazione della qualificazione, la quale - a norma dell’art. 60, comma 2, d.P.R. n. 207/2010 - “costituisce condizione necessaria e sufficiente per la dimostrazione dell'esistenza dei requisiti di capacità tecnica e finanziaria ai fini dell'affidamento di lavori pubblici”. Nelle sentenze n. 4347 e 4348 del 2016, la V Sezione, invece, “consapevole del contrario orientamento espresso in alcune decisioni di questo Consiglio”, riteneva di dover condividere e far propria la conclusione secondo la quale con il contratto di cessione non fosse possibile trasferire i requisiti del cedente, occorrenti per la gara, posto che il contratto avesse avuto ad oggetto soltanto il trasferimento di singoli beni e requisiti. Conclusione, quest’ultima, che avrebbe trovato conferma nella nota del 10 aprile 2014 dell’AVCP (oggi ANAC), ove si dubita dell’idoneità dell’atto di cessione di ramo di azienda ai fini della qualificazione, qualora non emerga l’esposizione di una specifica autonomia funzionale e produttiva dei beni che lo compongono da una perizia giurata ex art. 76, comma 10, del DPR n. 207 del 2010. È con questo iter argomentativo che il Collegio ritiene che il quadro delle valutazioni svolte sulla natura giuridica dell’atto di cessione ed i suoi effetti sulla qualificazione sia talmente ampio e disallineato da esigere l’intervento dell’Adunanza Plenaria, ai sensi dell’art. 99 c.p.a. Si tratta di stabilire se, ai fini della conservazione della qualificazione, possa assumere rilevanza l’attestazione successiva con cui l’organismo SOA accerti che, anche in seguito alla cessione di una parte del compendio aziendale, l’impresa cedente mantenga tutti i prescritti requisiti. In definitiva, la Terza Sezione con l’ordinanza in epigrafe sottopone all’Adunanza Plenaria i seguenti quesiti: “1. Se, ai sensi dell’art. 76, comma 11, del d.P.R. n. 207/2010 debba affermarsi il principio per il quale la cessione del ramo d’azienda comporti sempre, in virtù dell’effetto traslativo, il venir meno della qualificazione, o piuttosto, se debba prevalere la tesi che alla luce di una valutazione in concreto limita le fattispecie di cessione, solo a quelle che presuppongono che il cessionario se ne sia definitivamente spogliato, escludendo dunque le diverse fattispecie di cessione di parti del compendio aziendale -“rami aziendali”- che si riferiscano, in concreto, a porzioni prive di autonomia funzionale e risultano pertanto inidonee a consentire al soggetto cedente di ottenere la qualificazione.
2. Se l’accertamento effettuato dalla SOA, su richiesta o in sede di verifica periodica, valga sempre e solo per il futuro, oppure se, nei casi in cui l’organismo SOA accerti ex post il mantenimento dei requisiti speciali in capo al cedente, nonostante l’avvenuta cessione di una parte del compendio aziendale, l’attestazione possa anche valere ai fini della conservazione della qualificazione senza soluzione di continuità.” DU
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Inserito in data 15/03/2017 TAR EMILIA ROMAGNA - PARMA, SEZIONE I, 10 marzo 2017, n. 94 Appalti: assegnazione di un solo lotto ed integrazione della lex specialis La questione posta al vaglio del Collegio riguarda l’assegnazione di uno solo dei due lotti in cui è stato suddiviso un appalto allorquando il bando di gara non disciplini l’ipotesi in cui lo stesso concorrente abbia presentato l’offerta economicamente più vantaggiosa per entrambi i lotti. Trattasi, invero, di una fattispecie non conforme a quanto disposto nella seconda parte del terzo comma dell’art. 51 del D. Lgs. n. 50/2016, secondo cui le stazioni appaltanti “nei medesimi documenti di gara indicano, altresì, le regole o i criteri oggettivi e non discriminatori che intendono applicare per determinare quali lotti saranno aggiudicati, qualora l'applicazione dei criteri di aggiudicazione comporti l'aggiudicazione ad un solo offerente di un numero di lotti superiore al numero massimo”. La previsione di un criterio che regoli l’eventualità in commento deve ritenersi doverosa in quanto, sotto un primo profilo, è imposta dalla norma e, sotto altro profilo, rientra “nella piena discrezionalità della Stazione appaltante”. In particolare, i Giudici, nell’accogliere l’eccezione di parte resistente, ritengono che l’annullamento del criterio carente specificato dalla stazione appaltante comporti la stessa espunzione della clausola contestata; con la conseguenza che “non residuerebbe nella lex specialis di gara un diverso criterio in base al quale procedere”, se la stessa stazione appaltante non avesse provveduto all’integrazione di cui all’art. 79, comma 3, d.lgs. n. 50 (nel caso di specie prevedendo che il lotto fosse assegnato al concorrente che avesse raggiunto la combinazione di punteggi più conveniente per la stazione appaltante). Né ritengono invocabile “l’applicabilità del chiarimento cronologicamente precedente poiché, a tacere del fatto che veniva posto nel nulla dalla successiva integrazione (il cui eventuale annullamento non ne determinerebbe comunque la riviviscenza), ai sensi della seconda parte del già richiamato comma 3 dell’art. 51 del D. Lgs. n. 50/2016 il criterio in esame deve essere contenuto nella disciplina di gara”. Alla luce di quanto suddetto, il Tar osserva che, opinando diversamente, la Stazione appaltante “si troverebbe nella condizione di non poter procedere all’aggiudicazione dei lotti causa l’assenza nei documenti di gara di uno specifico criterio applicabile la caso di specie”. EF
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Inserito in data 14/03/2017 TAR SICILIA - CATANIA, SEZ. I - 6 marzo 2017, n. 444 Danni provenienti da fauna selvatica e questioni in punto di giurisdizione Il Collegio etneo interviene, con la pronuncia in esame, in tema di richiesta ex art.7 della L. Reg. Sicilia n. 33/1997 – archiviata dall’Amministrazione competente. L’istante, odierna ricorrente, nella qualità di coltivatrice diretta e proprietaria di un fondo agricolo, avanzava la suddetta richiesta di indennizzo – lamentando gli ingenti e cospicui danni subiti dalla fauna selvatica presente sul posto in cui insistono i propri latifondi. La Ripartizione faunistico venatoria, territorialmente competente, disponeva la procedura di archiviazione in ragione della ritenuta, carente documentazione allegata a supporto dell’istanza, che potesse comprovare i danni subìti. In ragione di ciò, la ricorrente – oltre a lamentare l’eccesso di potere in cui era incorsa la suddetta Amministrazione – formulava, altresì, istanza di risarcimento del “mancato guadagno sofferto a causa del ritardato rilascio del provvedimento favorevole”. I Giudici catanesi, statuendo l’infondatezza del ricorso in ragione dell’estrema genericità dell’istanza con cui è chiesta la corresponsione di un emolumento per i danni patiti, ne chiariscono la natura indennitaria e, per l’effetto, si pronunciano in tema di giurisdizione. Essi, infatti, nel ricordare che l’art. 7 della L.R. 33/1997 dispone che “l'Assessore regionale per l'agricoltura e le foreste è autorizzato a corrispondere agli agricoltori e agli allevatori indennizzi, nella misura del 100 per cento, per i danni non altrimenti risarcibili, arrecati dalla fauna selvatica, in specie da quella protetta, alla produzione agricola, al patrimonio zootecnico ed alle opere approntate sui terreni coltivati o destinati a pascolo nonché su quelli vincolati per le finalità di protezione, rifugio e riproduzione di cui alla presente legge. La richiesta di indennizzo, dettagliatamente motivata, è inoltrata entro il termine di sette giorni dalla data dell'evento dannoso alla Ripartizione faunistico - venatoria competente per territorio che accerta la sussistenza e la consistenza del danno entro i successivi trenta giorni (…)”, così contemplando l’esercizio da parte della Ripartizione faunistico - venatoria di un vero e proprio potere discrezionale di verifica dei presupposti per il riconoscimento di tale indennizzo nonché di quantificazione del suo ammontare, rispetto al quale le posizioni dei privati acquistano, quindi, la consistenza di interessi legittimi. In guisa di ciò, spiegano ancora i Giudici, ricadono nella giurisdizione del giudice amministrativo le controversie relative ad indennizzi rispetto al cui riconoscimento sia attribuito un potere discrezionale alla p.a., ancorché limitato al "quantum" (in tal senso, Cass. Civ., Sez. Un., n. 1232/2000). Pertanto, applicando tali coordinate all’odierna fattispecie, l'indennizzo in favore dei proprietari di fondi danneggiati dalla fauna selvatica, nella disciplina posta dall'art. 7 della L.R. n. 33/1997 ha natura di contributo indennitario, giacché, in mancanza anche di criteri predeterminati di liquidazione, sussiste un potere discrezionale dell'Amministrazione pubblica almeno con riguardo al "quantum" dell'indennizzo da erogare. Ne consegue che la controversia – quale quella in esame, inerente al riconoscimento ed alla liquidazione di detto indennizzo, ricollegandosi a interessi legittimi, rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo. CC
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Inserito in data 13/03/2017 TAR LOMBARDIA - BRESCIA, SEZ. I - 10 marzo 2017, n. 354 Presupposti necessari per l’adozione del “daspo” Oggetto della sentenza in esame è il provvedimento, adottato dall’Autorità di Pubblica Sicurezza, gergalmente denominato “daspo” ossia divieto di accesso alle manifestazioni sportive. Precisamente il TAR si sofferma sulla disamina dei presupposti necessari per l’adozione di detto provvedimento e sulla sussistenza degli stessi nell’ambito di una fattispecie relativa ad un gruppo di tifosi che, avuto accesso ad un autogrill, prelevano, approfittando dello stato di confusione appositamente creato, beni di varia natura degli scaffali occultandoli all’interno degli indumenti indossati e degli zaini. Il Collegio richiama innanzitutto l'art. 6, comma 1, della legge n. 401/1989 (nella formulazione attualmente in vigore dopo varie modifiche) e rileva che nel caso di specie i ricorrenti sono stati denunciati per un reato (furto) che non rientra nell’elencazione di cui alla prima parte del primo comma di detto articolo, elencazione ritenuta tassativa da dottrina e giurisprudenza. Il Giudice di prime cure, pertanto, sposta la propria analisi sulle residue ipotesi alternative di cui all’ultima parte del medesimo art. 6 primo comma ed afferma, riferendosi al primo degli elementi tassativamente indicati: la connessione (“in occasione o a causa”) con la manifestazione sportiva, che nel caso di specie esso deve ritenersi sussistente, poiché, riguardo alla sfasatura temporale tra lo stesso evento sportivo e le condotte ascritte ai ricorrenti, la giurisprudenza sul punto ha già ritenuto non ostativa la circostanza che lo specifico episodio contestato in sede di Daspo avvenga alcune ore prima dell’inizio della partita e in un luogo relativamente distante dallo stadio. Ciò che occorre, invece, accertare - continua il TAR - è la sussistenza anche dell’ulteriore elemento tassativamente richiesto dalla norma: e cioè il carattere violento dell’episodio contestato, “sub specie di violenza su persone o cose ovvero di incitamento, inneggiamento o induzione alla violenza”. La sentenza in commento, a questo punto, richiama una serie di precedenti giurisprudenziali che delineano concretamente il suddetto concetto di “violenza”. Il primo riferimento è alla Cassazione penale, la quale nella sentenza n. 12352/2014 ha fornito “una chiave di lettura ufficiale che, di fatto, limita le condotte punibili con l'adozione di una misura di polizia (il c.d. DASPO) soltanto a quelle che specificamente istighino alla violenza, con esclusione, quindi, di comportamenti minacciosi o offensivi o denigratori o anche discriminatori che, seppur sanzionabili penalmente, non consentono l'adozione della misura di polizia”. Altro riferimento è alla giurisprudenza amministrativa, la quale ha affermato, tra l’altro, che: “…l’adozione del provvedimento di divieto de quo, che costituisce una misura di prevenzione o di polizia, deve pertanto risultare motivata con riferimento a comportamenti concreti ed attuali del destinatario dai quali possano desumersi talune delle ipotesi previste dalla legge come indice di pericolosità per la sicurezza e la moralità pubblica” (T.A.R. Piemonte-Sez. I sentenza n. 872 del 2016 e altri…); “…è necessario che al destinatario del divieto sia ascrivibile un comportamento volto con chiarezza e univocità alla commissione del fatto violento (direttamente o per interposta persona); comportamento che, seppure non necessariamente riconducibile a una fattispecie di reato, deve essere pur sempre connotato da fattori inequivocabili, quali l'atteggiamento di chi "induca o inneggi alla violenza, con movimenti corporei o espressioni verbali” (T.A.R. Lecce, sez. I, 17/02/2016, n. 325); “…il Daspo presuppone e dunque si fonda precipuamente sulla pericolosità specifica dimostrata dal soggetto in occasione di una manifestazione sportiva” (T.A.R. Pescara, 25/01/2016, n. 12). La stessa giurisprudenza amministrativa riconosce altresì “l’ampia discrezionalità di cui dispone in materia l’Autorità di P.S. circa la valutazione in ordine al profilo per cui “il soggetto, sulla base dei comportamenti tenuti nella circostanza, non dia affidamento di tenere, per il futuro, una condotta scevra dalla partecipazione a ulteriori episodi di violenza”; valutazione che “non può essere censurata se congruamente motivata con riferimento alle specifiche circostanze di fatto che l'hanno determinata” (Cons. di Stato, n. 6808/2011; TAR Toscana, n. 403/2014, ex pluris) L’analisi giurisprudenziale condotta dal TAR di Brescia si concentra poi sulle fattispecie analoghe a quella di cui è causa e da cui risulta: che il solo “furto in autogrill (…) fuoriesce dalla tipicità della violenza negli stadi che il legislatore intende reprimere con la L. n. 401/1989” (T.A.R. Umbria n. 199 del 2012); “viceversa esso rientra nel perimetro di applicazione della norma tutte le volte in cui è accompagnato (e qualificato) da un <<di più>> in termini di specifiche connotazioni violente”, come quando il contesto è quello in cui i membri di gruppo di ultras “hanno elevato cori e grida offensive, minacciato i gestori del bar ed anche prelevato, senza pagarle, bibite”(lo stesso T.A.R. Umbria, 10/05/2016, n. 397). Orbene, un simile “di più” di violenza (e di vero e proprio salto di qualità) rispetto al mero furto aggravato non è ravvisabile nella vicenda in esame, così come essa risulta descritta nelle varie relazioni e comunicazioni di servizio degli organi di polizia, infatti, sottolinea il Collegio bresciano, nel caso de quo, anche se nelle relazioni degli agenti si riferisce di un ingresso del gruppo di tifosi in autogrill e di situazione di confusione creata dallo stesso gruppo, ciò appare comunque non decisivo nelle modalità di esecuzione, poiché non si dà conto di comportamenti in sé violenti o minacciosi o intimidatori o anche solo potenzialmente atti a porre in pericolo la sicurezza pubblica o a creare turbative per l'ordine pubblico, così come espressamente richiesto dall’ultimo inciso del comma 1 art. 6 legge 401/89. Oltre al furto di bevande e di altri oggetti, l’unico ulteriore e più grave elemento obiettivo ascritto negli atti di polizia al gruppo di giovani supporters (tra cui i ricorrenti) entrato nell’autogrill è quello di aver messo “a soqquadro l'ambiente in modo da creare un notevole ed incontrollabile stato di confusione all'interno del locale”, con tutta probabilità finalizzato a (o comunque oggettivamente favorente) la successiva commissione dei furti. Nessun riferimento viene fatto “a minacce e/o intimidazioni rivolte espressamente nei confronti dell’unica addetta presente, la quale nella sua dichiarazione non attribuisce ai “giovani ultras” alcun specifico gesto o espressione in tal senso, bensì dà conto di una comprensibile ma pur sempre soggettiva percezione ovvero stato d’animo personale di paura, plausibilmente indotto dalle circostanze di tempo e di luogo (cioè l’essere donna ed essere sola a quell’ora di notte)”: quello che la stessa autorità di pubblica sicurezza si limita a definire “<<evidente timore>> incusso nell’unica dipendente dai giovani appartenenti alla tifoseria della squadra di calcio”. Un siffatto riflesso piscologico, conclude il TAR, non è sufficiente a “integrare il rigoroso e specifico presupposto obiettivo (atti in sé violenti o potenzialmente pericolosi per la sicurezza pubblica) richiesto dal diritto vivente, cioè dalla norma così come posta dal conditor legis e come interpretata dalla giurisprudenza, ai fini della sanzionabilità mediante Daspo”. Devono, quindi, essere annullati gli impugnati provvedimenti. FM
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Inserito in data 11/03/2017 TAR CAMPANIA - NAPOLI, SEZ. II - 8 marzo 2017, n. 1336 Procedure semplificate di affidamento di servizi e principio di rotazione Le procedure “semplificate” di affidamento di servizi, ai sensi dell’art. 36 del DLgs n. 50/2016, sono connotate dall’ampia discrezionalità dell’Amministrazione, “anche nella fase dell’individuazione delle ditte da consultare e, quindi, della negazione della sussistenza di un diritto in capo a qualsiasi operatore del settore ad essere invitato alla procedura”. Tale discrezionalità appare temperata dal “principio di trasparenza (come antidoto preventivo a comportamenti arbitrari e, più in generale, alla questione “corruzione”) e dal principio della “rotazione (funzionale ad assicurare l’avvicendamento delle imprese affidatarie per evitare che il carattere discrezionale della scelta si traduca in uno strumento di favoritismo)”. Sebbene il combinato disposto dagli artt. 36, I comma e 30, I comma del codice degli appalti ponga i suddetti principi sullo stesso piano, il principio di rotazione risulterebbe vanificato se non si privilegiasse “l’affidamento a soggetti diversi da quelli che in passato hanno svolto il servizio stesso, e ciò con l’evidente scopo di evitare la formazione di rendite di posizione e conseguire, così, un’effettiva concorrenza. “La rotazione, dunque – che nei contratti sotto soglia è la regola e non l’eccezione, si configura come strumento idoneo a perseguire l’effettività del principio di concorrenza e, per essere efficace e reale, comporta, sussistendone i presupposti (e cioè l’esistenza di diversi operatori del settore), l’esclusione dall’invito di coloro che siano risultati aggiudicatari di precedenti procedure dirette all’assegnazione di un appalto avente lo stesso oggetto di quello da aggiudicare.” Tuttavia, la mancata applicazione del principio di rotazione,“ non vale ex se, in linea di massima, ad inficiare gli esiti di una gara già espletata, una volta che questa si sia conclusa con l’aggiudicazione in favore di un soggetto già in precedenza affidatario del servizio e sia comprovato che la gara sia stata effettivamente competitiva, si sia svolta nel rispetto dei principi di trasparenza e di imparzialità e si sia conclusa con l’individuazione dell’offerta più vantaggiosa per la stazione appaltante (cfr. TAR Napoli, II, 27.10.2016 n. 4981)”. GB
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Inserito in data 10/03/2017 TRIBUNALE REGIONALE DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA DI TRENTO, SEZ. UNICA - 6 marzo 2017, n. 75 Ricorso avverso il diniego di accesso non notificato al controinteressato Oggetto della sentenza in esame è l’obbligo di notifica ad almeno un controinteressato del ricorso proposto avverso il diniego di accesso ai documenti. Precisamente, il TAR distingue le ipotesi in cui detto obbligo incombe sulla Pubblica Amministrazione, da quelle, invece, in cui l’effettuazione della notifica spetta al ricorrente. Nella fattispecie la ricorrente, pur avendo individuato espressamente e nominativamente le persone fisiche alla cui documentazione pensionistica intendeva accedere (accesso rispetto al quale era maturato un silenzio rigetto), non aveva provveduto alla notificazione del ricorso ad alcuno di questi. Il Tribunale Regionale di Giustizia Amministrativa di Trento, nel dichiarare il ricorso inammissibile, delinea il quadro normativo di riferimento e menziona, in primo luogo, l’art. 22 della Legge n. 241/1990, secondo cui sono “controinteressati” “tutti i soggetti, individuati o facilmente individuabili in base alla natura del documento richiesto che dall’esercizio dell’accesso vedrebbero compromesso il loro diritto alla riservatezza”. Successivamente viene richiamato l’art. 116 del c.p.a. il quale, a propria volta stabilisce al primo comma che “il ricorso è proposto entro trenta giorni dalla conoscenza della determinazione impugnata o dalla formazione del silenzio, mediante notificazione all’amministrazione e ad almeno uno dei controinteressati”. Approfondendo la propria analisi, il giudice di prime cure chiarisce che il principio - sostenuto da qualificata giurisprudenza - secondo cui “non può essere dichiarato inammissibile il ricorso avverso il diniego di accesso non notificato al controinteressato ove questi non sia stato precedentemente reso edotto dall’amministrazione”, riguarda il caso in cui “i controinteressati siano da individuare in coloro che, titolari del diritto alla riservatezza, sono in qualche modo chiamati in causa dal documento richiesto; in tal caso, infatti, ai sensi dell'art. 3, comma 1, d.lgs. 12 aprile 2006, n. 184 è sull’amministrazione, <<se individua soggetti controinteressati>>, che incombe l’obbligo di coinvolgerli nel procedimento”. Orbene, nella vicenda in esame, continua la Sezione Unica, è lo stesso ricorrente che individua i soggetti potenzialmente lesi dall’ostensione dei dati richiesti e, quindi, controinteressati rispetto alla domanda di accesso, pertanto il suesposto principio, che legittimerebbe l’operato della ricorrente, non può trovare applicazione. In altri termini, conclude il TAR, “ove l’accesso sia potenzialmente lesivo di posizioni soggettive non specificabili a priori, e dunque conoscibili solo dall’amministrazione procedente, è su questa che incombe l’obbligo di individuare i controinteressati e provvedere alla notificazione prescritta dalla norma appena citata; ove invece, come nel caso in esame, di tali posizioni siano titolari determinati soggetti nominativamente indicati, ed anzi i documenti ai quali si chiede l’accesso sia specificamente relativo ad essi, la natura impugnatoria del giudizio, chiarita fin dall’Adunanza plenaria 24 giugno 1999, n. 16, lo sottopone alla generale disciplina del processo amministrativo, compreso l’obbligo di notifica ai sensi dell’art. 41 cod. proc.amm. ad almeno uno dei controinteressati, dei quali è indubitabile il riferimento nella documentazione richiesta”. FM
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Inserito in data 09/03/2017 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 6 marzo 2017, n. 1038 La perimetrazione dei lotti può determinare una situazione di oligopolio Dalla pronuncia segnalata in epigrafe emerge come “nella definizione dei lotti si deve tenere conto del “rischio di domanda”, ovvero del rischio che la convenzione stipulata per ciascuno di essi all’esito della gara sia saturata da pochi ordinativi da parte di amministrazioni pubbliche di maggiori dimensioni e che dunque il lotto diventi <<mono-contratto>>.” Dall’analisi di mercato svolta tra il 2011-2013 tramite l’estrazione dalla banca dati dell’Autorità nazionale anticorruzione delle gare per i servizi di vigilanza indette dal settore pubblico, emerge che sono stati banditi «molteplici appalti di singole amministrazioni aventi valore rilevantissimo». Ad avviso della Sezione, il Tribunale amministrativo adito, ha correttamente focalizzato il fulcro delle questioni controverse. L’originaria ricorrente ha lamentato un’istruttoria carente nella perimetrazione dei lotti funzionali, derivante dalla mancata considerazione della «struttura del mercato» di riferimento ed ha sostenuto che la segmentazione fatta dall’appellante favorirebbe l’instaurazione di un mercato oligopolistico e di ridotta competitività, con detrimento dell’interesse della pubblica amministrazione ad ottenere servizi di sicurezza a costi ridotti, grazie all’aggregazione della domanda pubblica a livello centralizzato. Come disposto dal considerando 59 della stessa direttiva 2014/24/UE, invocata dall’appellante a tutela del favor partecipationis, «l’aggregazione e la centralizzazione delle committenze dovrebbero essere attentamente monitorate al fine di evitare un’eccessiva concentrazione del potere d’acquisto e collusioni, nonché di preservare la trasparenza e la concorrenza e la possibilità di accesso al mercato per le PMI». Il Supremo Consesso ascrive la segnalata restrizione della concorrenza al fatto che solo ventiquattro delle imprese partecipanti alla gara possedevano un fatturato in grado di coprire una tale suddivisione in lotti, in violazione del principio di massima concorrenzialità. Ad avviso del Collegio dinnanzi a tale segmentazione perfino “gli istituti finalizzati alla massima partecipazione alle gare per l’affidamento di contratti pubblici, quali il raggruppamento temporaneo di imprese o l’avvalimento possono rivelarsi insufficienti, e determinare quindi l’illegittimità della normativa di gara”. La Quinta Sezione ritiene che la suddivisione in lotti di un contratto pubblico, come qualsiasi scelta della pubblica amministrazione, si presti ad essere sindacata in sede giurisdizionale amministrativa nei noti limiti rappresentati dai canoni generali dell’agire amministrativo, ovvero della ragionevolezza e della proporzionalità oltre che dell’adeguatezza dell’istruttoria, senza alcun tipo di sconfinamento (cfr. sul punto, con riguardo alla suddivisione in lotti: Cons. Stato, III, 23 gennaio 2017, n. 272). In questa prospettiva, il Giudice Amministrativo si è - correttamente - mosso entro i limiti del sindacato di legittimità, ove il privato non vanta alcun diritto pieno, ma un interesse legittimo alla corretta estrinsecazione del potere discrezionale in ragione dei vincoli posti dalla legge. “Tutte queste circostanze – osserva il Collegio - confermano che le dimensioni dei lotti, i requisiti di fatturato richiesti, la possibilità di partecipare a più di lotti e il cumulo di requisiti imposto per questa eventualità sono sproporzionate rispetto alle esigenze di massima concorrenzialità e irragionevolmente lesive dell’interesse della stessa amministrazione a favorire la più ampia partecipazione di operatori privati al fine di conseguire i maggiori risparmi economici che solo un confronto competitivo ampio può assicurare”. DU
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Inserito in data 08/03/2017 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, ORDINANZA 3 marzo 2017, n. 880 Processo amministrativo telematico, tempi e modi deposito della cd. copia d’obbligo Con la pronuncia in esame la Sesta Sezione del Consiglio di Stato fornisce indicazioni utili in tema di processo amministrativo telematico (cd. PAT). Esso, previsto dalla L. n. 197 del 25 ottobre 2016 – di conversione del D.L. n. 168/16 ed entrato in vigore a far data dal 1’ gennaio 2017, sta suscitando non poche difficoltà applicative tra gli operatori del diritto. Pertanto, si reputano essenziali, oltrechè particolarmente utili, i primi suggerimenti provenienti dalle pronunce che ne stanno dando un’iniziale applicazione. In particolare, nel caso di specie, i Giudici statuiscono l’obbligatorietà del deposito - di cui all’art. 7 – co. 4’ del D.L. n. 168/16 – di una cd. una copia cartacea del ricorso e degli scritti difensivi, con l'attestazione di conformità al relativo deposito telematico, tanto da denominarla cd. copia d’obbligo. Il Collegio della Sesta sezione sottolinea, per l’appunto, che siffatto deposito è condizione per l’inizio del decorso del termine dilatorio di 10 giorni liberi a ritroso dall’udienza camerale (ovvero 5 nei casi di termini dimidiati), di cui all’art. 55, comma 5, c.p.a., con conseguente impossibilità che, prima dell’inizio di tale decorso, sia fissata detta udienza (ovvero, comunque, che, in caso di fissazione comunque avvenuta, il ricorso cautelare sia trattato e definito in un’udienza camerale anteriore al completo decorso del medesimo termine). Prosegue, poi, ricordando che nel giudizio di merito, il suddetto deposito è precondizione per il corretto esercizio della potestà presidenziale di fissazione dell’udienza ex art. 71, comma 3, c.p.a. Si comprende, dunque, l’essenzialità del deposito della copia cartacea degli scritti difensivi divenuta – ad avviso di Codesto Collegio - condizione per discutere l’istanza cautelare ed il merito del ricorso e per garantire, in un’ottica applicativa del generalissimo principio di conservazione degli atti – ex art. 12 Preleggi, un significato alla norma oggi discussa. CC
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Inserito in data 07/03/2017 TAR CAMPANIA - NAPOLI, SEZ. IV, 2 marzo 2017, n. 1231 Errata domanda di partecipazione ad un concorso pubblico e favor partecipationis I Giudici napoletani, confermando la posizione già assunta in fase cautelare, sanciscono l’illegittimità del provvedimento di diniego con cui il Ministero dell'Istruzione, dell'Universita' e della Ricerca scientifica non aveva consentito al ricorrente – candidato al concorso per il reclutamento dei docenti, di rettificare la propria domanda on line – con conseguente preclusione (poi emendata in forza del provvedimento cautelare) di prendere parte alle selezioni. Il Collegio partenopeo ravvisa nella condotta di parte ricorrente, tempestivamente tesa a correggere la svista in cui era incorsa nella fase di compilazione telematica della domanda e nella susseguente azione giudiziaria in fase cautelare, la conferma di un errore essenziale e scusabile e, come tale, passibile di rettifica. I Giudici, evocando le categorie civilistiche ex artt. 1428 e ss c.c., sanciscono che l’errore in esame è oltrechè essenziale, anche riconoscibile per la descritta incoerenza tra il contenuto della domanda e la classe (di abilitazione professionale) richiesta. In presenza di simili dati di fatto, prosegue il Collegio, l’Amministrazione avrebbe senz’altro dovuto consentire la rettifica in conformità al principio di correttezza e di buon andamento dell’attività amministrativa (art. 97 Cost.) e dovendosi privilegiare il principio del favor partecipationis nei concorsi pubblici in rapporto a errori meramente formali, avrebbe dovuto provvedere alla rettifica della domanda erroneamente presentata dal ricorrente, ammettendolo alle relative prove d’esame senza indurlo ad attività processuali, cui il medesimo si trovava costretto al fine di prendere parte alla selezione ambita. In guisa di ciò, i Giudici accolgono il ricorso, consolidando, quindi, l’ammissione del ricorrente e la sua conseguente collocazione in graduatoria (frattanto conseguita in forza del giudizio cautelare). In virtù del principio di soccombenza, peraltro, statuiscono l’aggravio delle spese sull’Amministrazione resistente. CC
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Inserito in data 06/03/2017 TAR FRIULI VENEZIA GIULIA - TRIESTE, SEZ. I, 1 marzo 2017, n. 81 Il bando può richiedere che il concorrente dimostri il pareggio di bilancio Con la pronuncia indicata in epigrafe, il Collegio osserva che gli operatori economici interessati a partecipare alle gare pubbliche, oltre a non trovarsi in stato di fallimento, di liquidazione, di cessazione d'attività, di amministrazione controllata o di concordato preventivo o in ogni altra analoga situazione risultante da una procedura della stessa natura prevista da leggi e regolamenti nazionali, devono possedere “la capacità economica e finanziaria necessaria ad assicurare l’osservanza delle obbligazioni contrattuali”. D’altra parte, “in un periodo economicamente critico, come quello attuale, in cui la solidità patrimoniale e finanziaria di molte aziende è messa seriamente in pericolo, non può prescindersi, a maggior ragione, da una puntuale e rigorosa verifica dello stato di salute delle imprese partecipanti alle gare di appalto pubbliche, in quanto accertamento funzionale allo svolgimento positivo degli appalti stessi e ciò a prescindere dalle capacità tecniche e professionali, che pure devono essere possedute”. La necessità di affidare il contratto a soggetti che dimostrino, tra le altre, anche la capacità economica e finanziaria idonea a garantire l'esecuzione delle prestazioni oggetto dello stesso costituisce, infatti, “un fondamentale principio ricavabile dalla complessiva disciplina dell'affidamento di pubblici appalti e l’apertura al mercato e alla concorrenza non può mai spingersi sino al punto di compromettere o comunque mettere seriamente in pericolo la regolare esecuzione del contratto”. L’art. 83 del (nuovo) codice appalti, come del resto già il previgente art. 41 del d.lgs. n 163/2006, lascia, peraltro, libertà alle stazioni appaltanti di individuare nella legge di gara gli indici di capacità economica più adatti, col solo limite della “attinenza” e “proporzionalità” all’oggetto dell’appalto, nella ricerca di un costante bilanciamento con l’interesse pubblico “ad avere il più ampio numero di potenziali partecipanti, nel rispetto dei principi di trasparenza e rotazione” (vedi art. 83, comma 2). Per gli appalti di servizi e forniture, ai fini della verifica del possesso dei requisiti di capacità economica e finanziaria, le stazioni appaltanti, nel bando di gara, possono richiedere, tra l’altro, che “gli operatori economici forniscano informazioni riguardo ai loro conti annuali che evidenzino in particolare i rapporti tra attività e passività” (vedi art. 83, comma 4, lett. b). Alla luce di quanto suddetto, deve ritenersi che, avuto riguardo alla durata del servizio di ristorazione scolastica e, in genere, alle obbligazioni contrattuali cui l’impresa aggiudicataria sarà chiamata a far fronte con i propri mezzi, non solo tecnici e professionali, ma anche, appunto, finanziari, “non pare, dunque, sproporzionata e/o irragionevole la disposizione, contenuta nella lex specialis di gara, di condizionare la partecipazione degli operatori economici interessati alla dimostrazione del possesso del pareggio di bilancio al netto delle imposte negli ultimi tre esercizi. Anzi, tale disposizione pare espressione di legittimo esercizio di potere discrezionale, declinato, peraltro, nel rispetto delle norme di legge”. EF
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Inserito in data 04/03/2017 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 2 marzo 2017, n. 975 Sul soccorso istruttorio c.d. processuale Nella sentenza emarginata in epigrafe, il Consiglio di Stato afferma che “la successiva correzione, o integrazione documentale della dichiarazione (ex art. 38 “Requisiti di ordine generale”) non viola affatto il principio della par condicio tra i concorrenti “, - per come sostenuto dalla contro interessata - giacché essa mira ad attestare l’esistenza di circostanze preesistenti, riparando una incompletezza o irregolarità che la stazione appaltante, se avesse tempestivamente rilevato, avrebbe dovuto comunicare alla concorrente, attivando l’obbligatorio procedimento del soccorso istruttorio”. Viene così affermato il principio secondo cui, la eventuale violazione dell’obbligo di produrre la predetta dichiarazione, configura un vizio meramente formale che non può essere sanzionato con un provvedimento di esclusione dalla gara. Invero, “un vizio siffatto è sanabile a mezzo del procedimento del soccorso istruttorio processuale”. Il Collegio mette in rilievo che la carenza dei requisiti soggettivi di partecipazione alla gara, qualora riscontrata in corso di gara, “non avrebbe consentito la immediata esclusione dell’offerta, ma avrebbe imposto alla Amministrazione la attivazione dell’istituto del soccorso istruttorio sostanziale”. La Sezione , al riguardo, ricorda l’ampia giurisprudenza formatasi sul soccorso istruttorio quale “istituto di derivazione europea, che attua ed enfatizza nell’ ordinamento nazionale una impostazione sostanzialistica delle procedure di affidamento le quali devono mirare ad appurare quale sia la scelta migliore tra i diversi offerenti”. Il soccorso istruttorio è infatti un istituto che “tende ad evitare che le mere irregolarità formali possano pregiudicare gli operatori economici più meritevoli”. Ora, con riguardo alla controversia oggetto della decisione che qui ci occupa, si tratta di stabilire se può invocarsi (o meno) il soccorso istruttorio ad aggiudicazione avvenuta, e cioè in sede processuale. L’obiezione processuale della contro interessata risiede nella considerazione che “ammettere una integrazione documentale nel corso del giudizio, violerebbe il principio della par condicio tra i concorrenti”. Il Collegio contesta la predetta obiezione, ritenendola infondata giacché non in linea con la scelta sostanzialistica del legislatore diretta ad impedire le esclusioni per vizi formali nella dichiarazione “quando vi è comunque prova del possesso del requisito”. Invero, un tale approccio sostanziale “deve applicarsi anche quando l’incompletezza della dichiarazione viene dedotta come motivo di impugnazione dell’aggiudicazione da parte di altra impresa partecipante alla selezione (non essendosene avveduta la stazione appaltante in sede di gara), ma è provato che la concorrente fosse effettivamente in possesso del prescritto requisito soggettivo fin dall’inizio della procedura e per tutto il suo svolgimento”. In tale caso, infatti, l’irregolarità della dichiarazione si configura come vizio solo formale e non sostanziale, emendabile secondo l’obbligatoria procedura del soccorso istruttorio. Peraltro, “la successiva correzione, o integrazione documentale della dichiarazione non viola affatto il principio della par condicio tra i concorrenti, in quanto essa mira ad attestare, correttamente, l’esistenza di circostanze preesistenti, riparando una incompletezza o irregolarità che la stazione appaltante, se avesse tempestivamente rilevato, avrebbe dovuto comunicare alla concorrente, attivando l’obbligatorio procedimento di soccorso istruttorio”. Non è pertanto condivisibile la tesi della impossibilità di ricorrere in sede processuale all’istituto del soccorso istruttorio, per il sol fatto che lo stesso procedimento non sia stato attivato dalla Amministrazione durante la procedura di aggiudicazione. La tesi della impossibilità “comporterebbe effetti eccessivamente gravosi sia per la Amministrazione che per l’impresa: quest’ultima sarebbe privata della possibilità di stipulare il contratto, pur disponendo, in via sostanziale, dei necessari requisiti”. Fatte tali considerazioni, la Sezione si interroga in merito alle modalità attraverso le quali il soccorso istruttorio possa essere esaminato in giudizio. In primis, viene rilevato che la questione non possa essere esaminata d’ufficio, ma richiede una iniziativa della aggiudicataria la quale intende affermare la legittimità sostanziale della propria ammissione alla gara. Per invocare il soccorso istruttorio, finalizzato a paralizzare la doglianza della contro parte finalizzata ad ottenere la esclusione, la interessata aggiudicataria di cui si contesta la ammissione, sarà gravata dell’onere – ex art. 2697 cc – “della dimostrazione della natura meramente formale dell’errore contenuto nella dichiarazione”. Principio di vicinanza della prova. In sintesi, la aggiudicataria non può limitarsi ad eccepire la violazione del principio del soccorso istruttorio da parte della Amministrazione, “ma deve dimostrare in giudizio che, ove fosse stato attivato, correttamente, tale rimedio, l’esito sarebbe stato ad essa favorevole, disponendo del requisito in contestazione”. PC
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Inserito in data 03/03/2017 CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL'UOMO - CASO Talpis c. ITALIA - SEZ. I, SENTENZA 2 marzo 2017 - Ric. n. 41237/14 Violenza domestica, condannata l’Italia I giudici di Strasburgo, con la pronuncia in esame, esprimono un duro monito nei riguardi dell’Italia – censurandone l’operato, sia in fase prodromica che prettamente processuale, in materia di maltrattamenti in famiglia. Tale fattispecie criminosa, prevista dal nostro Ordinamento all’articolo 572 c.p., dovrebbe – ad avviso del Collegio francese - essere oggetto di costante attenzione già nelle prime fasi della denuncia da parte delle vittime. Queste ultime, evidentemente non "ascoltate" nelle fasi antecedenti, stante la carenza di strumenti giudiziari ed extra – processuali propria del sistema italico, si ritrovano con il subire oltremodo. Si finisce, pertanto, con l’aver creato un contesto d’impunità in favore dell’uomo, con le conseguenti, gravissime ripercussioni sul piano fisico e morale – pari a quelle lamentate dall’odierna vittima. La Corte di Strasburgo, pertanto, condanna severamente l’Italia, posto che la ricorrente rientra nella categoria di «persone vulnerabili» bisognose di protezione dallo Stato, tutelata dall’art.3 Cedu.
I Giudici, infatti, richiamando propria giurisprudenza pregressa, ricordano che le violenze, quando si traducono in lesioni personali e pressioni psicologiche sufficientemente gravi, si inseriscono nei maltrattamenti sanzionati da questa norma (Cfr. M.B. cv. Romania del 3/11/11) e, in guisa di ciò, non possono non condannare la colpevole inerzia del nostro Ordinamento che, con una condotta simile, ha finito per avallarle. CC
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Inserito in data 02/03/2017 TAR LIGURIA - GENOVA, SEZ. II, 28 febbraio 2017, n. 145 Il soccorso istruttorio nel nuovo Codice dei Contratti Pubblici È legittima, ad avviso del TAR Liguria, l’esclusione della possibilità per la ricorrente di produrre documentazione ulteriore afferente all’offerta tecnica. Il Consesso Amministrativo rileva come siffatta circostanza esulerebbe dall’ambito dell’istituto del soccorso istruttorio come strutturato dal nuovo codice dei contratti. A tal riguardo occorre rilevare come l’art. 83, comma 9, D.Lgs n. 50/2016 abbia escluso la sanabilità mediante il soccorso istruttorio degli elementi dell’offerta tecnica e economica. In particolare l’art. 83, comma 9, d.lgs. n. 50/2016 per quanto di interesse in questa sede stabilisce che: “ Le carenze di qualsiasi elemento formale della domanda possono essere sanate attraverso la procedura di soccorso istruttorio di cui al presente comma … con esclusione di quelle afferenti all'offerta tecnica ed economica”, Va evidenziato come il Legislatore abbia delineato un soccorso istruttorio significativamente differente dall’omologa fattispecie previgente, di cui all’art. 46, comma 1-ter, D.Lgs. n.163/2006, che lo ammetteva anche rispetto all’offerta, con l’unico limite di quelle mancanze, incompletezze o irregolarità tali da determinare una totale incertezza sul contenuto o sulla provenienza della stessa. A ben vedere, la nuova norma esclude in radice la possibilità di operare mediante il soccorso istruttorio in favore di elementi afferenti l’offerta. In sostanza si lamenta che la Commissione avesse dapprima richiesto la dimostrazione dalla circostanza che i sistemi della ricorrente possedessero i requisiti di ignifugicità richiesti per poi, contraddittoriamente, escludere la ricorrente. Ad avviso del Collegio “il fatto che la Commissione abbia comunque cercato di agevolare la ricorrente ed abbia espresso il giudizio di inammissibilità della documentazione solo una volta ottenuta, non viene a colorare di illegittimità un provvedimento che, come si è detto, appare conforme alla disciplina di cui all’art. 83, comma 9, d.lgs. 50/16, illegittimo essendo se mai l’invito della Commissione a dimostrare ex post il possesso di requisiti non adeguatamente documentati in sede di offerta.” DU |
Inserito in data 01/03/2017 CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA PER LA REGIONE SICILIANA, 27 febbraio 2017, n. 68 Rilevanza delle specificità dei partecipanti ad un appalto: discostamento dalle tabelle ministeriali sul costo del personale Con la sentenza in esame il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana affronta il tema della possibilità o meno per una stazione appaltante, in sede di verifica delle offerte anomale, di tener conto della specifica condizione di ciascun partecipante ed in particolare, per il costo del personale, di ritenere congrua una offerta che preveda un costo inferiore alle tabelle ministeriali. Nei fatti, un’impresa specializzata nel servizio di vigilanza impugnava dinanzi al TAR Sicilia l’aggiudicazione dello stesso servizio in favore di un’altra impresa, ritenendo irragionevole il giudizio di congruità svolto dalla stazione appaltante in sede di verifica di anomalia dell’offerta dell’aggiudicataria in ordine al costo del personale. In particolare la ricorrente lamentava l’inadeguatezza delle giustificazioni addotte dalla società aggiudicataria in merito alla riduzione del costo del personale e al discostamento dai parametri generali contenuti nelle tabelle ministeriali relative ai costi della manodopera. Ma i giudici di primo grado, ritenendo legittime le valutazioni svolte dalla stazione appaltante sulla congruità delle spiegazioni fornite dalla società vincitrice, rigettavano il ricorso. Chiamato a pronunciarsi sulla vicenda, il CGA afferma di condividere la decisione assunta dal TAR e chiarisce, innanzitutto, la natura delle tabelle ministeriali relative ai costi della mano d’opera, richiamando il costante orientamento giurisprudenziale che le qualifica come parametri generali di riferimento (idonei a valutare la congruità dei costi rappresentati nelle offerte degli operatori economici) non ex se vincolanti. L’impresa sottoposta a verifica, continua il giudice d’appello, è, quindi, ammessa a fornire spiegazioni in ordine alle eventuali ragioni di scostamento della propria offerta da quei parametri generali. La decisione in commento si sofferma poi sui rilievi censori svolti dalla società appellante che evidenziano come “il giudizio di congruità e di appropriatezza dell’offerta dovrebbe trovare un limite invalicabile in relazione allo specifico appalto oggetto di gara, senza poter tener conto di esternalità positive di cui il concorrente possa eventualmente giovarsi in relazione ad altri contestuali servizi in corso di esecuzione”; nel caso di specie il riferimento è alle altre commesse in corso di svolgimento, che hanno consentito alla società aggiudicataria un oggettivo risparmio, delle spese relative al personale, sull’appalto oggetto di impugnazione. La finalità della prospettazione della parte appellante sarebbe quella di non favorire le imprese di maggiori dimensioni. Orbene, il CGA sottolinea come i suesposti rilievi censori svolti dalla società appellante non appaiono condivisibili, in quanto non si rinviene in alcuna disposizione del codice dei contratti pubblici il divieto, per la P.A. appaltante, di tener conto della specifica condizione di ciascun partecipante, inoltre quest’ultima valutazione non appare ex se discriminatoria, “in quanto non legata necessariamente all’elemento dimensionale dell’impresa (essendo d’altronde sempre consentita, per elidere tale profilo, la partecipazione alle gare in composizione plurisoggettiva)”. Piuttosto, conclude il Consiglio, appare evidente “l’interesse pubblico sotteso alla scelta del contraente che riesca a formulare un’offerta maggiormente attrattiva per la stazione appaltante a prescindere dalle condizioni contingenti (purché giustificate e conformi a legge) che hanno in concreto consentito la formulazione di tale offerta (nello specifico, la simultanea esecuzione di altre analoghe commesse)”. Alla luce dei rilievi che precedono, ritenuta, nel caso di specie, congrua e legittima la valutazione svolta dalla stazione appaltante, Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, in sede giurisdizionale, definitivamente pronunciando sul ricorso in appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta. FM
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Inserito in data 28/02/2017 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 27 febbraio 2017, n. 897 Occupazione illegittima: Prova della proprietà e natura del danno In sede di risarcimento per occupazione illegittima di un terreno da parte della P.A. “non è richiesta la prova rigorosa della proprietà (c.d. probatio diabolica), “atteso che oggetto della pretesa azionata è, non già il diretto e rigoroso accertamento della proprietà del fondo, bensì l'individuazione del titolare del bene avente diritto al risarcimento”. Pertanto, il convincimento del giudice in ordine alla legittimazione alla pretesa risarcitoria può formarsi “sulla base di qualsiasi elemento documentale e presuntivo sufficiente ad escludere un'erronea destinazione del pagamento dovuto (Cass. n. 18841 del 2016).” Per quanto attiene al riconoscimento del risarcimento del danno e alla sua quantificazione, la giurisprudenza della Corte di legittimità ricorre alla categoria del danno in re ipsa. Il danno risulta, pertanto, ricollegato “alla perdita di disponibilità del bene, la cui natura è naturalmente fruttifera, e alla impossibilità di conseguire l’utilità da esso ricavabile nell’esercizio delle facoltà di godimento e disponibilità, insite nel diritto dominicale”. “L’esistenza di un danno costituisce, così, oggetto di una presunzione iuris tantum superabile ove si accerti che il proprietario si sia intenzionalmente disinteressato dell’immobile (Cass. n. 16670 del 2016, n. 20823 del 2015, n. 14222 del 2012).” GB
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Inserito in data 27/02/2017 TAR LAZIO - ROMA, SEZ. II QUATER, 24 febbraio 2017, n. 2817 L’abilitazione regionale per la professione di guida turistica limita la concorrenza L’art. 3 della legge n. 97 del 6-8-2013, legge europea 2013, norma dettata sulla base dell’apertura da parte della Commissione europea del caso EU Pilot 4277/2012, prevede espressamente la validità “su tutto il territorio nazionale” dell’abilitazione alla professione di guida turistica. Inoltre, “ai fini dell'esercizio stabile in Italia dell'attività di guida turistica, il riconoscimento ai sensi del decreto legislativo 9 novembre 2007, n. 206, della qualifica professionale conseguita da un cittadino dell'Unione europea in un altro Stato membro ha efficacia su tutto il territorio nazionale”. In base al secondo comma dell’art. 3, “fermo restando quanto previsto dal decreto legislativo 9 novembre 2007, n. 206, i cittadini dell'Unione europea abilitati allo svolgimento dell'attività di guida turistica nell'ambito dell'ordinamento giuridico di un altro Stato membro operano in regime di libera prestazione dei servizi senza necessità di alcuna autorizzazione nè abilitazione, sia essa generale o specifica”. Dopo tali previsioni di carattere generale, “il terzo comma ha, invece, attribuito al Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo, sentita la Conferenza unificata, il potere di individuare, con apposito decreto ministeriale, i siti di particolare interesse storico, artistico o archeologico per i quali occorre una specifica abilitazione”. Successivamente, con il decreto legge n. 83 del 31-5-2014 convertito nella legge n. 106 del 29-7-2014, “il potere ministeriale è stato esteso ai requisiti necessari ad ottenere tale abilitazione e alla disciplina del procedimento di rilascio della stessa, disciplina da adottarsi previa intesa con la Conferenza unificata. Sulla base del potere attribuito da tale norma è stato adottato il decreto ministeriale dell’11 dicembre 2015”. La disciplina legislativa dell’art. 3 della legge n. 97 del 2013 è stata anche oggetto della sentenza della Corte costituzionale n. 178 del 2014, che ha dichiarato “la illegittimità dell’art. 73 comma 4 della legge regionale dell’Umbria n. 13 del 2013, che aveva subordinato la possibilità di svolgere l’attività per le guide turistiche, che avessero conseguito l'abilitazione all'esercizio della professione presso altre Regioni e che intendevano svolgere la propria attività nella Regione Umbria, all'accertamento, da parte della Provincia, della conoscenza del territorio, con le modalità stabilite dalla Giunta regionale”. La Corte ha espressamente affermato, in tale sentenza, che la norma regionale impugnata “introduce una barriera all'ingresso nel mercato, in contrasto con il principio di liberalizzazione introdotto dal legislatore statale”, richiamando la propria giurisprudenza per cui l'efficienza e la competitività del sistema economico risentono della qualità della regolazione, la quale condiziona l'agire degli operatori sul mercato: “una regolazione delle attività economiche ingiustificatamente intrusiva - cioè non necessaria e sproporzionata rispetto alla tutela di beni costituzionalmente protetti (sentenze n. 247 e n. 152 del 2010, n. 167 del 2009) - genera inutili ostacoli alle dinamiche economiche, a detrimento degli interessi degli operatori economici, dei consumatori e degli stessi lavoratori e, dunque, in definitiva reca danno alla stessa utilità sociale. L'eliminazione degli inutili oneri regolamentari, mantenendo però quelli necessari alla tutela di superiori beni costituzionali, è funzionale alla tutela della concorrenza e rientra a questo titolo nelle competenze del legislatore statale (sentenza n. 200 del 2012)”. La Corte Costituzionale, quindi, pur pronunciandosi rispetto alla competenza della legge regionale, “ha espressamente fatto riferimento ad un principio di liberalizzazione nell’attività delle guide turistiche contenuto nella disciplina della legge n. 97 del 2013”. Dalla espressa previsione legislativa e da quanto già affermato dalla Corte Costituzionale, deriva che la previsione del terzo comma dell’art. 3 della legge n. 97 del 2013, che “consente l’introduzione di un limite alla libera concorrenza in relazione alla tutela di siti particolarmente rilevanti, non può che essere interpretato in via restrittiva, nel senso di attribuire al Ministero un potere eccezionale di escludere l’applicazione della disciplina generale di cui al comma 1”. Tale interpretazione è anche conforme a quanto affermato dalla sentenza della Corte di Giustizia del 26 febbraio 1991 che “ha ritenuto compatibili alcune restrizioni alla prestazione di servizi qualora sussistano esigenze imperative di interesse generale e lo stesso risultato non potrebbe essere ottenuto con provvedimenti meno incisivi”. Sotto tali profili, sono evidenti l’illogicità e irragionevolezza del decreto ministeriale 7 aprile 2015, che ha individuato più di tremila siti, in tutte le Regioni ed in molti Comuni di Italia, e della disciplina del decreto dell’11 dicembre 2015, che ha previsto una specifica abilitazione, rilasciata da parte delle Regioni (e delle Province autonome), che “nelle forme e nei modi di cui al successivo articolo 5, rilascia, per i siti individuati dal decreto del Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo di cui al comma 1, localizzati sul proprio territorio, una specifica abilitazione per l'esercizio della professione di guida turistica”. Con tale norma è stata introdotta “una abilitazione regionale con efficacia limitata all’ambito regionale, in contrasto, quindi, con la stessa previsione dell’art. 3 della legge n. 97 del 2013 e con le indicazioni della Corte Costituzionale”. Le disposizioni del comma 1 e del comma 3, infatti, non contengono alcun riferimento ad una abilitazione regionale: “il rispetto della competenza regionale è assicurato dalla norma primaria con la previsione dell’intesa con la conferenza unificata per l’esercizio del potere ministeriale (Corte Costituzionale n. 284 del 2016; n. 211 del 2016; n. 62 del 2013), rispetto alla disciplina dell’abilitazione”. Orbene, il potere attribuito alle Regioni per il rilascio di un’ulteriore abilitazione all’esercizio della professione di guida turistica con ambito limitato alla Regione, oltre che generico ed indeterminato (“procedono ad organizzare sessioni d’esame”- restando, quindi, indeterminato se una per tutti i siti regionali o per gruppi di siti o anche per un singolo sito ) è “limitativo della concorrenza alla prestazioni di servizi in contrasto con l’articolo 117 della Costituzione ed il rispetto dei principi dell’Unione europea”. La giurisprudenza della Corte Costituzionale ha, infatti, espressamente affermato, con riferimento alla disciplina delle guide turistiche e alle norme regionali che prevedevano l'indicazione di una limitazione degli ambiti territoriali per i quali sussiste l'abilitazione, nonché degli ambiti territoriali entro i quali la professione può essere esercitata, che “dette limitazioni comportano una lesione al principio della libera prestazione dei servizi, di cui all'art. 40 del Trattato CE e, dunque, la violazione del rispetto del vincolo comunitario di cui all'art. 117, primo comma, Cost., oltre che della libera concorrenza, la cui tutela rientra nella esclusiva competenza statale, ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lettera e), Cost.“ (sentenza n. 271 del 2009). Né la limitazione regionale dell’abilitazione può essere superata in via interpretativa con la disposizione dell’art. 7 del decreto ministeriale, che prevede “l'iscrizione nell'Elenco nazionale delle guide turistiche dei siti di particolare interesse storico, artistico o archeologico, tenuto a livello nazionale dal Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, a seguito del superamento dell’abilitazione regionale. Oltre alla genericità e indeterminatezza della disciplina dell’art. 7 del decreto circa il rapporto tra l’abilitazione regionale e l’elenco nazionale, si deve evidenziare che, se a seguito dell’abilitazione regionale potesse svolgersi l’attività di guida turistica, comunque, su tutto il territorio nazionale, per i siti individuati nel decreto, tale disciplina risulterebbe anche contraddittoria rispetto alla esigenza di garantire una specialità delle conoscenze relativamente a tali siti, posta a base del potere attribuito dal comma 3 dell’art. 3 della legge n. 97 del 2013”. EF
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Inserito in data 25/02/2017 TAR CAMPANIA - NAPOLI, SEZ. I - 20 febbraio 2017, n. 1023 Indicazione nome subappaltatore, avvalimento e carenza requisito regolarità fiscale La sentenza emarginata in epigrafe verte su una controversia con oggetto l’impugnazione del provvedimento di aggiudicazione di un appalto con due sole imprese partecipanti. Il Tribunale amministrativo campano ritiene la contestuale disamina dei ricorsi (principale ed incidentale) giacché unadelle due ha impugnato l’ammissione dell’altra (cfr. Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 9/2014 e Corte di Giustizia dell’Unione Europea, 5 aprile 2016, C-689/13). Preliminarmente, rileva il Collegio come la ricorrente in via incidentale (aggiudicataria dell’appalto) lamenti la mancanza dei requisiti di partecipazione in capo alla ricorrente principale in quanto la stessa “non ha indicato nominativamente il subappaltatore individuato ai sensi dell’art. 118 del D.Lgs. n. 163/2006”. Il Collegio afferma la infondatezza di tale doglianza giacché la lex specialis non richiede l’indicazione del nominativo del subappaltatore. Peraltro ciò è in linea con l’indirizzo espresso dall’Adunanza Plenaria n. 9/2015, secondo cui, “dall’esame della vigente normativa di riferimento può, in definitiva, ritenersi che “l’indicazione del nome del subappaltatore non è obbligatoria all’atto dell’offerta, neanche nei casi in cui, ai fini dell’esecuzione delle lavorazioni relative a categorie scorporabili a qualificazione necessaria, risulta indispensabile il loro subappalto a un’impresa provvista delle relative qualificazioni (ipotesi di c.d. subappalto necessario)”. D’altra parte, il Collegio non condivide neanche le doglianze esposte dal ricorrente principale in ordine alla mancanza, in capo alla aggiudicataria, della attestazione SOA in punto di avvalimento. Al riguardo i Giudici evidenziano la portata generale dell’istituto dell’avvalimento (a seguito della novella legislativa di cui al D.Lgs. 152/2008 che ha modificato l’art. 49 d.lgs. 2006 n. 163, rendendolo così compatibile con la direttiva 2004/18/CE). A seguito del predetto correttivo al codice dei contratti pubblici, viene appurata “la generale operatività dell’istituto di cui al citato art. 49 (cioè dell’avvalimento) che, dunque, consente ad un operatore economico privo di qualificazione di avvalersi anche in toto dell’attestazione SOA di una impresa ausiliaria (Consiglio di Stato, Sez. VI, 1856/2008 secondo cui “anche in mancanza di specifica prescrizione del bando di gara, si può sempre ricorrere, ai fini della dimostrazione del possesso dei requisiti di partecipazione, all’avvalimento parziale verticale”). Sempre in tema di avvalimento, il Collegio affermae che “le esigenze di puntuale specificazione dei requisiti economico – finanziari oggetto di avvalimento siano assicurate dalla indicazione della SOA oggetto di avvalimento senza che occorra all’uopo indicare gli specifici requisiti sottesi al rilascio dell’attestazione”. Sotto altro profilo, il Collegio accoglie i motivi di impugnazione esposti dal ricorrente principale e riguardanti la indicazione di un architetto (in luogo dell’ingegnere) per la progettazione esecutiva. Viene, altresì, accolto il motivo attinente alla carenza del requisito della regolarità contributiva in capo alla aggiudicataria. Ora, sotto il primo profilo, il Collegio ritiene di dover condividere l’argomento esposto dalla ricorrente principale. Si vedano, sul punto, gli artt. 51 e 52 del R.D. n. 2537/1925 (norme ancora in vigore che costituiscono il punto di riferimento normativo per stabilire il discrimine tra le competenze degli architetti e quelle degli ingegneri), secondo cui “la progettazione delle opere viarie non connesse ai singoli fabbricati sono di pertinenza esclusiva degli ingegneri”. Tra l’altro ciò è coerente con il consolidato indirizzo giurisprudenziale per il quale le predette disposizioni vanno interpretate nel senso che “appartiene alla esclusiva competenza degli ingegneri non solo la progettazione delle opere necessarie alla estrazione e lavorazione di materiali destinati alle costruzioni e la progettazione delle costruzioni industriali, ma anche la progettazione delle opere igienico - sanitarie e delle opere di urbanizzazione primaria (viabilità, acquedotti, depuratori etc.)”. Sotto il secondo profilo, riguardante la lamentata carenza del requisito della regolarità contributiva della aggiudicataria, il Collegio dando ragione alla ricorrente principale, osserva che “in presenza di una situazione di irregolarità contributiva alla data di presentazione della domanda di partecipazione alla procedura, la commissione di gara avrebbe dovuto escludere la aggiudicataria” (principio giurisprudenzale espresso dalle Adunanze Plenarie n. 5 e n. 6 del 2016). La correttezza della censura mossa dalla ricorrente è a fortiori confermata anche in base alla lettura della sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea n. 199 del 10 novembre 2016 che ha ritenuto compatibile con l’ordinamento comunitario una disciplina nazionale che non ammetta la regolarizzazione postuma del requisito di regolarità contributiva. Alla luce di quanto sopra detto, il Collegio respinge il ricorso incidentale proposto dalla società aggiudicataria (ricorrente in via incidentale). Accoglie il ricorso principale della seconda in classifica e condanna l’Amministrazione al risarcimento dei danni subiti a causa della illegittimità del provvedimento di aggiudicazione in favore della società aggiudicataria. PC
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Inserito in data 24/02/2017 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 24 febbraio 2017, n. 890 Ristrutturazione abusiva: la demolizione non può essere evitata monetizzando l’abuso Con la pronuncia in esame, il Consesso ritiene che alla fattispecie riguardante una ristrutturazione abusiva vada applicato l’art. 33 del T.U. 308/2001, che in generale prevede la sanzione della rimessione in pristino (comma 1) e solo qualora essa non sia possibile “sulla base di motivato accertamento dell'ufficio tecnico comunale”, dispone che si applichi una sanzione pecuniaria, commisurata peraltro all’aumento di valore dell’immobile e non compresa entro un minimo e un massimo edittale (comma 2). La stessa norma prevede poi, al comma 3, che “Qualora le opere siano state eseguite su immobili, anche se non vincolati, compresi nelle zone omogenee A, di cui al decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444, il dirigente o il responsabile dell'ufficio richiede all'amministrazione competente alla tutela dei beni culturali ed ambientali apposito parere vincolante circa la restituzione in pristino o la irrogazione della sanzione pecuniaria di cui al precedente comma. Qualora il parere non venga reso entro novanta giorni dalla richiesta il dirigente o il responsabile provvede autonomamente”. Orbene, la stessa Sesta Sezione del Consiglio di Stato, con la sentenza 1084/2014, ha chiarito che “la possibilità di irrogare la sanzione pecuniaria rimane anche quando, come accaduto nella specie, la Soprintendenza, regolarmente richiesta del parere, non si sia pronunciata”. Viene poi in questione l’art. 16 della l.r. 15/2008, che per lo stesso caso di ristrutturazione abusiva prevede al comma 5: “Qualora le opere siano state eseguite su immobili anche non vincolati compresi nelle zone omogenee A di cui al decreto del Ministro dei lavori pubblici del 2 aprile 1968… il dirigente o il responsabile della struttura comunale competente decide l'applicazione delle sanzioni previste al comma 4” previa acquisizione del parere della Soprintendenza di cui si è detto e “fermo restando quanto ivi stabilito nell'ipotesi di mancato rilascio dello stesso.” Le sanzioni di cui al richiamato comma 4 sono appunto “la demolizione e il ripristino dello stato dei luoghi” a cura e spese del responsabile e “una sanzione pecuniaria da 2 mila 500 euro a 25 mila euro”. La sanzione applicabile è quindi una “sanzione ripristinatoria, congiunta ad una pecuniaria che però ha soltanto funzione afflittiva, perché non rappresenta in alcun modo, come invece previsto dall’art. 33, l’equivalente in danaro del vantaggio conseguito con l’abuso”. Pertanto, “la sanzione ripristinatoria e la sanzione pecuniaria afflittiva si applicano congiuntamente, e non c’è la possibilità che la demolizione sia evitata monetizzando, per così dire, l’abuso” (Cfr. Consiglio di Stato, sentenza 7955/2014). D’altra parte, esso è conforme “alla logica della normativa sulle zone A, che com’è noto sono i centri storici, e vengono in generale tutelate con maggiore intensità rispetto alle altre”. Esemplificando, lo stesso D.M. 1444/1968 prevede per tali zone “limiti di densità edilizia e di altezza più restrittivi che per le altre e si preoccupa di salvaguardarne l’assetto presente”: non consente di modificare le distanze fra gli edifici esistenti, consente invece di non localizzarvi gli standard urbanistici minimi “per ragioni di rispetto ambientale e di salvaguardia delle caratteristiche, della conformazione e delle funzioni della zona stessa”. Per le stesse ragioni, “si ritiene manifestamente infondata l’eccezione di legittimità costituzionale dell’art. 16 l.r. 15/2008”. E’, infatti, evidente che “non è incostituzionale una normativa di maggior tutela del “patrimonio storico” nazionale, tutelato dall’art. 9 Cost.”. In proposito, va richiamata, per identità di logica, la sentenza della Corte costituzionale 29 gennaio 2016, n. 11, “per cui in linea di principio le scelte di politica regionale, anche legislativa, in materia di tutela del paesaggio prevalgono sulle altre”. Nello stesso senso porta anche l’ordine di idee fatto proprio da Corte costituzionale 19 novembre 2015, n. 233, “per cui è incostituzionale una legge regionale che escluda la sanzione ripristinatoria a favore di quella pecuniaria, in quanto ciò integra un “condono generalizzato” “. Se ne desume, a contrario, che “è legittima l’operazione opposta, di potenziare la sanzione del ripristino”. EF
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Inserito in data 23/02/2017 TAR VALLE D’AOSTA, SEZ. UNICA - 20 febbraio 2017, n. 7 Sull’affidamento diretto di un servizio mediante gara informale, pur in presenza di una società in house Con la sentenza in esame il TAR Valle d’Aosta affronta il tema della possibilità per un Ente Pubblico di esperire una gara informale per l’affidamento di un servizio, pur in presenza di una società in house dallo stesso partecipata, che è stata, in precedenza, affidataria del medesimo servizio. Nei fatti un Comune comunicava alla società che fino a quel momento aveva svolto il servizio di assistenza sistemica, tecnica e manutentiva della propria rete informatica, che, con determina, il medesimo servizio era stato aggiudicato, tramite affidamento diretto – cottimo fiduciario, in favore di un’altra società. La prima azienda faceva pervenire al Comune una nuova offerta, non riscontrata dall’Amministrazione e nemmeno la successiva richiesta di autotutela veniva presa in considerazione dallo stesso Ente Locale. Assumendo l’illegittimità dell’aggiudicazione in questione, la prima società proponeva, quindi, ricorso eccependo la manifesta illogicità e contraddittorietà dell’operato del Comune, nonché la violazione dell’art. 95 del D. Lgs. n. 50 del 2016 e della par condicio. Con la decisione in commento, il TAR Valle d’Aosta dichiara la doglianza della società ricorrente infondata per diversi ordini di ragioni. In primo luogo, il Collegio rileva che nella fattispecie non appare possibile qualificare la ricorrente come una società in house del Comune resistente, in quanto, da una parte difetterebbe il requisito del controllo (del Comune sulla società) analogo rispetto a quello espletato sui propri servizi, avuto riguardo alla esiguità della partecipazione societaria comunale – una quota di azioni del valore di 500 € su un capitale sociale pari ad € 5.100.000 (cfr. all. 2 al ricorso e all. 1 del Comune) – , dall’altro lato mancherebbe “la dimostrazione della esistenza di poteri di controllo o di direzione sull’attività societaria da parte del Comune resistente, anche per mezzo di accordi con gli altri enti soci” (cfr. T.A.R. Lombardia, Milano, III, 11 aprile 2011, n. 954). In ogni caso, continua il TAR, “anche laddove si dovesse assumere la natura di società in house della ricorrente, va considerato che siffatta tipologia di affidamento ha natura eccezionale rispetto alla regola generale che impone il ricorso al libero mercato; difatti, l’affidamento diretto è assoggettato ad un più stringente obbligo motivazionale, rispetto alla scelta di ricorrere all’acquisizione del servizio tramite una procedura di tipo concorrenziale, da ritenersi la modalità ordinaria di individuazione dei contraenti dell’Amministrazione” (cfr., sul punto, artt. 4 e 5 del D. Lgs. n. 175 del 2016, Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica; in giurisprudenza, T.A.R. Lombardia, Milano, III, 3 ottobre 2016, n. 1781). Approfondendo la propria analisi, il Giudice di prime cure afferma che il Comune resistente ha operato nel rispetto dell’art. 36, comma 2, lettera a, del D. Lgs. n. 50 del 2016 secondo cui “le stazioni appaltanti procedono all’affidamento di lavori, servizi e forniture di importo inferiore alle soglie di cui all’articolo 35, secondo le seguenti modalità: a) per affidamenti di importo inferiore a 40.000 euro, mediante affidamento diretto, adeguatamente motivato o per i lavori in amministrazione diretta”. Il Collegio richiama anche le Linee guida n. 4, contenute nella Deliberazione dell’Autorità Nazionale Anticorruzione (A.N.A.C.) 26 ottobre 2016, n. 1097, al punto 3.1, le quali stabiliscono che “l’affidamento e l’esecuzione di lavori, servizi e forniture di importo inferiore a 40.000,00 euro può avvenire tramite affidamento diretto, adeguatamente motivato …”. Orbene, il rispetto della normativa indicata, risulta in primo luogo dal fatto che l’affidamento del servizio in questione è avvenuto per un importo complessivo di € 20.105,60, comprensivo di I.V.A. (quindi entro la soglia di 40.000,00 euro), inoltre, sottolinea il TAR, la determinazione comunale impugnata “motiva adeguatamente in ordine alla scelta dell’affidatario del servizio, evidenziando come l’offerta predisposta dalla ricorrente, posta a confronto con quella dell’aggiudicataria, risulta meno conveniente sia da un punto di vista economico che prestazionale (ad esempio è garantito un minore tempo di intervento dalla chiamata)”. Infine, la Sezione Unica si sofferma su due ulteriori censure sollevate dalla società ricorrente, respingendole entrambe. Con riferimento alla eccepita illegittimità dell’aggiudicazione in favore della controinteressata, in quanto sarebbe stato valorizzato eccessivamente l’elemento prezzo a scapito dell’elemento qualitativo dell’offerta, il TAR risponde che la doglianza non merita positivo apprezzamento, in quanto, “dall’esame della determinazione di aggiudicazione emerge con chiarezza che, oltre all’elemento prezzo, è stato altresì valorizzato l’aspetto qualitativo delle prestazioni, che la parte ricorrente non ha censurato, se non genericamente”; sul punto viene anche richiamato un consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale “le valutazioni della commissione giudicatrice in ordine all’idoneità tecnica dell’offerta dei partecipanti alla gara sono espressione di un potere di natura tecnico-discrezionale a carattere complesso (…) non sindacabile nel merito, salvo che risulti inficiata da profili di erroneità, di illogicità, ovvero sviamento” (Consiglio di Stato, V, 16 gennaio 2017, n. 99). Riguardo all’eccepito difetto di esplicitazione, nel bando, dei criteri di valutazione che avrebbe impedito la presentazione di una offerta consapevole e completa, il Collegio della Valle d’Aosta afferma che, anche a voler prescindere dalla mancata dimostrazione (da parte della ricorrente) in ordine ad una disparità di trattamento con gli altri operatori invitati - che hanno invece formulato delle offerte complete -, non può comunque essere accolta l’eccezione in esame, “avuto riguardo alla veste di operatore del settore della ricorrente che doveva certamente essere in grado di formulare un’offerta completa e congrua anche in ragione del pregresso svolgimento del medesimo servizio”. FM
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Inserito in data 22/02/2017 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 21 febbraio 2017, n. 797 Il diniego è legittimo a titolo di misura di salvaguardia Nella segnalata sentenza, a fronte di una previsione di silenzio-rifiuto, il Consiglio di Stato non esclude il potere dell’Amministrazione di adottare il provvedimento espresso di diniego successivamente alla scadenza del termine di formazione del silenzio. Ad avviso della Sesta Sezione, si profila un’ipotesi speciale di silenzio-rifiuto che si colloca fuori dalla fattispecie generale di cui all’art. 20, comma 1, della L. n. 241/1990, riconducibile all’art. 20 del D.P.R. n. 380/2001(“Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia”), non avendo l’interessato invocato i rimedi sostitutivi di cui all’art. 21 del medesimo decreto. Nella versione vigente all’epoca dei fatti oggetto del ricorso, la suddetta norma speciale stabiliva che “decorso inutilmente il termine per l'adozione del provvedimento conclusivo sulla domanda di permesso di costruire si intende formato il silenzio-rifiuto” (la versione della norma, che reca adesso la previsione di un silenzio assenso, è invero di molto successiva). Invero, l’istanza del privato verteva su un intervento edilizio implicante un’opera nuova rispetto al Piano Regolatore Generale locale (da ora “P.R.G. locale”), ossia un pontile di m 200 di lunghezza per m 2 di larghezza, con ai lati bilance per la pesca e al centro uno scivolo per alaggio/varo di natanti, non già precedentemente esistente e come tale non assentibile. Il Collegio precisa come “in assenza di un piano attuativo sarebbero stati consentiti soltanto, oltre ai rifacimenti di tetti senza aumento dell’altezza del fabbricato, gli interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria ed i restauri o risanamenti conservativi” previsti dal citato decreto. Il Supremo Consesso rileva inoltre l’operatività nella fattispecie in esame della misura di salvaguardia di cui all’art. 12, co. 3, del citato d.P.R., per la quale “non può reputarsi implausibile (ed illegittimo) il contegno tenuto dal Comune che, senza rispondere immediatamente alla domanda di parte, si è in pratica avvalso della effettività della misura di salvaguardia in atto.” Pertanto, il diniego sarebbe stato comunque legittimo, a titolo di misura di salvaguardia ex art. 12, co. 3, del d.P.R. n. 380, secondo il quale “In caso di contrasto dell'intervento oggetto della domanda di permesso di costruire con le previsioni di strumenti urbanistici adottati, è sospesa ogni determinazione in ordine alla domanda. La misura di salvaguardia non ha efficacia decorsi tre anni dalla data di adozione dello strumento urbanistico, ovvero cinque anni nell'ipotesi in cui lo strumento urbanistico sia stato sottoposto all'amministrazione competente all'approvazione entro un anno dalla conclusione della fase di pubblicazione.” A fronte di ciò non può considerarsi validamente opponibile nemmeno il preteso affidamento derivante da un parere – positivo – reso dalla Regione e ciò sia perché tale atto, appunto, esprimeva un mero avviso e non aveva pertanto la forza di un provvedimento di decisione su un caso concreto sia perché esso proveniva peraltro da ente diverso da quello dotato della competenza occorrente alla definizione della domanda di assenso formulata dalla parte privata. DU
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Inserito in data 21/02/2017 TAR CAMPANIA - NAPOLI, SEZ. I, 20 febbraio 2017, n. 1020 Esclusione per carenza dell’ offerta: rito superaccelerato e soccorso istruttorio Il rito camerale “superaccelerato” in materia di appalti pubblici, previsto dall’art. 120, commi 2 bis e 6 bis del c.p.a., introdotti dall’art. 204, comma 1, lett. b) e lett. d), D.lgs n. 50/2016, “è circoscritto esclusivamente ai provvedimenti di esclusione e ammissione ammessi all’esito della valutazione dei requisiti soggettivi, economico- finanziari e tecnico professionali”. Da ciò discende che tale rito non si applica “in caso di esclusione fondata su presupposti diversi da quelli soggettivi e, quindi, a seguito di estromissione disposta per carenza di elementi essenziali dell’offerta tecnica previsti dalla lex specialis di gara”. Né è possibile praticare una estensione in via analogica delle nuove disposizioni processuali al di fuori delle ipotesi espressamente previste, “ostandovi la natura eccezionale del rito”. In particolare, il cronoprogramma costituisce “documento essenziale dell’offerta tecnica” e la sua allegazione “si appalesa necessaria al fine di illustrare sotto il profilo temporale le modalità di svolgimento delle lavorazioni in riferimento alle proposte migliorative e, altresì, per rappresentarne i criteri qualitativi e gli elementi necessari per valutare le relative capacità realizzative delle società partecipanti”. Assurgendo ad elemento essenziale dell’offerta, la carenza del cronoprogramma non può essere emendata mediante il potere di soccorso istruttorio. Pertanto, “ove il cronoprogramma sia stato previsto, non solo formalmente, ma soprattutto, sostanzialmente quale elemento imprescindibile per la valutazione della serietà dell’offerta, dalla sua mancata allegazione può legittimamente farsi discendere la sanzione dell’esclusione dell’impresa concorrente inadempiente”. GB
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Inserito in data 20/02/2017 TAR LAZIO - ROMA, SEZ. I - ORDINANZA DI RIMESSIONE ALLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA, 17 febbraio 2017 - n. 2547 AGCM ha competenza sanzionatoria nel settore energia e gas? Rinvio pregiudiziale alla Corte UE Nella Ordinanza emarginata in epigrafe, si affronta un problema relativo al riparto di competenze sanzionatorie tra AGCM (Authority Antitrust) ed AEEGSI (Authority energia e gas) nei riguardi di un operatore economico del settore energia e gas per pratiche commerciali asseritamente scorrette (l’odierna ricorrente). Il Collegio, condividendo la doglianza esposta dalla ricorrente circa la ritenuta incompetenza della AGCM a pronunciarsi in ordine a condotte, peraltro, conformi alle disposizioni settoriali dettate dalla AEEGSI, ritiene di investire la Corte di Giustizia dell’Unione europea della questione pregiudiziale, legata all’interpretazione dell’art. 27 bis, comma 1 del Codice del consumo, in relazione alle disposizioni euro-unitarie applicabili al settore delle forniture di energia elettrica e gas naturale e, in particolare: i) se il principio di specialità ex art. 3, paragrafo 4, della direttiva 2005/29/CE , debba essere inteso quale principio regolatore dei rapporti tra ordinamenti (ordinamento generale e ordinamenti di settore), ovvero dei rapporti tra norme (norme generali e norme speciali) ovvero, ancora, dei rapporti tra autorità indipendenti preposte alla regolazione e vigilanza dei rispettivi settori; ii) se la ratio della direttiva generale n. 2005/29/CE, per la tutela dei consumatori, nonché il principio di specialità della medesima direttiva ostino a una norma nazionale che riconduca la valutazione del rispetto degli obblighi specifici previsti dalle direttive settoriali n. 2009/72/CE e n. 2009/73/CE a tutela dell’utenza nell’ambito di applicazione della direttiva generale n. 2005/29/CE sulle pratiche commerciali scorrette, escludendo, per l’effetto, l’intervento dell’autorità di settore - nel caso di specie AEEGSI - a reprimere una violazione della direttiva settoriale in ogni ipotesi che sia suscettibile di integrare altresì gli estremi di una pratica commerciale scorretta o sleale. Sostanzialmente la ricorrente lamenta che con il provvedimento sanzionatorio oggetto della impugnativa, la Autorità Antitrust “abbia sanzionato non specifici fatti violativi del diritto dei consumatori, bensì generali regole di condotta, ritenute dagli operatori commerciali del tutto conformi alla disciplina di settore riconducibile alla relativa autorità di regolazione, id est, la AEEGSI”. Si osserva che la valutazione in ordine alla competenza sanzionatoria della AGCM in un settore già regolamentato da specifiche normative “è di primaria importanza” giacché, “qualora fosse riscontrata l’effettiva incompetenza dall’AGCM ad adottare il provvedimento impugnato, perché invasivo delle competenze già riconosciute alla AEEGSI, il ricorso sarebbe direttamente accolto, senza necessità di valutazione degli altri motivi, certamente subordinati a questo”. In particolare, viene rilevato dal Collegio come la difesa della ricorrente si fondi sulla considerazione della vigenza di una normativa di settore specifica e riguardante proprio le condotte contestate e sanzionate dalla AGCM. Sul punto, si rileva la presenza del “Codice di condotta commerciale, adottato in accordo a quanto previsto dal Codice del consumo (art. 27 bis d.lgs. n. 206/2005) ed alle direttive comunitarie in materia energetica (2009/72/CE e 2009/73/CE a tutela dell’utenza nell’ambito di applicazione della direttiva generale n. 2005/29/CE sulle pratiche commerciali scorrette e tutela comunitaria dei consumatori), così da formalizzare regole che gli esercenti della vendita di energia elettrica e/o gas naturale devono rispettare nei loro rapporti commerciali con i clienti finali”. Il Giudice remittente prosegue affermando che “le previsioni di tale codice di condotta costituiscono tutte le regole operative necessarie per dare attuazione alle norme comunitarie riguardanti il comparto energetico, assorbendo nel contempo le previsioni generali del Codice del consumo”. Dunque, a parere del Collegio, il sistema delineato dal predetto codice di condotta, unitamente alle delibere approvate dalla AEEGSI, rappresenterebbe – ex se - un sistema di regole completo. Ragion per cui, “non residuerebbe spazio per l’ulteriore intervento dell’Autorità antitrust in un settore già sufficientemente regolato”. D’altra parte viene, altresì, evidenziato il riconoscimento in capo alla AEEGSI, da parte dell’Ordinamento euro unitario, “di una generale potestà sanzionatoria nel mercato energetico, con conseguente applicazione del c.d. principio di specialità, riconosciuto dall’art. 3 paragrafo 4, direttiva 2005/29/CE”. A parere del T.A.R., l’applicabilità della disciplina generale si pone necessaria solo nell’ipotesi in cui la disciplina di settore sia carente e non esaustiva, circostanza che, a ben vedere, non apparirebbe presente nel caso di specie. Peraltro, ciò è in linea con la lettura della direttiva generale 2005/29/CE (si veda l’art. 3, par. 4 ed il “Considerando 10” della medesima, secondo cui la stessa opererebbe quale “rete di sicurezza” che garantisce il mantenimento di un elevato livello di tutela dei consumatori contro le pratiche commerciali sleali in tutti i settori, colmando le (eventuali) lacune di altre specifiche normative settoriali. Motivo per cui, ove tali lacune non siano riscontrabili, “la suddetta rete di sicurezza, codificata nell’ordinamento italiano con il richiamato art. 27, comma 1 bis, Codice del consumo, non opererebbe, risolvendo in tal modo ogni problematica di incertezza giuridica in merito al regime applicabile” e, si noti, al problema del riparto di competenze tra le diverse Authorities. PC
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Inserito in data 18/02/2017 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 16 febbraio 2017, n. 712 Esclusione dalle gare d’appalto per omessa dichiarazione in merito ai precedenti professionali Con la sentenza in esame il Consiglio di Stato affronta il tema delle cause di esclusione dalle procedure ad evidenza pubblica ed in particolare della causa consistente nella omessa dichiarazione – da parte di una azienda partecipante – riguardante i propri precedenti professionali. Nei fatti un’impresa, nell’ambito di una gara concernente l’affidamento del servizio di raccolta integrata dei rifiuti urbani e servizi connessi, aveva omesso di dichiarare che in passato nei suoi confronti erano state pronunciate da ben 12 Amministrazioni le “risoluzioni” di altrettanti contratti. Chiamato a pronunciarsi sulla questione, il Tar Sardegna affermava che le dichiarazioni rese da un’azienda partecipante ad una procedura ad evidenza pubblica risultano essere necessarie al fine di permettere alla P.A. di esplicare quel legittimo giudizio di rilevanza e gravità, irrinunciabile per poter affidare serenamente un appalto ingente ad un operatore “senza macchie” e che sia in grado effettivamente di garantire (e con valutazione ex ante) l’espletamento di un buon servizio. La dichiarazione negativa resa alla pubblica amministrazione aggiudicatrice – continuava il Tar – “è, quindi, già indice di mancata correttezza e violazione del principio di buona fede (sussistendo la norma a monte che ne impone l’obbligo, art. 38, ripreso dal Disciplinare di gara) del partecipante, che, con la sua condotta, ha voluto omettere elementi di estrema importanza, in questo caso oltretutto “diffusi” e, stante il numero, non certo episodici e/o marginali”. Per tali motivi il giudice di primo grado stabiliva l’esclusione della suddetta impresa dalla gara, con annullamento dell’aggiudicazione decretata in suo favore. Orbene, le conclusioni del giudice di primo grado sono condivise - in appello - dal Consiglio di Stato, il quale, nella pronuncia in commento osserva, preliminarmente, che lo stesso Consesso in precedenti decisioni (ex multis, sentenza del 5 ottobre 2016, n. 4108 e del 3 febbraio 2016, n. 404) “ha ribadito che il mancato cenno alle risoluzioni contrattuali disposte è una ragione autonoma per disporre l'esclusione dell'appellante dalla procedura, poiché il combinato disposto della lett. d) del primo comma dell'art. 38 con il comma secondo del medesimo art. 38 milita nel senso dell'obbligatorietà per i concorrenti di dichiarare a pena di esclusione la sussistenza di tutti i propri precedenti professionali dai quali la stazione appaltante può discrezionalmente desumere la loro inaffidabilità”. Inoltre, continua il giudice d’appello, la falsa dichiarazione resa su un dato sconosciuto alla P.A., come nel caso di specie, impedisce il c.d. soccorso istruttorio, poiché la dichiarazione contestata non può ritenersi incompleta, ma contrastante con un dato reale (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 26 luglio 2016, n. 3375); “in una simile ipotesi, quindi, si attiva il disposto dell'art. 75, d.P.R. n. 445-2000, mentre non può operare il soccorso istruttorio dal momento che non è contestata la mancanza o l'incompletezza della dichiarazione, ma l'aver reso dichiarazione non veritiera”. Approfondendo la propria analisi, la Quinta Sezione afferma poi che “la circostanza che la disposizione dell’art. 38 in esame stabilisca che la Stazione Appaltante possa accertare "con qualunque mezzo" l'errore grave commesso nell'esercizio dell'attività professionale se rimette alla discrezionalità dell'Amministrazione la valutazione circa l'inaffidabilità dell'impresa attribuendo alla stazione appaltante la facoltà di valutare, in rapporto alle esigenze del contratto che si andrà a stipulare, l'effettiva valenza dell'errore professionale precedentemente commesso dall'impresa, implica l'obbligo di dichiarazione da parte dell'impresa partecipante degli errori commessi nell'esercizio dell'attività professionale. In tale prospettiva viene in evidenza che la ratio della norma risiede nell'esigenza di assicurare l'affidabilità di chi si propone quale contraente, requisito che si ritiene effettivamente garantito solo se si allarga il panorama delle informazioni, comprendendo anche le evenienze patologiche contestate da altri committenti. In tale contesto, la mancanza di tipizzazione da parte dell'ordinamento delle fattispecie rilevanti, non attribuisce alcun filtro sugli episodi di "errore grave" all'impresa partecipante, la quale è tenuta a portare a conoscenza della stazione appaltante ogni episodio di risoluzione o rescissione contrattuale anche non giudiziale, quand'anche transatto, essendo rimessa alla stazione appaltante la valutazione in relazione al nuovo appalto da affidare. Pertanto, non sussiste per l'impresa partecipante ad una gara la facoltà di scegliere i fatti da dichiarare, sussistendo al contrario l'obbligo della onnicomprensività della dichiarazione, spettando alla stazione appaltante il momento valutativo”. Alla luce delle argomentazioni sopra esposte, il Consiglio di Stato sottolinea, quindi, il buon lavoro svolto in primo grado dal TAR nell’evidenziare l'illogicità e l’irragionevolezza (manifeste) della valutazione compiuta dal Comune interessato circa la non gravità dei molteplici pregressi errori professionali commessi dall’azienda in questione. Nelle gare pubbliche, infatti, - specifica il Consesso - “la valutazione anche in ordine alla gravità degli inadempimenti del concorrente (che li abbia dichiarati, diversamente da quanto comunque accaduto nella vicenda per cui è causa), pur essendo espressione di discrezionalità c.d. tecnica della Stazione Appaltante, è sempre suscettibile di sindacato esterno da parte del Giudice Amministrativo nei profili dell'eccesso di potere per manifesta irragionevolezza, erronea valutazione dei presupposti, contraddittorietà”. Le sintetiche ragioni, che esauriscono la motivazione del provvedimento comunale, nel caso di specie - conclude la Quinta Sezione - “sono del tutto generiche, fondate su elementi meramente eventuali e possibili e prive di un minimo riscontro probatorio” “detta motivazione è, pertanto, illegittima e conseguentemente, il provvedimento doveva essere annullato come correttamene ha disposto il TAR”. Passando all’esame specifico dell'istanza di rinvio alla Corte di Giustizia presentata nel medesimo appello, il Consiglio di Stato afferma essere la stessa del tutto pretestuosa, in quanto, ad avviso del Consesso, non sussiste nella materia in questione alcun contrasto della normativa interna con quella europea. A supporto della propria tesi, la Quinta Sezione richiama in primo luogo l'art. 45, par. 2, della Direttiva n. 18-2004 che stabilisce che "può essere escluso dalla partecipazione all'appalto ogni operatore economico che, nell'esercizio della propria attività professionale, abbia commesso un errore grave, accertato con qualsiasi mezzo di prova dall'amministrazione aggiudicatrice". Il Consesso richiama poi l'art. 57 par. 4, della vigente Direttiva n. 24-2014 il quale prevede che “le Amministrazioni aggiudicatrici possono escludere, oppure gli Stati membri possono chiedere alle amministrazioni aggiudicatrici di escludere, dalla partecipazione alla procedura d'appalto un operatore economico in determinate situazioni, tra cui nell'ipotesi di falsa dichiarazione, che sarebbe stata doverosa anche a norma dell'art. 80 d.lgs. n. 50-2016, allorché “la stazione appaltante dimostri con mezzi adeguati che l'operatore economico si è reso colpevole di gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o affidabilità”. Tra questi rientrano: le significative carenze nell'esecuzione di un precedente contratto di appalto o di concessione che ne hanno causato la risoluzione anticipata, non contestata in giudizio, ovvero confermata all'esito di un giudizio, ovvero hanno dato luogo ad una condanna al risarcimento del danno o ad altre sanzioni; il tentativo di influenzare indebitamente il processo decisionale della stazione appaltante o di ottenere informazioni riservate ai fini di proprio vantaggio; il fornire, anche per negligenza, informazioni false o fuorvianti suscettibili di influenzare le decisioni sull'esclusione, la selezione o l'aggiudicazione ovvero l'omettere le informazioni dovute ai fini del corretto svolgimento della procedura di selezione”. Nello specifico - conclude il consiglio di Stato - la lettera i) dell'art. 57 par. 4, della vigente Direttiva n. 24-2014 stabilisce l’esclusione "se l'operatore economico ha tentato di influenzare indebitamente il procedimento decisionale dell'amministrazione aggiudicatrice, ha tentato di ottenere informazioni confidenziali che possono conferirgli vantaggi indebiti rispetto alla procedura di aggiudicazione dell'appalto, oppure ha fornito per negligenza informazioni fuorvianti che possono avere un'influenza notevole sulle decisioni riguardanti l'esclusione, la selezione o l'aggiudicazione", ipotesi quest’ultima che ricorre a pieno titolo nel caso in esame. FM
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Inserito in data 17/02/2017 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 15 febbraio 2017, n. 677 Revoca revisori dei conti da parte del Sindaco per venir meno del rapporto fiduciario La revoca di un componente del Collegio sindacale di una società a partecipazione pubblica disposta dal sindaco per venir meno del rapporto fiduciario è illegittima. Infatti, la fiduciarietà “deve intendersi esaurita nel momento della individuazione del soggetto ritenuto idoneo a svolgere quella funzione, non potendo invece permanere nel concreto ed obiettivo svolgimento della funzione”. L’esclusione della necessità del collegamento fiduciario tra organo che elegge ed organo eletto, una volta perfezionata la nomina, costituisce “principio immanente in tema di cariche elettive dei revisori dei conti degli enti locali” (Cons. Stato, sez. VI, 8 agosto 2008, n. 3915). Infatti, “i revisori dei conti chiamati a ricoprire tale funzione delle società a maggioranza pubblica hanno il delicato compito di sorvegliare sulla corretta spendita di denaro pubblico e pertanto devono essere espressione di un alto livello di professionalità e di moralità tipico dei ruoli assolutamente neutrali, qual è appunto quello del controllo, non solo nell’interesse dei soci, ma altresì nell’interesse pubblico generale, che si traduce, sul piano operativo, nel controllo sulla corretta applicazione della legge.” La peculiarità della funzione dei revisori dei conti “emerge significativamente dal documento approvato dalla C.o.n.s.o.b. il 5 ottobre 2005 […] derivato dalla raccomandazione della Commissione europea 16 maggio 2002, per la quale l’indipendenza si esprime nell’integrità e nell’obiettività, la prima garantita dall’alta qualificazione dei soggetti chiamati, la seconda dalla più assoluta imparzialità dell’azione del revisore medesimo; principi ribaditi dall’art. 38 della Direttiva 2006/43/UCE del Parlamento europeo e del Consiglio del 17 maggio 2006, secondo cui gli Stati membri devono assicurare che la revoca e le dimissioni dei revisori legali o delle imprese di revisione contabile possa avvenire solo per giusta causa e non per divergenze di opinione in merito ai contenuti delle determinazioni da prendere”. Anche l’ordinamento giuridico italiano (artt. 2399 e 2400 c.c.) e la normativa in tema di enti locali sono ispirati agli stessi principi, giacché l’art. 235, comma 2, del D. Lgs. 17 agosto 2000, n. 267, prevede che “Il revisore è revocabile solo per inadempienza ed in particolare per la mancata presentazione della relazione alla proposta di deliberazione consiliare del rendiconto entro il termine previsto dall'art. 239, comma 1, lettera d )” (in termini, C.G.A., 22 ottobre 2015, n. 736). GB |
Inserito in data 16/02/2017 CORTE COSTITUZIONALE - SENTENZA 15 febbraio 2017, n. 36 Le aree marine protette non fanno parte del parco naturale regionale La Consulta con la pronuncia in epigrafe dichiara l’illegittimità costituzionale della legge regionale del 6 novembre 2015, n. 38 recante «Istituzione del Parco Naturale Regionale Costa dei Trabocchi e modifiche alla legge regionale 21 giugno 1996, n. 38 (Legge-quadro sulle aree protette della Regione Abruzzo per l’Appennino Parco d’Europa)», relativamente a quelle disposizione che istituiscono come area protetta - con la denominazione di parco naturale regionale - un territorio che configura unicamente un’area marina protetta, la cui disciplina afferisce alla competenza esclusiva statale. Nella specie, le disposizioni contenute negli artt. 1, comma 1, 2, commi 1, 2 e 4, 3, comma 1, 6, 7 e 9 della legge citata, regolamentando la gestione e la salvaguardia di un’istituzione che interessa la <<tutela ambientale>> avrebbero violato l’art. 117, comma 2, lett.s), Cost., dal momento che siffatta materia, , trovava già la sua disciplina nella legislazione statale, agli artt. 19 e 20 della legge n. 394/1991 (“Legge-quadro sulle aree protette”), nonché agli artt. 25 e 26 della legge n. 979/1982 (recante “Disposizioni sulla difesa del mare”). Prendendo le mosse dalla nozione di <<parco naturale regionale>> tratteggiata dalle disposizioni richiamate, la Corte Costituzionale ne desume le seguenti precise caratteristiche: trattasi di << aree terrestri, fluviali, lacuali ed eventualmente da tratti di mare prospicienti la costa, in cui siano inclusi uno o più ecosistemi intatti o poco alterati da interventi antropici, che costituiscono, nell’ambito di una o più regioni limitrofe, un sistema omogeneo caratterizzato dalla presenza di specie animali, vegetali o siti geomorfologici di rilevante interesse naturalistico, scientifico, culturale, educativo e ricreativo, nonché da valori paesaggistici, artistici e dalle tradizioni delle popolazioni locali.>> Nel caso in esame l’area tutelata riguardava il tratto di mare prospiciente la costa di due comuni siti sul litorale, a partire dalla linea di costa fino a sei miglia marine, sicché emergeva chiaramente che la perimetrazione del suddetto parco naturale <<comprendeva esclusivamente un tratto di mare prospiciente la costa compreso tra le coordinate indicate>>. Rilevano i giudici come, nonostante l’area interessata assurga << ad icona di una relazione tra terra e mare, essa non ha mai costituito oggetto di tutela e valorizzazione integrata, conseguentemente, la legge regionale in esame, al menzionato art. 2, comma 3, incoerentemente afferma che la presenza dei “trabocchi”, antichi strumenti di pesca, caratterizza l’ambiente marino.>> La contraddizione tra le norme di principio istitutive del Parco naturale regionale (art. 1) – che, come già detto, solo marginalmente può comprendere anche tratti di mare prospicienti la costa − e la concreta perimetrazione dello stesso (art. 2), contenente solo un ampio tratto di mare prospiciente la costa, palesa la reale portata della legge in esame, tesa, in realtà, alla creazione di un’area marina protetta in violazione del riparto di competenze legislative tra Stato e Regioni.
Dal momento che il parco naturale regionale istituito con la legge regionale in esame, per le ragioni sopra esposte, non comprende in via prevalente un’area di terra emersa, ma esclusivamente un’area marina da ascrivere alla aree marine protette, il Giudice delle Leggi ne dichiara il contrasto con la legge n. 394 del 1991 e, di conseguenza, con l’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione. DU
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Inserito in data 15/02/2017 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 10 febbraio 2017, n. 584 Va motivata la rimodulazione dei criteri di valutazione delle pubblicazioni scientifiche La questione sottoposta all’esame della Sezione attiene alla legittimità della procedura di abilitazione nazionale alle funzioni di professore universitario di prima e di seconda fascia. Sul punto bisogna ricordare che la “legge 30 dicembre 2010 n. 240 (Norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e reclutamento, nonché delega al Governo per incentivare la qualità e l'efficienza del sistema universitario) ha riformato il sistema di reclutamento dei professori universitari. In attuazione di tale disposizione sono stati adottati il decreto del Presidente della Repubblica 14 settembre 2011 n. 222 (Regolamento concernente il conferimento dell'abilitazione scientifica nazionale per l'accesso al ruolo dei professori universitari, a norma dell'articolo 16 della legge 30 dicembre 2010, n. 240) e il decreto ministeriale 7 giugno 2012 n. 76 (Regolamento recante criteri e parametri per la valutazione dei candidati ai fini dell'attribuzione dell'abilitazione scientifica nazionale per l'accesso alla prima e alla seconda fascia dei professori universitari, nonché le modalità di accertamento della qualificazione dei Commissari, ai sensi dell'articolo 16, comma 3, lettere a), b) e c) della legge 30 dicembre 2010, n. 240, e degli articoli 4 e 6, commi 4 e 5, del decreto del Presidente della Repubblica 14 settembre 2011, n. 222)”. Per tale via, si è passati “da un sistema fondato su concorso locali ad un sistema a doppio stadio: una prima fase finalizzata ad ottenere l’abilitazione nazionale; una seconda fase rappresentata da una procedura “valutativa” che si svolge presso i singoli Atenei finalizzata all’ingresso nei ruoli di professore associato o ordinario”. Del resto, la riforma ha chiaramente perseguito “l’obiettivo di ridurre la discrezionalità delle commissioni mediante l’attribuzione di una funzione selettiva rilevante a criteri di tipo quantitativo: le cosiddette mediane”. Ciò premesso, il Collegio ritiene fondata la violazione degli art. 4 e 5 del decreto ministeriale n. 76 del 2012, “nella parte in cui la commissione aveva deliberato di non utilizzare nella valutazione delle pubblicazioni scientifiche i criteri di cui agli articoli 4, comma 2, lettera d), 5, comma 2, lettera d), 4, comma 4, lettera a), e 5, comma 4, lettera a), del suddetto decreto ministeriale”. Invero, la stessa Sesta Sezione, in relazione alla medesima procedura de qua, ha già avuto modo di affermare che la “disapplicazione” o, comunque “rimodulazione” dei suddetti criteri non risulta «sorretta da motivazione logica e adeguata» (Cons. Stato, sez. VI, 24 ottobre 2016, n. 4439). In particolare, si è affermato che «il relativo onere motivazionale deve ritenersi particolarmente accentuato, poiché l’esclusione, dal novero degli elementi valutativi, di criteri e parametri oggettivi e trasparenti di valutazione, ha valenza non solo quantitativa, ma anche qualitativa, idonei a fungere da riscontri oggettivi esterni nella ricostruzione dell’iter logico posto a base dei giudizi, individuali e collettivi, espressi dalla commissione, comporta uno speculare aumento della sfera di discrezionalità della commissione, in linea generale limitata dai criteri e parametri stabiliti dal decreto ministeriale, i quali, di norma, devono trovare applicazione e la cui mancata applicazione assume carattere eccezionale».
Nella citata sentenza si è affermato, inoltre, come tali criteri costituiscano «parametri oggettivi e precostituiti, muniti di un rilevante grado di significatività circa la qualità e la quantità delle pubblicazioni e della produzione scientifica dei candidati, e non manifestamente incompatibili con il macrosettore che qui viene in rilievo». EF
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Inserito in data 14/02/2017 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 9 febbraio 2017, n. 565 Sul rilascio della informativa antimafia anche con riguardo ai provvedimenti c.d. autorizzatori Nella sentenza emarginata in epigrafe, la terza sezione del Consiglio di Stato, non condividendo la decisione del Giudice di prime cure, afferma che anche le attività soggette ad autorizzazioni, licenze o s.c.i.a. sono soggette alla c.d. informativa antimafia (art. 89 bis d.lgs n. 159 del 2011). Pertanto, il Prefetto rilascia la informativa antimafia non soltanto nei casi di rapporti contrattuali tra imprese ed Amministrazioni (appalti e concessioni) ma anche tutte le volte in cui le imprese intendano svolgere attività per le quali sia necessario ottenere autorizzazioni, licenze o attività soggette a s.c.i.a. Il Collegio giunge alla predetta conclusione muovendo le mosse dall’art. 2 comma 1 lett. c) della legge n. 136 del 2010 istitutiva della Banca dati unica della documentazione antimafia. Ed invero, viene rilevato come la disposizione si riferisca “a tutti i rapporti, anche già in essere, con la pubblica amministrazione, finalizzata all’accelerazione delle procedure di rilascio della medesima documentazione e al potenziamento dell’attività di prevenzione dei tentativi di infiltrazione mafiosa nell’attività di impresa”, senza differenziazione alcuna tra autorizzazioni da un lato, concessioni e contratti dall’altro. Non è pertanto possibile ritenere, come fa il primo Giudice, che l’espressione «rapporti» si riferisca solo ai contratti e alle concessioni, non anche alle autorizzazioni che, secondo una classica concezione degli atti autorizzatori, non costituirebbero un “rapporto” con l’Amministrazione. Sotto tale ultimo profilo, il Collegio rileva che la idea secondo la quale gli atti autorizzatori non costituirebbero un rapporto tra soggetti economici ed Amministrazioni, “contrasta con una visione moderna, dinamica e non formalistica del diritto amministrativo, quale effettivamente vive e si svolge nel tessuto economico e nell’evoluzione dell’ordinamento, che individua un rapporto tra amministrato e amministrazione in ogni ipotesi in cui l’attività economica sia sottoposta ad attività provvedimentale, che essa sia di tipo concessorio o autorizzatorio o, addirittura soggetta a s.c.i.a.” (vedi parere del Consiglio, in sede consultiva, in ordine all’attuazione del d. lgs. n. 124 del 2015 e tra gli altri, il parere n. 839 del 30 marzo 2016 sulla riforma della disciplina della s.c.i.a.). PC
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Inserito in data 13/02/2017 TAR VENETO - VENEZIA, SEZ. I - 2 febbraio 2017, n. 115 Dichiarazioni bancarie, falso innocuo e revoca dell'aggiudicazione I Giudici veneti respingono il ricorso di una ditta la cui aggiudicazione è stata revocata per presunta falsità nelle dichiarazioni bancarie all’uopo presentate. In primo luogo e a dispetto di quanto addotto dalla Difesa di parte ricorrente, si ricorda come le certificazioni bancarie richieste servano, in primo luogo, a comprovare la solidità economico – finanziaria di una concorrente a gara pubblica – ex art. art. 46, comma 1 bis, del D.Lgs. n. 163 del 2006. Non si può ammettere, pertanto, la paventata nullità della clausola del bando che statuisca una previsione simile. Né, del resto, è condivisibile l’ulteriore asserzione riguardo ad un possibile falso innocuo delle referenze bancarie depositate – come addotta in seno al ricorso. Infatti il Collegio veneziano, uniformandosi a giurisprudenza pregressa, ricorda come “in materia di gare pubbliche, in tanto può farsi ricorso all’istituto del falso innocuo, in quanto la lex specialis non preveda una sanzione espulsiva espressa per la mancata osservanza di puntuali prescrizioni sulle modalità e sull'oggetto delle dichiarazioni da fornire” (Cfr. Cons. Stato, n. 583 del 2014 e n. 1494 del 2013; Tar Lazio n. 255 del 2014). Nel caso di specie, invece, il bando di gara espressamente richiedeva, a pena di esclusione, la presentazione di due referenze bancarie, entrambe presentate dalla ditta – odierna ricorrente e risultate ambedue non autentiche.
Non è possibile, dunque, condividere alcuna delle suddette posizioni di parte ricorrente e, di conseguenza, il gravame va rigettato unitamente alla correlata domanda risarcitoria. CC
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Inserito in data 11/02/2017 TAR SICILIA - CATANIA, SEZ. III, 1 febbraio 2017, n. 229 Diniego del diritto di accesso a verbali della Polizia municipale e segreto istruttorio Il Collegio etneo interviene, con la pronuncia in esame, su una questione relativa all’esperibilità del diritto di accesso nei riguardi di atti emessi dalla Polizia municipale, in merito ai quali l’Amministrazione aveva palesato il proprio diniego. Tale ultima posizione era giustificata in forza dell’esercizio dei poteri ispettivi e di vigilanza presuntivamente esercitati dal Corpo dei Vigili urbani – in cui favore si costituisce, per l’appunto, la Difesa comunale che, paventandone l’assimilazione ad atti della magistratura penale, ne aveva sancito l’inaccessibilità. I Giudici siciliani, invece, intervengono sul punto – delimitando il confine con gli atti coperti dal cd. segreto istruttorio ed accogliendo, per l’effetto, il gravame proposto dalla società istante - odierna ricorrente. In particolare, richiamando giurisprudenza pregressa sul tema, i Giudici affermano che non rientrano nel divieto in oggetto i documenti di origine extraprocessuale acquisiti al procedimento e non compiuti dal P.M. o dalla polizia giudiziaria (Cfr. Corte di Cassazione, V Sezione Penale, sentenza 9 marzo 2011, n. 13494). Del resto, prosegue il Collegio siciliano, la giurisprudenza ha chiarito che l'esistenza di un'indagine penale non implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti gli atti o provvedimenti che in qualsiasi modo possano risultare connessi con i fatti oggetto di indagine: solo gli atti per i quali è stato disposto il sequestro e quelli coperti da segreto possono risultare sottratti al diritto di accesso (cfr. T.A.R. Puglia, Lecce, n. 2331/2014). Tanto non è accaduto nel caso di specie ove, come è chiaro, si è in presenza di attività amministrativa (e non di attività di polizia giudiziaria), peraltro posta in essere prima delle denunce e degli esposti presentati all’autorità giudiziaria e per la quale allo stato non risultano essere stati adottati specifici provvedimenti da parte della magistratura penale.
In quanto tale, essa non rientra nel novero degli atti non accessibili – ex art. 24 – co. 6’ Lett. d) L. 241/90 e ss.mm. e, pertanto, i Giudici ne dispongono l’accesso – come chiesto in ricorso. CC
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Inserito in data 10/02/2017 TAR LAZIO - ROMA, SEZ. I Bis - 8 febbraio 2017, n. 2118 Permanenza interesse al ricorso su ammissioni alla gara anche dopo l’aggiudicazione
Nel “nuovo sistema processuale speciale introdotto dal d.lgs. n. 50/2016”, il legislatore, “derogando al principio dettato dall’art. 100 c.p.c, secondo cui, per proporre una domanda o per contraddire alla stessa è necessario avervi interesse, ed innovando rispetto alla granitica giurisprudenza amministrativa in merito, ha onerato tutti i partecipanti ad una gara, dell’impugnazione immediata delle ammissioni in una fase antecedente al sorgere della lesione concreta e attuale data dall’aggiudicazione, in ragione dell’impossibilità a far valere poi i profili inerenti all’illegittimità di tali determinazioni mediante un successivo ricorso incidentale, proposto per paralizzare quello principale con cui sia stata impugnata l’aggiudicazione”.
La ratio di tale regime di impugnazione risiede “nella precipua ottica di cristallizzare e rendere intangibile la fase di gara relativa agli operatori economici ammessi a partecipare, ovvero, in altri termini, a definire la platea dei soggetti ammessi alla gara (parere Consiglio di Stato, 1 aprile 2016, n. 855), in un momento antecedente all’esame delle offerte e alla conseguente aggiudicazione, evitando così un possibile annullamento dell’affidamento per un vizio a monte della procedura”. Nel momento in cui su tale sistema processuale “chiuso e speciale” intervenga l’aggiudicazione, “seguendo un’impostazione classica […] l’azione diventerebbe improcedibile per sopravvenuto difetto di interesse, perché ormai incapace di portare un distinto vantaggio al ricorrente, meglio soddisfatto col bene finale.” Il Collegio tuttavia ritiene che detta impostazione tradizionale “debba essere rivista alla luce dell’eccezionalità del nuovo rito, che ha definito un modello complessivo di contenzioso appalti a duplice sequenza, in cui il nuovo sottosistema accelerato viene disgiunto da quello successivo delle impugnazioni per altri vizi della procedura di gara (es. vizi del bando, della composizione della commissione, della documentazione prodotta ma verificata dopo l’aggiudicazione, dell’offerta stessa), ovvero per vizi relativi all’esito oggettivo della stessa”. “Invero, se l’omessa impugnazione dell’ammissione degli altri concorrenti fa consumare, come visto, il potere di dedurre le relative censure in sede di impugnazione dell’aggiudicazione, parimenti tali censure non potranno essere mosse dall’aggiudicatario che volesse paralizzare, con lo strumento del ricorso incidentale, quello principale proposto avverso l’affidamento dell’appalto, allorquando non abbia tempestivamente esercitato detto potere ai sensi dell’art. 120, comma 2bis”. Pertanto, “dichiarare il ricorso inammissibile, recte improcedibile, in ragione del raggiungimento del bene ultimo dell’aggiudicazione da parte del ricorrente, e quindi del mancato ottenimento di ulteriori benefici dall’esclusione dei controinteressati, non utilmente collocati – secondo la regola classica – comporterebbe da ultimo una situazione alquanto singolare, ove non del tutto violativa del diritto di difesa, per cui il ricorrente aggiudicatario si vedrebbe precluso l’esame delle proprie doglianze nei confronti degli altri concorrenti, i quali, invece, ben potrebbero ottenere l’accoglimento delle proprie ragioni contro l’ammissione del ricorrente, ed in via derivata, l’aggiudicazione ottenuta.” “In altri termini, in ragione della separazione delle due fasi processuali, cui corrispondono anche riti diversi, la successiva aggiudicazione non può ritenersi tale da incidere sull’interesse a ricorrere ex art. 120, comma 2bis, non essendo venuta meno l’utilità (o la ratio) del ricorso anticipato”. GB |
Inserito in data 09/02/2017 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 7 febbraio 2017, n. 547 Erogazione di finanziamenti pubblici, riparto di giurisdizione Con la sentenza in esame il Consiglio di Stato affronta il tema del riparto di giurisdizione in materia di erogazione di finanziamenti pubblici. Nei fatti il Ministero delle Attività Produttive, Direzione Generale per il Coordinamento degli Incentivi alle Imprese, mediante decreto concedeva, in via provvisoria, ad un'impresa un contributo - erogato da una banca concessionaria e ripartito in tre quote annuali - per la realizzazione di un progetto riguardante la costruzione di un opificio commerciale per la vendita all’ingrosso di bevande e stoccaggio di merci. Orbene, le prime due quote di finanziamento venivano erogate, viceversa la terza ed ultima tranche del finanziamento non veniva erogata a causa dell'intervenuta proposta di revoca, formulata dalla banca concessionaria, sul rilievo che la ditta in questione non aveva adempiuto alle condizioni previste per poter fruire del beneficio finanziario. L’impresa, pertanto, adiva il Tar, ma quest’ultimo dichiarava il proprio difetto di giurisdizione, infatti, “ricostruita la cornice normativa del beneficio finanziario e della giurisprudenza in tema di revoca dei finanziamenti già erogati, i giudici di prime cure qualificavano la posizione giuridica soggettiva fatta valere in giudizio dalla ricorrente di diritto soggettivo, siccome intesa a contestare la sussistenza degli estremi di fatto dell’inadempimento alle condizioni previste per poter fruire del beneficio finanziario, costituente presupposto della revoca dei finanziamenti già erogati”. Procedendo in appello, la ditta denunciava l’errore di giudizio in cui sarebbe incorso, a suo dire, il Tar nell’escludere la giurisdizione amministrativa sulla vicenda dedotta in giudizio avente ad oggetto la revoca di contributi già erogati, e ciò in quanto - sosteneva l’appellante - il provvedimento contestato costituirebbe esercizio del potere di autotutela ordinariamente devoluto alla cognizione del giudice amministrativo. La Sesta Sezione assegnataria, mediante la decisione in commento, dichiara l’appello è infondato ed afferma, in premessa, di aderire a quell’indirizzo giurisprudenziale secondo cui “qualora la controversia attenga alla fase di erogazione o di ripetizione del contributo sul presupposto di un addotto inadempimento del beneficiario alle condizioni statuite in sede di erogazione o dall’acclarato sviamento dei fondi acquisiti rispetto al programma finanziato, la giurisdizione spetta al giudice ordinario, anche se si faccia questione di atti formalmente intitolati come revoca, decadenza o risoluzione, purché essi si fondino sull'inadempimento alle obbligazioni assunte di fronte alla concessione del contributo. Viceversa è configurabile una situazione soggettiva d’interesse legittimo, con conseguente giurisdizione del giudice amministrativo, solo ove la controversia riguardi una fase procedimentale precedente al provvedimento discrezionale attributivo del beneficio, oppure quando, a seguito della concessione del beneficio, il provvedimento sia stato annullato o revocato per vizi di legittimità o per contrasto iniziale con il pubblico interesse, ma non per inadempienze del beneficiario” (cfr., Cons. Stato, ad. plen. n. 6 del 2014; Cass. Sez. Un. 24 gennaio 2013, n. 1710) Il Supremo Consesso si sofferma poi sulla specifica questione della qualificazione del provvedimento impugnato come revoca, ritenuta dall’appellante ex se dirimente della giurisdizione del giudice amministrativo. Orbene, ad avviso del Collegio “la censura si fonda sulla sovrapposizione concettuale fra termini dotati di area semantica diversa: la revoca – o l'annullamento – del provvedimento fondato su meccanismi procedimentali di carattere amministrativo, da un lato; e la revoca dello stesso per inadempimento contrattuale, dall’altro”.
Constatando che nella fattispecie si è in presenza della seconda ipotesi, il Giudice d’Appello (rifacendosi ancora alla giurisprudenza sul punto) conclude affermando che nel caso in esame “non viene in rilievo il generale potere di autotutela pubblicistica (fondato sul riesame della legittimità o dell’opportunità dell’iniziale provvedimento di attribuzione del contributo e sulla valutazione dell’interesse pubblico), ma lo speciale potere di autotutela privatistica dell’Amministrazione (...) con il quale, nell’ambito di un rapporto ormai paritetico, l’Amministrazione fa valere le conseguenze derivanti dall’inadempimento del privato alle obbligazioni assunte per ottenere la sovvenzione”. (cfr. Cons. Stato, ad. plen. n.6 del 2014). FM
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Inserito in data 08/02/2017 TAR SICILIA - PALERMO, SEZ. III - 6 febbraio 2017, n. 334 La par condicio va osservata anche negli affidamenti concernenti servizi giuridico - legali Con la pronuncia in epigrafe, il TAR Palermo accoglie la richiesta di annullamento degli atti di una procedura di affidamento di servizi giuridico – legali, per i profili di illegittimità di seguito riportati. In primo luogo, il Collegio procede ad una sintetica ricostruzione del quadro normativo di riferimento. Occorre precisare che la gara su cui si verte è stata indetta ai sensi dell’Allegato II B del codice dei contratti pubblici previgente con bando del 15 aprile 2016 – ove i servizi legali rientravano tra gli appalti di servizi parzialmente esclusi - in data antecedente all’entrata in vigore della nuova disciplina di cui al d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50. Invero, si rileva come il nuovo Codice abbia chiarito - all’art. 17 - l’esclusione della propria applicazione agli appalti e alle concessioni di servizi concernenti i servizi legali, pur precisando, tuttavia, la necessità del rispetto – tra gli altri - dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità e pubblicità. La giurisprudenza amministrativa afferma, a riguardo, che anche sotto la soglia comunitaria la scelta del contraente avrebbe dovuto seguire le regole comunitarie della trasparenza, non discriminazione e pubblicità della procedura (TAR Calabria n. 330/2007 e n. 15430/2006; Cons. di Stato n. 3206/2002), differenziandosi tra incarico occasionalmente svolto dal professionista e servizio legale esternalizzato (Autorità di Vigilanza, determinazione n. 4/2011; Consiglio di Stato, Sez. V, n. 2730 dell’11 maggio 2012). Ad avviso del Collegio, il delineato quadro normativo fa solo da sfondo alle censure di parte ricorrente, le cui prospettazioni risultano tese non solo a sottolineare la violazione delle specifiche norme poste a tutela dell’autonomia e del decoro della professione forense, ma sono dirette ad evidenziare come l’eccessiva riduzione del compenso - ipotizzata in riferimento alla possibile ‘espansione’ dei servizi che potranno essere richiesti al professionista - e la connessa mancanza di determinazione dell’oggetto dell’incarico siano stati elementi idonei a comprimere notevolmente la partecipazione alla procedura selettiva, alterandone in radice lo svolgimento, in violazione delle regole della concorrenza e di buona amministrazione di cui all’art. 97 della Costituzione. Il Consesso amministrativo rileva inoltre come le disposizioni del disciplinare/schema di contratto allegato al bando, assumono una connotazione specificamente rilevante nella parte in cui dispongono che il professionista dovrà garantire la propria presenza presso gli uffici comunali “ogni volta che l’amministrazione comunale lo ritenga necessario”, a fronte dell’iniziale previsione di svolgere il servizio presso il proprio studio, quindi a scapito della libertà del legale. La Terza Sezione osserva poi, che se per un verso, è indiscutibile l’eliminazione dei minimi tariffari - per effetto del sistema plasmato dal D.L. 4 luglio 2006, n. 223, convertito in L. 4 agosto 2006, n. 248, c.d. decreto Bersani – e inequivoca è la spinta verso la determinazione consensuale e omnicomprensiva del prezzo della prestazione, deve darsi tuttavia atto dell’orientamento espresso dal Consiglio di Stato, che evidenzia criticamente come la prospettiva ordinistica sia tesa a ritenere che un prezzo inferiore alla tariffa minima non risulterebbe decoroso per la professione (sentenza 22 gennaio 2015, n. 238). Se ne deduce una reintroduzione, di fatto, dei minimi tariffari, eludendo così l’abolizione degli stessi disposta dal legislatore (art. 2 decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito in legge 4 agosto 2006, n. 248; art. 9 del decreto legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito in legge 24 marzo 2012, n. 27). Nella richiamata pronuncia il Consiglio di Stato non manca di evidenziare che la nozione eurounitaria di impresa include anche l’esercente una professione intellettuale e che il principio secondo cui “in ogni caso la misura del compenso deve essere adeguata all’importanza dell’opera e al decoro della professione” è già insito nell’ordinamento all’art. 2233, cod. civ., che espressamente si occupa del contratto d’opera intellettuale, come rapporto che involge solo il professionista e il cliente. In definitiva, con riguardo al caso in esame, il Collegio ritiene che l’indeterminatezza dei servizi richiesti al professionista e l’accentuazione dell’esiguità del compenso, finiscono con l’incidere gravemente sulla stessa correttezza della attivazione di una procedura di tipo comparativo idonea a consentire, a tutti gli aventi diritto, di partecipare, in condizioni di parità e uguaglianza, alla selezione per la scelta del miglior contraente. DU
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Inserito in data 07/02/2017 TAR VENETO - VENEZIA, SEZ. I - 2 febbraio 2017, n. 117 Recesso unilaterale del Comune e difetto di giurisdizione
La pronuncia in esame ricorda la distinzione tra atti di natura privatistica e quelli aventi indole pubblicistica, ambedue emessi da un’Amministrazione comunale, nonché le conseguenti ricadute in punto di giurisdizione.
Nel caso di specie, a fronte di un recesso unilateralmente disposto da un Comune veneto rispetto ad una fondazione destinata a lavori di rifacimento di un campo da golf, quest’ultima contesta la validità di un simile atto, ritenendolo arbitrario, illogico e compiuto in eccesso di potere. L’Ente, costituitosi in giudizio, contesta in primo luogo la fondatezza del Giudice amministrativo adito – in ragione della natura privatistica del recesso compiuto. I Giudici veneti, dato il prioritario rilievo della potestas iudicandi, intervengono immediatamente sulla pregiudiziale questione di giurisdizione, condividendo la posizione espressa dall’Amministrazione intimata. Più nel dettaglio, aderiscono all’asserita natura privatistica del recesso esercitato dal Comune – quale membro della Fondazione ricorrente e contestano la natura di revoca – ex articolo 21 quinquies L. 241/90 – che essa, invece, presuntivamente ravvisa nella condotta dell’Ente. Si tratta, evidenziano, di una facoltà riconducibile alla libertà di associarsi – ex art. 18 della Costituzione e, come tale, priva di qualsivoglia natura autoritativa. Come tale, può essere esercitata secondo i moduli privatistici – come ricorda l’art. 1 – co. 1’ bis L. 241/90 – a norma del quale “nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato, salvo che la legge disponga diversamente”. Del tutto inconferente, prosegue il Collegio veneziano, appare il richiamo di parte ricorrente ai principi espressi dall’Adunanza Plenaria n. 10 del 2011 in tema di “atti a monte” e “atti a valle” compiuti in seno ad una vicenda societaria. Sia pur volendo traslare quest’ultimo aspetto all’ambito delle fondazioni – quale è da considerarsi la ricorrente, è incontestabile la natura di mero fondatore esplicata nella condotta comunale e, come tale, indubbiamente sussumibile nell’alveo della giurisdizione ordinaria. Infatti, avvalendosi anche dell’aiuto di precedenti giurisprudenziali, si ravvede come l’impugnato atto di recesso rientra appieno negli atti compiuti con spendita, da parte del Comune, della propria capacità di diritto privato, cosicché spetta al G.O. conoscere se i predetti poteri siano stati, o meno, esercitati correttamente (cfr. T.A.R. Lazio, Latina, Sez. I, 9 gennaio 2013, n. 17). Poste tali valutazioni, il TAR adito declina la propria giurisdizione e si pronuncia ai sensi e per gli effetti dell’art. 11 C.p.A. – 2’ co. con salvezza degli effetti processuali e sostanziali della domanda, ferme restando le preclusioni e le decadenze già intervenute. CC |
Inserito in data 06/02/2017 TAR TOSCANA - FIRENZE, SEZ. II, 1 febbraio 2017, n. 176 Diniego diritto di accesso del soggetto presunto autore di stalking Il Collegio fiorentino interviene, con la pronuncia di cui in epigrafe, in un ambito estremamente delicato – quale quello dei confini del diritto di accesso spettante ad un soggetto destinatario della comunicazione di inizio procedimento – ex art. 10, 1° comma lett. a) della l. n. 241/90 – per un procedimento di ammonimento ex art. 8 del d.l. 23 febbraio 2009 n. 11 (conv. in l. 23 aprile 2009, n. 38) su questi ricaduto. In primo luogo, i Giudici negano la preliminare eccezione di difetto di interesse di parte ricorrente – come sollevata dalle Amministrazioni resistenti. E’ nella natura, nonché nella ratio dell’art. 10 – 1’ comma L. 241/90 – conferire ai soggetti destinatari della comunicazione di inizio procedimento il diritto di <<prendere visione degli atti del procedimento>> per poter compiutamente esercitare le proprie facoltà partecipative. Del resto, insiste il Collegio richiamando giurisprudenza recente della medesima Sezione (Cfr. TAR Toscana, 13 gennaio 2017, n. 20) la mancata concessione dell’accesso richiesto ex art. 10, 1° comma lett. a) della l. 7 agosto 1990, n. 241 importa una lesione delle facoltà partecipative del destinatario della comunicazione di inizio procedimento di tale importanza da determinare l’illegittimità del provvedimento finale adottato, sulla base di un contraddittorio incompleto. I Giudici proseguono riconoscendo, altresì, la fondatezza del ricorso nel merito. Ricordano, infatti, come l’avvenuto diniego sulla base del mero richiamo all’articolo 24 – 6’ co. Lett. c) L. 241/90 – che fa riferimento ad esigenze difensive da tutelare, nonché ad azioni strettamente strumentali alla tutela dell'ordine pubblico, alla prevenzione e alla repressione della criminalità – sia un rinvio estremamente generalizzato e, come tale non conforme alla portata degli articoli 22 e ss. L. 241/90 in materia di accesso ai documenti amministrativi. Non sussiste nel caso di specie, ad avviso del Consesso toscano, una specifica esigenza di segreto o di tutela dell’ordine pubblico che non possa non essere tutelata mediante un mero oscuramento dei dati personali del soggetto parte dei documenti oggetto di istanza. Imponendo tale accortezza, dunque, i Giudici accolgono il ricorso e, per l’effetto, statuiscono l’annullamento del diniego e l’ostensibilità dei documenti originariamente richiesti. CC
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Inserito in data 04/02/2017 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 26 gennaio 2017, n. 319 Risoluzione pubblicistica per sopraggiunta informativa antimafia. Rito applicabile e giurisdizione Nel giudizio emarginato in epigrafe, avente ad oggetto il recesso esercitato dalla stazione appaltante per sopraggiunta informativa antimafia, il Collegio esprime il principio secondo cui il ricorso proposto avverso una informativa antimafia (d. lgs. n. 159 del 2011) – essendo la informativa predetta un istituto di portata generale e “trasversale”, che non interseca, cioè, solo la materia dei pubblici appalti – è soggetto al rito ordinario e non al rito appalti, con la conseguenza che il termine di impugnazione è quello ordinario di 60 giorni e non dimezzato di 30 giorni, previsto dall’art. 120, comma 5, c.p.a. Sostanzialmente la terza sezione afferma che “non vengono impugnati, unitamente all’informativa antimafia, atti inerenti alla procedura di gara, di cui all’art. art. 119, comma 1, lett. a, c.p.a., per i quali sussiste l’interesse pubblico specifico alla sollecita definizione delle relative controversie, sotteso alla disposizione che dimezza i termini processuali”. Detto altrimenti, non si può estendere alla impugnazione della informativa la ratio della disciplina acceleratoria di cui all’art. 120 c.p.a. Sotto altro profilo, il Collegio afferma la natura pubblicistica del recesso esercitato dalla stazione appaltante, “non riconducibile alla nozione di provvedimenti concernenti le procedure di affidamento ex art. 119, comma 1, lett. A) o comunque al novero degli atti di cui all’art.120, comma 1, c.p.a.”, come sostenuto da una precedente decisione dello stesso Consiglio (C.d.S. 20 luglio 2016 n. 3247). Pertanto, si evidenzia che il rito “accelerato” previsto nell’ambito delle procedure ad evidenza pubblica si giustifica in quanto venga in rilievo, e sia impugnato, un atto riconducibile all’esercizio (o al mancato) esercizio del potere di scelta, da parte dell’Amministrazione, in una procedura di gara. Al contrario, il potere di recedere dal contratto, a seguito all’emissione dell’informativa, è “espressione di una speciale potestà amministrativa che compete alla stazione appaltante ai sensi dell’art. 92, comma 4, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia), anche nella fase esecutiva del contratto, e non già del generale potere “selettivo” attribuitole dall’ordinamento per la scelta del miglior contraente”. Risoluzione pubblicistica che non costituisce l’oggetto o l’effetto di uno degli “atti delle procedure di affidamento”, ma è il contenuto di un atto vincolato della stazione appaltante, cioè a dire “la conseguenza necessitata, a valle, di una valutazione compiuta dal Prefetto, a monte, in ordine al un requisito fondamentale richiesto dall’ordinamento per la partecipazione alle gare, della “indispensabile capacità giuridica”, cioè l’impermeabilità mafiosa delle imprese concorrenti. Inoltre, con riferimento alla giurisdizione, stante la natura pubblicistica di tale potere di recesso, estraneo alla sfera del diritto privato giacché espressione di potere autoritativo di valutazione dei requisiti soggettivi del contraente, il Collegio chiarisce che “la cognizione della relativa controversia appartiene alla giurisdizione del giudice amministrativo” (cfr. Cass., Sez. Un., 18 novembre 2016, n. 23468). PC
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Inserito in data 03/02/2017 TAR CAMPANIA - NAPOLI, SEZ. I, 30 gennaio 2017, n. 641 No al soccorso istruttorio se il documento di offerta economica è illeggibile Secondo giurisprudenza consolidata, “nelle gare pubbliche la radicalità del vizio dell'offerta non consente l'esercizio del soccorso istruttorio che va contemperato con il principio della parità tra i concorrenti, anche alla luce dell'altrettanto generale principio dell'autoresponsabilità dei concorrenti, per il quale ciascuno di essi sopporta le conseguenze di eventuali errori commessi nella formulazione dell'offerta e nella presentazione della documentazione (Consiglio di Stato sez. V 07 novembre 2016 n. 4645), ed ancora, “con l'istituto del soccorso istruttorio, la stazione appaltante supera una mera incompletezza della documentazione attestante i requisiti soggettivi del concorrente, al fine di evitare esclusioni fondate su mere carenze formali; né potrebbe farsi ricorso ad una richiesta di chiarimenti sull'offerta, laddove, invece questa sia totalmente carente degli elementi essenziali” (Consiglio di Stato sez. IV 12 settembre 2016 n. 3847). Nell’ipotesi di documento di offerta illeggibile e comunque incompleto di elementi essenziali, “la regula iuris è quella contenuta nell’art. 46, comma 1 bis del d.lgs. 12 aprile 2006 n. 163 e s.m.i., applicabile al caso di specie ratione temporis”, secondo cui “la stazione appaltante esclude i candidati o i concorrenti in caso di mancato adempimento alle prescrizioni previste dal presente codice e dal regolamento e da altre disposizioni di legge vigenti, nonché nei casi di incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell'offerta, per difetto di sottoscrizione o di altri elementi essenziali ovvero in caso di non integrità del plico contenente l'offerta o la domanda di partecipazione o altre irregolarità relative alla chiusura dei plichi, tali da far ritenere, secondo le circostanze concrete, che sia stato violato il principio di segretezza delle offerte; i bandi e le lettere di invito non possono contenere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione. Dette prescrizioni sono comunque nulle”. Pertanto, in siffatta ipotesi di “incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell'offerta, per difetto di sottoscrizione o di altri elementi essenziali”, “non vi è dubbio alcuno che sull’organo di gara incombesse l’obbligo espresso di estromettere dalla gara parte ricorrente”. Né può riconoscersi “significatività alcuna a comportamenti del concorrente che possano essere incolpevoli o altrimenti imputabili alla stazione appaltante - magari rilevanti ad altri fini - restando l’accertamento della legittima partecipazione alla gara di un concorrente circoscritto all’oggettiva verifica della sussistenza dei necessari requisiti formali e sostanziali richiesti dalla normativa e dalla lex specialis, nonchè della loro corretta allegazione e rappresentazione”. GB
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Inserito in data 02/02/2017 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 27 gennaio 2017, n. 341 Annullamento d’ufficio di una concessione edilizia in sanatoria: presupposti Con la sentenza in esame il Consiglio di Stato affronta il tema dell’autotutela amministrativa, soffermandosi, in particolare, sull’istituto dell’annullamento d’ufficio e sui presupposti per il suo esercizio. Nei fatti un Comune, mediante provvedimento adottato nel 2014, disponeva l’annullamento d’ufficio di una concessione edilizia in sanatoria rilasciata nel 2001, ordinando la demolizione delle opere costruite sulla base dell’atto annullato. I titolari della concessione ricorrevano al TAR, il quale giudicava legittimo il controverso atto di autotutela, in quanto adottato (ad avviso dello stesso Collegio) in conformità ai canoni di azione cristallizzati all’art.21 nonies della legge n.241 del 1990. I ricorrenti criticavano tale giudizio ed insistevano - dinanzi al Consiglio di Stato - nel sostenere l’illegittimità del provvedimento impugnato in prima istanza, in quanto adottato (a loro dire) in spregio dei parametri normativi afferenti alla ragionevolezza del termine entro cui può essere validamente rimosso (d’ufficio) un provvedimento illegittimo e alla sussistenza di un interesse pubblico (attuale e specifico) che ne legittimi e ne giustifichi l’eliminazione. La Sesta Sezione assegnataria, nella sentenza in commento, comincia col ricordare che le condizioni per l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio (in base a quanto disposto dall’art.21 nonies, l. 7 agosto 1990, n. 241) sono: l’illegittimità dell’atto oggetto della decisione di autotutela, la ragionevolezza del termine entro cui può essere adottato l’atto di secondo grado, nonché la sussistenza di un interesse pubblico alla rimozione e la considerazione degli interessi dei destinatari del provvedimento viziato. La norma - continua il Collegio - individua, dunque, un presupposto rigido (l’illegittimità dell’atto da annullare) e altre condizioni flessibili e duttili (ragionevolezza del termine entro cui annullare, sussistenza di un interesse pubblico alla rimozione, considerazione degli interessi dei destinatari del provvedimento viziato) riferite a concetti indeterminati e, come tali, affidate all’apprezzamento discrezionale dell’amministrazione. Tali ultime condizioni devono intendersi, da un lato poste a garanzia delle esigenze di tutela dell’affidamento dei destinatari di atti ampliativi, in relazione alla stabilità dei titoli ed alla certezza degli effetti giuridici da essi prodotti, dall’altro lato volte a garantire, nell’ambito della valutazione discrezionale dell’amministrazione, il perseguimento del giusto equilibrio tra le esigenze di ripristino della legalità e quelle di conservazione dell’assetto regolativo disposto dal provvedimento viziato. Il Consiglio di Stato ricorda anche che la suddetta esigenza di equilibrio nel rapporto tra ripristino della legalità e conservazione dell’assetto regolativo recato dal provvedimento viziato, ha ricevuto recentemente un importante contributo, grazie all’introduzione, con la l. 7 agosto 2015, n. 124, della fissazione del termine massimo di diciotto mesi (con una opportuna definizione quantitativa della nozione elastica di “termine ragionevole”), per l’annullamento d’ufficio di atti autorizzatori o attributivi di vantaggi economici e, quindi, mediante una riconfigurazione del potere di autotutela secondo canoni di legalità più stringenti e maggiormente garantisti per le posizioni private originate da atti ampliativi. Passando alla valutazione del caso concreto, il Supremo Consesso (avallando la tesi degli appellanti) afferma che l’annullamento d’ufficio in oggetto ha violato i principi posti dal Legislatore per l’esercizio del potere di autotutela. Ad avviso della Sesta Sezione, infatti, i principi introdotti dalla l. n. 124 del 2015, anche se ratione temporis non applicabili al caso sottoposto al suo esame, possono, tuttavia, essere utilizzati come “prezioso (e ineludibile) indice ermeneutico ai fini dello scrutinio dell’osservanza della regola di condotta in questione”. Pertanto - prosegue il Consesso - in primo luogo “la decifrazione della nozione indeterminata di termine ragionevole, ai fini dello scrutinio della sua corretta interpretazione (ed applicazione) da parte dell’amministrazione, dev’essere…compiuta con particolare rigore quando il potere di autotutela viene esercitato su atti attribuitivi di utilità giuridiche od economiche, con la conseguenza che, pur non potendo ritenersi consumato, nella fattispecie esaminata, il potere di annullamento d’ufficio decorso il termine massimo stabilito dal legislatore del 2015, deve giudicarsi, comunque, irragionevole un termine notevolmente superiore (nel caso in esame, di oltre sette volte) a quest’ultimo”. In secondo luogo, continua la Corte, l’annullamento di un provvedimento a distanza di diversi anni (otre tredici anni nella fattispecie) “a fronte della consistenza dell’affidamento ingenerato nei destinatari circa il consolidamento della sua efficacia” impone “una motivazione particolarmente convincente, per giustificare la misura di autotutela, circa l’apprezzamento degli interessi dei destinatari dell’atto (come espressamente prescritto dall’art.21 nonies l. cit.), in relazione alla pregnanza e alla preminenza dell’interesse pubblico alla eliminazione d’ufficio del titolo edilizio illegittimo”. Ma non solo, “la consistenza di tale onere motivazione deve intendersi aggravata dall’efficacia istantanea dell’atto, e, cioè, della sua idoneità a produrre effetti autorizzatori destinati ad esaurirsi con l’adozione dell’atto permissivo, assumendo, in tale fattispecie, nel giudizio comparativo degli interessi confliggenti, maggiore rilevanza quello dei privati destinatari dell’atto ampliativo e minore pregnanza quello pubblico all’elisione di effetti già prodotti in via definitiva e non suscettibili di aggravamento” (Cons. St., sez. IV, 29 febbraio 2016, n. 816). Orbene, dalla lettura dell’atto controverso - rileva la Sesta Sezione - non appaiono riscontrabili convincenti argomentazioni in merito ai profili temporali e motivazionali della sua adozione, quindi, conclude lo stesso Collegio, “la mera indicazione dell’interesse pubblico all’igiene, alla sicurezza e al decoro, senza alcuna ulteriore argomentazione concreta circa le ragioni dell’attualità dell’esigenza della reintegrazione di quei valori (in relazione alla situazione di fatto prodottasi per effetto dell’attuazione dei titoli edilizi originari), si rivela del tutto insufficiente a legittimare la misura di autotutela, soprattutto in una fattispecie in cui, almeno per uno dei titoli annullati (il permesso di costruire in sanatoria), si è ingenerato nei destinatari dell’atto un serio affidamento circa la definitiva stabilità del titolo (in ragione del notevole lasso di tempo decorso tra i due atti)”. FM
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Inserito in data 01/02/2017 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 31 gennaio 2017, n. 394 La procedura di gara si applica anche alle concessioni di beni pubblici Con la sentenza in epigrafe, la Sesta Sezione si è pronunciata sulla negazione del comune sul rilascio della concessione richiesta da una società per un barcone installato senza titolo in acque pubbliche. Nella specie, il Supremo Consesso ha dichiarato che “lo spazio acqueo occupato dal barcone costituisce un bene demaniale economicamente contendibile, il quale può essere dato in concessione ai privati, a scopi imprenditoriali, solo all’esito di una procedura comparativa ad evidenza pubblica” (richiamando in tal senso, ex multis, Cons. Stato, Ad. plen., 25 febbraio 2013, n. 5; Cons. Stato., sez. VI, 25 gennaio 2005, n. 168; Cons. Stato, sez. VI, 23 luglio 2008, n. 3642; Cons. Stato, sez. VI, 21 maggio 2009, n. 3145; Cons. Stato, sez. V, 23 novembre 2016, n. 4911). Il Collegio ricorda come la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato abbia in più occasioni affermato che “i principi in materia di libera circolazione dei servizi, di par condicio, d’imparzialità e di trasparenza, si applicano anche a materie diverse dagli appalti, essendo sufficiente che si tratti di attività suscettibile di apprezzamento in termini economici.” Pertanto, i detti principi sono applicabili anche alle concessioni di beni pubblici, atteso che la sottoposizione ai principi di evidenza trova il suo presupposto sufficiente nella circostanza che con la concessione dell’area demaniale marittima si fornisca un’occasione di guadagno a soggetti operanti sul mercato. A ciò la Sesta Sezione aggiunge l’assunto per il quale “chi occupa abusivamente il bene demaniale anche nel caso in cui l’occupazione abusiva si protragga da anni, non può vantare alcuna aspettativa giuridicamente rilevante o alcun titolo preferenziale al rilascio della concessione, che può conseguire solo attraverso la procedura di gara.” Il Collegio osserva inoltre che, nel delineato contesto, non assume alcuna rilevanza pregiudiziale né il procedimento di regolarizzazione della situazione debitoria pregressa relativa al mancato pagamento delle somme dovute a titolo di indennità di occupazione senza titolo, né il procedimento di valutazione della compatibilità dei barconi sotto il profilo paesaggistico: poiché, indipendentemente dall’esito di tali procedimenti, il rilascio della concessione alla società istante non implica alcun obbligo del Comune di indizione di gara. Il fatto, quindi, che il provvedimento di diniego sia stato adottato senza attendere l’esito di tali procedimenti non dà luogo ad alcun difetto di istruttoria e non vale, quindi, ad inficiare la validità del provvedimento impugnato. Alla luce delle considerazioni che precedono, il Consiglio di Stato respinge l’appello. DU
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Inserito in data 31/01/2017 CORTE COSTITUZIONALE, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA - 26 gennaio 2017, n. 24 La CGUE è chiamata a chiarire il significato dell’art. 325 TFUE dopo la causa Taricco Con la pronuncia in esame, la Corte Costituzionale sottopone alla Corte di giustizia dell’Unione europea, in via pregiudiziale ai sensi e per gli effetti dell’art. 267 TFUE, l’interpretazione dell’art. 325, paragrafi 1 e 2, del medesimo Trattato sulla base della sentenza resa in causa Taricco. In particolare, la Corte di giustizia ha affermato che l’art. 325 del TFUE “impone al giudice nazionale di non applicare il combinato disposto degli artt. 160, ultimo comma, e 161, secondo comma, del codice penale quando ciò gli impedirebbe di infliggere sanzioni effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione, ovvero quando frodi che offendono gli interessi finanziari dello Stato membro sono soggette a termini di prescrizione più lunghi di quelli previsti per le frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione”. E’ evidente, quindi, come la regola tratta dall’art. 325 del TFUE finisca per interferire con il regime legale della prescrizione dei reati, che il giudice sarebbe tenuto a non applicare nei casi indicati in quella decisione. Invero, “nell’ordinamento giuridico nazionale il regime legale della prescrizione è soggetto al principio di legalità in materia penale, espresso dall’art. 25, secondo comma, Cost.”, come ripetutamente sostenuto dalla stessa Corte Costituzionale (da ultimo sentenza n. 143 del 2014). È perciò necessario che “esso sia analiticamente descritto, al pari del reato e della pena, da una norma che vige al tempo di commissione del fatto”. Si tratta, infatti, di un istituto che “incide sulla punibilità della persona e la legge, di conseguenza, lo disciplina in ragione di una valutazione che viene compiuta con riferimento al grado di allarme sociale indotto da un certo reato e all’idea che, trascorso del tempo dalla commissione del fatto, si attenuino le esigenze di punizione e maturi un diritto all’oblio in capo all’autore di esso (sentenza n. 23 del 2013)”. Per contro, alcuni Stati membri “muovono da una concezione processuale della prescrizione, alla quale la sentenza resa in causa Taricco è più vicina, anche sulla base della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo”. Pare utile osservare che su questo aspetto, che non riguarda direttamente né le competenze dell’Unione, né norme dell’Unione, “non sussiste alcuna esigenza di uniformità nell’ambito giuridico europeo. Ciascuno Stato membro è perciò libero di attribuire alla prescrizione dei reati natura di istituto sostanziale o processuale, in conformità alla sua tradizione costituzionale”. Questa conclusione non è stata posta in dubbio dalla sentenza resa in causa Taricco, che “si è limitata a escludere l’applicazione dell’art. 49 della Carta di Nizza alla prescrizione, ma non ha affermato che lo Stato membro deve rinunciare ad applicare le proprie disposizioni e tradizioni costituzionali, che, rispetto all’art. 49 della Carta di Nizza e all’art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, risultano per l’imputato di maggior favore. Né ciò sarebbe consentito nell’ordinamento italiano quando esse esprimono un principio supremo dell’ordine costituzionale, come accade per il principio di legalità in campo penale in relazione all’intero ambito materiale a cui esso si rivolge”. Orbene, proprio sulla base della premessa secondo cui il principio di legalità penale riguarda anche il regime legale della prescrizione, la Corte Costituzionale è chiamata dai giudici rimettenti a valutare, tra l’altro, “se la regola tratta dalla sentenza resa in causa Taricco soddisfi il requisito della determinatezza, che per la Costituzione deve caratterizzare le norme di diritto penale sostanziale”. Si tratta di un principio che, come è stato riconosciuto dalla stessa Corte di giustizia, “appartiene alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri quale corollario del principio di certezza del diritto (sentenza 12 dicembre 1996 in cause C-74/95 e C-129/95, punto 25)”. Si tratta, pertanto, di stabilire “se la persona potesse ragionevolmente prevedere, in base al quadro normativo vigente al tempo del fatto, che il diritto dell’Unione, e in particolare l’art. 325 del TFUE, avrebbe imposto al giudice di non applicare gli artt. 160, ultimo comma, e 161, secondo comma, cod. pen. in presenza delle condizioni enunciate dalla Corte di giustizia in causa Taricco”. In tale prospettiva, la Corte Costituzionale è convinta che “la persona non potesse ragionevolmente pensare, prima della sentenza resa in causa Taricco, che l’art. 325 del TFUE prescrivesse al giudice di non applicare gli artt. 160, ultimo comma, e 161, secondo comma, cod. pen. ove ne fosse derivata l’impunità di gravi frodi fiscali in danno dell’Unione in un numero considerevole di casi, ovvero la violazione del principio di assimilazione”. In secondo luogo, è necessario interrogarsi sia “sul rispetto della riserva di legge, sia sul grado di determinatezza assunto dall’ordinamento penale in base all’art. 325 del TFUE, con riguardo al potere del giudice, al quale non possono spettare scelte basate su discrezionali valutazioni di politica criminale. In particolare il tempo necessario per la prescrizione di un reato e le operazioni giuridiche da compiersi per calcolarlo devono essere il frutto dell’applicazione, da parte del giudice penale, di regole legali sufficientemente determinate. In caso contrario, il contenuto di queste regole sarebbe deciso da un tribunale caso per caso, cosa che è senza dubbio vietata dal principio di separazione dei poteri di cui l’art. 25, secondo comma, Cost. declina una versione particolarmente rigida nella materia penale”. Si tratta, dunque, di “verificare se la regola enunciata dalla sentenza resa in causa Taricco sia idonea a delimitare la discrezionalità giudiziaria e anche su questo terreno occorre osservare che non vi è modo di definire in via interpretativa con la necessaria determinatezza il requisito del numero considerevole dei casi, cui è subordinato l’effetto indicato dalla Corte di giustizia”. Sul punto, l’art. 325 del TFUE, pur formulando un obbligo di risultato chiaro e incondizionato, secondo quanto precisato dalla Corte di giustizia, “omette di indicare con sufficiente analiticità il percorso che il giudice penale è tenuto a seguire per conseguire lo scopo. In questo modo, osservano i Giudici del rinvio pregiudiziale, “si potrebbe permettere al potere giudiziario di disfarsi, in linea potenziale, di qualsivoglia elemento normativo che attiene alla punibilità o al processo, purché esso sia ritenuto di ostacolo alla repressione del reato”. Questa conclusione “eccede il limite proprio della funzione giurisdizionale nello Stato di diritto quanto meno nella tradizione continentale, e non pare conforme al principio di legalità enunciato dall’art. 49 della Carta di Nizza”. Alla luce di quanto suddetto, se la Corte di giustizia dovesse concordare con la Consulta sul significato dell’art. 325 del TFUE e della sentenza resa in causa Taricco, “sarebbero superate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dai giudici rimettenti”. EF
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Inserito in data 30/01/2017 TAR LAZIO - ROMA, SEZ. II, 26 gennaio 2017, n. 1345 Sul controllo, ad opera del Giudice, della coerenza e ragionevolezza del disciplinare di gara La sentenza emarginata in epigrafe riguarda una controversia avente ad oggetto principale la legittimità di un bando di gara che, secondo le doglianze esposte dalle ricorrenti, sarebbe in contrasto con i principi europei e nazionali posti a presidio della libertà di concorrenza e del favor partecipationis nella materia delle procedure ad evidenza pubblica. Il Collegio afferma che la questione oggetto della impugnativa non è la legittimità ex se della indizione della gara, bensì “la verifica della legittimità di una disciplina di gara che, sostanzialmente, preclude alle piccole e medie imprese di poter partecipare individualmente alle procedure selettive dei singoli lotti”. In particolare, le doglianze esposte nel ricorso sono tutte incentrate sulla formulazione – ad opera della Amministrazione comunale resistente - della lex specialis la quale, di fatto, impedisce la concreta partecipazione delle piccole e medie imprese al procedimento di aggiudicazione dell’appalto. Il Collegio, preliminarmente, incentra la sua analisi sulla evoluzione della disciplina riguardante le procedure ad evidenza pubblica, mettendo in rilievo come la stessa si ispiri al rispetto dei principi di libera concorrenza, non discriminazione, trasparenza, proporzionalità nonché di pubblicità (principi ispirati alla tutela delle imprese concorrenti e del corretto funzionamento del mercato). Sotto tali profili, vengono citate diverse norme: i) il comma 7 dell’art. 30 d.lgs. 163 del 2001(vecchio codice contratti pubblici) secondo cui “i criteri di partecipazione alle gare devono essere tali da non escludere le microimprese, le piccole e medie imprese”; ii) l’art. 51 del nuovo codice appalti secondo cui “al fine di favorire l’accesso delle microimprese, piccole e medie imprese, le stazioni appaltanti suddividono gli appalti in lotti funzionali … in conformità alle categorie o specializzazioni nel settore dei lavori, servizi e forniture”, ma anche che “nel caso di suddivisione in lotti, il relativo valore deve essere adeguato in modo da garantire l’effettiva possibilità di partecipazione da parte delle micro imprese, piccole e medie imprese”; iii) l’art. 83 comma 2 nuovo codice appalti, secondo cui i requisiti di idoneità professionale e le capacità economica e finanziaria e tecniche – professionali sono attinenti e proporzionati all’oggetto dell’appalto, “tenendo presente l’interesse pubblico ad avere il più ampio numero di potenziali partecipanti, nel rispetto dei principi di trasparenza e rotazione”. Nella sentenza de qua si evidenzia, altresì, come un ulteriore impulso al rispetto delle regole della concorrenza ed al favor partecipationis è dato dallo strumento c.d. del vincolo di partecipazione “che si estrinseca nella facoltà della stazione appaltante di limitare il numero massimo di lotti che possono essere aggiudicati ad un solo offerente”. Invero, sotto tale profilo, i ricorrenti espongono che, “il vincolo di partecipazione costituisce uno strumento proconcorrenziale che, nell’impedire ad uno stesso soggetto di essere aggiudicatario di una pluralità di lotti, aumenta le possibilità di successo delle piccole e medie imprese pur in presenza di aziende meglio posizionate sul mercato”. Ebbene, la stazione appaltante ha suddiviso l’oggetto dell’appalto in diversi lotti. Tale suddivisione (secondo quanto affermato dalla stessa) “sarebbe funzionale al perseguimento dell’obiettivo di favorire il maggior numero di imprese di settore a partecipare alla gara”. Alla luce di ciò, si tratta per il Collegio di stabilire se la lex specialis oggetto di impugnativa sia ragionevole o meno. Detto altrimenti, “occorre necessariamente verificare se la concreta suddivisione in lotti territoriali e per materia (operata dalla amministrazione) persegua o meno le finalità suddette”, id est, la tutela della libera concorrenza e del favor partecipationis. Più precisamente, una tale verifica va condotta non tanto avendo riguardo alla correttezza del requisito minimo di fatturato richiesto al fine di poter partecipare alla gara, bensì “occorre verificare se la individuazione dell’oggetto dell’appalto in diversi servizi tra di loro eterogenei, oltre alla suddivisione dello stesso in lotti molto estesi, non osti al rispetto delle previsioni di legge atte a favorire la partecipazione del maggior numero di imprese alla partecipazione alla gara”. Orbene, secondo il Collegio, “la individuazione dell’ambito territoriale ottimale postula, soprattutto in una gara di estrema rilevanza quale quella in esame, un’articolata istruttoria ed uno specifico obbligo motivazionale, tanto più che nella stessa determina a contrarre l’amministrazione ha dato atto che l’appalto in parola è caratterizzato da una straordinaria complessità”. Proprio sotto quest’ultimo profilo, il Collegio ricorda quanto affermato dalle ricorrenti e non contraddetto dall’amministrazione resistente, e cioè che“il mercato italiano dei servizi in esame si connoterebbe per la presenza di un gruppo ristretto di quattro/cinque operatori e da numerosissime imprese di dimensione media e piccola, per cui queste ultime dovrebbero dare vita a raggruppamenti temporanei molto estesi per conseguire il requisito economico-finanziario o altrimenti dovrebbero trovare l’accordo con un grande player; la gara, quindi, prevedrebbe dei macro lotti di importo tale da precludere la concreta partecipazione alla stragrande maggioranza degli operatori economici del mercato”. Alla luce di tutto quanto sopra detto, il Collegio afferma che sia manifestamente illogico “considerare ambiti territoriali ottimali, lotti per l’affidamento dei quali possono concorrere individualmente soltanto poche imprese di grandi dimensioni con preclusione alla partecipazione individuale delle altre numerosissime imprese, di piccole e medie dimensioni, che compongono il mercato”. Pertanto, afferma il T.A.R. Lazio che “la scelta della stazione appaltante ha violato il fondamentale principio del favor partecipationis limitando in modo irragionevole la facoltà di presentazione individuale delle offerte e non garantendo in tal modo l’esplicarsi di un piena apertura del mercato alla concorrenza”. Ed ancora, una corretta individuazione dell’ambito territoriale ottimale “dovrebbe consentire il funzionamento di un mercato in cui la facoltà di presentare offerte in forma singola sia concessa non solo ai player dello stesso, ma anche, per quanto possibile, alle imprese di medie e piccole dimensioni al fine di incentivare una concorrenza piena, con possibilità per ogni impresa di incrementare le proprie qualificazioni e la propria professionalità, e di trarre i potenziali benefici in termini di qualità di servizi resi e di prezzi corrisposti”. Al contrario, la scelta compiuta dalla amministrazione appaltante, “di aggregare più servizi diversi in un’unica procedura di affidamento e di suddividere un appalto di straordinaria complessità in soli cinque lotti, peraltro, non risulta preceduta da adeguata istruttoria ed è sfornita di una motivazione sufficiente, tale da dare plausibilmente conto della sua non manifesta illogicità”.
In conclusione il Collegio, condividendo i motivi di doglianza esposti dalle ricorrenti, accoglie il ricorso, annullando così la disciplina di gara oggetto della presente contestazione. PC
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Inserito in data 28/01/2017 TAR LAZIO - ROMA, SEZ. I QUATER, 25 gennaio 2017, n. 1324 La partecipazione alle gare dei consorzi stabili in attesa delle linee-guida ANAC Con la pronuncia in esame, il Collegio non ritiene revocabile in dubbio che “la partecipazione alle gare dei consorzi stabili trovi ancora, allo stato, le proprie disposizioni di riferimento nel precedente ordinamento di settore”. Se è vero che il d.lgs. 50/2016 ha innovato in ordine alla qualificazione dei consorzi stabili nelle procedure di affidamento pubbliche, è altresì vero che “le nuove regole non sono state compiutamente dettagliate, essendo state rimesse dall’art. 83, comma 2, alla predisposizione di linee-guida da parte dell’ANAC”. L’art. 83, comma 2, prevede, infatti, che “per i lavori, con linee guida dell'ANAC adottate entro un anno dalla data di entrata in vigore del presente codice, previo parere delle competenti Commissioni parlamentari, sono disciplinati, nel rispetto dei principi di cui al presente articolo e anche al fine di favorire l'accesso da parte delle microimprese e delle piccole e medie imprese, il sistema di qualificazione, i casi e le modalità di avvalimento, i requisiti e le capacità che devono essere posseduti dal concorrente, anche in riferimento ai consorzi di cui all'articolo 45, lettere b) e c) e la documentazione richiesta ai fini della dimostrazione del loro possesso di cui all'allegato XVII. Fino all'adozione di dette linee guida, si applica l'articolo 216, comma 14”. Invero, “nel previgente ordinamento, per la questione qui controversa, non è rinvenibile alcuna differenziazione tra appalti di lavori e appalti di servizi”. Non è dunque implausibile ritenere che “le future linee-guida, in disparte ogni questione in ordine alla loro formale riferibilità a una specifica tipologia di gara, siano suscettibili di concretare indicazioni di carattere generale, destinate, in quanto tali, a conformare l’intera materia”. Del resto, in tale scenario, “la scelta operata dal nuovo codice dei contratti è quella di fare salve, temporaneamente, le regole antecedenti, e tale scelta, ancorchè espressa immediatamente dopo la rimessione all’ANAC del compito di predisporre le linee guida “per i lavori”, è, però, di carattere assoluto (“Fino all'adozione di dette linee guida, si applica l'articolo 216, comma 14”), non essendo stata richiamata, anche in tal caso, la delimitazione che connota il periodo precedente (“per i lavori”)”. La prescelta interpretazione trova, pertanto, “conforto in un dato di sistema e in un elemento testuale”. Vieppiù, la stessa interpretazione è confortata dalle FAQ predisposte dall’ANAC “sulle questioni interpretative relative all’applicazione delle disposizioni del d.lgs. 50/2016 nel periodo transitorio”, di cui al Comunicato 8 giugno 2016, punto 3. In tal sede, in relazione al quesito su quali siano le norme applicabili alla qualificazione dei consorzi sino all’adozione delle linee-guida previste dall’art. 82, comma 2, del d.lgs. 50/2016, l’ANAC rileva che i requisiti sono individuati in linea generale dall’art. 47 del nuovo codice, e, sul rilievo che “l’art. 261, comma 14, prevede che fino all’adozione delle linee-guida previste dall’art. 83, comma 2, del codice (che attengono anche ai requisiti e alle capacità che devono essere posseduti dai consorzi) si applica la parte II, titolo III, del D.P.R. 207/2010. Tra queste disposizioni sono ricomprese anche quelle che disciplinano la qualificazione dei consorzi e, in particolare, l’art. 81, che, attraverso un rinvio recettizio, dispone che la qualificazione dei consorzi stabili avviene secondo le disposizioni dell’art. 36, comma 7, del codice”. L’ANAC non risulta, quindi, aver in alcun modo “limitato il periodo transitorio di ultravigenza delle previgenti disposizioni agli appalti di lavori”. In ultimo, soccorre il criterio teleologico. L’art. 83 del nuovo codice di cui al d.lgs. 50/2016, nel prescrivere che i requisiti e le capacità per le qualificazioni devono essere attinenti e proporzionali all'oggetto dell'appalto, richiama l’interesse pubblico “ad avere il più ampio numero di potenziali partecipanti, nel rispetto dei principi di trasparenza e rotazione”. Tale finalità risulterebbe compromessa “laddove – in presenza di un nuovo quadro normativo che non offre una compiuta regolamentazione delle modalità di partecipazione alle gare dei consorzi stabili, in quanto destinato a essere integrato da disposizioni di carattere secondario non ancora predisposte e di cui non si è in grado di apprezzare, allo stato, la latitudine, e in vista delle quali ricorre a un periodo transitorio di ultravigenza delle norme anteriori – dovesse ritenersi, in assenza di inequivocabili previsioni in tal senso, che, solo per una parte della materia, il nuovo codice abbia previsto il repentino e generale sovvertimento delle norme previgenti”. Deve concludersi, pertanto, che “la locuzione di cui all’art. 83, comma 2, del d.lgs. 50/2016 (“Fino all'adozione di dette linee guida, si applica l'articolo 216, comma 14”) si interpreta nel senso dell’applicabilità della disposizione anche agli appalti di servizi”. EF
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Inserito in data 27/01/2017 TAR LAZIO - LATINA, SEZ. I, 19 gennaio 2017, n. 26 Gara pubblica e servizi analoghi Il servizio di spazzamento strade e il servizio di ripristino delle condizioni stradali post incidente non sono “servizi analoghi” ai fini della partecipazione alla procedura concorsuale in sede di gara pubblica. “Il semplice spazzamento delle strade ed il mantenimento dell’igiene pubblica non comportano […] l’attività […] di ripristino dello status quo ante dei luoghi circa le pertinenze stradali danneggiate da incidenti stradali (barriere metalliche e in calcestruzzo, segnaletica, muri, cancellate, recinzioni, impianti semaforici, pali per l’illuminazione stradale ecc). Ovviamente la struttura tecnica necessaria per assolvere a tale servizio non può essere la stessa e la sola impiegata per lo spazzamento delle strade”. L’esclusione di possibili analogie tra i due servizi è peraltro avvalorata dal fatto che il suddetto servizio di ripristino delle condizioni di sicurezza stradale ricomprende anche l’attività di surroga nei confronti delle compagnie assicuratrici presso le quali risultino assicurati gli autori degli incidenti stradali che hanno provocato i danneggiamenti. “Evidentemente anche questa attività di natura amministrativa, connessa con quella materiale di ripristino dei luoghi, nulla ha a che fare con il semplice servizio di spazzatura delle strade”. GB
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Inserito in data 26/01/2017 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III - 23 gennaio 2017, n. 272 Applicazione del principio della divisione degli appalti in lotti funzionali Nella sentenza in esame il Consiglio di Stato affronta il tema dell’applicazione del principio, contenuto nell’art. 2, comma 1 bis, d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, secondo cui al fine di favorire l'accesso delle piccole e medie imprese, le stazioni appaltanti devono, ove possibile ed economicamente conveniente, suddividere gli appalti in lotti funzionali. Più in dettaglio, nel caso di specie si è posta la questione della applicabilità del suddetto principio anche ai servizi di cui all’allegato IIB dello stesso d.lgs. n. 163 del 2006 (tra i quali, i servizi sanitari). Nei fatti, una società specializzata in servizi odontoiatrici ha impugnato, in primo grado, il bando di gara di un’Azienda Ospedaliera contenente una procedura diretta all’affidamento, ad un unico soggetto, dell’attività di assistenza specialistica di odontoiatria da prestarsi presso i centri odontostomatologici dell’Azienda stessa. Secondo la ricorrente (odierna appellata), l’impostazione impressa dall’Amministrazione alla gara, riunendo in un unico lotto il servizio sanitario da affidare, risulterebbe in contrasto con il principio di cui all’art. 2, comma 1 bis, del d. lgs. 12 aprile 2006, n. 163. Tale tesi è stata accolta dal TAR. La questione è stata riproposta in appello dinanzi alla Terza Sezione del Consiglio di Stato, la quale, con la sentenza in commento, ha in primo luogo affermato che la disposizione contenuta nel comma 1 bis dell’art. 2, d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 - che ha palesemente lo scopo di favorire la massima partecipazione agli appalti, evitando la formazione di situazioni monopolio o di oligopolio - rientra certamente fra i principi generali che presiedono all’impostazione di tutte le gare d’appalto, pur nella diversificazione dei diversi settori. Il Collegio ha poi chiarito, in via generale, che “la norma della cui applicazione si discute non è suscettibile di applicazione vincolata; stabilisce invece un parametro generale di comportamento, da adottare alle caratteristiche di ogni caso specifico. In altri termini, il principio regola l’esercizio di una facoltà discrezionale dell’Amministrazione, imponendole di verificare la possibilità di scindere gli appalti di grosse dimensioni in appalti di importo più contenuto, escludendo tale ipotesi solo in presenza di valide ragioni in senso contrario. La discussione deve quindi riguardare la presenza di tali motivazioni, e la loro congruità alla luce dei consueti parametri attraverso i quali il giudice amministrativo conosce dell’esercizio della discrezionalità dell’Amministrazione”. Focalizzando, infine, l’attenzione sulla fattispecie oggetto di giudizio, il Supremo Consesso ha concluso che “nel caso di specie l’Amministrazione ha dato sufficiente giustificazione della sua scelta, affermando l’opportunità di dare, per quanto possibile, la stessa qualità di servizio a tutti gli utenti, obiettivo facilitato dall’affidamento del contratto a un solo soggetto. Tale scelta non può essere ritenuta manifestamente illogica, e infatti a essa l’appellata oppone considerazioni apprezzabili ma che sono quanto, se non più, opinabili di quelle svolte dagli organi competenti. Le censure svolte dall’appellata, ricorrente in primo grado, condivise dal primo giudice, risultano quindi infondate; risultano di conseguenza fondate le argomentazioni dedotte dall’appellante”. FM
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Inserito in data 25/01/2017 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 18 gennaio 2017, n. 194 L’esclusione dalla gara può essere disposta solo dopo l’invito alla regolarizzazione dell’offerta Con la pronuncia in esame, la Quinta Sezione ha rigettato la richiesta di riforma della sentenza di primo grado dell’appellante, rivedendone tuttavia la motivazione sulle cause di esclusione dalla procedura selettiva. In particolare, l’appellante si doleva del capo di sentenza con cui il TAR, accogliendo il ricorso incidentale, dichiarava l’erroneità dell’affermazione che la mancata specificazione degli oneri di sicurezza aziendale in sede di offerta potesse costituire causa di esclusione della procedura selettiva, pur in assenza di una specifica prescrizione in tale senso nella disciplina di gara. Ad avviso del Consiglio di Stato, la pronuncia, invero, contrasterebbe con i principi eurounitari di tutela del legittimo affidamento, di certezza del diritto, di libera circolazione, di libero stabilimento, di parità di trattamento, di non discriminazione di proporzionalità e di trasparenza. A ben vedere, di recente, la Adunanza plenaria, intervenuta sulla tematica con la sentenza 27 luglio 2016, n. 19, rettificando il precedente orientamento, ha affermato che per le gare bandite anteriormente all'entrata in vigore del nuovo c.d. codice degli appalti pubblici e delle concessioni (d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50), nelle ipotesi in cui l'obbligo di indicazione separata dei costi di sicurezza aziendale non sia stato specificato dalla legge di gara, e non sia in contestazione che dal punto di vista sostanziale, l'offerta rispetti i costi minimi di sicurezza aziendale, l'esclusione del concorrente non può essere disposta se non dopo che lo stesso sia stato invitato a regolarizzare l'offerta dalla stazione appaltante, nel doveroso esercizio dei poteri di soccorso istruttorio (in termini anche Cons. Stato, V, 23 dicembre 2016, n. 5444; III, 27 ottobre 2016, n. 4527). Peraltro, si tratta del medesimo orientamento della giurisprudenza comunitaria. Per tali ragioni, il Supremo Consesso rileva che erroneamente il giudice di prime cure avrebbe valutato legittima l’esclusione dalla gara dell’appellante per l’omessa indicazione degli oneri di sicurezza aziendale. Ne deriva che la l’amministrazione - per pacifico principio - conserva integro il potere di emendare il procedimento amministrativo sino a quando non è definitivamente concluso, salvi gli affidamenti riconosciuti dalla legge.
Che nella specie, le concrete modalità con cui nella fattispecie l’amministrazione abbia attivato il soccorso istruttorio abbiano finito per pregiudicare l’appellante, è, ad avviso del Collegio, circostanza del tutto occasionale, come tale inidonea a viziare il procedimento (non essendo stato provato che tali modalità siano state tali da configurare uno sviamento di potere). Per tali ragioni, rigetta il ricorso. DU
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Inserito in data 24/01/2017 TAR CALABRIA - REGGIO CALABRIA, SEZ. I, 17 gennaio 2017, n. 26 Oggetto del contratto di avvalimento L’oggetto dell’avvalimento “menzionato solo genericamente nel contratto” può essere specificato “mediante il riferimento alle ulteriori dichiarazioni versate agli atti di gara”. Il collegamento negoziale tra la dichiarazione ed il contratto di avvalimento è “imposto”, “innanzitutto dall’applicazione delle regole ermeneutiche scolpite dagli articoli 1366 c.c. (declinato come obbligo di buona fede teso a salvaguardare l’utilità che la parte ritrae dal contratto), nonché dall’art. 1362 c.c. 1° e 2° comma (declinato sia come ricerca della comune intenzione delle parti in senso sostanziale ed al di là del testo letterale, sia come valutazione del comportamento complessivo insito pure in ulteriori dichiarazioni rese dalle parti stesse)”. “Il rapporto di avvalimento si sostanzia infatti in una fattispecie complessa di natura negoziale (incentrata sulla promessa del fatto del terzo di cui alla dichiarazione di avvalimento secondo una logica analoga al cd. contratto “sul patrimonio del terzo”) la quale comporta indubbi riflessi pure nei riguardi della Stazione Appaltante e pertanto i citati canoni ermeneutici valgono pure per l’Amministrazione medesima e non solo per le parti principali del contratto di avvalimento”. Peraltro, “ anche alla stregua dell’ottica pubblicistico-procedimentale che connota la fase dell’evidenza, non par dubbia la valenza generale del principio di buona fede cui deve ispirarsi l’azione amministrativa, siccome tesa a salvaguardare l’interesse pretensivo del partecipante entro il limite dell’apprezzabile sacrificio”.
“La determinabilità dell’oggetto nell’avvalimento è altresì imposto dalla doverosità di una lettura sostanziale degli atti di gara, in linea con il formante giurisprudenziale più recente (Ad. Plen n. 23/2016 e Consiglio di Stato sentenza n. 2952/2016, citata dalla difesa dei ricorrenti), il quale privilegia una interpretazione non formalistica del rapporto di avvalimento, alieno a profili formalistici e teso a tutelare il principio dalla massima concorrenzialità”. GB
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Inserito in data 23/01/2017 TRIBUNALE REGIONALE DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA DI TRENTO, SEZ. UNICA - 13 gennaio 2017, n. 9 Si può ricorrere all’avvalimento per la determinazione della fascia di classificazione L’ambito applicativo dell’istituto dell’avvalimento è limitato “ai requisiti oggettivi di ordine speciale, economico - finanziari e tecnico – organizzativi” (per tutte, C.d.S., sez. IV, n. 4406/2012; Id. n. 810/2012). Giova, peraltro, anche evidenziare che “l’avvalimento è istituto di derivazione comunitaria di portata generale che, in quanto posto a presidio della libertà di concorrenza, non tollera comunque interpretazioni limitative volte a restringerne l’applicabilità, ad eccezione dei requisiti soggettivi inerenti alla moralità e alla onorabilità professionale a tutela della serietà ed affidabilità degli offerenti”. D’altra parte, la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha “definitivamente acquisito la legittimità del c.d. avvalimento frazionato ai sensi dell’art. 49 del codice dei contratti pubblici” (cfr. sez. V, n. 2200/2014 e n. 277/2015) escludendo unicamente “l’avvalimento cosiddetto a cascata, che elide il necessario rapporto diretto tra ausiliaria ed ausiliata” (cfr. sez. V, n. 1251/2014; sez. III, 1072/2014). Orbene, l’iscrizione all’Ente camerale si caratterizza soggettivamente, “con conseguente impossibilità di sostituzione mediante avvalimento” (cfr. Tar Calabria, n. 1/2014); mentre “la determinazione della fascia di classificazione prende in considerazione unicamente il volume di affari, e quindi attiene a requisiti oggettivi speciali”. Ciò risulta, d’altra parte, “confermato da una corretta lettura delle determinazioni e deliberazioni dell’AVCP n. 2 del 2012 e n. 28 del 2013 e dalla recente sentenza del T.A.R. Liguria, sez. II, n. 1201/2016”, nonché “dalla deliberazione n. 64/2009 dell’AVCP e dal pertinente parere ANAC 23 febbraio 2012, n. 22”. EF
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Inserito in data 21/01/2017 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 9 gennaio 2017, n. 30 Sulla mancata indicazione nell’offerta degli oneri di sicurezza. Soccorso istruttorio Nella decisione emarginata in epigrafe, il Collegio chiarisce che la mancata indicazione degli oneri di sicurezza aziendali (nell’ambito della presentazione di una offerta economica), non giustifica la esclusione - ex art. 87, comma 4, d.lgs. 163 del 2006 - dalla procedura di aggiudicazione di un appalto, così aderendo al più recente orientamento interpretativo formatosi in seno alla giurisprudenza del Consiglio di Stato. Invero, nel caso di specie, il Giudice di prime cure, aveva condiviso la precedente impostazione giurisprudenziale di cui alle decisioni del Consiglio di Stato in seduta plenaria (sentenze n. 3 e 9 del 2015), secondo cui “nelle procedure di affidamento di lavori, i partecipanti alla gara devono indicare nell'offerta economica i costi interni per la sicurezza del lavoro, pena l'esclusione dell'offerta dalla procedura anche se non prevista nel bando di gara” e, con riferimento all’istituto del soccorso istruttorio, “in sede di gara pubblica non sono legittimamente esercitabili i poteri attinenti al soccorso istruttorio, nel caso di omessa indicazione degli oneri di sicurezza aziendali, anche per le procedure nelle quali la fase della presentazione delle offerte si è conclusa prima della pubblicazione della decisione dell'Adunanza Plenaria 20 marzo 2015, n. 3”. Sulla base dei predetti principi, il T.A.R. Marche ha ritenuto di dover accogliere il ricorso proposto dalla contro interessata avverso il provvedimento di aggiudicazione a favore della ricorrente in secondo grado (la società aggiudicataria). Invero, nella controversia di cui alla decisione in epigrafe, ritiene il Collegio di dover tener conto del mutamento interpretativo operato in seno alla più recente giurisprudenza dello stesso Consiglio di Stato, la quale rileva che una siffatta esclusione “automatica dalla gara contrasti con i principi euro unitari della tutela dell’affidamento, della certezza del diritto, della parità di trattamento, della non discriminazione, della proporzionalità e della trasparenza”. Secondo questa nuova ottica, espressa dal Consiglio di Stato in seduta plenaria (n. 19/ 2016), si ritiene che “per le gare bandite anteriormente all'entrata in vigore del nuovo Codice dei contratti pubblici e delle concessioni (d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50) - che ora risolve la questione prevedendo espressamente, all'art. 95, comma 10, l'obbligo di indicare gli oneri di sicurezza, nelle ipotesi in cui l'obbligo di indicazione separata dei costi di sicurezza aziendale non sia stato specificato dalla legge di gara - l'esclusione del concorrente non può essere disposta se non dopo che lo stesso sia stato invitato a regolarizzare l'offerta dalla stazione appaltante nel doveroso esercizio dei poteri di soccorso istruttorio”. Orbene, secondo il Collegio, il principio appena sintetizzato “si attanaglia perfettamente alla controversia oggetto del ricorso” giacché è incontroverso che: a) l’offerta economica è stata dalla ricorrente presentata alla stazione appaltante in data anteriore alla emanazione del nuovo codice appalti; b) che la legge di gara non ha specificato ai concorrenti che vi fosse un loro obbligo di indicare nell’offerta, a pena di esclusione, gli oneri della sicurezza aziendale. Pertanto, stando ai suddetti rilievi, viene affermata la illegittimità della esclusione dalla gara disposta dal giudice di prime cure (T.A.R. Marche) sol perché la società aggiudicataria “non abbia indicato in maniera specifica nella propria offerta economica gli oneri della sicurezza aziendale” costi che, peraltro, non erano stati predeterminati negli atti di gara. Stando così le cose, il Collegio accoglie il ricorso principale della società appellante, respinge il ricorso incidentale della appellata e, per l’effetto, in parziale riforma della sentenza di primo grado, respinge il ricorso principale della ricorrente in prima istanza. PC
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Inserito in data 20/01/2017 TAR CALABRIA – CATANZARO, SEZ. II - 19 gennaio 2017, n. 78 Precisazioni in ordine alla operatività del cd. remand in sede cautelare I giudici calabresi, con la pronuncia oggi esaminata, specificano l’estensione del riesame nell’ambito di un giudizio cautelare. Nella specie l’Amministrazione, intimata dal Giudice di vagliare nuovamente il contenuto del provvedimento impugnato, ne conferma la portata anche alla luce dei nuovi motivi di ricorso frattanto sopravvenuti. Il Collegio evidenzia come una simile prassi processuale, benchè non codificata né all’articolo 55 C.p.A. né aliunde, trovi comunque un’esperibilità diffusa e sempre più frequente, specie per ragioni di opportunità. Infatti, affermano i Giudici, tramite tale prassi è possibile rimettere in gioco l’assetto di interessi definiti con l’atto impugnato, restituendo alla P.A. l’intero potere decisionale iniziale, senza pregiudicarne il risultato finale. In tal guisa, essi proseguono – richiamando anche precedenti in materia, il nuovo atto, quando non sia meramente confermativo, costituendo, come nel caso di specie, una (rinnovata) espressione della funzione amministrativa, porta ad una pronuncia di estinzione del giudizio per cessazione della materia del contendere, ove abbia contenuto satisfattivo della pretesa azionata dal ricorrente, oppure d’improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse, trasferendosi l’interesse del ricorrente dall’annullamento dell’atto inizialmente impugnato, all’annullamento di quest’ultimo, che lo ha interamente sostituito (cfr. T.A.R. Lazio, Sez. II quater, 27 luglio 2015 n. 10245).
Vengono così chiariti i contorni del c.d. “accoglimento della domanda cautelare ai fini del riesame” – la cui operatività è sempre più diffusa, stante il frequente ricorso al giudizio cautelare ai fini di una tutela presuntivamente più immediata. CC
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Inserito in data 19/01/2017 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA - 17 gennaio 2017, n. 167 Autorità competente a sanzionare un operatore economico per pratica commerciale scorretta: rinvio alla Corte di giustizia UE Con l’Ordinanza in esame, la Sesta Sezione del Consiglio di Stato si è pronunciata sull’appello proposto dall’AGCM avverso una sentenza con cui il Tar Lazio, accogliendo il ricorso di una società di telefonia mobile, ha annullato la sanzione amministrativa pecuniaria irrogata dalla stessa AGCM per pratica commerciale scorretta. Nello specifico, la condotta sanzionata consiste nell’avere l’operatore di telefonia nei propri punti vendita commercializzato carte SIM, sulle quali erano preimpostati servizi di navigazione internet e di segreteria telefonica, i cui costi venivano addebitati all’utente se non disattivati su espressa richiesta di quest’ultimo (attraverso il meccanismo c.d. di option-out o opt-out), senza aver previamente informato il consumatore dell’esistenza della preimpostazione di tali servizi e della loro onerosità. Il Giudice di primo grado - richiamando quanto affermato dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato con le sentenze nn. 11-16 dell’11 maggio 2012 sul tema del rapporto tra normativa generale in materia di tutela del consumatore e disciplina di settore delle comunicazioni elettroniche, con particolare riguardo al principio di specialità sancito dalla direttiva 2005/29/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio - ha ritenuto fondata l’eccezione con cui era stata rilevata, nel caso in questione, l’incompetenza dell’AGCM ad emettere il provvedimento impugnato, invocando il principio di specialità di cui all’art. 19, comma 3, del Codice del consumo, ai sensi del quale “In caso di contrasto, le disposizioni contenute in direttive o in altre disposizioni comunitarie e nelle relative norme nazionali di recepimento che disciplinano aspetti specifici delle pratiche commerciali scorrette prevalgono sulle disposizioni del presente titolo e si applicano a tali aspetti specifici”. In pratica, il TAR Lazio ha affermato che l’AGCM si sia arrogata l’esercizio di una potestà regolamentare che non le compete ”sia sotto il profilo tecnico delle modalità concrete di prestazione dei servizi sia sotto quello dei rapporti interprivati posti in essere dall’operatore telefonico con i propri utenti. Ciò in quanto il provvedimento impugnato, nel vietare la diffusione o continuazione della pratica commerciale descritta, nella sostanza vieta l’utilizzo di determinate modalità di commercializzazione delle carte SIM, in tal modo venendo a porre a carico dell’operatore telefonico una regola di comportamento sconosciuta alla regolazione settoriale e alla stessa legislazione consumeristica, e tanto, nell’esercizio di un potere che esula dalle attribuzioni dell’Antitrust”. La Sesta Sezione assegnataria, con la presente ordinanza, afferma che “la decisione sulla questione dell’individuazione dell’Autorità competente ad esercitare i poteri sanzionatori in ordine alla pratica commerciale scorretta di cui è causa non può che passare attraverso la risoluzione delle questioni di compatibilità con l’ordinamento euro-unitario della disciplina dei rapporti tra disciplina ‘consumeristica’ generale e disciplina ‘consumeristica’ settoriale di cui all’art. 27, comma 1-bis, Codice del consumo”. Ricorda, tuttavia, il Collegio che sulla specifica questione si è già pronunciata l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato 9 febbraio 2016, n. 4, la quale ha in primo luogo evidenziato che il comma 1 bis dell’art. 27 del Codice del consumo approvato con d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, inserito dall’art. 1, comma 6, lett. a), d.lgs. 21 febbraio 2014, n. 21 - che attribuisce all'Autorità garante della concorrenza e del mercato, acquisito il parere dell'Autorità di regolazione competente, la competenza ad intervenire nei confronti delle condotte dei professionisti che integrano una pratica commerciale scorretta anche in settori di competenza dell’Autorità garante delle comunicazioni - ha natura di norma di interpretazione autentica. La stessa Adunanza Plenaria ha, quindi, concluso che la competenza ad irrogare la sanzione per “pratica commerciale considerata in ogni caso aggressiva” è sempre individuabile nell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato. Orbene, chiarisce la Sesta Sezione che “all’ammissibilità del rilievo della questione pregiudiziale ex art. 267 TFUE”… “non osta la circostanza che sull’oggetto del contendere si sia espressa l’Adunanza plenaria con la sentenza n. 4/2016”, infatti, continua il Collegio, nonostante le eccezioni sollevabili sul punto, “la Corte di giustizia UE – facendo ricorso alla sua nota impostazione secondo cui, pur in mancanza di una (anche soltanto implicita) competenza comunitaria in materia processuale, l’effettività del diritto comunitario comporta che l’autonomia procedurale lasciata agli stati membri incontri i limiti della parità di trattamento tra situazioni interne e situazioni comunitarie (principio di equivalenza) e della garanzia della loro effettiva tutela (principio di effettività), essendo altrimenti il giudice obbligato ad interpretare le regole processuali in modo conforme ad assicurare l’effettiva applicazione del diritto UE – ha ripetutamente affermato il principio secondo cui può essere messo in discussione anche l’accertamento compiuto nella sentenza del giudice nazionale passata in giudicato, perché in contrasto con il diritto dell’Unione, su cui non sia stato effettuato un rinvio pregiudiziale, al fine di consentire l’effettiva e corretta applicazione della normativa euro-unitaria (v., ex plurimis, Corte giust. UE, 3 settembre 2009, in causa C- 2/08, Olimpiclub; id., 14 dicembre 1995, in causa C-312/93, Peterbroeck; id., 16 dicembre 1976, in causa C-33/76, Rewe)”. Tutto quanto premesso, “reputa dunque il collegio che, ai sensi dell’art. 267, comma 3, TFUE, debbano essere rimesse alla Corte di giustizia UE i seguenti quesiti pregiudiziali (in parte riformulati d’ufficio da questo collegio) di compatibilità con l’ordinamento euro-unitario del citato art. 27, comma 1-bis, Codice del consumo, anche alla luce dell’interpretazione al riguardo fornita dall’Adunanza plenaria con la sentenza n. 4/2016:” «1) se la ratio della direttiva ‘generale’ n. 2005/29/CE quale ‘rete di sicurezza’ per la tutela dei consumatori, nonché il considerando 10 e l’articolo 3, comma 4, della medesima direttiva n. 2005/29/CE, ostino ad una disciplina nazionale che riconduca la valutazione del rispetto degli obblighi specifici, previsti della direttiva settoriale n. 2002/22/CE a tutela dell’utenza, nell’ambito di applicazione della direttiva generale n. 2005/29/CE sulle pratiche commerciali scorrette, escludendo, per l’effetto, l’intervento dell’Autorità competente a reprimere una violazione della direttiva settoriale in ogni ipotesi che sia suscettibile di integrare altresì gli estremi di una pratica commerciale scorretta/sleale; 2) se il principio di specialità sancito dall’articolo 3, comma 4, della direttiva n. 2005/29/CE debba essere inteso quale principio regolatore dei rapporti tra ordinamenti (ordinamento generale e ordinamenti di settore), oppure dei rapporti tra norme (norme generali e norme speciali), oppure, ancora, dei rapporti tra Autorità preposte alla regolazione e vigilanza dei rispettivi settori; 3) se la nozione di «contrasto» di cui all’articolo 3, comma 4, della direttiva n. 2005/29/CE possa ritenersi integrata solo in caso di radicale antinomia tra le disposizioni della normativa sulle pratiche commerciali scorrette e le altre norme di derivazione europea che disciplinano specifici aspetti settoriali delle pratiche commerciali, oppure se sia sufficiente che le norme in questione dettino una disciplina difforme dalla normativa sulle pratiche commerciali scorrette in relazione alle specificità del settore, tale da determinare un concorso di norme (Normenkollision) in relazione ad una stessa fattispecie concreta; 4) Se la nozione di norme comunitarie di cui all’articolo 3, comma 4, della direttiva n. 2005/29/CE abbia riguardo alle sole disposizioni contenute nei regolamenti e nelle direttive europee, nonché alle norme di diretta trasposizione delle stesse, ovvero se includa anche le disposizioni legislative e regolamentari attuative di principi di diritto europeo;
5) Se il principio di specialità, sancito al considerando 10 e all’articolo 3, paragrafo 4, della direttiva 2005/29/CE, e gli articoli 20 e 21 della direttiva 2002/22/CE e 3 e 4 della direttiva 2002/21/CE ostino ad una interpretazione delle corrispondenti norme di trasposizione nazionale per cui si ritenga che, ogniqualvolta si verifichi in un settore regolamentato, contenente una disciplina ‘consumeristica’ settoriale con attribuzione di poteri regolatori e sanzionatori all’Autorità del settore, una condotta riconducibile alla nozione di ‘pratica aggressiva’, ai sensi degli articoli 8 e 9 della direttiva 2005/29/CE, o ‘in ogni caso aggressiva’ ai sensi dell’Allegato I della direttiva 2005/29/CE, debba sempre trovare applicazione la normativa generale sulle pratiche scorrette, e ciò anche qualora esista una normativa settoriale, adottata a tutela dei consumatori e fondata su previsioni di diritto dell’Unione, che regoli in modo compiuto le medesime ‘pratiche aggressive’ e ‘in ogni caso aggressive’ o, comunque, le medesime ‘pratiche scorrette’». FM
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Inserito in data 18/01/2017 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 16 gennaio 2017, n. 108 Sulla natura dell’organismo di diritto pubblico Nella pronuncia in epigrafe, opinando in senso contrario rispetto ai Giudici di primo grado, il Supremo Consesso ritiene che sussistano i presupposti per la qualificazione di << organismo di diritto pubblico >> per l’appellante. Passando dapprima in rassegna gli indirizzi giurisprudenziali che hanno caratterizzato l’iter evolutivo dell’organismo di diritto pubblico (da ora “O.D.P.”) nella giurisprudenza eurounitaria, la Quinta Sezione ne estrapola i requisiti da applicare al caso in esame. Asserendo che “non sussistono dubbi sulla titolarità della personalità giuridica e in ordine al fatto che la relativa attività sia finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico”, il Collegio s’interroga sulla sussistenza del cd. << requisito teleologico >>. Il Consesso Amministrativo ricorda che sulla circostanza che l’Organismo della cui natura si discute, operi in un mercato aperto alla concorrenza rappresenti di per sé solo un circostanza idonea ad escludere il richiamato requisito teleologico, la giurisprudenza eurounitaria ha visto un’evoluzione suddivisibile essenzialmente in tre fasi: una prima <<pancomunitaria>>, volta alla massima espansione applicativa della categoria (in particolare si ricorda la sentenza BFI Holding); una seconda fase (contrassegnata dalla sentenza Ente Fiera di Milano) in cui la Corte di Giustizia sembrò segnare una sorta di inversione di tendenza nell’espansione applicativa dell’istituto dell’o.d.p., nella specie si negò che la circostanza che l’ente operasse in un mercato concorrenziale rappresentasse un indizio sostanzialmente determinante al fine di escludere il carattere non industriale o commerciale dei bisogni perseguiti e, in via mediata, la sua configurabilità quale o.d.p.; nella terza e più recente fase, la Corte di Giustizia ha ritenuto che l’esistenza di un mercato in concorrenza rappresenti solo un indice, dovendo tale circostanza essere integrata da ulteriori elementi. In definitiva, la giurisprudenza della Corte di Giustizia ha chiarito che, se in linea generale i bisogni non aventi carattere industriale o commerciale si caratterizzano di norma per il fatto di non trovare una adeguata “risposta” nell’offerta degli operatori sul mercato, è nondimeno possibile che in alcuni casi detti bisogni possano presentare una qualche rilevanza economica, sì da indurre anche operatori economici privati a collocarsi nel settore e senza che ciò incida sulla possibilità di qualificare l’organismo della cui natura si controverte come o.d.p. Si è in tal modo ammessa la non incompatibilità tra lo svolgimento di attività di impresa e l’operatività in settori contrassegnati a un’economia di mercato, da un lato e la qualificabilità dell’ente come organismo di diritto pubblico dall’altro (in tal senso: CGUE, sentenza 9 giugno 2009 in causa C-480/06, Commissione c. Germania). Ne consegue la non condivisibilità della tesi richiamata, secondo cui per poter riconoscere a un Organismo la qualificazione di o.d.p. sarebbe sempre e comunque necessario verificare in negativo che lo stesso operi in settori non concorrenziali, ovvero che lo esso operi in regime di sostanziale privativa. Ad avviso del Collegio, riconducendo i principi appena richiamati alle peculiarità del caso in esame deve ritenersi: che la circostanza per cui il settore del soccorso stradale sia aperto alla concorrenza non depone ex se nel senso della non qualificabilità dell’Organismo come o.d.p. e che, al contrario, prevalenti indici fattuali e sistematici depongono nell’opposto senso di qualificare la società in parola come o.d.p. Occorre, quindi, svolgere un’indagine in ordine alla sussistenza nel caso in esame di specifiche “esigenze di interesse generale”, il cui “carattere non industriale o commerciale” non può coincidere tout-court con l’impossibilità di ottenerne il soddisfacimento attraverso il ricorso al mercato. In conclusione, il Collegio ritiene che i prevalenti elementi sistematici e fattuali del caso in esame depongano nel senso della qualificabilità dell’Organismo quale organismo di diritto pubblico ai sensi del pertinente paradigma eurounitario e nazionale, con quanto ne consegue in termini di assoggettamento alle regole dell’evidenza pubblica e di radicamento della giurisdizione del Giudice amministrativo. DU
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Inserito in data 17/01/2017 TAR PIEMONTE - TORINO, SEZ. I, 11 gennaio 2017, n. 47 Spaccio di sostanze stupefacenti e revoca delle misure di accoglienza Il Collegio torinese respinge i motivi di ricorso addotti dal ricorrente, cittadino gambiano, ospite di un centro di accoglienza dei migranti richiedenti asilo. Questi, arrestato in flagranza del reato di spaccio sostanze stupefacenti – ex art. 73, quinto comma, D.P.R. n. 309/90, subiva da parte della competente Autorità prefettizia la revoca della misura di accoglienza appena descritta, poiché incorso nella fattispecie di cui all’art. 23 D.Lgs. n. 142/2015. Ad avviso del ricorrente, la disposta revoca parrebbe illegittima in forza dell’avvenuta violazione dell’art. 7 L. 241/90 ed in considerazione, altresì, del fatto che la propria condotta non parrebbe presentare estremi tali da giustificare una misura punitiva tanto forte. I Giudici respingono le valutazioni esposte in ricorso, con riguardo ad entrambi i motivi di gravame. In relazione al primo, infatti, essi ricordano che la celerità necessaria per far fronte ad una condotta tanto grave – quale quella tenuta dal ricorrente, è strutturalmente incompatibile con il previo avviso di avvio del procedimento amministrativo – ex articolo 7 L. 241/90. A parere dei Giudici, infatti, è evidente che, seppur l’atto impugnato non indichi le esigenze di celerità che giustificano l’omissione dell’avviso di cui all’art. 7 della L. n. 241/90, l’urgenza di provvedere risulta insita nel comportamento riottoso alle regole posto in essere dal ricorrente che, rendendo incompatibile la sua permanenza all’interno della struttura, anche per prevenire il diffondersi di condotte irregolari, non poteva che determinare l’amministrazione nel provvedere, più velocemente possibile, all’adozione dei provvedimenti necessari alla tutela delle esigenze di ordinata gestione del centro di accoglienza e alla rimozione delle cause idonee a comprometterne il controllo. A conferma di tale assunto, del resto, l’immediatezza dell’impugnata revoca a seguito dell’intervento dei Carabinieri. Anche in relazione alla seconda censura i Giudici piemontesi intervengono in modo negativo. A dispetto di quanto sostenuto dal ricorrente, il comportamento posto in essere non poteva che integrare quanto previsto dall’art. 23 del D.Lgs. 142/2015 nella parte in cui attribuisce al Prefetto il potere di disporre la revoca delle misure d'accoglienza nelle ipotesi di “violazione grave o ripetuta delle regole del centro di accoglienza da parte del richiedente asilo, ivi ospitato, ovvero comportamenti gravemente violenti”. Tanto ricorre nel caso di specie, ove la condotta certamente illecita del ricorrente non può che contrastare con l’esigenza di una convivenza civile e ordinata in seno ad una struttura simile. Afferma il Collegio che vale precisare che l’attitudine delinquenziale dimostrata dall’arresto e dalla successiva condanna per reati in materia di stupefacenti preclude la necessaria integrazione nel tessuto sociale e testimonia in effetti la mancata adesione del ricorrente a regole minime di convivenza civile. Non si può, pertanto, non comprendere la reiezione dei motivi di ricorso e, per l’effetto, la conferma della disposta revoca – come decisi dal Tar torinese. CC
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Inserito in data 16/01/2017 TAR SARDEGNA - CAGLIARI, SEZ. II, 10 gennaio 2017, n. 13 Gli aventi causa del privato lottizzatore non sono parti delle convenzioni di lottizzazione Con la pronuncia indicata in epigrafe, il Collegio sardo precisa che “le controversie in materia di esecuzione delle convenzioni di lottizzazione rientrano nella giurisdizione esclusiva (ai sensi dell’art. 133, comma 1, lettera a), n. 2, del codice del processo amministrativo), in quanto - secondo la consolidata giurisprudenza delle Sezioni Unite civili della Cassazione - esse sono riconducibili agli accordi integrativi o sostitutivi di cui all’art. 11 della legge n. 241 del 1990 (di recente, si veda Cass. Sez. Un. Civ., 31 ottobre 2014, n. 23256)”; con la conseguenza che solo le parti possono far valere le pretese derivanti dal regolamento contrattuale. Come ha chiarito da tempo la giurisprudenza della Cassazione, infatti, «l'adempimento dell'obbligazione di realizzare le opere di urbanizzazione (primaria e secondaria), assunta dal privato lottizzatore nei confronti del comune con la convenzione di lottizzazione (ai sensi della legge n. 765 del 1967) può essere preteso in via giurisdizionale e coattiva dal comune, non invece dagli aventi causa dal lottizzatore resisi acquirenti di singoli lotti di terreno edificati, stante la loro estraneità alla convenzione» (così Cass. civ., sez. I, 11 febbraio 1994, n. 1384). D’altra parte, la costante giurisprudenza della Cassazione, condivisa in diverse occasioni da questa Sezione, “limita la cerchia degli obbligati esclusivamente a coloro che abbiano chiesto e ottenuto le concessioni edilizie, e non a coloro che abbiano in seguito acquistato le abitazioni; i quali utilizzano le opere di urbanizzazione ma non sono tenuti a pagare gli oneri relativi, che gravano solo sui titolari del permesso di costruire (di recente si veda Cass., III sez. civ., 20 agosto 2015, n. 16999, che ha deciso su una tipica fattispecie in cui la società ricorrente «premesso di aver acquistato […]dei terreni, rispetto ai quali la società venditrice aveva stipulato con il Comune […] una convenzione urbanistica per la lottizzazione delle aree, nella quale la [società venditrice] e i suoi aventi causa si obbligavano all'esecuzione di opere di urbanizzazione primaria, e precisato di aver realizzato tali opere, [conveniva] in giudizio i successivi proprietari dei lotti interessati dalla lottizzazione per ottenerne il rimborso pro quota», sostenendo «che i convenuti, successivi proprietari dei lotti facenti parte della lottizzazione, sarebbero obbligati in solido, quali aventi causa del lottizzatore, con conseguente fondamento dell'azione di regresso pro quota - per le opere di urbanizzazione pacificamente da lui realizzate - esercita dalla società attrice, a sua volta avente causa dalla società che aveva stipulato la convenzione. Argomenta sia con riferimento alla natura di obbligazione propter rem in capo ai successivi acquirenti convenuti in giudizio, sia in riferimento alle previsioni contrattuali stabilite nella convenzione»; la Cassazione, nel rigettare il ricorso, ha osservato come «l'obbligazione di provvedere alla realizzazione delle opere di urbanizzazione assunta da colui che stipula una convenzione edilizia è propter rem, nel senso che essa va adempiuta non solo da colui che tale convenzione ha stipulato, ma anche da colui, se soggetto diverso, che richiede la concessione edilizia; ovvero nel senso che colui che realizza opere di trasformazione edilizia ed urbanistica, valendosi della concessione edilizia rilasciata al suo dante causa, ha nei confronti del Comune gli stessi obblighi che gravano sull'originario concessionario, ed è con quest'ultimo solidalmente obbligato per il pagamento degli oneri di urbanizzazione. La natura reale dell'obbligazione in esame riguarda, dunque, i soggetti che stipulano la convenzione, quelli che richiedono la concessione, e quelli che realizzano l'edificazione avvalendosi della concessione rilasciata al loro dante causa (Cass. n. 10947 del 1994; n. 6382 dei 1988; n. 5541 del 1996, Cass. n. 12571 del 2002). Ancora più esplicita nell'individuazione dei soggetti obbligati propter rem è una successiva decisione (Cass. n. 11196 del 2007), dove si afferma che la qualificazione di obbligazione propter rem è quella che assume rilievo nel rapporto tra Comune e soggetto proprietario dell'area fabbricabile, cui viene rilasciato il provvedimento permissivo della costruzione. Così, sono esclusi dall'area degli obbligati a tale titolo, i soggetti che utilizzano per una loro diversa edificazione le opere di urbanizzazione realizzate da altri, senza avere con questi alcun rapporto, e che, per ottenere la loro diversa concessione edilizia, devono pagare al Comune concedente, per loro conto, i relativi oneri di urbanizzazione (la specie all'attenzione di Cass. n. 12571 del 2002). Sono anche esclusi i soggetti successivi acquirenti da chi ha realizzato la costruzione sulla base della concessione, con la conseguenza che qualora quest'ultimo abbia anche realizzato le opere di urbanizzazione può rivalersi con i successivi acquirenti della spesa sostenuta solo in virtù di espressa pattuizione negoziale, nella quale non viene più in rilievo il carattere "reale" dell'obbligazione»). Alla luce di quanto suddetto, gli acquirenti di immobili ubicati all’interno di piani di lottizzazione rimasti inattuati non sono legittimati a chiedere l’emanazione della sentenza ai sensi dell’art. 2932 del codice civile che tenga luogo dei contratti non conclusi. Inoltre, i Giudici, nel confermare l’orientamento della stessa Sezione, ricordano che “la posizione del Comune nei confronti dei terzi si traduce nel dovere di provvedere all’esercizio dei diritti e poteri derivanti dalla convenzione urbanistica finalizzati all’adempimento degli obblighi contrattuali, anche in via coattiva, ovvero all’esercizio delle garanzie fideiussorie previste e delle pretese risarcitorie per gli inadempimenti accertati; posizione, in cui il dato centrale è rappresentato dalla qualificazione in senso pubblicistico, il che consente anche di identificare la situazione giuridica dei ricorrenti in una correlativa posizione di interesse legittimo”. Peraltro, “lo strumento di tutela previsto dall’ordinamento processuale amministrativo per l’accertamento dell’obbligo di provvedere, e per l’eventuale condanna dell’amministrazione ad adottare il provvedimento o l’atto idoneo a soddisfare le pretese dei terzi titolari di situazioni di interesse legittimo, è costituito dall’azione avverso il silenzio, prevista e disciplinata dagli articoli 31 e 117 del codice del processo amministrativo”. Azione, la cui proposizione è condizionata, dal comma 2 dell’art. 31, cit., al rispetto del termine decadenziale di «un anno dalla scadenza del termine di conclusione del procedimento». EP
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Inserito in data 14/01/2017 TRIBUNALE REGIONALE DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA DI TRENTO - SEZ. UNICA, 13 gennaio 2017, n. 8 Gare d’appalto: necessità del possesso iniziale e continuato dei requisiti utili per parteciparvi Nella decisione emarginata in epigrafe, il Giudice amministrativo trentino respinge il ricorso proposto dalla ricorrente ritenendolo infondato nel merito e chiarisce che in materia di procedure ad evidenza pubblica “il possesso dei requisiti di partecipazione alla gara si impone a partire dall’atto di presentazione della domanda di partecipazione e in ogni successiva fase della procedura nonché per tutta la durata dell’appalto senza soluzione di continuità e ciò per assicurare alla stazione appaltante di contrarre con un soggetto affidabile in quanto provvisto di tutti i requisiti necessari”. Per maggior chiarezza, è opportuno premettere che al fine di partecipare alla gara, la ricorrente utilizzava i requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico-organizzativa del ramo d’azienda in affitto da altra società (il contratto de quo era stato precedentemente stipulato con una società in concordato preventivo, poi dichiarata fallita). Si precisa, altresì, che il ramo di azienda in affitto veniva, successivamente, acquisito in proprietà dalla ricorrente. Si noti, inoltre, che la data della acquisizione in proprietà del ramo di azienda è successiva alla data di scadenza per la presentazione dell’offerta. Ora, tra i motivi di gravame avverso gli atti di esclusione, la ricorrente sostiene la illegittimità della esclusione dalla gara giacché, essendo il ramo di azienda stato acquisito (successivamente) in proprietà dalla ricorrente medesima, ciò avrebbe consolidato (in capo alla stessa) il possesso di tutti i requisiti richiesti ai fini della ammissione alla procedura. Si noti, altresì, che la ricorrente utilizzava i requisiti di capacità economica-finanziaria e tecnica-organizzativa del ramo d’azienda in affitto. Detti motivi vengono ritenuti infondati. Infatti, il Collegio afferma fondata la non ammissione alla procedura per il mancato possesso dei requisiti di capacità tecnico – organizzativa richiesti dal bando di gara. Orbene, “l’esigenza di consentire alla stazione appaltante di aver sempre certezza dell’identità dei propri contraenti e dei soggetti chiamati ad eseguire il contratto posto in gara è un principio immanente nell’ordinamento”e corollario di tale principio è l’ulteriore generale principio della continuità del possesso dei requisiti di partecipazione affermato da costante giurisprudenza e, da ultimo, ribadito nella pronuncia dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 8 del 2015” dove è stato autorevolmente affermato che nelle gare di appalto per l'aggiudicazione di contratti pubblici, i requisiti generali e speciali devono essere posseduti dai candidati non solo alla data di scadenza del termine per la presentazione della richiesta di partecipazione alla procedura di affidamento, ma anche per tutta la durata della procedura stessa fino all'aggiudicazione definitiva ed alla stipula del contratto, nonché per tutto il periodo dell'esecuzione dello stesso, senza soluzione di continuità. PC
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Inserito in data 13/01/2017 TAR SICILIA - PALERMO, SEZ. III - ORDINANZA DI RIMESSIONE ALLA CORTE COSTITUZIONALE, 9 gennaio 2017, n. 39 Questione di legittimità costituzionale della legge sul canone dovuto per l’estrazione mineraria in Sicilia Con l’ordinanza in esame il Tar Sicilia dichiara rilevante e non manifestamente infondata, con riferimento agli artt. 3, 53 e 117 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 83, l. reg. Sicilia 7 maggio 2015, n. 9, nella parte in cui modifica i commi 1 e 8 dell’art. 12, l. reg. Sicilia 15 maggio 2013, n. 9, prevedendo, anche con riferimento al precedente anno 2014 (e, quindi, retroattivamente), che il canone dovuto per l’attività di estrazione dei giacimenti minerari di cava non vada più commisurato alla quantità di minerale estratto, ma alla superficie dell’area coltivabile e ai volumi autorizzati. Precisamente, oggetto della controversia è un decreto dell’Assessore regionale dell’energia e dei servizi di pubblica utilità con cui sono state definite le modalità applicative del canone di produzione annuo dovuto dai titolari di concessioni per lo sfruttamento di giacimenti minerari di cave. Tale decreto è stato adottato in esecuzione dell’art. 83 della legge regionale siciliana n. 9 del 2015, che ha modificato l’art. 12 della legge regionale siciliana n. 9 del 15 maggio 2013, prevedendo che il canone non vada più commisurato alla quantità di minerale estratto, ma alla superficie dell’area coltivabile e ai volumi autorizzati anche con riferimento al precedente anno 2014. Così inquadrata in termini generali la controversia, va rilevato che, il Collegio ha preliminarmente chiarito - in merito al richiamato art. 53 Cost , cioè al principio della capacità contributiva - che il canone in questione ha natura di tributo, essendo irrilevante il nomen iuris usato dal legislatore ed “occorrendo riscontrare in concreto e caso per caso se si sia o no in presenza di un tributo” (Corte cost. nn. 141 del 2009, 334 del 2006 e 73 del 2005). Il Tar, richiamando i principi espressi dalla Corte Costituzionale (su cui si fondano gli indici significativi della natura tributaria di una prestazione imposta), ha evidenziato che, nel caso di specie, l’obbligo del pagamento trova la sua fonte esclusiva nella legge regionale e non costituisce remunerazione dell'uso di beni pubblici; inoltre, la prestazione imposta è finalizzata a dotare i Comuni e la Regione dei mezzi finanziari necessari ad assolvere le funzioni di cura concreta degli interessi generali; infine, mentre la Regione può utilizzare liberamente la propria parte, i Comuni devono destinare le somme al finanziamento di interventi infrastrutturali di recupero, riqualificazione e valorizzazione del territorio, del tessuto urbano e degli edifici scolastici e ad uso istituzionale, nonché alla manutenzione e valorizzazione ambientale ed infrastrutturale connessi all'attività estrattiva o su beni immobili confiscati alla mafia ed alle organizzazioni criminali. Questo carattere funzionale, congiunto al fatto che il prelievo si collega all'attività economica di gestione dei giacimenti, consente di ritenere il canone in questione uno strumento di riparto, ai sensi dell'art. 53 Cost., del carico della spesa pubblica in ragione della capacità economica manifestata dai soggetti gestori (Corte cost. n. 280 del 2011); in altri termini - conclude il Tar - si può affermare che la prestazione in esame è un tributo. Passando all’esame della questione di legittimità costituzionale sollevata con riferimento all’art. 83, l. reg. Sicilia 7 maggio 2015, n. 9, il giudice a quo ritiene fondata e rilevante l’eccezione che pone la predetta disposizione regionale in contrasto con l’art. 3 Cost., nonché con l’art. 117, comma 1, della Costituzione in relazione all'art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU, per violazione dei principi d’uguaglianza e di legittimo affidamento. La nuova disposizione regionale, afferma il Tar, determina, in primo luogo, immotivate discriminazioni all’interno della medesima categoria dei titolari di giacimenti minerari tra quelli che gestiscono cave di piccola dimensione, ma ad elevata resa (es. marmi) e quelli concessionari di cave di grande estensione, ma a bassa resa (inerti). In sostanza, alla medesima ampiezza corrisponde una remuneratività profondamente diversa con conseguente irragionevolezza del riferimento alla superficie dell’area coltivabile ed ai volumi autorizzati della cava ai fini della quantificazione del canone. I titolari di giacimenti di materiali “poveri” sono, quindi, tenuti al pagamento di un canone notevolmente più elevato rispetto a quello dovuto per quelli di minerali pregiati con conseguente irragionevole disparità di trattamento. Sembrerebbe, pertanto, conclude il Tar, che a situazioni differenti si applichi il medesimo trattamento in maniera irragionevole. Proseguendo nell’esame dei profili di illegittimità costituzionale, la Terza Sezione afferma che la norma in questione, avendo effetto retroattivo, produce la lesione di un “bene” che i concessionari di giacimenti minerari hanno acquisito sulla base di un legittimo affidamento ingenerato dalle previsioni contenute nella previgente formulazione. Sul punto lo stesso Giudice Amministrativo richiama la giurisprudenza della Corte Costituzionale secondo cui una mutazione ex lege dei rapporti di durata è illegittima quando incide sugli stessi in modo “improvviso e imprevedibile”. Orbene, l’esame dell’art. 83, l. reg. n. 9 del 2015 e della sua ratio, conclude il Tar, porta a dubitare che il legislatore abbia operato una scelta ragionevole e non arbitraria alla stregua dei principi evocati; infatti, può ritenersi leso l’affidamento che i concessionari delle cave hanno riposto nella quantificazione del canone calcolata con i criteri fissati dalla normativa precedente, poiché è sulla base di tali criteri (e non di quelli successivi e meno favorevoli) che essi hanno determinato le loro strategie imprenditoriali. FM
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Inserito in data 12/01/2017 CORTE COSTITUZIONALE - SENTENZA 20 luglio 2016, n. 193 Considerazioni in ordine alla estensione della retroattività della lex mitior alle sanzioni amministrative La Consulta viene chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 24 novembre 1981, n. 689 , nella parte in cui- nel descrivere il principio di legalità riferito alle sanzioni amministrative- non prevede la retroattività del trattamento sanzionatorio più favorevole. La questione viene sollevata con riferimento agli artt. 3 e 117, primo comma della Costituzione, quest’ultimo per violazione dei parametri interposti rappresentati dagli artt. 6 e 7 della CEDU. La Corte dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale rispetto ad entrambe le censure. Con riferimento alla denunciata violazione del parametro sovranazionale, la Consulta- rivendicando la valutazione in ordine all’ incidenza sull’ordinamento costituzionale italiano della giurisprudenza europea consolidatasi sulla norma conferente- sancisce che “ nell’affermare il principio della retroattività del trattamento sanzionatorio più mite, la giurisprudenza della Corte europea non ha mai avuto ad oggetto il sistema delle sanzioni amministrative complessivamente considerato, bensì, singole e specifiche discipline sanzionatorie, ed in particolare, quelle che, pur qualificandosi come amministrative ai sensi dell’ordinamento interno, siano idonee ad acquisire caratteristiche punitive alla luce dell’ordinamento convenzionale”. Pertanto, “l’intervento additivo” invocato dal remittente, “volto ad estendere la portata del principio della retroattività della lex mitior al complessivo sistema sanzionatorio amministrativo”, “risulta travalicare l’obbligo convenzionale”, “finendo così per disattendere la necessità della preventiva valutazione della singola sanzione […] come convenzionalmente penale, alla luce dei cosiddetti criteri Engel (così denominati a partire dalla sentenza della Corte EDU, Grande Camera, 8 giugno 1976, Engel e altri contro Paesi Bassi e costantemente ripresi dalle successive sentenze in argomento)”. Non è dato rinvenire, dunque, “nel quadro delle garanzie apprestato dalla CEDU, come interpretate dalla Corte di Strasburgo, l’affermazione di un vincolo di matrice convenzionale in ordine alla previsione generalizzata, da parte degli ordinamenti interni dei singoli Stati aderenti, del principio della retroattività della legge più favorevole, da trasporre nel sistema delle sanzioni amministrative”. Con riferimento all’asserita violazione dell’art. 3 Cost., la Consulta osserva che “il limitato riconoscimento della retroattività in mitius” solo ad alcune sanzioni amministrative risponde “a scelte di politica legislativa” e costituisce “espressione della discrezionalità del legislatore”, risultando, pertanto, sindacabile solo laddove trasmodi nella “manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio, come avviene a fronte di sperequazioni sanzionatorie tra fattispecie omogenee non sorrette da alcuna ragionevole giustificazione”. Infine, la Corte osserva che “l’invocata declaratoria di illegittimità costituzionale sancirebbe il principio della retroattività della lex mitior per le sanzioni amministrative in maniera persino più ampia di quanto stabilito dall’art. 2 cod. pen., il quale fa salvo il limite del giudicato ed esclude dal proprio ambito di operatività le leggi eccezionali e temporanee”. GB
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Inserito in data 11/01/2017 TAR TOSCANA - FIRENZE, SEZ. I - 9 gennaio 2017, n. 7 L’azione negatoria è devoluta alla giurisdizione del Giudice ordinario A seguito di una delibera di estensione dell’ambito territoriale di un Consorzio, insorgeva il ricorrente, proprietario di un terreno incluso contro lo stesso, lamentando la lesione del diritto di proprietà. Non può esservi dubbio che l’azione proposta, pur se formalmente diretta all’annullamento della delibera del consorzio, sia una vera e propria azione negatoria, sostanzialmente volta all'accertamento dell'inesistenza di diritti vantati da terzi, in forza del diritto di proprietà rivendicato (Cass. civ., sez. II, 31 dicembre 2014, n. 27564). Osserva il Collegio che il giudice ammnistrativo non è competente ad accertare in via principale il carattere vicinale, pubblico o privato, della strada in questione o della servitù pubblica di passaggio, poiché in siffatte ipotesi si tratta di un accertamento vertente sulla sussistenza e sull'estensione di diritti soggettivi, che rientra nella giurisdizione del giudice ordinario, siano essi in capo a privati o al Comune stesso (Cons. Stato, sez. IV, 19 marzo 2015 n. 1515, T.A.R. Sicilia, Palermo, sez. II, 9 novembre 2015 n. 2888; T.A.R. Reggio Calabria, 8 aprile 2015 n. 348). Il Supremo Consesso ha precisato in proposito che quando la strada vicinale è iscritta negli elenchi, in sede amministrativa si deve ritenere sussistente il diritto della collettività ai sensi dell’art. 20, comma 1 della legge 20 marzo 1865 n. 2248 all. F). Si tratta del caso in cui il Sindaco ben può emanare il provvedimento di autotutela possessoria, sicché colui che contesta l'esistenza del diritto della collettività può agire dinanzi al giudice ordinario, eventualmente esperendo l'actio negatoria servitutis, in base a quanto disposto dalla norma citata (T.A.R. Toscana, sez. I, 7 maggio 2015 n. 729 T.A.R. Lombardia, Brescia, 7 settembre 1999, n. 769). Ciò vale anche nell’ipotesi in cui il provvedimento non promani da una pubblica amministrazione, ma da un soggetto privato, ossia - come nella fattispecie - da un consorzio. Ne consegue che la controversia circa la proprietà, pubblica o privata, di una strada, o circa l'esistenza di diritti di uso pubblico su una strada privata, è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario, giacché investe l'accertamento dell'esistenza e dell'estensione di diritti soggettivi, dei privati o della pubblica amministrazione (ex plurimis, Cass. civ. Sez. un., ord. 27 gennaio 2010, n. 1624; id., sez. un., 17 marzo 2010 n. 6406; T.A.R. Toscana, sez. I, 8 settembre 2014, n. 970; T.A.R. Calabria, Reggio Calabria, 8 aprile 2015, n. 348; T.A.R. Sardegna, sez. II, 17 marzo 2010 n. 312). Invero, quella posta in essere dalla ricorrente costituisce una vera e propria "actio negatoria servitutis" (art. 949 cod. civ.) nell’esercizio di un diritto soggettivo perfetto rispetto al quale non sussistono margini per l’esercizio di un potere discrezionale da parte della pubblica amministrazione. Il Tar rammenta inoltre il tradizionale e non superato principio per cui, ai fini del riparto tra giudice ordinario e giudice amministrativo, rileva non tanto la prospettazione delle parti, bensì il petitum sostanziale, il quale va identificato non solo e non tanto in funzione della concreta pronuncia che si chiede al giudice, ma anche e soprattutto in funzione della causa petendi, cioè dell'intrinseca natura della controversia dedotta in giudizio e individuata dal giudice con riguardo ai fatti allegati e al rapporto giuridico del quale essi sono manifestazione (Cons. Stato Sez. V, 27 aprile 2015, n. 2059; Cass. civ., Sez. un., ord., 22 settembre 2014, n. 19893). Ne discende l’inammissibilità del ricorso per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, fatti salvi gli effetti della translatio iudicii di cui all’art. 11, co. 2, cod. proc. amm.. DU
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Inserito in data 10/01/2017 TAR LAZIO - ROMA, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALLA CORTE COSTITUZIONALE, 3 gennaio 2017, n. 58 Sulla tutela del conseguimento del minimo pensionistico Con l’Ordinanza emarginata in epigrafe, il T.A.R. Lazio accoglie i motivi di impugnazione esposti dal ricorrente avverso gli atti della procedura di collocamento a riposo anticipato, posti in essere dal Ministero della Giustizia e dal Consiglio Superiore della Magistratura, in applicazione del decreto legge n. 90/2014, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 114/20114; doglianze volte all’annullamento degli stessi oltre al risarcimento del danno derivante dai provvedimenti adottati dalle Amministrazioni predette. Più in particolare il ricorrente manifestava al CSM la sua volontà di rimanere in servizio fino al raggiungimento del 75° anno di età o, quanto meno, fino al tempo sufficiente per il conseguimento del suo diritto a pensione. Ciò nonostante, il suddetto Ministero ne aveva disposto il collocamento a riposo in applicazione della normativa su menzionata. A maggior chiarezza, si precisa che il diritto al trattenimento in servizio fino al 75° anno di età era già stato dal CSM riconosciuto al ricorrente sulla base di una legge dello Stato. Sotto tale profilo, il ricorrente sostiene la illegittimità del provvedimento di collocamento a riposo anticipato emesso nei suoi confronti, non solo per violazione del diritto al raggiungimento del minimo pensionistico (tutelato dall’art. 38 Costituzione e dall’art. 4), ma anche per la violazione della tutela del suo legittimo affidamento in ordine alla legittima aspettativa a restare in servizio fino alla data utile per il raggiungimento delle condizioni per conseguire il diritto al minimo della pensione. Inoltre, il ricorrente chiede al Giudice amministrativo del Lazio di sollevare innanzi alla Consulta, questione di legittimità costituzionale delle disposizioni contenute nei primi cinque commi dell’art. 1 del d.l. 90 del 2014 (convertito dalla L. 114 del 2014), nella parte in cui escludono i magistrati dal novero delle persone alle quali lo Stato garantisce la possibilità di maturare il diritto a pensione, per contrasto con gli articoli 2, 3, 4, 38, 81 e 97 della Costituzione. Fatte tali premesse, il T.A.R. Lazio ricorda, preliminarmente, il fondamentale canone ermeneutico secondo il quale “in linea di principio, le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime” [o “una disposizione non può essere ritenuta costituzionalmente illegittima”] perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali (e qualche giudice ritenga di darne), ma perché è impossibile darne interpretazioni costituzionali” (sentenza n. 356/1996 e pronunce successive). Detto altrimenti, viene evidenziato il potere-dovere dei giudici di compiere uno sforzo al fine di interpretare una legge secundum constitutionem. Ebbene, afferma il Collegio che la disposizione oggetto della questione di illegittimità (comma 5 dell’art. 1 del decreto legge n. 90/2014,convertito, con modificazioni, dalla legge n. 114/2014), nel sostituire l’art. 72 del decreto legge n. 112/2008, ha ancorato la possibilità per le Amministrazioni pubbliche di recedere anticipatamente dal rapporto di pubblico impiego, all’avvenuta maturazione del requisito di anzianità contributiva per l’accesso al pensionamento dei pubblici dipendenti. La modificazione dell’art. 72, prosegue la ordinanza in esame, nell’escludere dalla applicazione del predetto principio il personale della magistratura, determina “un rilevante vulnus al diritto dei magistrati a maturare i requisiti minimi per la pensione”. Pertanto, il collocamento a riposo anticipato che qui interessa (in virtù dell’art. 1 d.l. 90 del 2014) “preclude al ricorrente di raggiungere il periodo minimo indispensabile per maturare il proprio diritto al pensionamento e pertanto ne viola in maniera irreparabile il diritto a maturare i requisiti minimi per la pensione di vecchiaia, che trova una tutela primaria, rispettivamente, nell’art. 4 e nell’art. 38, comma 2, della Costituzione”. Dunque, la applicazione della normativa transitoria di cui all’art. 1 del decreto legge n. 90/2014, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 114/2014 “conduce a risultati analoghi a quelli di consimili disposizioni di legge, già dichiarate incostituzionali dalla Suprema Corte, nella parte in cui le stesse non consentivano “al personale ivi contemplato, che al raggiungimento del limite massimo di età per il collocamento a riposo, non avesse compiuto il numero degli anni richiesti per ottenere il minimo della pensione, di rimanere, su richiesta, in servizio fino al conseguimento di tale anzianità minima” (Corte Costituzionale, sentenza n. 33 del 2013). Nella pronuncia in esame viene altresì ricordato, con riferimento al personale scolastico, la sentenza della Consulta n. 444 del 1990 che ha affermato la illegittimità costituzionale del comma 3, della l. 30 luglio 1973 n. 477 (delega al governo per l'emanazione di norme sullo stato giuridico del personale direttivo, ispettivo, docente e non docente della scuola elementare, secondaria e artistica dello Stato) nella parte in cui “non consente al personale assunto dopo il 1° ottobre 1974, che al compimento del 65esimo anno di età non abbia raggiunto il numero di anni richiesto per ottenere il minimo della pensione, di rimanere in servizio, su richiesta, fino al conseguimento di tale anzianità minima e comunque non oltre il 70esimo anno di età. Pertanto, avuto riguardo al consolidato orientamento espresso dalla Corte Costituzionale in tema di tutela del conseguimento del minimo pensionistico, “la lamentata esclusione del personale della magistratura dal campo di applicazione della disciplina recata dall’art. 72 del decreto legge n. 112/2008 – come modificato dall’art. 1, comma 5, del decreto legge n. 90/2014, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 114/2014 – pone seri dubbi di compatibilità della disposizione con gli artt. 2, 4 e 38 della Costituzione”. In conclusione, per una piena attuazione del diritto garantito dall’art. 38, comma 2, Costituzione, “l’interesse del lavoratore ad essere trattenuto in servizio per il tempo necessario al conseguimento della pensione normale è meritevole di considerazione, tanto più che la presunzione secondo cui al compimento dei 65 anni di età si pervenga ad una diminuita disponibilità di energia incompatibile con la prosecuzione del rapporto è destinata ad essere vieppiù inficiata dai riflessi positivi del generale miglioramento delle condizioni di vita e di salute dei lavoratori sulla loro capacità di lavoro” (Corte Costituzionale, sentenza n. 444 del 1990)”. Il Collegio ritiene di fondamentale rilievo il richiamo al costante orientamento della Suprema Corte, secondo il quale “il problema della tutela del conseguimento del minimo pensionistico è strettamente connesso a quello dei limiti di età; la previsione di questi ultimi è rimessa al legislatore nella sua più ampia discrezionalità (sentenza n. 195 del 2000) e quest’ultima può incontrare vincoli – sotto il profilo costituzionale – solo in relazione all’obiettivo di conseguire il minimo della pensione, attraverso lo strumento della deroga ai limiti di età ordinari previsti per ciascuna categoria di dipendente pubblico (Corte Costituzionale, sentenza n. 33 del 2013)”. A parere dello scrivente, degno di nota è l’analisi ripercorsa nella ordinanza in esame circa il concetto di limite fisiologico allo svolgimento dell’attività lavorativa. Analisi che in questa sede è possibile ricordare molto succintamente. Ed infatti, il predetto limite fisiologico veniva dalla giurisprudenza costituzionale individuato a sessantacinque anni (sentenza 461 del 19989). Successivamente, con la sentenza n. 444 del 1990 l’assunto secondo cui al compimento dei sessantacinque anni si pervenga ad una diminuita disponibilità di energia incompatibile con la prosecuzione del rapporto “è destinato ad essere inficiato dai riflessi positivi del generale miglioramento delle condizioni di vita e di salute dei lavoratori sulla loro capacità di lavoro” (Corte Costituzionale, sentenza n. 33 del 2013). PC
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Inserito in data 09/01/2017 TRIBUNALE REGIONALE DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA DI TRENTO - SEZ. UNICA, 3 gennaio 2017, n. 2 Sulla valutazione di offerte non conformi alle specifiche tecniche “La richiesta della stazione appaltante di ottenere dall’aggiudicataria la dimostrazione […] del rispetto delle specifiche tecniche richieste in gara corrisponde all’esercizio del necessario ed ineludibile potere-dovere dell’amministrazione di verificare l’effettiva conformità del prodotto offerto con quanto per esso prescritto”. L’offerta non conforme alle caratteristiche tecniche richieste comporta l’esclusione dalla gara, “anche in mancanza di apposita espressa comminatoria”. L’onere di provare “l’effettivo rispetto delle specifiche tecniche, o l’eventuale equivalenza del prodotto offerto rispetto alle stesse ex art. 68, co. 4, d.lgs. n.163/2006” incombe sull’aggiudicataria. Le valutazioni sull’equivalenza di un prodotto rientrano nella discrezionalità tecnica della stazione appaltante “ a meno di evidenti aporie logiche o fattuali” (cfr. Tar Friuli Venezia Giulia, sez. I, 21.1.2014 n. 16; Tar. Lombardia Brescia, sez. II, 18.4.2013 n. 381; Tar Sardegna, sez. I, 20.2.2012 n. 137). GB |
Inserito in data 07/01/2017 CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA - SEZ. VIII - 21 dicembre 2016, C-355/15 L’impresa definitivamente esclusa è legittimata ad impugnare la gara? Il giudice del rinvio domanda, in sostanza, se l’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 89/665, alla luce della sentenza del 4 luglio 2013, Fastweb (C 100/12, EU:C:2013:448), debba essere interpretato “nel senso che esso osta a che a un offerente escluso da una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico da una decisione dell’amministrazione aggiudicatrice divenuta definitiva, e che, pertanto, non è un offerente interessato ai sensi dell’articolo 2 bis di detta direttiva, sia negato l’accesso ad un ricorso avverso la decisione di aggiudicazione dell’appalto pubblico di cui trattasi e la conclusione del contratto allorché a presentare offerte siano stati unicamente l’offerente escluso e l’aggiudicatario e detto offerente sostenga che anche l’offerta dell’aggiudicatario avrebbe dovuto essere esclusa”. Al riguardo si deve ricordare che, secondo le disposizioni dell’articolo 1, paragrafo 1, terzo comma, e dell’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 89/665, “affinché i ricorsi contro le decisioni adottate da un’amministrazione aggiudicatrice possano essere considerati efficaci, devono essere accessibili per lo meno a chiunque abbia o abbia avuto interesse a ottenere l’aggiudicazione di un determinato appalto e sia stato o rischi di essere leso a causa di una presunta violazione (v. sentenza del 5 aprile 2016, PFE, C 689/13, EU:C:2016:199, punto 23)”. Ai punti 26 e 27 di detta sentenza, la Corte ha sottolineato che “la sentenza del 4 luglio 2013, Fastweb (C 100/12, EU:C:2013:448), costituisce una concretizzazione dei requisiti imposti dalle disposizioni dell’articolo 1, paragrafo 1, terzo comma, e dell’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 89/665, in circostanze nelle quali, a seguito di una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico, due offerenti presentino ricorsi diretti ad ottenere la reciproca esclusione. In una simile situazione, infatti, ciascuno dei due offerenti ha interesse a ottenere l’aggiudicazione di un determinato appalto”. Tuttavia, “la situazione di cui al procedimento principale è chiaramente distinta dalle situazioni discusse nelle due cause che hanno dato origine alle sentenze del 4 luglio 2013, Fastweb (C 100/12, EU:C:2013:448), e del 5 aprile 2016, PFE (C 689/13, EU:C:2016:199)”. Da un lato, infatti, “le offerte dei soggetti interessati nelle cause che hanno dato origine alle citate sentenze non erano state oggetto di una decisione di esclusione da parte dell’amministrazione aggiudicatrice, a differenza dell’offerta presentata dal gruppo nel procedimento principale”. Dall’altro lato, “in tali due cause ciascuno degli offerenti contestava la regolarità dell’offerta dell’altro nell’ambito di un solo ed unico procedimento di ricorso avverso la decisione di aggiudicazione dell’appalto, ciascuno vantando un analogo legittimo interesse all’esclusione dell’altrui offerta e dette contestazioni potendo indurre l’amministrazione aggiudicatrice a constatare l’impossibilità di procedere alla selezione di un’offerta regolare (v., in tal senso, sentenze del 4 luglio 2013, Fastweb, C 100/12, EU:C:2013:448, punto 33, e del 5 aprile 2016, PFE, C 689/13, EU:C:2016:199, punto 24). Nel procedimento principale, per contro, il gruppo ha depositato un ricorso, in primo luogo, avverso la decisione di esclusione adottata nei propri confronti e, in secondo luogo, avverso la decisione di aggiudicazione dell’appalto ed è nell’ambito del secondo ricorso che esso invoca l’irregolarità dell’offerta dell’aggiudicataria”. Ne consegue che “il principio giurisprudenziale espresso nelle sentenze del 4 luglio 2013, Fastweb (C 100/12, EU:C:2013:448), e del 5 aprile 2016, PFE (C 689/13, EU:C:2016:199), non è applicabile alla situazione procedurale e al contenzioso di cui al procedimento principale”. Peraltro, si deve rilevare che, “come risulta dall’articolo 1, paragrafo 3, e dall’articolo 2 bis della direttiva 89/665, quest’ultima assicura l’esercizio di ricorsi efficaci avverso le decisioni irregolari nell’ambito di procedure di aggiudicazione di appalti pubblici, consentendo ad ogni partecipante escluso di contestare non solo la decisione di esclusione, ma anche, fintantoché detta contestazione è pendente, le successive decisioni che gli arrecherebbero pregiudizio ove la propria esclusione fosse annullata”. In tali circostanze, “l’articolo 1, paragrafo 3, di tale direttiva non può essere interpretato nel senso che osta a che a un offerente quale il gruppo sia negata la possibilità di ricorrere avverso la decisione di aggiudicazione dell’appalto, poiché tale offerente deve essere considerato come un offerente definitivamente escluso ai sensi dell’articolo 2 bis, paragrafo 2, secondo comma, di detta direttiva”. Tutto ciò considerato, si deve rispondere alla questione sollevata dichiarando che l’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 89/665 dev’essere interpretato nel senso che esso “non osta a che a un offerente escluso da una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico con una decisione dell’amministrazione aggiudicatrice divenuta definitiva sia negato l’accesso ad un ricorso avverso la decisione di aggiudicazione dell’appalto pubblico di cui trattasi e la conclusione del contratto, allorché a presentare offerte siano stati unicamente l’offerente escluso e l’aggiudicatario e detto offerente sostenga che anche l’offerta dell’aggiudicatario avrebbe dovuto essere esclusa”. EF
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Inserito in data 05/01/2017 TAR LOMBARDIA - BRESCIA, SEZ. I - 4 gennaio 2017, n. 15 Atti gestionali e questioni di giurisdizione La pronuncia in esame è significativa perché esamina con attenzione la fattispecie di cui all’articolo art. 63, comma 1, del D.Lgs. n. 165/2001, che così dispone “Sono devolute al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, ad eccezione di quelle relative ai rapporti di lavoro di cui al comma 4, incluse le controversie concernenti l'assunzione al lavoro, il conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali e la responsabilità dirigenziale, nonché quelle concernenti le indennità di fine rapporto, comunque denominate e corrisposte, ancorché vengano in questione atti amministrativi presupposti….”. Nell’odierna fattispecie, infatti, il Collegio lombardo accoglie il difetto di giurisdizione amministrativa, come sollevato da parte resistente e dispone la rimessione dinanzi all’Autorità giurisdizionale ordinaria – ex art. 11 – II comma – C.p.A. Il contenzioso, infatti, è stato avviato per effetto dell’impugnativa di un atto emesso dal Responsabile della Struttura di Prevenzione della Corruzione e Trasparenza dell’Amministrazione resistente, con cui era stata richiesta la messa a disposizione di fascicoli e atti. Come tale, questo non ha natura autoritativa perché non è atto di macro – organizzazione e, quindi, non è espressione di un potere provvedimentale ma, meramente gestionale. Pertanto, la relativa questione va rimessa alla giurisdizione ordinaria – stando anche alla lettera del sopra citato articolo 63 T.U. P.I. Ai Giudici bresciani, dunque, non resta che sancire l’inammissibilità del ricorso per difetto di giurisdizione e disporre la traslatio iudicii – ex art. 11 – II comma – C.p.A. CC
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Inserito in data 04/01/2017 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 30 dicembre 2016, n. 5547 Atti di destinazione urbanistica e tutela dell’affidamento del privato Oggetto della sentenza in esame è la legittimità degli atti di formazione e approvazione di un piano regolatore generale, nella parte in cui viene impressa ad uno specifico suolo una determinata destinazione urbanistica, comportante un regime urbanistico ritenuto meno favorevole dal proprietario dello stesso terreno. Più in dettaglio, il suddetto proprietario (una società di costruzioni), avendo visto integralmente respinto il proprio ricorso in primo grado - e giudicate infondate o inammissibili tutte le numerose censure con lo stesso ricorso articolate - lamenta, dinanzi al Consiglio di Stato, l’omessa pronuncia da parte del primo giudice adito riguardo a due specifiche doglianze: in primo luogo la lesione della posizione di affidamento qualificato consolidatasi in capo alla stessa società per effetto del più favorevole regime discendente da una convenzione urbanistica, sottoscritta nel lontano 1934, ma rimasta in vigore in quanto espressamente fatta salva dal previgente P.R.G. nonché dalle successive varianti; secondariamente la illegittima disparità di trattamento fra la destinazione impressa al suolo in questione e quella stabilita per altri suoli (considerati dall’azienda costruttrice simili a quello di sua proprietà) rispetto ai quali è stata prevista, in via transitoria, la perdurante efficacia dei previgenti strumenti urbanistici esecutivi già approvati e non ancora decaduti. Orbene, la Quarta Sezione del Consiglio di Stato, con la sentenza in commento, nel dichiarare l’appello infondato, richiama preliminarmente il granitico indirizzo giurisprudenziale (sul quale anche il giudice di primo grado ha fondato la sua decisione) secondo cui “l’esistenza di una precedente diversa previsione urbanistica non comporta per l’Amministrazione la necessità di fornire particolari spiegazioni sulle ragioni delle differenti scelte operate, anche quando queste siano nettamente peggiorative per i proprietari e per le loro aspettative, dovendosi in tali casi dare prevalente rilievo all’interesse pubblico che le nuove scelte pianificatorie intendono perseguire; più specificamente, la mera esistenza, nella pianificazione previgente, di una destinazione urbanistica più favorevole al proprietario non è circostanza sufficiente a fondare in capo a quest’ultimo quell’aspettativa qualificata la cui sussistenza imporrebbe all’Amministrazione un obbligo di più puntuale e specifica motivazione rispetto a quella, di regola sufficiente, basata sul richiamo alle linee generali di impostazione del piano” (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 23 giugno 2015, nr. 3142; in termini, Cons. Stato, sez. IV, 7 aprile 2015, nr. 1767; id., 18 novembre 2014, nr. 5661; id., 31 luglio 2014, nr. 4042; id., 25 giugno 2013, nr. 3476; id., 26 ottobre 2012, nr. 5492; id., 15 maggio 2012, nr. 2759). “Le uniche evenienze”, continua il Collegio, “che richiedono una più incisiva e singolare motivazione degli strumenti urbanistici generali sono date dal superamento degli standards minimi di cui al d.m. 2 aprile 1968, nr. 1444, con riferimento alle previsioni urbanistiche complessive di sovradimensionamento, indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona di determinate aree, dalla lesione dell’affidamento qualificato del privato, derivante da convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi fra il Comune e i proprietari delle aree, aspettative nascenti da giudicati di annullamento di concessioni edilizie o di silenzio rifiuto su una domanda di concessione e, infine, dalla modificazione in zona agricola della destinazione di un’area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo” (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 14 maggio 2015, nr. 2453; id., nr. 4042/2014, cit.; id., 4 dicembre 2013, nr. 5765; id., 18 novembre 2013, nr. 5453). Passando ad esaminare i singoli motivi di gravame, il Supremo Consesso con riferimento alla prima doglianza afferma che, pur ammettendo la perdurante efficacia del contenuto della convenzione del 1934 - per essere stato (tale contenuto) fatto salvo dal previgente P.R.G. e recepito dalle successive varianti che ne hanno fatto proprie le prescrizioni urbanistiche, le quali pertanto sono rimaste valide ed efficaci fino al sopravvenire del nuovo P.R.G. - ciò non comporta “automaticamente il permanere in capo agli originari sottoscrittori privati della convenzione, ovvero ai loro aventi causa, di una posizione di affidamento qualificato” nel senso più sopra chiarito dallo stesso Collegio. In altri termini, continua la Quarta Sezione, ciò che è sopravvissuto fino all’attuale piano regolatore non è la convenzione urbanistica in se e per se, bensì la destinazione urbanistica da questa originariamente impressa, per la quale però ormai, una volta esauriti gli effetti obbligatori dell’iniziale accordo (del 1934), occorre far riferimento come fonte non più a quest’ultimo, ma ai successivi atti di pianificazione che ne hanno recepito il contenuto. Pertanto, conclude il Consiglio di Stato, se è indubitabile che fino al sopravvenire dell’odierno P.R.G. il suolo in questione era effettivamente ancora soggetto alla più favorevole destinazione risalente alla convenzione del 1934, ciò non comporta che la società appellante si trovi, rispetto alle nuove scelte di pianificazione del Comune, in una posizione diversa e più qualificata rispetto a quella di quisque de populo, in modo da poter esigere una più puntuale e articolata motivazione a sostegno delle dette scelte. Riguardo al secondo motivo di gravame - posto che la parte appellante chiarisce di non aver inteso lamentare in astratto l’illegittimità del diverso regime previsto dal P.R.G., ma più semplicemente di aver sostenuto l’incongruità dell’inclusione del suolo di sua proprietà in una tipologia anziché nell’altra (sottoposta ad un più favorevole regime urbanistico), alla luce delle concrete caratteristiche del suolo medesimo - il Supremo Consesso afferma che, “così intesa, la doglianza costituisce null’altro che la riproposizione in veste diversa di una critica nel merito alle scelte pianificatorie del Comune, delle quali si è già ampiamente visto quale sia il ristrettissimo margine di ammissibilità in sede giurisdizionale; in questa sede, può aggiungersi solo che evidentemente le destinazioni di zona individuate dal Comune in sede di pianificazione dipendono dalla considerazione delle caratteristiche di fatto e delle potenzialità di sviluppo urbanistico delle porzioni di territorio globalmente considerate, ciò che esclude in via di principio che il proprietario di un singolo suolo possa pretendere un trattamento differenziato “puntuale” per il proprio terreno in ragione di sue specifiche caratteristiche: con la sola possibile eccezione di situazioni di affidamento qualificato, che si è già visto non sussistere nel caso di specie”. 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Inserito in data 03/01/2017 TAR LAZIO - ROMA, SEZ. I TER, 30 dicembre 2016, n. 12873 Il costo medio del lavoro indicato nelle tabelle ministeriali ha funzione indicativa In ordine al giudizio di anomalia dell’offerta, deve premettersi che i vizi “devono essere valutati alla stregua dei principi generali che sovrintendono al sindacato giurisdizionale sulla cd. discrezionalità tecnica, che può essere contestata (e valutata dal giudice) solo ed esclusivamente sotto il profilo dell'attendibilità del giudizio dell'Amministrazione quanto a norme tecniche applicate e al relativo procedimento applicativo”. In particolare, nel caso posto al suo esame, il Collegio ritiene che il giudizio di anomalia svolto dalla stazione appaltante sull’offerta dell’aggiudicataria sia giunto a violare il principio di ragionevolezza tecnica “con particolare riguardo alle valutazioni del costo della manodopera e del costo dei prodotti”. A tal uopo, osserva che il quadro normativo “non risulta mutato con l’entrata in vigore del nuovo codice degli appalti, di cui al d. lgs . n. 50/2016, che, benché non si applichi alla procedura in questione (bandita prima della sua entrata in vigore), costituisce un indubbio parametro interpretativo di riferimento”. La disposizione di cui all’art. 97, comma 5, lett. d), d. lgs. n. 50/2016, appare, a tale riguardo, erroneamente formulata laddove afferma che l’offerta è anormalmente bassa e, quindi, deve essere esclusa, quando “il costo del personale è inferiore ai minimi salariali retributivi indicati nelle apposite tabelle di cui all’art. 23, comma 14” (rectius, comma 16): la tabelle di cui all’art. 23, comma 16, infatti, non sono altro che le tabelle già previste, con disposizione perfettamente sovrapponibile, dall’art. 86, comma 3bis, d. lgs. n. 163/2006 secondo cui “il costo del lavoro è determinato periodicamente, in apposite tabelle, dal Ministro del lavoro e della previdenza sociale, sulla base dei valori economici previsti dalla contrattazione collettiva stipulata dai sindacati comparativamente più rappresentativi, delle norme in materia previdenziale ed assistenziale, dei diversi settori merceologici e delle differenti aree territoriali. In mancanza di contratto collettivo applicabile, il costo del lavoro è determinato in relazione al contratto collettivo del settore merceologico più vicino a quello preso in considerazione.” Ebbene, “le tabelle ministeriali, predisposte sulla base dei valori economici dalla norma elencati, stabiliscono il costo medio orario del lavoro che è cosa ben diversa dal trattamento minimo salariale stabilito dalla legge o dalla contrattazione collettiva, al quale solo si riferisce la previsione d’inderogabilità di cui all’art. 97, comma 6, d. lgs. n. 50/2016 e all’art. 87, comma 3, d. lgs. n. 163/2006”. Sulla base di tali considerazioni la giurisprudenza è giunta così ad affermare, con orientamento non solo consolidato ma di perdurante valore, a parere di questo collegio, anche sotto la vigenza del nuovo codice appalti, “che i costi medi della manodopera, indicati nelle tabelle ministeriali, non assumono valore di parametro assoluto ed inderogabile, ma svolgono una funzione indicativa, suscettibile di scostamento in relazione a valutazioni statistiche ed analisi aziendali evidenzianti una particolare organizzazione in grado di giustificare la sostenibilità di costi inferiori “(Cons. Stato Sez. V, 13 marzo 2014, n. 1176; cfr. Cons. St., sez. V, 14 giugno 2013, n. 3314 e sez. IV, 22 marzo 2013, n. 1633). Pertanto, posto che esse esprimono solo una funzione di parametro di riferimento, è “possibile discostarsi da tali costi, in sede di giustificazioni dell'anomalia, sulla scorta di una dimostrazione puntuale e rigorosa (cfr. T.A.R. Roma, sez. II, 05 agosto 2016, n. 9182). Dimostrazione, si aggiunge, che dovrebbe essere tanto più rigorosa quanto maggiore è lo scostamento dai costi medi tabellari”. EF
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Inserito in data 02/01/2017 TAR CAMPANIA – SALERNO, SEZ. I, 2 gennaio 2017, n. 10 Le cause di esclusione dalla gara per illeciti professionali nel Nuovo Codice dei Contratti La questione agitata in ricorso involge il tema, dal rilevante spessore ermeneutico, dei requisiti morali di partecipazione ad una gara d’appalto. Nella specie, si controverte sulla riconducibilità alle cause di esclusione per violazione dei doveri professionali della sanzione irrogata alla ditta ricorrente. Sebbene l’esclusione dei partecipanti dalla gara trovi nell’art. 80 del D.Lgs. n. 50/2016 (recante il nuovo Codice dei contratti pubblici) un’articolata disciplina normativa - che detta, peraltro, ipotesi tassative di esclusione – questa non è del tutto scevra da profili di discrezionalità ascrivibili alle stazioni appaltanti, specie ove si tratti di esclusione per difetto dei requisiti morali. Osserva il Collegio che “il quadro normativo che connota l’ampia tematica dei requisiti di ordine generale è storicamente caratterizzato da profili di discrezionalità delle stazioni appaltanti, ancorché collocati nella fase nevralgica delle ammissioni/esclusioni dalla gara, che affondano le loro radici nella stessa disciplina comunitaria, anch’essa incline a configurare, sia pure entro certi limiti, diaframmi di discrezionalità in capo alle amministrazioni giudicatrici, segnatamente nelle ipotesi di cosiddetta esclusione discrezionale dalla gara”. La ratio della norma di cui all’art. 80 risiede appunto nell’esigenza di verificare l’affidabilità complessivamente considerata dell’operatore economico che andrà a contrarre con la p.a. per evitare, a tutela del buon andamento dell’azione amministrativa, che quest’ultima entri in contatto con soggetti privi di affidabilità morale e professionale. Invero, la norma in esame ripropone il contenuto dell’art. 38 del d.lgs. n. 163/2006 (il vecchio codice dei contratti pubblici), apportando però significative modifiche al testo originario anche per quanto attiene al più specifico ambito dei comportamenti incidenti sulla moralità professionale delle imprese concorrenti. Va tuttavia ribadito che spiragli di discrezionalità in favore delle stazioni appaltanti attengono non alla individuazione delle fattispecie espulsive – che senz’altro compete al legislatore, in materia di requisiti generali, secondo una elencazione da considerare tassativa – bensì alla riconduzione della fattispecie concreta a quella astratta, siccome descritta genericamente mediante l’uso di concetti giuridici indeterminati. Ad avviso del Collegio, nel caso in esame, la sanzione irrogata dall’AGCM, ritenuta dalla stazione appaltante quale causa di esclusione dalla gara, non può essere astrattamente ricondotta alla norma di cui all’art. 80 laddove discorre di “altre sanzioni” tra le conseguenze che possono derivare dalla violazione dei doveri professionali e, segnatamente, dalle “significative carenze nell'esecuzione di un precedente contratto di appalto o di concessione”. Ricordando quanto precisato nel parere n. 2286 del 3 novembre 2016 dalla commissione speciale del Consiglio di Stato sulle redigende linee guida ANAC, ossia che <<possono essere considerate come “altre sanzioni”, l’incameramento delle garanzie di esecuzione o l’applicazione di penali, fermo che la sola applicazione di una clausola penale non è di per sé sintomo di grave illecito professionale, specie nel caso di applicazione di penali in misura modesta >>, il TAR rileva come nel predetto ventaglio di ipotesi escludenti non possono tuttavia rientrarvi anche i comportamenti anti-concorrenziali, poiché estranei al novero delle fattispecie ritenute rilevanti dal legislatore. Inoltre, ogni interpretazione estensiva o analogica sarebbe da escludere, poiché risulterebbe in contrasto con le esigenze di favor partecipationis che ispirano l’ordinamento in subiecta materia. Ritiene, quindi, il Collegio che “l’irrogazione di una sanzione da parte dell’Authorithy Antitrust non può consolidare alcuna fattispecie escludente di conio normativo e pertanto si configura la lamentata violazione del principio di tassatività delle cause di esclusione.” Inoltre, il disegno normativo che è dato cogliere dalla lettura dell’art. 80 del nuovo plesso normativo sembra escludere, in termini tendenziali, ogni forma di automatismo escludente derivante dalla perpetrazione delle condotte in grado di incidere sulla moralità professionale, contemplando, “in maniera innovativa rispetto al codice previgente, un meccanismo per così dire riabilitativo, cd. self cleaning “. Ad avviso del TAR, tanto è sufficiente per l’accoglimento del gravame e, dunque, per l’annullamento dell’atto impugnato, con conseguente obbligo della stazione appaltante di riammettere la ditta ricorrente alla gara. DU
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Inserito in data 31/12/2016 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 28 dicembre 2016, n. 5488 Soccorso istruttorio su elementi essenziali ai fini della partecipazione alla gara “Nell’ambito dei procedimenti ad evidenza pubblica finalizzati all’affidamento di un contratto, il soccorso istruttorio non può essere utilizzato per sopperire a dichiarazioni (riguardanti elementi essenziali ai fini della partecipazione) radicalmente mancanti – pena la violazione della par condicio fra concorrenti - ma soltanto per chiarire o completare dichiarazioni o documenti già comunque acquisiti agli atti di gara (Cons. Stato, A. P., 25/2/2014, n. 9; Sez. V, 12/10/2016, n. 4219; 15/7/2016, n. 3153; 21/7/2015, n. 3605; 25/2/2015, n. 927; Sez. III, 24/11/2016, n. 4930; 17/11/2015, n. 5249; Sez. IV, 15/9/2015, n. 4315).” Pertanto, non è possibile “ovviare all’omessa produzione di documentazione essenziale ai fini dell’ammissione alla gara (dichiarazioni concernenti il possesso dei requisiti generali) mediante il ricorso al soccorso istruttorio […] perché il rimedio in parola non può essere utilizzato […] per sanare la mancanza di dichiarazioni o documentazione da allegare, a pena di esclusione, alla domanda di partecipazione.” GB
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Inserito in data 30/12/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA - 19 dicembre 2016, n. 5373 Impiego di medicinali c.d. off label con oneri a carico del SSN, rimessione alla CGUE Con l’ordinanza in esame il Consiglio di Stato rimette alla Corte di Giustizia una questione interpretativa relativa alla compatibilità della normativa italiana in materia di impiego di medicinali c.d. off label con oneri a carico del SSN, rispetto alle direttive europee disciplinanti l’autorizzazione alla immissione in commercio di farmaci per uso umano. La vicenda trae origine da una controversia - insorta tra due case farmaceutiche concorrenti - concernente l’impiego dei farmaci c.d. off label ovvero dei farmaci che il medico, basandosi sul principio fondamentale di libertà di giudizio e di indipendenza della scelta terapeutica, può prescrivere, quando lo ritenga utile per la salute del paziente, secondo una indicazione terapeutica diversa rispetto a quella per la quale detto farmaco ha ottenuto l’autorizzazione all’immissione in commercio (“AIC”) e che risulta riportata nel “Riassunto delle Caratteristiche del Prodotto” “RCP. Precisamente la materia del contendere riguarda delle delibere dell’AIFA con le quali (verosimilmente per ragioni di risparmio economico) un determinato medicinale, commercializzato da una casa farmaceutica, è stato inserito nella c.d. “lista 648”, consentendone il rimborso da parte del servizio sanitario nazionale (SSN) per l’utilizzo off- label nella cura di una malattia, nonostante sia presente in commercio altro farmaco, commercializzato da altra società e registrato espressamente per la cura di tale patologia. Orbene, in passato (l. 23 dicembre 1996, n. 648) l’impiego dei farmaci off label poteva avvenire con oneri a carico del SSN mediante inserimento in un elenco speciale definito “lista 648” con provvedimento dell’AIFA , ma solo in caso di “inesistenza di una valida alternativa terapeutica”. A seguito della modifica normativa introdotta dalla l. n. 79 del 2014, è oggi possibile per l’AIFA inserire nella “lista 648” – e dunque con oneri a carico del servizio sanitario nazionale – farmaci utilizzabili con un’indicazione terapeutica diversa da quella per la quale sono stati autorizzati, nonostante esistano in commercio altri farmaci autorizzati per la cura di quella specifica patologia. Attraverso l’ordinanza in commento, il Supremo Consesso prospetta che l’attuale sistema di sostanziale fungibilità tra farmaco registrato per una specifica finalità terapeutica (c.d. on label) ed utilizzo off label di altro farmaco possa contrastare con le direttive comunitarie che disciplinano il procedimento di autorizzazione alla immissione in commercio di farmaci per uso umano, tenuto conto che il farmaco off label è formalmente privo della autorizzazione in relazione all’impiego alternativo che si intende fare. Nello specifico, la Terza Sezione configura la possibile violazione del principio comunitario dell’essenzialità ed inderogabilità dell’AIC sancito dell’art. 6, comma 1, della Direttiva 2001/83/CE, posto che la portata generalizzata del principio di fungibilità introdotto dalla normativa italiana non consentirebbe di ritenere applicabili le eccezioni -previste per casi specifici- di cui all’art. 3 della direttiva (formule galeniche e magistrali, preparate in farmacia, farmaci utilizzati per prove e ricerche, medicinali per terapie avanzate preparate su base non ripetitiva) e di cui all’art. 5, comma 1, della stessa direttiva (che consente allo Stato membro, “conformemente alla legislazione in vigore e per rispondere ad esigenze speciali” di poter “escludere nell’ambito dell’applicazione della presente direttiva i medicinali forniti per rispondere ad un’ordinazione leale e non sollecitata, elaborati conformemente alle prescrizioni di un operatore sanitario autorizzato e destinati ad un determinato paziente sotto la sua personale e diretta responsabilità”). A sostegno delle proprie argomentazioni il Consiglio di Stato richiama anche un precedente in cui la stessa Corte di Giustizia - pronunciandosi sull’interpretazione dell’art. 3 n. 1 della direttiva 2001/83/CE, riferito alla cosiddetta “formula magistrale”- ha ritenuto che i medicinali devono essere preparati “in farmacia” “in base alle indicazioni di una farmacopea” e “destinati ad essere forniti direttamente ai pazienti che si servono in tale farmacia” precisando che tali condizioni devono sussistere cumulativamente. Alla luce delle suesposte considerazioni, il Supremo Consesso ha, quindi, investito la Corte di Giustizia della UE delle seguenti specifiche questioni : “Se le disposizioni di cui alla Direttiva 2001/83/CE, come successivamente modificata, e segnatamente gli articoli 5 e 6, in relazione anche al secondo considerando della direttiva stessa, ostino all’applicazione di una legge nazionale (il più volte citato art. 1, comma 4-bis del decreto legge) che, al fine di perseguire finalità di contenimento di spesa, incentivi, attraverso l’inclusione nella lista dei medicinali rimborsabili dal servizio sanitario nazionale, l’utilizzazione di un farmaco al di fuori della indicazione terapeutica autorizzata nei confronti della generalità dei pazienti, indipendentemente da qualsiasi considerazione delle esigenze terapeutiche del singolo paziente e nonostante l’esistenza e la disponibilità sul mercato di farmaci autorizzati per la specifica indicazione terapeutica; Se l’art. 3 n. 1 della Direttiva 2001/83/CE (formula magistrale), possa applicarsi nel caso in cui la preparazione del prodotto farmaceutico, benché eseguita in farmacia sulla base di una prescrizione medica destinata ad un singolo paziente, sia comunque effettuata serialmente, in modo eguale e ripetuto, senza tener conto delle specifiche esigenze del singolo paziente, con dispensazione del prodotto alla struttura ospedaliera e non al paziente (tenuto conto che il farmaco è classificato in classe H-OSP) e con utilizzazione in una struttura anche diversa da quella in cui è stato operato il confezionamento; Se le disposizioni di cui al Regolamento (CE) n. 726/2004, come successivamente modificato, e segnatamente gli articoli 3, 25 e 26, nonché l’allegato, che assegnano all’Agenzia europea per i medicinali (EMA) la competenza esclusiva a valutare i profili di qualità, sicurezza ed efficacia dei medicinali aventi come indicazione terapeutica il trattamento di patologie oncologiche, sia nell’ambito della procedura di rilascio dell’autorizzazione all’immissione in commercio (Procedura centralizzata obbligatoria), sia al fine del monitoraggio e del coordinamento delle azioni di farmacovigilanza successive all’immissione del farmaco sul mercato, ostino all’applicazione di una legge nazionale che riservi all’autorità regolatoria nazionale (AIFA) la competenza ad assumere determinazioni in merito ai profili di sicurezza dei medicinali, connessi al loro uso off-label, la cui autorizzazione rientra nella competenza esclusiva della Commissione Europea, in considerazione delle valutazioni tecnico scientifiche effettuate dall’Agenzia europea per i medicinali (EMA); Se le disposizioni di cui alla Direttiva 89/105/CEE, come successivamente modificata, e segnatamente l’art. 1 par. 3), ostino all’applicazione di una legge nazionale che consenta allo Stato membro, nell’ambito delle proprie decisioni in materia di rimborsabilità delle spese sanitarie sostenute dall’assistito, di prevedere la rimborsabilità di un farmaco utilizzato al di fuori delle indicazioni terapeutiche precisate nell’autorizzazione all’immissione in commercio rilasciata dalla Commissione Europea, o da un’Agenzia specializzata europea, all’esito di una procedura di valutazione centralizzata, senza che ricorrano i requisiti previsti dagli art. 3 e 5 della direttiva 2001/83/CE”. 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Inserito in data 29/12/2016 TAR LAZIO, ROMA - SEZIONE SECONDA, DECRETO CAUTELARE 28 dicembre 2016, n. 8302 Divieto di uso di materiale esplodente, illegittima l’ordinanza sindacale I Giudici romani, con decreto cautelare, manifestano parere contrario rispetto a quanto statuito – in sede di ordinanza contingibile – dal primo Cittadino capitolino. In particolare, rinviando alla trattazione del merito alla data del 25 gennaio 2017, il Collegio accoglie l’istanza cautelare di una serie di ditte produttrici di materiale pirotecnico – parti ricorrenti nel presente contenzioso. Si ritiene, infatti, che l’ordinanza emessa dal Sindaco romano – pur essendo contingibile ed urgente – sia carente della dovuta istruttoria, così come del sufficiente, necessario apparato motivazionale. Se ne desume, pertanto, l’illegittimità e, per l’effetto, viene meno l’inibitoria – ritenuta presuntivamente generica ed immotivata - circa l’utilizzo di materiale esplodente disposta con il provvedimento sindacale qui impugnato. CC
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Inserito in data 28/12/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 22 dicembre 2016, n. 5423 Nell’avvalimento di garanzia è il fatturato l’indice significativo Con la sentenza in esame, la Quinta Sezione, chiamata a pronunciarsi sulla necessità di indicare nel contratto di avvalimento gli elementi organizzativi dell’azienda ausiliaria, ritiene che in relazione al cd. avvalimento di garanzia tale indicazione non sia necessaria. Prendendo le mosse dalla consolidata giurisprudenza del Consiglio di Stato sul punto, il Supremo Consesso afferma che nel caso di avvalimento avente ad oggetto il fatturato, non implicando esso necessariamente il coinvolgimento di aspetti specifici dell’organizzazione della impresa, è verosimile la possibilità che siffatti aspetti non siano specificati in contratto (in questo senso: Cons. Stato, III, 17 novembre 2015, n. 5703, 4 novembre 2015, nn. 5038 e 5041, 2 marzo 2015, n. 1020, 6 febbraio 2014, n. 584; IV, 29 febbraio 2016, n. 812). In ordine a questo decisivo profilo, ad avviso del Collegio, occorre innanzitutto richiamare l’art. 217 del D.Lgs n. 50/2016 (corrispondente agli artt. 41 e 42 del vecchio codice degli appalti). In particolare, la prima delle citate disposizioni, relativa alla «Capacità economica e finanziaria dei fornitori e dei prestatori di servizi» include tra essi non solo «il fatturato globale d’impresa», ma anche quello «relativo ai servizi o forniture nel settore oggetto della gara» (comma 1, lett. c). Altri sono invece i requisiti di capacità «tecnica e professionale» previsti dal successivo art. 42. Dall’orientamento sopra richiamato deriva che, allorquando un’impresa intenda avvalersi dei requisiti finanziari di un’altra, «la prestazione è costituita non già dalla messa a disposizione da parte dell’impresa ausiliaria di strutture organizzative e mezzi ‘materiali’, ma dal suo impegno a “garantire” con le proprie complessive risorse economiche - il cui indice è costituito dal fatturato - l’impresa ‘ausiliata’», e cioè «il suo valore aggiunto in termini di “solidità finanziaria” e di acclarata “esperienza di settore», dei quali il fatturato costituisce indice significativo (Cons. Stato, III, 4 novembre 2015, nn. 5038 e 5041, 2 ottobre 2015, n. 4617, 6 febbraio 2014, n. 584). In relazione alla carente allegazione rilevata nel caso oggetto della controversia in esame, la Quinta Sezione, ponendosi nel solco di una recente Adunanza plenaria - sentenza 4 novembre 2016, n. 23 - ha statuito che l’indagine in ordine agli elementi essenziali del contratto di avvalimento «deve essere svolta sulla base delle generali regole sull’ermeneutica contrattuale» ed in particolare deve essere svolta secondo i canoni enunciati dal codice civile di interpretazione complessiva e secondo buona fede delle clausole contrattuali (artt. 1363 e 1367). A siffatto principio questo Collegio soggiunge che analoga prospettiva interpretativa deve essere osservata per quanto riguarda le clausole del bando e del disciplinare di gara riguardanti i requisiti speciali di partecipazione suscettibili di avvalimento, tenendo conto dell’ampio ambito sull’istituto dell’avvalimento, in modo da approcciarsi alla questione della determinabilità del contratto ex art. 49 d.lgs. n. 163 del 2006, evitando di incorrere in aprioristici schematismi concettuali che possano irrigidire in modo irragionevole la disciplina sostanziale della gara (in questo specifico senso: Cons. Stato, V, 22 ottobre 2015, n. 4860). Quindi, in ordine a questo decisivo profilo sarebbe stato onere del ricorrente incidentale enucleare dalla normativa di gara specifiche indicazioni, sulla base delle quali ritenere che il requisito in questione, malgrado il suo ancoraggio al fatturato, avesse in realtà una connotazione squisitamente tecnico-operativa, correlata ad una ben individuata organizzazione produttiva da mettere a disposizione per l’esecuzione del servizio. Ciò non è tuttavia avvenuto, poiché il controinteressato (aggiudicatario), limitandosi tuttavia ad affermare in modo apodittico che il fatturato specifico ha natura di requisito di capacità tecnico-professionale, non ha assolto l’onere ex art. 2697c.c. di connotare il requisito in contestazione di caratteristiche prettamente tecniche ed operative, tali da ritenere insufficiente l’indicazione del fatturato specifico. Su questo punto, il Consiglio di Stato accoglie il ricorso, riformando solo in parte la sentenza di primo grado. DU
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Inserito in data 27/12/2016 CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 21 dicembre 2016, n. 286 I genitori possono attribuire - di comune accordo - anche il cognome materno Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte Costituzionale dichiara fondata la questione di legittimità costituzionale “della norma − desumibile dagli artt. 237, 262 e 299 cod. civ. e dagli artt. 33 e 34 del d.P.R. n. 396 del 2000 – che prevede l’automatica attribuzione del cognome paterno al figlio nato in costanza di matrimonio, in presenza di una diversa contraria volontà dei genitori”. Invero, “l’esistenza della norma censurata e la sua perdurante immanenza nel sistema, desumibili dalle disposizioni che implicitamente la presuppongono, è stata già riconosciuta dalla giurisprudenza costituzionale, nelle precedenti occasioni in cui ne è stata denunciata l’illegittimità (sentenze n. 61 del 2006 e n. 176 del 1988; ordinanze n. 145 del 2007 e n. 586 del 1988). In queste pronunce, la Corte ha riconosciuto l’esistenza di tale norma, in quanto presupposta dalle medesime disposizioni, regolatrici di fattispecie diverse, individuate dall’odierno rimettente (artt. 237, 262 e 299 cod. civ., nonché artt. 33 e 34 del d.P.R. n. 396 del 2000)”. Sebbene essa non abbia trovato corpo in una disposizione espressa, ancora una volta, “non vi è ragione di dubitare dell’attuale vigenza e forza imperativa della norma, in base alla quale il cognome del padre si estende ipso iure al figlio”. Nello stesso senso si è espressa anche la giurisprudenza di legittimità, sia precedente, sia successiva alle richiamate pronunce di questa Corte, laddove ha riconosciuto che – da tali pur eterogenee previsioni – si desume l’esistenza di una norma che, sebbene non prevista testualmente nell’ambito di alcuna disposizione, è ugualmente presente nel sistema e «certamente si configura come traduzione in regola dello Stato di un’usanza consolidata nel tempo» (Cass., sez. I, 17 luglio 2004, n. 13298; v. anche Cass., sez. I, 22 settembre 2008, n. 23934). Ciò posto, “va rilevato che già in precedenti occasioni questa Corte ha esaminato la disciplina della prevalenza del cognome paterno, al momento della sua attribuzione al figlio, ma ha dichiarato inammissibili le relative questioni, ritenendole riservate alla discrezionalità del legislatore, nell’ambito di una rinnovata disciplina. Tuttavia, già nell’ordinanza n. 176 del 1988, è stato espressamente riconosciuto che «sarebbe possibile, e probabilmente consentaneo all’evoluzione della coscienza sociale, sostituire la regola vigente in ordine alla determinazione del nome distintivo dei membri della famiglia costituita dal matrimonio con un criterio diverso, più rispettoso dell’autonomia dei coniugi, il quale concilii i due principi sanciti dall’art. 29 Cost., anziché avvalersi dell’autorizzazione a limitare l’uno in funzione dell’altro» (v. anche ordinanza n. 586 del 1988). Diciotto anni dopo, con ancora maggiore fermezza, nella sentenza n. 61 del 2006, in considerazione dell’immutato quadro normativo, questa Corte ha espressamente rilevato l’incompatibilità della norma in esame con i valori costituzionali della uguaglianza morale e giuridica dei coniugi. Tale sistema di attribuzione del cognome, infatti, è definito come il «retaggio di una concezione patriarcale della famiglia, la quale affonda le proprie radici nel diritto di famiglia romanistico, e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna»”. A distanza di molti anni da queste pronunce, un «criterio diverso, più rispettoso dell’autonomia dei coniugi», non è ancora stato introdotto. Neppure il decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 (Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell’articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219), con cui il legislatore ha posto le basi per la completa equiparazione della disciplina dello status di figlio legittimo, figlio naturale e figlio adottato, riconoscendo l’unicità dello status di figlio, “ha scalfito la norma oggi censurata”. Pur essendo stata modificata la disciplina del cambiamento di cognome – con l’abrogazione degli artt. 84, 85, 86, 87 e 88 del d.P.R. n. 396 del 2000 e l’introduzione del nuovo testo dell’art. 89, ad opera del d.P.R. 13 marzo 2012, n. 54 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’art. 2, comma 12, della L. 15 maggio 1997, n. 127) – “le modifiche non hanno attinto la disciplina dell’attribuzione “originaria” del cognome, effettuata al momento della nascita”. Va, d’altro canto, rilevata “un’intensa attività preparatoria di interventi legislativi volti a disciplinare secondo nuovi criteri la materia dell’attribuzione del cognome ai figli. Allo stato, tuttavia, essi risultano ancora in itinere”. Nella famiglia fondata sul matrimonio rimane così tuttora “preclusa la possibilità per la madre di attribuire al figlio, sin dalla nascita, il proprio cognome, nonché la possibilità per il figlio di essere identificato, sin dalla nascita, anche con il cognome della madre”. Orbene, “la Corte ritiene che siffatta preclusione pregiudichi il diritto all’identità personale del minore e, al contempo, costituisca un’irragionevole disparità di trattamento tra i coniugi, che non trova alcuna giustificazione nella finalità di salvaguardia dell’unità familiare”. Quanto al primo profilo di illegittimità, va rilevato che “la distonia di tale norma rispetto alla garanzia della piena realizzazione del diritto all’identità personale, avente copertura costituzionale assoluta, ai sensi dell’art. 2 Cost., risulta avvalorata nell’attuale quadro ordinamentale”. Il valore dell’identità della persona, nella pienezza e complessità delle sue espressioni, e la consapevolezza della valenza, pubblicistica e privatistica, del diritto al nome, quale punto di emersione dell’appartenenza del singolo ad un gruppo familiare, “portano ad individuare nei criteri di attribuzione del cognome del minore profili determinanti della sua identità personale, che si proietta nella sua personalità sociale, ai sensi dell’art. 2 Cost.”. È proprio in tale prospettiva che questa Corte aveva, da tempo, riconosciuto “il diritto al mantenimento dell’originario cognome del figlio, anche in caso di modificazioni del suo status derivanti da successivo riconoscimento o da adozione. Tale originario cognome si qualifica, infatti, come autonomo segno distintivo della sua identità personale (sentenza n. 297 del 1996), nonché «tratto essenziale della sua personalità» (sentenza n. 268 del 2002; nello stesso senso, sentenza n. 120 del 2001)”. Il processo di valorizzazione del diritto all’identità personale è culminato nella recente affermazione, da parte di questa Corte, del diritto del figlio a conoscere le proprie origini e ad accedere alla propria storia parentale, quale «elemento significativo nel sistema costituzionale di tutela della persona» (sentenza n. 278 del 2013). In questa stessa cornice si inserisce anche la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha ricondotto “il diritto al nome nell’ambito della tutela offerta dall’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950 e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848”. In particolare, nella sentenza Cusan Fazzo contro Italia, del 7 gennaio 2014, successiva all’ordinanza di rimessione in esame, la Corte di Strasburgo ha affermato che “l’impossibilità per i genitori di attribuire al figlio, alla nascita, il cognome della madre, anziché quello del padre, integra violazione dell’art. 14 (divieto di discriminazione), in combinato disposto con l’art. 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) della CEDU, e deriva da una lacuna del sistema giuridico italiano, per superare la quale «dovrebbero essere adottate riforme nella legislazione e/o nelle prassi italiane». La Corte EDU ha, altresì, ritenuto che tale impossibilità non sia compensata dalla successiva autorizzazione amministrativa a cambiare il cognome dei figli minorenni aggiungendo a quello paterno il cognome della madre”. La piena ed effettiva realizzazione del diritto all’identità personale, che nel nome trova il suo primo ed immediato riscontro, unitamente al riconoscimento del paritario rilievo di entrambe le figure genitoriali nel processo di costruzione di tale identità personale, impone “l’affermazione del diritto del figlio ad essere identificato, sin dalla nascita, attraverso l’attribuzione del cognome di entrambi i genitori”. Viceversa, “la previsione dell’inderogabile prevalenza del cognome paterno sacrifica il diritto all’identità del minore, negandogli la possibilità di essere identificato, sin dalla nascita, anche con il cognome materno”. Quanto al concorrente profilo di illegittimità, che risiede nella violazione del principio di uguaglianza dei coniugi, va rilevato che “il criterio della prevalenza del cognome paterno, e la conseguente disparità di trattamento dei coniugi, non trovano alcuna giustificazione né nell’art. 3 Cost., né nella finalità di salvaguardia dell’unità familiare, di cui all’art. 29, secondo comma, Cost.”. Come già osservato da questa Corte sin da epoca risalente, «è proprio l’eguaglianza che garantisce quella unità e, viceversa, è la diseguaglianza a metterla in pericolo», poiché l’unità «si rafforza nella misura in cui i reciproci rapporti fra i coniugi sono governati dalla solidarietà e dalla parità» (sentenza n. 133 del 1970). La perdurante violazione del principio di uguaglianza “morale e giuridica” dei coniugi, realizzata attraverso la mortificazione del diritto della madre a che il figlio acquisti anche il suo cognome, “contraddice, ora come allora, quella finalità di garanzia dell’unità familiare, individuata quale ratio giustificatrice, in generale, di eventuali deroghe alla parità dei coniugi, ed in particolare, della norma sulla prevalenza del cognome paterno”. Tale diversità di trattamento dei coniugi nell’attribuzione del cognome ai figli, in quanto espressione di una superata concezione patriarcale della famiglia e dei rapporti fra coniugi, “non è compatibile né con il principio di uguaglianza, né con il principio della loro pari dignità morale e giuridica”. Oltre a ritenere assorbita la censura relativa all’art. 117, primo comma, Cost., il Giudice delle Leggi osserva che, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), “la dichiarazione di illegittimità costituzionale va estesa, in via consequenziale, alla disposizione dell’art. 262, primo comma, cod. civ., la quale contiene tuttora – con riferimento alla fattispecie del riconoscimento del figlio naturale effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori – una norma identica a quella dichiarata in contrasto con la Costituzione dalla presente sentenza”. Anche tale disposizione va, pertanto, dichiarata illegittima, “nella parte in cui non consente ai genitori, di comune accordo, di trasmettere al figlio, al momento della nascita, anche il cognome materno”. Per le medesime ragioni, la dichiarazione di illegittimità costituzionale, ai sensi dell’art. 27 della legge n. 87 del 1953, va estesa, infine, “all’art. 299, terzo comma, cod. civ., per la parte in cui non consente ai coniugi, in caso di adozione compiuta da entrambi, di attribuire, di comune accordo, anche il cognome materno al momento dell’adozione”. Va, infine, rilevato che, in assenza dell’accordo dei genitori, “residua la generale previsione dell’attribuzione del cognome paterno, in attesa di un indifferibile intervento legislativo, destinato a disciplinare organicamente la materia, secondo criteri finalmente consoni al principio di parità”. EF
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Inserito in data 23/12/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, 23 dicembre 2016, n. 5488 Sulla autonomia funzionale degli avvocati dell’Inps e limiti al potere organizzativo discrezionale dell’Ente Con la decisione emarginata in epigrafe, la sesta sezione del Consiglio di Stato si pronuncia su una controversia coinvolgente, da un lato, la Federazione legali del Parastato, l’Associazione Nazionale Avvocati e Procuratori Inps nonché taluni avvocati interni dell’Ente (gli odierni appellanti) e, dall’altro, l’Inps e l’Associazione legali Inail (resistenti in secondo grado). Più precisamente, nel giudizio di primo grado (innanzi al T.A.R. Lazio) vengono impugnati tutti i provvedimenti adottati dall’Istituto di riorganizzazione degli uffici della sua avvocatura interna che hanno inciso sull’attività posta in essere dagli avvocati che compongono gli uffici legali dell’Ente; provvedimenti riguardanti lo status giuridico degli avvocati interni in relazione al potere di coordinamento affidato ai dirigenti amministrativi dell’Istituto nonché la esternalizzazione “per materia” quale conseguenza dell’affidamento ad avvocati “esterni” di taluni affari. Ciò posto, il Collegio dapprima ricostruisce il quadro normativo riguardante il rapporto di lavoro degli avvocati che svolgono la propria attività professionale presso gli enti pubblici, evidenziando così le peculiarità della posizione degli avvocati Inps (così come in generale degli avvocati degli enti pubblici), rispetto agli avvocati del libero foro, operando dunque una distinzione tra le due figure sia su un piano strutturale che su un piano funzionale. Ora, sotto il primo profilo, il Collegio afferma che “gli avvocati del libero foro stipulano con i clienti un contratto di prestazione d’opera professionale che è retto interamente dalle regole di diritto privato, con conseguente responsabilità secondo i principi civilistici. Gli avvocati degli enti pubblici, invece, stipulano, da un lato, un contratto di lavoro con l’ente pubblico, in veste di datore di lavoro, che li inserisce, con qualifiche di funzionario o dirigente, nell’organizzazione dell’ente, dall’altro, un contratto di prestazione d’opera professionale con il medesimo ente pubblico, in veste di “cliente unico”, con il quale viene conferito, secondo modalità dipendenti dalla tipologia di Ente che viene in rilievo, incarico di svolgere una determinata attività difensiva. Sul piano funzionale, l’attività che gli avvocati pongono in essere “risente della indicata duplicità di posizione strutturale, essendo necessario anche, in relazione a tale aspetto, distinguere due ambiti. Un primo ambito attiene allo svolgimento dell’attività professionale che deve essere eseguita in piena autonomia al fine di assicurare il rispetto delle regole che operano per tutti gli avvocati, con la conseguenza che non sono ammesse interferenze da parte dell’Ente (cliente) in grado di condizionare le scelte difensive da assumere, ferma la responsabilità dell’avvocato secondo le regole generali nei confronti del rappresentante legale dell’Ente medesimo. Un secondo ambito attiene al contenuto esterno dell’attività e cioè al suo inserimento nell’ambito della complessiva organizzazione pubblica, in relazione alla quale l’Ente (datore di lavoro) conserva i suoi poteri privati e pubblici volti ad assicurare, mediante ad esempio la previsione di un orario di servizio, l’inserimento coordinato dell’attività svolta dall’avvocato nell’ambito della propria organizzazione, che rispetti sempre il proprium dei compiti assegnati. Prosegue il Collegio dicendo che il piano strutturale e funzionale sono strettamente connessi. Ed invero, l’Ente pubblico, nel regolare a livello organizzativo, in qualità di datore di lavoro, il rapporto di lavoro, gode di ampia discrezionalità la quale, si noti, non può in alcun modo incidere sulla autonomia professionale caratterizzante la professione forense. Ciò posto, nella caso di specie gli appellanti assumono che gli atti organizzativi impugnati, nella parte in cui collocano gli avvocati dell’ufficio legale alle dipendenze del direttore regionale e provinciale, si porrebbero in contrasto con le norme sopra riportate ed inciderebbero sull’autonomia degli avvocati nello svolgimento della loro attività professionale. Sulla base delle predette considerazioni, il Collegio ritiene illegittimi i provvedimenti impugnati per violazione delle norme di regolazione della materia riguardanti la attività forense espletata alle dipendente degli Enti pubblici. Ed infatti, afferma il Collegio che la previsione che la funzione di coordinamento dell’ufficio legale venga assegnata ad un dirigente regionale o locale, sebbene si inserisca nell’ambito del potere organizzativo dell’Ente, nella fattispecie in esame implica un esercizio di potere oltre il limite ad esso posto dal sistema a garanzia dell’autonomia funzionale degli avvocati dell’Istituto (e più in generale a servizio degli Enti). Invero, sotto tale ultimo profilo, la circostanza che l’ufficio legale sia inserito nell’ambito di un ufficio regionale o provinciale, il cui titolare è un Dirigente regionale o provinciale che esercita funzioni di direzione nei confronti degli avvocati facenti parte dell’Ente, “comporta una indubbia interferenza di un Dirigente nell’ambito dell’attività professionale propria del singolo avvocato”. Pertanto, non è conforme alla normativa di riferimento modello legale “che l’attività dell’avvocato debba essere conforme a direttive specifiche adottate da un soggetto esterno” (quale l’ufficio regionale del dirigente). Il Collegio conclude affermando la necessità che “sul piano organizzativo, l’ufficio legale sia dotato di una propria autonomia e che sia collegato unicamente al rappresentante legale dell’Ente e non ad altri dirigenti abilitati a guidarne l’attività”. PC
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Inserito in data 22/12/2016 TAR CALABRIA - CATANZARO, SEZ. I - 19 dicembre 2016, n. 2552 Esclusione dalla gara per gravi illeciti professionali nel nuovo Cod. Contratti L’art. 80 comma 5, lett. c), d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 condiziona l’esclusione del concorrente alla dimostrazione, “con mezzi adeguati”, da parte della stazione appaltante, che l'operatore economico si sia reso colpevole di gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o affidabilità. Rientrano tra i “gravi illeciti professionali”: “le significative carenze nell'esecuzione di un precedente contratto di appalto o di concessione che ne hanno causato la risoluzione anticipata, non contestata in giudizio, ovvero confermata all'esito di un giudizio, ovvero hanno dato luogo ad una condanna al risarcimento del danno o ad altre sanzioni; il tentativo di influenzare indebitamente il processo decisionale della stazione appaltante o di ottenere informazioni riservate ai fini di proprio vantaggio; il fornire, anche per negligenza, informazioni false o fuorvianti suscettibili di influenzare le decisioni sull'esclusione, la selezione o l'aggiudicazione ovvero l'omettere le informazioni dovute ai fini del corretto svolgimento della procedura di selezione”. Possono essere considerate come “altre sanzioni”,” l’incameramento delle garanzie di esecuzione o l’applicazione di penali, fermo che la sola applicazione di una clausola penale non è di per sé sintomo di grave illecito professionale, specie nel caso di applicazione di penali in misura modesta”. Rispetto alla precedente formulazione (art. 38, let. f., d.lgs. n. 163/06), l’art. 80, comma 5, lett. c), d. lgs. n. 80/2016 impone che l’accertamento in ordine alla esistenza della violazione sia effettuato “sulla base delle indicazioni contenute nella medesima disposizione ovvero, anche, secondo altre e differenti modalità analiticamente descritte da parte della stazione appaltante”. GB |
Inserito in data 21/12/2016 CONSIGLIO DI STATO – SEZ. III, 20 dicembre 2016, n. 5396 Il soccorso istruttorio è espressione del principio di massima partecipazione ai pubblici incanti Con la sentenza in epigrafe, il Consiglio di Stato è chiamato a pronunciarsi sulla legittimità dell’ammissione alla gara dell’aggiudicataria, e in particolare sulla legittimità del ricorso, in suo favore, all’istituto del soccorso istruttorio di cui all’art. 38, comma secondo bis, del d. lgs. 12 aprile 2006, n. 163. Nella specie, la ricorrente impugnava la pronuncia di primo grado di rigetto, ritenendo del tutto esclusa l’applicabilità dell’istituto del soccorso istruttorio in tema di aggiudicazione degli appalti concernenti - come quello in esame - servizi sociosanitari. La Terza Sezione, condividendo quanto asserito dal giudice di primo grado, ha ritenuto che solo un’espressa previsione normativa avrebbe consentito di escludere l’applicazione del soccorso istruttorio nelle procedure per l’affidamento di contratti relativi a servizi sociosanitari, e ha respinto così il ricorso. L’appellante sosteneva che l’aggiudicataria avesse omesso la produzione di documenti richiesti dalla normativa di gara a pena di esclusione e che l’essenzialità della loro produzione avrebbe così escluso la possibilità di ricorrere al soccorso istruttorio. Il Supremo Consesso ha, invece, condiviso quanto asserito dal primo giudice, per il quale: “l’affidamento dei contratti pubblici aventi ad oggetto lavori, servizi, forniture, esclusi, in tutto o in parte, dall’ambito di applicazione oggettiva del presente codice, avviene nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità”, e ulteriormente sottolineando che “l’istituto del soccorso istruttorio costituisce espressione del principio di massima partecipazione ai pubblici incanti”. La decisione dell’Amministrazione di consentire all’odierna appellata di completare la documentazione presentata sfuggiva quindi alle censure dedotte. L’appellante contestava inoltre il bando di gara, lamentando violazione dell’art. 83 del d. lgs. 12 aprile 2006, n. 163, in quanto i criteri stabiliti dalla normativa di gara per l’attribuzione dei punteggi relativi ai servizi aggiuntivi, che definivano la qualità complessiva di ogni proposta, erano privi di una sufficiente specificazione e di adeguati criteri di ponderazione. Ad avviso del Collegio “in presenza del chiaro dettato della normativa di gara, che esclude la possibilità di attribuire un punteggio superiore al massimo stabilito, questo non possa essere superato”. Ne deriva che “l’Amministrazione non può essere onerata della specificazione dei criteri di attribuzione dei punteggi, ulteriore rispetto a quella stabilita dalla normativa di gara, a opera della commissione di gara.” Consequenzialmente solo la contestazione della ragionevolezza delle concrete scelte operate dalla commissione – secondo quanto osservato dalla Terza Sezione - avrebbe potuto condurre all’annullamento dell’aggiudicazione.
Per le ragioni predette, il Supremo Consesso ha respinto l’appello principale e, di conseguenza, ha dichiarato improcedibile l’appello incidentale. DU
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Inserito in data 20/12/2016 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 19 dicembre 2016, n. 5365 Alloggi sociali: requisiti per la loro assegnazione Nella pronuncia in esame il Consiglio di Stato affronta il tema degli alloggi sociali e dei requisiti necessari per la loro assegnazione. Oggetto della vicenda è un provvedimento con cui il Provveditorato interreg. OO.PP. per Lazio, Abruzzo e Sardegna ha disposto la revoca dell’assegnazione di un alloggio sociale nei confronti dei figli (ed eredi) dell’assegnatario (deceduto). La disposizione revocatoria si fonda sul fatto che la coniuge (anch’essa deceduta) dell’assegnatario è risultata essere “già proprietaria di due fabbricati residenziali idonei, ubicati nel medesimo centro urbano”. Avverso la suddetta statuizione gli eredi hanno, quindi, proposto ricorso al TAR Lazio “deducendo essenzialmente che i due cespiti immobiliari appartenevano certo alla moglie dell’assegnatario, ma i due coniugi erano in regime di separazione dei beni”. L’adito TAR ha accolto la pretesa attorea proprio nei sensi evidenziati dai ricorrenti, anche alla luce di un parere del Consiglio di Stato (sez. II) del 2003. La P.A. soccombente, pertanto, ha adito il Consiglio di Stato, deducendo l’erroneità della sentenza impugnata per aver confuso la separazione dei beni dei coniugi, con la separazione personale di essi, unica situazione cui fa riferimento l’art. 31, II c. del RD 1165/1938 (testo unico delle disposizioni sull’edilizia popolare ed economica). Con la pronuncia in commento, il Supremo Consesso accoglie l’appello ritenendolo fondato nel merito, in quanto ai sensi del suddetto art. 31, II c., “l'assegnazione in proprietà di un alloggio costruito con il concorso o il contributo dello Stato è impedita dall'esser proprietari nello stesso centro urbano di altro alloggio che risulti "idoneo" ai bisogni della famiglia (cfr. Cons. St., IV, 9 ottobre 2002 n. 5362), idoneità che è predefinita dalla norma stessa, e tal ostacolo riguarda pure la posizione del coniuge non legalmente separato”; l’impossibilità dell’assegnazione, continua il Collegio, “concerne quindi pure tutti i cespiti adeguati alle esigenze abitative non solo del singolo assegnatario, ma pure del di lui nucleo familiare, nel senso che il patrimonio del coniuge concorre, ove adeguato secondo i parametri di legge, a fornire sollievo alle esigenze abitative della famiglia, al di là di qual sia o sia stato il regime patrimoniale dei coniugi”; sottolinea poi, la Quarta Sezione, che il riferimento al regime patrimoniale dei coniugi è da intendersi come “spurio poiché, alla luce del vigente diritto di famiglia, ciascun coniuge ha l’obbligo di metter a disposizione delle esigenze familiari tutto il loro personale patrimonio, donde l’impossibilità di tener conto, nel peculiare caso di specie, del precedente della sez. II” dello stesso Consiglio di Stato. In conclusione il Supremo Consesso afferma che “come noto, i requisiti di assegnazione devono essere posseduti da tutti i componenti del nucleo familiare e per tutta la durata del rapporto (cfr. fra le tante Cons. St., n. 3756 del 2004), condizione questa che non si è verificata nel caso di specie”; l’appello, quindi, dev’essere accolto. FM
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Inserito in data 19/12/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 16 dicembre 2016, n. 5362 Sulla normativa riguardante i benefici previsti a favore delle “vittime del dovere” Nella sentenza emarginata in epigrafe il Collegio si pronuncia in merito alla applicazione della normativa riguardante i benefici previsti a favore delle “vittime del dovere” di cui alla legge n. 466/1980, alla legge n. 302/1990, alla legge n. 407/1998, alla legge n. 388/2000 (art. 82) ed al D.P.R. n. 243/2006 . Più in particolare, il T.A.R. aveva accolto il ricorso (proposto da un ispettore di polizia) avverso il provvedimento di diniego dei benefici di cui alle predette normative; decreto emesso dal Capo della Polizia di Stato. Avverso tale sentenza viene proposta impugnazione da parte del Ministero dell’Interno (Appellante). Si costituisce, altresì, con contro ricorso, l’appellato (ricorrente in primo grado). Preliminarmente il Collegio precisa che “la tematica dei benefici riconosciuti alle "vittime del dovere" va tenuta ben distinta da quella del ristoro dei pregiudizi patiti per "causa di servizio", in quanto la circostanza che una infermità o lesione sia riconosciuta dipendente da causa di servizio non costituisce elemento sufficiente per l’attribuzione degli ulteriori benefici spettanti alle "vittime del dovere". Ed infatti, si prosegue nella decisione che qui interessa, “ai fini del riconoscimento dei benefici previsti a favore delle “vittime del dovere”, la normativa richiede che vi sia uno stretto rapporto di causalità esclusiva fra la lesione subita dal soggetto e uno specifico evento lesivo verificatosi per effetto della peculiare e oggettiva pericolosità dell’operazione di servizio, mentre non è sufficiente un rapporto di mera “occasionalità”, ossia che il danno sia insorto “in occasione” di una determinata operazione di servizio, ma non a causa di questa. Detto altrimenti, ai fini del riconoscimento dei benefici de quibus, il rischio affrontato dall’agente deve essere superiore rispetto a quello ordinariamente inerente all’attività di istituto (cfr. sentenze n. 3915 e 3916/2015 di questa Terza Sezione, la sentenza n. 1794/2014, nonché i pareri n. 2324/2011 e n. 5011/2010 della Prima Sezione del Consiglio di Stato). Per le esposte considerazioni, quindi, il Consesso amministrativo non ravvisa che nel caso di specie sussistano i requisiti previsti dalla normativa vigente (meglio sopraindicata) ai fini del riconoscimento in capo all’appellato del diritto ai benefici previsti per le “vittime del dovere”. Il Consiglio di Stato, per quanto sopra detto, accoglie l’appello proposto dal Ministero e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, respinge il ricorso proposto in primo grado. PC
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Inserito in data 16/12/2016 CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA, SEZ. IV, SENTENZA 8 dicembre 2016, C - 553/15 Sulla nozione di “attività prevalente” rilevante per l’affidamento “in house” La prima questione che il Consiglio di Stato domanda ai Giudici di Lussemburgo riguarda l’ambito di applicazione della giurisprudenza della Corte in materia di affidamenti diretti degli appalti pubblici detti «in house», al fine di stabilire se, «nel computare l’attività prevalente svolta dall’ente controllato, debba farsi anche riferimento all’attività imposta da un’amministrazione pubblica non socia a favore di enti pubblici non soci». Orbene, conformemente alla giurisprudenza della Corte, “l’obiettivo principale delle norme del diritto dell’Unione in materia di appalti pubblici, ossia la libera circolazione delle merci e dei servizi e l’apertura a una concorrenza non falsata in tutti gli Stati membri, implica l’obbligo di applicare le norme sulle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici previste dalle direttive pertinenti, qualora un’amministrazione aggiudicatrice, quale un ente territoriale, intenda concludere in forma scritta, con un’entità giuridicamente distinta, un contratto a titolo oneroso, indipendentemente dal fatto che tale entità sia a sua volta un’amministrazione aggiudicatrice o meno (v., in tal senso, sentenze del 18 novembre 1999, Teckal, C-107/98, EU:C:1999:562, punto 51, nonché dell’11 gennaio 2005, Stadt Halle e RPL Lochau, C-26/03, EU:C:2005:5, punti 44 e 47)”. Peraltro, ”la Corte ha precisato che qualsiasi deroga all’applicazione di tale obbligo deve essere interpretata restrittivamente (sentenze dell’11 gennaio 2005, Stadt Halle e RPL Lochau, C-26/03, EU:C:2005:5, punto 46, e dell’8 maggio 2014, Datenlotsen Informationssysteme, C-15/13, EU:C:2014:303, punto 23)”. In particolare, nell’ipotesi in cui un’autorità pubblica abbia la possibilità di adempiere ai compiti di interesse pubblico ad essa incombenti mediante propri strumenti, amministrativi, tecnici o di altro tipo, senza far necessariamente ricorso ad entità esterne non appartenenti ai propri servizi (v., in tal senso, sentenza dell’11 gennaio 2005, Stadt Halle e RPL Lochau, C-26/03, EU:C:2005:5, punto 48), la Corte ha giustificato il riconoscimento dell’eccezione relativa agli affidamenti detti «in house» con l’esistenza “di un legame interno particolare, in un caso del genere, tra l’amministrazione aggiudicatrice e l’ente affidatario, anche se quest’ultima entità è giuridicamente distinta dalla prima (v., in tal senso, sentenza dell’8 maggio 2014, Datenlotsen Informationssysteme, C-15/13, EU:C:2014:303, punto 29). In casi siffatti, si può ritenere che l’amministrazione aggiudicatrice ricorra, in realtà, ai propri strumenti (v., in tal senso, sentenza dell’8 maggio 2014, Datenlotsen Informationssysteme, C-15/13, EU:C:2014:303, punto 25) e che l’ente affidatario faccia praticamente parte dei servizi interni della stessa amministrazione”. Tale eccezione “richiede, oltre al fatto che l’amministrazione aggiudicatrice eserciti sull’ente affidatario un controllo analogo a quello da essa esercitato sui propri servizi, che tale ente svolga l’attività prevalente a favore dell’amministrazione aggiudicatrice o delle amministrazioni aggiudicatrici che lo controllano (v., in tal senso, sentenza del 18 novembre 1999, Teckal, C-107/98, EU:C:1999:562, punto 50)”. Pertanto, “è indispensabile che l’attività dell’ente affidatario sia rivolta principalmente all’ente o agli enti che lo controllano, mentre ogni altra attività può avere solo carattere marginale. Per verificare se la situazione sia in questi termini, il giudice competente deve prendere in considerazione tutte le circostanze del caso di specie, sia qualitative sia quantitative. A tal riguardo, il fatturato rilevante è rappresentato da quello che tale ente realizza in virtù delle decisioni di affidamento adottate dall’ente o dagli enti locali controllanti (v., in tal senso, sentenze dell’11 maggio 2006, Carbotermo e Consorzio Alisei, C-340/04, EU:C:2006:308, punti 63 e 65, nonché del 17 luglio 2008, Commissione/Italia, C-371/05, non pubblicata, EU:C:2008:410, punto 31)”. Il requisito che “il soggetto di cui trattasi svolga l’attività prevalente con l’ente o con gli enti locali che lo controllano è finalizzato a garantire che la direttiva 2004/18 trovi applicazione anche nel caso in cui un’impresa controllata da uno o più enti sia attiva sul mercato e possa pertanto entrare in concorrenza con altre imprese. Infatti, un’impresa non è necessariamente privata della libertà di azione per il mero fatto che le decisioni che la riguardano sono prese dall’ente o dagli enti locali che la controllano, se essa può svolgere ancora una parte importante della sua attività economica presso altri operatori. Per contro, qualora le prestazioni di detta impresa siano sostanzialmente destinate in via esclusiva all’ente o agli enti locali in questione, appare giustificato che l’impresa di cui trattasi sia sottratta agli obblighi della direttiva 2004/18, i quali sono dettati dall’intento di tutelare una concorrenza che, in tal caso, non ha più ragion d’essere (v., per analogia, sentenza dell’11 maggio 2006, Carbotermo e Consorzio Alisei, C-340/04, EU:C:2006:308, punti da 60 a 62)”. Da tale giurisprudenza deriva che “qualsiasi attività dell’ente affidatario che sia rivolta a persone diverse da quelle che lo controllano, ossia a persone che non hanno alcuna relazione di controllo con tale ente, quand’anche si trattasse di amministrazioni pubbliche, deve essere considerata come svolta a favore di terzi”. Con la seconda questione interpretativa, invece, il Giudice del rinvio domanda in sostanza “se, al fine di stabilire se l’ente affidatario svolga l’attività prevalente per gli enti territoriali che siano suoi soci e che esercitino su di esso, congiuntamente, un controllo analogo a quello esercitato sui loro stessi servizi, occorra prendere in considerazione altresì l’attività che il medesimo ente abbia svolto per detti enti territoriali prima che divenisse effettivo tale controllo congiunto”. In proposito, “è d’uopo ricordare che, secondo la giurisprudenza della Corte, per valutare il requisito dello svolgimento dell’attività prevalente, il giudice nazionale deve prendere in considerazione tutte le circostanze del caso di specie, sia qualitative sia quantitative (v. sentenza dell’11 maggio 2006, Carbotermo e Consorzio Alisei, C-340/04, EU:C:2006:308, punti 63 e 64)”. Tra queste circostanze rientra, all’occorrenza, l’attività che l’ente affidatario abbia svolto per gli enti territoriali prima che divenisse effettivo il controllo congiunto. EF
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Inserito in data 15/12/2016 TAR LAZIO – ROMA, SEZ. II QUATER, 12 dicembre 2016, n. 12317 Nessun limite al diritto di accesso ai fini della difesa in giudizio Il TAR Lazio con la sentenza in epigrafe, afferma che ai sensi dell’art. 24, comma 7, della legge 7 agosto 1990, n. 241 deve essere garantito l'accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici, risolvendo il problema del bilanciamento delle contrapposte esigenze delle parti - diritto di accesso e di difesa da un lato, e diritto di riservatezza dei terzi, dall'altro - va risolto dando prevalenza al diritto di accesso, qualora il primo sia strumentale alla cura o alla difesa dei propri interessi giuridici. Il Collegio osserva che “per costante giurisprudenza, l'interesse all'accesso ai documenti deve essere considerato in astratto, senza che possa essere operato, con riferimento al caso specifico, alcun apprezzamento in ordine alla fondatezza o ammissibilità della domanda giudiziale, che gli interessati potrebbero eventualmente proporre sulla base dei documenti acquisiti mediante l'accesso, o sulla ammissibilità e la rilevanza dei documenti richiesti rispetto ad un giudizio pendente” (Consiglio di Stato, Sez. IV, 10 marzo 2014 n. 1134). Nella specie, la Società richiedente l’accesso impugnava il silenzio - diniego formatosi sulla istanza di accesso documentale presentata al Comune con la quale chiedeva di prendere visione e di estrarre copia integrale degli atti del fascicolo presente presso gli uffici comunali e relativo alle numerose questioni che la vedevano protagonista, poiché aggiudicataria di un’area sita nell’area urbana del Comune per il fallimento di una società immobiliare e del Condominio controinteressato (del quale essa è, peraltro, condomina). In particolare, l’interesse all’accesso che muoveva la ricorrente era da ricondurre ad una nota sottoscritta nei suoi confronti dal Comune e depositata nel corso di un giudizio pendente presso il TAR Lazio. Il Collegio, tenuto conto che l’intimato Comune nulla eccepiva alla parte ricorrente nel corso del presente giudizio rispetto alla richiesta ostensiva e che il Condominio controinteressato, costituendosi in giudizio, fondava le proprie controdeduzioni proprio sull’inesistenza di provvedimenti e titoli abilitavi con i quali “il Comune avrebbe assentito i muri abusivi per cui è causa”. Rilevata, quindi, l’assenza di elementi utili a negare l’ostensione del contenuto del fascicolo oggetto dell’istanza ostensiva, il TAR Lazio disponeva la visione dei documenti contenuti nel fascicolo medesimo e l’estrazione di copia degli atti, in ossequio al duplice principio generale citato sopra. Pertanto, pronunciando in via definitiva sul ricorso, il tribunale amministrativo lo accoglieva e per l'effetto ordinava all'Amministrazione comunale, l'esibizione dei documenti richiesti dalla Società ricorrente. DU
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Inserito in data 14/12/2016 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 13 dicembre 2016, n. 5229 Sulla natura innovativa o esecutiva di un provvedimento rispetto ad un antecedente ed impugnativa di uno o di entrambi. Oggetto della sentenza in esame è la legittimità di due consecutivi decreti adottati dal Commissario ad acta per la prosecuzione del Piano di rientro del settore sanitario della Regione Campania e riguardanti il piano di riassetto della rete laboratoristica privata. Nello specifico, “ il decreto n. 109 del 2013 stabiliva che, i laboratori che si trovavano al di sotto della soglia minima di efficienza avrebbero potuto conservare l’accreditamento solo se si fossero aggregati tra loro, ricorrendo ad una delle forme previste dalla legge (ad esempio, un consorzio), in modo tale da conseguire il requisito in forma cumulativa. Il meccanismo per verificare il raggiungimento di tale soglia veniva individuato nel numero delle prestazioni erogate da ciascuna struttura, che non avrebbero potuto collocarsi, in prima battuta, al di sotto delle 70.000 annue, per poi attestarsi, a regime, ad almeno 200.000. Il decreto n. 109 del 2013 rimandava alla individuazione, ad opera di un futuro provvedimento, della c.d. PEQ (prestazione equivalente). Nel successivo decreto n. 45 del 2014, che, infatti, reca «ulteriori disposizioni» rispetto a quello del 2013, il calcolo della PEQ è stato effettuato sulla base di un criterio che, in realtà, si discosta da quello predeterminato nel precedente decreto n. 109 del 2013, nel quale non si rinviene nessun riferimento al fatturato registrato dalle strutture per il triennio 2010-2012 al netto dello sconto”. Orbene, la questione centrale dell’intera vicenda attiene alla valutazione del rapporto tra i due succitati provvedimenti, precisamente alla natura innovativa o meramente esecutiva del secondo provvedimento rispetto al precedente, con la consequenziale necessità o meno di impugnarli entrambi. Nel giudizio di primo grado, i laboratori interessati avevano impugnato il primo decreto commissariale (n. 19 del 2013) sostenendo che fosse viziato in più punti, oltre che adottato in violazione dell’accordo Stato-Regioni. Nel corso dello stesso giudizio la Regione Campania - costituitasi insieme al Commissario ad acta - aveva depositato un secondo decreto commissariale (n. 45 del 4 luglio 2014) contenente ulteriori disposizioni ed adempimenti successivi rispetto al primo decreto. Tale secondo provvedimento commissariale non era stato oggetto di specifiche censure da parte delle ricorrenti. Il T.A.R. Campania, pertanto, aveva dichiarato “improcedibile il ricorso proposto in primo grado dagli odierni appellanti, poiché queste non avevano impugnato il decreto n. 45 del 2014, avente natura innovativa rispetto al precedente decreto n. 19 del 2013”. La questione viene poi posta al Consiglio di Stato, al quale gli stessi laboratori interessati presentano appello riproponendo i motivi articolati in primo grado ed affermando “che il decreto n. 45 del 2014 sarebbe meramente esecutivo del decreto n. 19 del 2013 ed avrebbe, quindi, natura confermativa del precedente (pp. 4-7 del ricorso)”. La Terza Sezione del Consiglio di Stato, con la sentenza in commento, dichiara l’appello infondato ritenendo “corretta la dichiarazione di improcedibilità dell’originario ricorso” alla quale era pervenuto il T.A.R. per la Campania con l’impugnata sentenza n. 4656 del 2 settembre 2014, atteso che il decreto commissariale n. 109 del 19 novembre 2013, gravato in prime cure, era stato superato dal successivo decreto commissariale n. 45 del 4 luglio 2014, non impugnato. Il Supremo Consesso rileva, in primo luogo, che “la circostanza secondo cui gli odierni appellanti avrebbero impugnato anche il decreto commissariale n. 45 del 4 luglio 2014 era stata rappresentata dagli stessi solo nell’istanza di rinvio depositata in extremis l’8 novembre 2016, e non è mai stata dedotta né nell’appello né nelle memorie depositate ai sensi dell’art. 73 c.p.a.”. Secondariamente, il Collegio richiama e fa proprie tutte le motivazioni esposte dalla Sezione in altra recentissima sentenza n. 4597 del 2 novembre 2016, avente ad oggetto la medesima questione giuridica, in cui aveva dichiarato improcedibile il ricorso proposto in primo grado da altre strutture avverso il solo decreto n. 109 del 2013, senza impugnare il successivo n. 45 del 2014. Ed invero, questo secondo decreto, contrariamente alla tesi sostenuta dagli appellanti, non aveva natura meramente confermativa del primo decreto, ma innovativa rispetto allo stesso. Alla luce delle suesposte considerazioni, il Giudice Amministrativo dell’appello dichiara l’improcedibilità, poiché “la mancata impugnativa del decreto n. 45 del 2014, che non costituisce provvedimento meramente attuativo del decreto n. 109 del 2013, rende improcedibile il ricorso di primo grado, come ha correttamente ritenuto il T.A.R. per la Campania nella sentenza impugnata”. FM
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Inserito in data 13/12/2016 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V - 9 dicembre 2016, n. 5193 La società mista può essere sciolta per violazione del principio di economicità Con la pronuncia indicata in epigrafe, il Collegio ritiene che il mero profilo del non adeguato perseguimento delle finalità istituzionali da parte di una società mista a prevalente partecipazione pubblica costituita per l’affidamento di un servizio pubblico (gestione di uno stabilimento balneare) “sia congruo e ragionevole per giustificare, dal punto di vista dell’ente pubblico, la decisione di dar luogo al suo scioglimento (visti anche i rilievi generali circa le partecipazioni societarie degli enti locali di cui a Cons. Stato, Ad. plen., 3 giugno 2010, n. 11)”. Pertanto, deve ritenersi legittima la delibera consiliare con cui si rileva che le condizioni economiche previste dai «patti parasociali e dallo statuto sono antieconomiche e di fatto spossessano il Comune da ogni beneficio economico». In tal caso, infatti, “il modello societario per il servizio pubblico di gestione dell’area demaniale non è efficace, né economico, laddove dovrebbe essere improntato all’economicità, efficacia ed efficienza, oltre che corrispondere ad una finalità propria dell’ente”. Del resto, il Consesso richiama la sentenza della Corte costituzionale 20 luglio 2012, n. 199, secondo cui “i servizi pubblici di rilevanza economica possono essere gestiti vuoi mediante il mercato, vuoi attraverso il partenariato pubblico-privato (ossia mediante una società mista, e dunque con una “gara a doppio oggetto” per la scelta del socio e poi per la gestione del servizio), vuoi attraverso l’affidamento diretto, in house; la preferenza per l’uno o l’altro modello costituisce frutto di una scelta ampiamente discrezionale, che va adeguatamente motivata circa le ragioni di fatto e di convenienza che la giustificano (in termini anche Cons. Stato, V, 22 gennaio 2015, n. 257)”. In analoga direzione muove la disposizione di cui all’art. 34, comma 20, d.-l. 18 ottobre 2012, n. 179 (Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese) convertito dalla l. 17 dicembre 2012, n. 221, secondo cui “l’affidamento del servizio è effettuato sulla base di apposita relazione, che dà conto delle ragioni e della sussistenza dei requisiti previsti dall’ordinamento europeo per l’affidamento della forma prescelta”. EF
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Inserito in data 12/12/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, 7 dicembre 2016, n. 5187 Obbligo di provvedere della PA e Commissario ad acta Con la decisione emarginata in epigrafe il Collegio accoglie l’appello proposto avverso una ordinanza emessa dal TAR Lazio concernente la ottemperanza di una sentenza relativa alla illegittimità del silenzio illegittimamente serbato dalla amministrazione sulla istanza di adozione di provvedimenti repressivi di abusi edilizi (e per il quale la succitata pronuncia del T.A.R. aveva ordinato alla Amministrazione comunale di provvedere sull’istanza dei ricorrenti, recante richiesta di adozione dei provvedimenti più idonei a sanzionare le opere realizzate dalla resistente in primo grado su area demaniale contigua alla proprietà dei ricorrenti). Nella ordinanza predetta, che ha deciso sulla istanza di nomina del Commissario ad acta) proposta dai ricorrenti, si afferma “di non esservi più luogo a nominare il Commissario” giacché, “medio tempore, il giudice di primo grado aveva annullato l’annullamento delle SCIA all’epoca presentate dalla contro interessata odierna appellata” . Più precisamente, si legge nella ordinanza appellata che “non sussistono più gli estremi per disporre la nomina dell’organo ausiliario del giudice in quanto la succitata sentenza *** ha sostanzialmente contraddetto quanto ritenuto dai ricorrenti nell’atto di significazione e diffida in cui si presupponeva la insussistenza di qualsivoglia titolo edilizio abilitante la realizzazione delle opere allo stato insistenti sull’area demaniale in concessione alla società contro interessata”. Sostanzialmente, nella ordinanza de quo si afferma che, “il commissario ad acta non potrebbe compiere alcun atto se non in violazione della sentenza in argomento”. Ed invece, tra le argomentazione contenute nell’appello avverso la ordinanza, si evidenzia che “per concludere il procedimento avviato dall’odierno appellante, è necessario che l’Amministrazione adotti un provvedimento espresso, anche meramente ricognitorio, con il quale determini effettivamente se i manufatti indicati nell’istanza formulata su citata sono da ritenersi legittimamente realizzati o meno”. Al contrario, la odierna appellata (e resistente in primo grado) afferma la opposta tesi secondo la quale “non via sia più la esigenza di un provvedimento espresso della amministrazione comunale giacché, per effetto della sentenza emessa dal giudice di prime cure, è stata assodata l’insussistenza dei presupposti per l’annullamento in sede amministrativa delle S.C.I.A. a suo tempo presentate dalla società resistente in primo grado ed odierna appellata”. Orbene, il Collegio rileva, accogliendo la tesi della appellante, che “l’intervenuto annullamento giurisdizionale dell’annullamento comunale delle due segnalazioni certificate di inizio attività di cui si è fatta menzione, non integra di per sé adempimento, né dunque superamento dell’obbligo della Amministrazione comunale di provvedere in modo espresso; obbligo che è stato ormai definitivamente accertato dal giudicato della cui ottemperanza qui trattasi”. Ed invero, sotto tale profilo, “gli effetti di detto annullamento giurisdizionale dovranno (siccome ancora devono) essere fatti oggetto di valutazione da parte dell’Amministrazione comunale (ovvero, in sua vece, dall’Ausiliario del Giudice che, stante l’inerzia, si va qui a nominare) e, conseguentemente, finché ciò non sia avvenuto resta precluso al giudice amministrativo – stante l’espressa previsione dell’art. 34, comma 2, c.p.a., ai sensi del quale “In nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati” – di conoscere del contenuto di tali valutazioni (come ha erroneamente ritenuto di poter fare l’appellata ordinanza). Più in particolare, resta rimesso all’Amministrazione (ovvero in suo luogo al nominando ausiliario, per il caso di persistente inerzia) di valutare gli effetti del predetto annullamento nell’ambito della complessiva sequenza provvedimentale riguardante i manufatti di cui trattasi e la loro tuttora controversa legittimità edilizia. PC
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Inserito in data 10/12/2016 CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 7 dicembre 2016, n. 24 Applicabilità delle sanzioni pecuniarie per tardivo pagamento dei contributi di costruzione “Un’amministrazione comunale ha il pieno potere di applicare, nei confronti dell’intestatario di un titolo edilizio, la sanzione pecuniaria prescritta dalla legge per il caso di ritardo ovvero di omesso pagamento degli oneri relativi al contributo di costruzione anche ove, in caso di pagamento dilazionato di detto contributo, abbia omesso di escutere la garanzia fideiussoria in esito alla infruttuosa scadenza dei singoli ratei di pagamento ovvero abbia comunque omesso di svolgere attività sollecitatoria del pagamento presso il debitore principale”. Tale principio si impone alla luce delle previsioni delle disposizioni normative applicabili alla fattispecie, nonché alla luce dei principi generali dell’ordinamento. Risulta, infatti, “sfornita di base normativa ogni opzione interpretativa che correli il potere sanzionatorio del comune al previo esercizio dell’onere di sollecitazione del pagamento presso il debitore principale ovvero presso il fideiussore.” Infatti, “ il sistema di pagamento del contributo di costruzione è caratterizzato dalla presenza solo eventuale di una garanzia prestata per l’adempimento del debito principale e di un parallelo strumento a sanzioni crescenti, con chiara funzione di deterrenza dell’inadempimento, che trova applicazione, in base alla legge, al verificarsi dell’inadempimento dell’obbligato principale”. “In tale sistema, l’amministrazione comunale, allo scadere del termine originario di pagamento della rata ha solo la facoltà di escutere immediatamente il fideiussore onde ottenere il soddisfacimento del suo credito; ma ove ciò non accada, l’amministrazione avrà comunque il dovere/potere di sanzionare il ritardo nel pagamento con la maggiorazione del contributo a percentuali crescenti all’aumentare del ritardo. Peraltro, solo alla scadenza di tutti termini fissati al debitore per l’adempimento (e quindi dopo aver applicato le massime maggiorazioni di legge), l’Amministrazione avrà il potere di agire nelle forme della riscossione coattiva del credito nei confronti del debitore principale ( art. 43 d.P.R. n. 380 del 2001). La portata di tale ultima disposizione è peraltro tale da ritenere che l’amministrazione, se pure non è impedita dallo svolgere attività sollecitatoria dei pagamenti ( senza attingere al rimedio straordinario della riscossione coattiva) in occasione delle scadenze dei termini intermedi cui sono correlati gli aumenti percentuali del contributo secondo il già indicato modello, è certo facultata ad attendere il volontario pagamento da parte del debitore (e eventualmente del suo fideiussore), salvo in ogni caso restando il suo potere-dovere di applicare le sanzioni di legge per il ritardato pagamento”. Tale potere/dovere di applicare le sanzioni è subordinato al verificarsi dell’ “unico presupposto fattuale” del ritardo nel pagamento da parte dell’intestatario del titolo edilizio, con la conseguenza che la mancata escussione del fideiussore da parte dell’amministrazione “non può tradursi, in difetto di espressa previsione normativa, in una decadenza dell’amministrazione dal potere di sanzionare il pagamento tardivo dell’obbligato”. Né la soluzione muterebbe attingendo ai canoni interpretativi di matrice civilistica. Infatti, “quale che sia l’approccio interpretativo che si voglia seguire, si deve ritenere che resti in ogni caso integro il potere-dovere della amministrazione comunale di applicare le sanzioni pecuniarie per il ritardo nel pagamento dei contributi di costruzione al semplice verificarsi delle condizioni previste dalla legge, dovendosi per contro escludere la sussistenza di un obbligo di preventiva escussione della garanzia fideiussoria”. “La stretta osservanza del principio di legalità, imposta dalla rigorosa applicazione del canone interpretativo - letterale delle disposizioni richiamate, comporta pertanto che va ritenuta legittima l’applicazione delle sanzioni per il ritardo, a prescindere da richieste di pagamento che siano potute venire all’interessato o al suo fideiussore dalla amministrazione concedente il titolo edilizio”. GB
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Inserito in data 09/12/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, 5 dicembre 2016, n. 5106 La demo-ristrutturazione edilizia presuppone l’esatta consistenza dell’immobile preesistente La controversia decisa dalla Sesta Sezione con la sentenza in epigrafe, verte sull’annullamento del provvedimento amministrativo con cui era stata annullata un’autorizzazione paesaggistica per la ristrutturazione di un fabbricato da adibire a bar e gelateria. In particolare, i ricorrenti deducevano il mancato rispetto del termine di cui all’articolo 159, comma 3 del d.lgs. n. 42/2004 (“Codice dei beni culturali e del paesaggio”) e l’inesistenza di un valido provvedimento di annullamento, nonché il mancato rispetto dell’art. 8 della legge n. 241/1990 (“Legge sul procedimento amministrativo”) e l’eccesso di potere per erroneità e contraddittorietà della motivazione. Ad avviso del Supremo Consiglio, il primo giudice ha errato nell’affermare che l’edificio in questione “non esiste più come entità edilizia rilevante nell’attualità e dunque la sua ricostituzione si configura come una nuova trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, assoggettata al rispetto delle relative prescrizioni”. In realtà, ciò non è condivisibile sia alla luce della giurisprudenza del Consiglio di Stato sia in ragione ai contenuti della legge regionale n. 19 del 28 dicembre 2009, come modificata dall’art. 1 della legge regionale n. 1 del 5 gennaio 2011 che, introducendo l’art. 8 bis, consente il recupero edilizio in deroga agli strumenti urbanistici vigenti mediante intervento di ricostruzione in sito di edifici diruti e di ruderi, purché ne siano comprovate la preesistenza, la consistenza e l’autonomia funzionale. Sul primo motivo, il Collegio osserva che se, da un lato, l’Amministrazione non può adottare il provvedimento oltre il termine di decadenza, dall’altro, essa può provvedere prima della sua scadenza su richiesta dei privati; quel termine è sospeso al fine di consentire all’Amministrazione l’esame della documentazione dagli stessi presentata. Ne deriva che “la sospensione riguarda solo il termine non anche il potere dell’Amministrazione di provvedere”. Di conseguenza, la Sesta Sezione rileva parimenti l’infondatezza del motivo di appello diretto a lamentare la violazione del termine previsto dall’art. 159, comma 3 del codice citato, per l’esercizio del potere di annullamento da parte dell’Amministrazione. Invero, la giurisprudenza amministrativa è pacificamente orientata nel ritenere che entro il termine perentorio di sessanta giorni previsto dall’art. 159, comma 3, debba avvenire solo l’adozione e non anche la successiva comunicazione del provvedimento di annullamento d’ufficio per l’esercizio del potere di controllo da parte dell’Amministrazione (cfr., da ultimo, Cons. Stato, Sez. VI, 29 gennaio 2016, n. 356; Cons. Stato, Sez. VI, 10 novembre 2015, n. 5101; Cons. Stato, sez. VI, 10 febbraio 2015, n. 700). Nel caso di specie, peraltro, è da escludere l’insorgenza di un affidamento qualificato in capo al privato, poiché la comunicazione del provvedimento di annullamento, sebbene avvenuta dopo la scadenza del termine di sessanta giorni dalla ricezione degli atti, è stata compiuta in un termine ragionevole. Infondato, infine, il motivo di appello diretto a sostenere che la ricostruzione del rudere sia qualificabile come ristrutturazione edilizia tutte le volte in cui sia possibile risalire comunque alla originaria consistenza del manufatto. Ad avviso del Collegio, la ristrutturazione edilizia presuppone come elemento indispensabile la preesistenza del fabbricato nella consistenza e con le caratteristiche planivolumetriche ed architettoniche proprie del manufatto che si vuole ricostruire (Cons. Stato Sez. IV 15 settembre 2006 n. 5375). Occorre, quindi, la possibilità di procedere, con un sufficiente grado di certezza, alla ricognizione degli elementi strutturali dell’edificio, in modo tale che, seppur non necessariamente “abitato” o “abitabile”, esso possa essere comunque individuato nei suoi connotati essenziali, come identità strutturale, in relazione anche alla sua destinazione. Del resto, come chiarito dalla giurisprudenza, “la c.d. demo-ricostruzione – ovvero un’incisiva forma di recupero di preesistenze comunque assimilabile alla ristrutturazione edilizia – tradizionalmente pretende la pressoché fedele ricostruzione di un fabbricato identico a quello già esistente, dalla cui strutturale identificabilità, come organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, non si può dunque, in ogni caso, prescindere” (Cons. Stato, sez. V, 10 febbraio 2004, n. 475). L'attività di ricostruzione di ruderi è stata invece concordemente considerata, a tutti gli effetti, realizzazione di una nuova costruzione (cfr. Cass. pen. 20 febbraio 2001, n. 13982; Cons. Stato, V, 1° dicembre 1999, n. 2021), avendo questi perduto i caratteri dell’entità urbanisitco - ediliza originaria sia in termini strutturali che funzionali. DU
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Inserito in data 07/12/2016 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI - 5 dicembre 2016, n. 5108 Il Consiglio di Stato si sofferma sui caratteri della motivazione degli atti processuali e degli atti amministrativi Oggetto della sentenza in esame è un provvedimento della Soprintendenza per i beni architettonici paesaggistici storici e artistici con cui è stata negata l’autorizzazione ad eseguire un intervento edificatorio su immobile sito in area interessata da vincolo paesaggistico d’insieme non comportante divieto assoluto di edificabilità. In particolare, il titolare dell’immobile in questione aveva presentato allo Sportello Unico per l’edilizia la domanda di autorizzazione per un intervento di ristrutturazione edilizia (consistente nella demolizione di un preesistente magazzino e nella conseguente ricostruzione di un piccolo villino bifamiliare di due piani fuori terra), ma la Soprintendenza per i beni architettonici paesaggistici storici e artistici aveva espresso parere negativo, ritenendo l’intervento in questione “molto impattante nel contesto paesaggistico poiché fortemente percepito dal Paesaggio Naturale nelle immediate vicinanze”. Il proprietario aveva, quindi, impugnato il diniego della Soprintendenza innanzi al T.a.r., il quale, con sentenza, aveva accolto il ricorso, ritenendo fondata la contestazione del difetto di motivazione del provvedimento in questione. Per ottenere la riforma della suddetta sentenza, il Ministero per i beni e le attività culturali e la Soprintendenza per i beni architettonici paesaggistici storici e artistici hanno proposto appello, sostenendo, in primo luogo, che la sentenza appellata sarebbe nulla in quanto carente di motivazione, perché priva dell’esposizione “delle ragioni di fatto e di diritto della decisione” (mancherebbe, in particolare, secondo le Amministrazioni appellanti, ogni riferimento alla proposta di parere favorevole presentata da un comune della zona). In ogni caso, sempre ad avviso delle Amministrazioni appellanti, la sentenza sarebbe erronea nel merito perché, a differenza di quanto ritenuto dal T.a.r., il parere negativo espresso dalla Soprintendenza sarebbe adeguatamente motivato. Orbene, il Consiglio di Stato, con la sentenza in esame, afferma che entrambe le censure suesposte sono infondate. Nello specifico, il Supremo Consesso evidenzia che la sentenza appellata “nel rispetto del principio di sinteticità degli atti processuali, contiene una motivazione del tutto esaustiva, che espone, in maniera concisa, tutti gli elementi di fatto e di diritto rilevanti ai fini della decisione”. Infatti, continua il Collegio, la mancata espressa menzione del parere favorevole espresso da un Comune della zona interessata “non incide negativamente sulla tenuta dell’impianto motivazionale della sentenza appellata. Basti considerare che l’oggetto del giudizio non era (e non è) il parere favorevole espresso dal Comune, ma il parere negativo successivamente espresso dalla Soprintendenza. Scrutinando la legittimità di tale parere negativo il T.a.r. ha chiaramente enunciato gli elementi di fatto e di diritto sulla cui base ha ritenuto che esso fosse carente di motivazione e, dunque, illegittimo”. Sul punto la Sesta Sezione richiama anche la costante giurisprudenza secondo cui “nella redazione della motivazione, il giudice non è tenuto ad occuparsi espressamente e singolarmente di ogni allegazione, prospettazione e argomentazioni delle parti, essendo necessario e sufficiente, in base all’art. 132, n. 1 c.p.c., che esponga in maniera concisa, gli elementi in fatto e in diritto posti a fondamento della sua decisione, dovendo ritenersi per implicito disattesi tutti gli argomenti, le tesi e i rilievi che, seppure non espressamente esaminati, siano incompatibili con la soluzione adottata e con il percorso argomentativo” (cfr. ex multis, Cass. Civ. Sez. Vi, 2 dicembre 2014, n. 25509). In senso analogo, peraltro, viene anche richiamata l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, che, a sua volta, ha precisato che “non costituisce vizio di revocazione per errore di fatto l’omessa pronuncia, da parte del giudice, su tutte le argomentazioni poste dalla parte a sostegno del medesimo motivo di ricorso”. Passando ad esaminare la vicenda nel merito, il Consiglio di Stato afferma che «il provvedimento impugnato è totalmente carente di motivazione, limitandosi ad affermare, in maniera apodittica e, di fatto, tautologica, che l’intervento edilizio non può essere autorizzato in quanto “l’architettura che ne deriva risulta molto impattante nel contesto paesaggistico, poiché fortemente percepito dal Paesaggio naturale nelle immediate vicinanze”. Al di là del generico richiamo al forte impatto (e alla forte percezione da parte del “Paesaggio Naturale”) non vi è, tuttavia, l’indicazione di alcun concreto elemento volto a supportare tale giudizio negativo o ad esplicitare sotto quale profilo, in che misura, per quale specifica ragione si afferma l’esistenza di un “forte impatto” preclusivo dell’intervento». Anche in tal caso la Sesta Sezione richiama una pacifica giurisprudenza (cfr., tra le tante, Con. Stato, sez. VI, 24 marzo 2014, n. 1418; Cons.. Stato, sez. VI, 21 febbraio 2008, n. 653) secondo cui “l’Amministrazione non può limitarsi ad esprimere valutazioni apodittiche e stereotipate, ma deve specificare le ragioni del diniego ovvero esplicitare i motivi del contrasto tale opere da realizzarsi e le ragioni di tutela dell’area interessata dall’apposizione del vincolo. Non è sufficiente, quindi, la motivazione del diniego all’istanza di autorizzazione fondata su una generica incompatibilità, non potendo l’Amministrazione limitate la sua valutazione al mero riferimento ad un pregiudizio ambientale, utilizzando espressioni vaghe e formule stereotipate”.
Alla luce delle considerazioni che precedono, il Consesso conclude che la sentenza appellata merita, quindi, di essere confermata e l’appello respinto. FM
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Inserito in data 06/12/2016 TAR LIGURIA - GENOVA, SEZ. II, 2 dicembre 2016, n. 1201 Avvalimento e soccorso istruttorio nel nuovo codice dei contratti L’art. 89 del nuovo codice dei contratti, nel disciplinare l’istituto dell’avvalimento, prescrive specificamente che “… L'operatore economico dimostri alla stazione appaltante che disporrà dei mezzi necessari mediante presentazione di una dichiarazione sottoscritta dall'impresa ausiliaria con cui quest'ultima si obbliga verso il concorrente e verso la stazione appaltante a mettere a disposizione per tutta la durata dell'appalto le risorse necessarie di cui è carente il concorrente…”. Tale assetto normativo ha recepito il consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa (recentissimamente suggellato dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato 4 novembre 2016, n. 23) che ha “rimarcato la necessità di indicare nel contratto di avvalimento, con appropriato grado di determinatezza o determinabilità, i mezzi concreti che l’impresa ausiliaria mette a disposizione dell’ausiliata, evidenziando altresì che l'esigenza di una puntuale individuazione dell'oggetto dell'avvalimento, oltre ad avere un sicuro ancoraggio sul terreno civilistico negli artt. 1325, 1346 e 1418 c.c., che configurano quale causa di nullità del contratto l'indeterminatezza ed indeterminabilità del relativo oggetto, trova la propria essenziale giustificazione funzionale nella necessità di non permettere agevoli aggiramenti del sistema dei requisiti di ingresso alle gare pubbliche (cfr. Cons. Stato, sez. V, 27 gennaio 2016, n. 264, e 6 giugno 2016, n. 2384).” Pertanto, “la mera riproduzione tautologica”, nel testo dei contratti di avvalimento, della formula legislativa della messa a disposizione delle "risorse necessarie di cui è carente il concorrente", o espressioni equivalenti, è stata ritenuta insufficiente, “con conseguente legittimità dell'esclusione dalla gara pubblica dell'impresa che abbia fatto ricorso all'avvalimento producendo un contratto che non contiene alcuna analitica e specifica elencazione od indicazione delle risorse e dei mezzi in concreto prestati.” In particolare, l'avvalimento di un requisito di natura tecnica “non può essere generico (e cioè non si può limitare... ad un richiamo 'meramente cartaceo o dichiarato' allo svolgimento da parte dell'ausiliaria di attività che evidenzino le sue precedenti esperienze), ma deve comportare il trasferimento, dall'ausiliario all'ausiliato, delle competenze tecniche acquisite con le precedenti esperienze (trasferimento che, per sua natura, implica l'esclusività di tale trasferimento, ovvero delle relative risorse per tutto il periodo preso in considerazione dalla gara) (Cons. Stato, sez. V, 23 febbraio 2015, n. 864).” La rilevata genericità del contratto di avvalimento non può essere sanata attraverso l’attivazione del soccorso istruttorio, atteso che, il nuovo codice dei contratti pubblici detta una disposizione normativa che sancisce espressamente l’inutilizzabilità dell’istituto in esame “per sopperire alle irregolarità che impediscono in maniera radicale di individuare il contenuto della documentazione.” GB
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Inserito in data 05/12/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, 2 dicembre 2016, n. 5064 Domanda riconoscimento servizi pre ruolo e termine prescrizionale Con la decisione emarginata in epigrafe, la sesta sezione del Consiglio di Stato afferma, in punto di prescrizione, che “ai fini della presentazione della domanda di riconoscimento dei servizi pre ruolo, il termine annuale previsto dall’art. 103, comma 4, del D.P.R. n. 382 del 1980 (Il riconoscimento dei servizi di cui ai precedenti commi può essere chiesto entro un anno dalla conferma in ruolo), non ha natura perentoria; ed infatti, per costante giurisprudenza amministrativa (cfr. Cons. Stato, VI, 27-7-2011, n. 4494; VI, 4-2-2014, n.522) il legislatore delegato non ha ripetuto l’espressione “a pena di decadenza”, contenuta nella precedente normativa, che è stata abrogata per incompatibilità”. Esclusa la natura perentoria ed in carenza di contraria previsione normativa derogatoria, il Collegio, dunque, ritiene operante la disposizione generale di cui all’art. 2946 cod. civ. secondo la quale “Salvi i casi in cui la legge dispone diversamente, i diritti si estinguono per prescrizione con il decorso di dieci anni”. Orbene, nella controversia sottoposta allo scrutinio del Collegio, il termine prescrizionale per proporre la domanda finalizzata al riconoscimento del servizio pre ruolo non è decorso. Viene, dunque, confermata la reiezione della eccezione di prescrizione sollevata dalla Amministrazione appellante. Di conseguenza, rileva il Collegio, “trova applicazione la portata retroattiva della sentenza della Corte Costituzionale n. 191 del 2008” che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 103, comma 3, d.P.R. 11 luglio 1980 n. 382 nella parte in cui non riconosce ai ricercatori universitari, all'atto della loro immissione nella fascia dei ricercatori confermati, per intero ai fini del trattamento di quiescenza e previdenza e per i due terzi ai fini della carriera, l'attività effettivamente prestata nelle università in qualità di tecnici laureati con almeno tre anni di attività di ricerca. PC
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Inserito in data 03/12/2016 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI - 29 novembre 2016, n. 5025 Sul nesso di causalità nell’ambito della responsabilità della P.A. Con la sentenza in esame, il Consiglio di Stato, dopo aver ricordato che “gli elementi costitutivi della responsabilità della pubblica amministrazione, sul piano della fattispecie, sono: i) l’elemento oggettivo; ii) l’elemento soggettivo; iii) il nesso di causalità materiale o strutturale; iv) il danno ingiusto, inteso come lesione della posizione di interesse legittimo e, nella materie di giurisdizione esclusiva, di diritto soggettivo”, si sofferma sul rapporto di causalità. In particolare, osserva che “sul piano delle conseguenze e, dunque, delle modalità di determinazione del danno, il fatto lesivo, così come sopra individuato, deve essere collegato, con un nesso di causalità giuridica o funzionale, con i pregiudizi subiti dalla parte danneggiata (Cass., 17 settembre 2013, n. 21255, ritiene, invece, che anche tale fase, avendo rilevanza causale, debba essere inserita nell’ambito della fattispecie)”. A tal uopo, “questa Sezione ha già avuto modo di ricostruire, con la citata sentenza 29 maggio 2014, n. 2792, la nozione di nesso di causalità nell’ambito di una più ampia ricostruzione che ha riguardato anche la natura giuridica della responsabilità della p.a.”. In tale occasione, infatti, il Collegio ha precisa che “nel modello di responsabilità civile il rapporto di causalità materiale, non sussistendo alcun legame tra danneggiante e danneggiato, è finalizzato ad individuare l'autore del fatto illecito e, in particolare, colui che ha cagionato la lesione della posizione giuridica protetta e dunque il danno ingiusto”. In particolare, “la giurisprudenza e la dottrina civilistica, mutuando l'elaborazione penalistica e le regole contenute negli articoli 40 e 41 cod. pen., hanno fatto applicazione della cosiddetta teoria condizionalistica. Tale teoria presuppone l'effettuazione di un giudizio controfattuale finalizzato a stabilire se, eliminando o, negli illeciti omissivi, aggiungendo, quella determinata condotta l'evento si sarebbe ugualmente verificato”. Tuttavia, “la suddetta ricostruzione deve essere integrata con la teoria della sussunzione sotto leggi scientifiche di copertura nelle ipotesi in cui, alla luce delle conoscenze specialistiche di quel determinato momento storico, non è dato sapere se quella condotta possa avere efficacia causale nella determinazione del danno. Il rapporto di causalità, così ricostruito, deve essere, poi, delimitato, in applicazione della teoria della causalità adeguata, in modo da assegnare valenza eziologica soltanto a quelle condotte che sono idonee, secondo un giudizio prognostico ex ante, a cagionare quel determinato evento. In altri termini, occorre verificare se vi sia una relazione di regolarità causale tra condotta ed evento”. Il giudice civile dovrà, infine, “nel corso del giudizio, accertare, applicando le teorie sopra esposte, l'esistenza di un rapporto di causalità secondo la regola probatoria del "più probabile che non" (cfr. Cass., sez. un., 11 gennaio 2008, n. 581)”. E’, dunque, evidente che “la modalità di svolgimento dell'accertamento istruttorio costituisce la principale differenza rispetto alla responsabilità penale, nell'ambito della quale la diversità di beni giuridici tutelati impone che l'autore del reato venga individuato "al di là di ogni ragionevole dubbio" (Cass. pen., sez. un., 11 settembre 2002, n. 30328, Franzese)”. Così ricostruito il rapporto di causalità materiale “occorre poi valutare, sul piano della causalità giuridica, quali siano le conseguenze patrimoniali derivanti dal fatto lesivo posto in essere”. Sul punto, deve rammentarsi che “nel modello della responsabilità contrattuale non è necessario ricorrere alle teorie elaborate per ricostruire il nesso di causalità materiale, in quanto, sussistendo un rapporto giuridico tra creditore e debitore, si conosce già l'autore dell'illecito. In questo ambito rileva soltanto il nesso di causalità giuridica finalizzato a determinare i pregiudizi effettivamente subiti dal danneggiato (art. 1223 cod. civ.). Nel modello della responsabilità della pubblica amministrazione la sua specialità derivante dall’esistenza di un rapporto tra parte pubblica e privata che la rende maggiormente assimilabile alla responsabilità contrattuale. Tale peculiarità incide anche sulla ricostruzione del rapporto di causalità assegnandogli una valenza non del tutto riconducibile alla teorie elaborate in ambito civilistica”. Orbene, “la normale esistenza del predetto rapporto induce a ritenere che in questo caso, come in presenza di illeciti contrattuali, non sia necessario individuare l'autore del fatto lesivo”. D’altra parte, “la rilevanza delle teorie della causalità materiale si apprezza sotto altro aspetto: la ricostruzione del nesso eziologico è necessaria al fine di valutare se la condotta della pubblica amministrazione sia stata idonea a ledere la posizione soggettiva di interesse legittimo. L'accertamento della lesione dell'interesse legittimo - in ragione della stretta connessione con il potere pubblico - richiede, infatti, l'effettuazione di un giudizio prognostico mediante il ricorso alla teoria condizionalistica, integrata, ove occorra, dal modello della sussunzione sotto leggi scientifiche e corretta dalla teoria della causalità adeguata”. La ricostruzione del nesso eziologico è necessaria “al fine di valutare se la condotta della pubblica amministrazione sia stata idonea a ledere la posizione soggettiva di interesse legittimo. L’accertamento della lesione dell’interesse legittimo – in ragione della stretta connessione con il potere pubblico – richiede, infatti, l’effettuazione di un giudizio prognostico mediante il ricorso alla teoria condizionalistica, integrata, ove occorra, dal modello della sussunzione sotto leggi scientifiche e corretta dalla teoria della causalità adeguata”. A tale proposito è necessario distinguere due diverse fattispecie. La prima fattispecie ricorre “nel caso in cui la parte abbia proposto sia l’azione di invalidità sia l’azione di responsabilità e l’esito del giudizio amministrativo di annullamento di un determinato provvedimento consente il riesercizio di poteri amministrativi discrezionali. In queste ipotesi la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha costantemente ritenuto che il giudice amministrativo non possa effettuare, per evitare di invadere sfere di valutazione che la Costituzione riserva alla pubblica amministrazione, il predetto giudizio prognostico. Si ritiene, infatti, necessario attendere che l’amministrazione rinnovi il procedimento emendato dal vizio riscontrato in sede giudiziale e soltanto se all’esito di tale giudizio si accerta che il privato aveva “diritto” a quel determinato bene della vita sarà possibile ottenere, ricorrendo gli altri presupposti, il risarcimento del danno. In questo caso, pertanto, svolgendosi un giudizio di spettanza, la regola probatoria applicata è quella della “certezza” (cfr. Cons. Stato, sez. V, 27 dicembre 2013, n. 6260; sez. IV, 4 settembre 2013, n. 4452; V, 27 marzo 2013, n. 1781; V, 8 febbraio 2011, n. 854)”. La seconda fattispecie ricorre “nel caso in cui l’attività amministrativa sia vincolata o l’amministrazione abbia esaurito la discrezionalità ovvero nel caso in cui non sia possibile la rinnovazione procedimentale. In queste ipotesi il giudice amministrativo, senza il rischio di sovrapporre il proprio giudizio alle valutazioni dell’autorità pubblica, può effettuare un giudizio prognostico applicando, con i necessari adattamenti, le regole elaborate in ambito civilistico per ricostruire il nesso di causalità”.
A tale ultimo proposito, “occorre ulteriormente distinguere a seconda che sia stato chiesto il risarcimento del danno da lucro cessante ovvero il danno da perdita di chance ovvero, in via alternativa, entrambi”: nel primo caso la parte “deve dimostrare che è “più probabile che non” che senza l’illegittimità accertata la stessa avrebbe ottenuto l’aggiudicazione dell’appalto”; mentre nella seconda ipotesi “la parte deve dimostrare non la perdita del “risultato” favorevole, ma la perdita di una “occasione” favorevole, senza che si possano applicare rigidamente regole statistiche correlate alle percentuali di “successo” (Cass. civ., sez. III, 27 marzo 2014 n. 7195)”. EF
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Inserito in data 02/12/2016 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 29 novembre 2016, n. 5026 Illegittimità della revoca dell’aggiudicazione di appalti pubblici Il corretto esercizio del potere di revoca in autotutela delle procedure di aggiudicazione di appalti pubblici è ancorato a “parametri ancora più stringenti” rispetto alla disciplina generale prevista per la revoca dei provvedimenti amministrativi, imponendo “l’onere di una ponderazione particolarmente rigorosa di tutti gli interessi coinvolti”. “Il ritiro di un’aggiudicazione illegittima postula, in particolare, la sopravvenienza di ragioni di interesse pubblico (o una rinnovata valutazione di quelle originarie) particolarmente consistenti e preminenti sulle esigenza di tutela del legittimo affidamento ingenerato nell’impresa che ha diligentemente partecipato alla gara, rispettandone le regole e organizzandosi in modo da vincerla, ed esige, quindi, una motivazione particolarmente convincente circa i contenuti e l’esito della necessaria valutazione comparativa dei predetti interessi (cfr. Cons. St., sez. V, 19 maggio 2016, n.2095)”. Quando “il ripensamento dell’Amministrazione” si appunta sulle caratteristiche dell’oggetto dell’appalto, il provvedimento di ritiro dell’aggiudicazione è legittimo se si fonda “sulla sicura verifica dell’inidoneità della prestazione descritta nella lex specialis a soddisfare le esigenze contrattuali che hanno determinato l’avvio della procedura”. Pertanto,” l’aggiudicazione della gara a un’impresa che ha diligentemente confezionato la sua offerta in conformità alle prescrizioni della lex specialis può essere validamente rimossa, con lo strumento della revoca, solo nell’ipotesi eccezionale in cui una rinnovata (e, comunque, tardiva) istruttoria ha rivelato l’assoluta inidoneità della prestazione inizialmente richiesta dalla stessa Amministrazione (e, quindi, dovuta dall’aggiudicatario) a soddisfare i bisogni per i quali si era determinata a contrarre”. Né può giudicarsi idoneo a giustificare la revoca “un ripensamento circa il grado di satisfattività della prestazione messa a gara”. “Se si ammettesse, infatti, la revocabilità delle aggiudicazioni sulla sola base di un differente e sopravvenuto apprezzamento della misura dell’efficacia dell’obbligazione dedotta a base della procedura, si finirebbe, inammissibilmente, per consentire l’indebita alterazione delle regole di imparzialità e di trasparenza che devono presidiare la corretta amministrazione delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici, con inaccettabile sacrificio dell’affidamento ingenerato nelle imprese concorrenti circa la serietà e la stabilità della gara, ma anche con un rischio concreto di inquinamento e di sviamento dell’operato delle stazioni appaltanti”. L’esercizio dei poteri di autotutela finalizzati al ritiro dell’aggiudicazione definitiva impone, altresì, alla stazione appaltante “di assicurare la partecipazione dell’impresa aggiudicataria, onde consentirle di tutelare adeguatamente, in sede procedimentale, la posizione qualificata validamente acquisita, per mezzo della necessaria osservanza della prescrizione di cui all’art.7 della legge n.241 del 1990 (cfr. ex multis Cons., St., sez. V, 27 aprile 2011, n. 2456)”. GB
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Inserito in data 01/12/2016 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI - 29 novembre 2016, n. 5023 Oneri di bonifica derivanti da inquinamento: il Consiglio di Stato si allinea alla CGUE Oggetto della sentenza in esame è un decreto direttoriale del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio - riguardante le determinazioni conclusive di una conferenza di servizi decisoria relativa alla bonifica di un sito di interesse nazionale - con cui ad un’importante azienda di idrocarburi sono stati ordinati una serie di onerosi interventi di bonifica, per la salvaguardia e il recupero del territorio interessato. L’impresa in questione, ricorrendo prima al TAR e poi al Consiglio di Stato, lamenta l’illegittimità del provvedimento ministeriale, in quanto, a suo dire, l’Amministrazione non avrebbe fatto buon uso, nel caso di specie, del principio di derivazione comunitaria secondo il quale “chi inquina paga”, addossando alla stessa azienda oneri gravosi quale conseguenza di comportamenti e risultati (l’inquinamento) ad essa sicuramente non imputabili. Ma non solo, sempre ad avviso di parte ricorrente, sarebbe stata addirittura ribaltata l’impostazione logico-giuridica sottostante al suddetto principio, proprio in considerazione della scelta di addebitare comunque “gli oneri di approntamento della bonifica in attesa della scoperta degli effettivi autori dell’inquinamento, senza preoccupazione alcuna in ordine all’eventualità che detti autori non si individuassero mai ovvero, quando pure individuati, non risultassero in grado di sopportare gli oneri di bonifica”. Le doglianze suesposte però non sono state accolte né dal TAR né, inizialmente, dalla Sesta Sezione del Consiglio di Stato; quest’ultima, infatti, si è pronunciata con sentenza non definitiva, in quanto ha ritenuto di dover sospendere il giudizio, essendo stata posta dall’Adunanza Plenaria in via incidentale – nell’ambito di altro contenzioso su temi analoghi – una questione interpretativa al vaglio della CGUE. Il giudice europeo chiamato a valutare disposizioni del d.lgs. n. 152/2006 (recante norme in materia ambientale) i cui contenuti perimetrano un ambito oggettivo di applicazione sovrapponibile alla vicenda in esame ha affermato che “La direttiva 2004/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21 aprile 2004, sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, deve essere interpretata nel senso che non osta a una normativa nazionale come quella di cui trattasi nel procedimento principale, la quale, nell’ipotesi in cui sia impossibile individuare il responsabile della contaminazione di un sito o ottenere da quest’ultimo le misure di riparazione, non consente all’autorità competente di imporre l’esecuzione delle misure di prevenzione e di riparazione al proprietario di tale sito, non responsabile della contaminazione, il quale è tenuto soltanto al rimborso delle spese relative agli interventi effettuati dall’autorità competente nel limite del valore di mercato del sito, determinato dopo l’esecuzione di tali interventi.”. Orbene, a seguito della suddetta pronuncia della CGUE , il giudizio sospeso è stato riassunto e (in sede di riassunzione) la stessa azienda appellante ha depositato proprie memorie, rilevando la possibile applicazione al suo caso delle conclusioni cui è giunta la Corte di Giustizia Europea disaminando quello ad essa sottoposto. In particolare, sono state evidenziate, a tal riguardo, le disposizioni di cui all’art. 253, co. 4, del citato decreto delegato, le quali stabiliscono che: “Nel caso in cui il proprietario non responsabile dell'inquinamento abbia spontaneamente provveduto alla bonifica del sito inquinato, ha diritto di rivalersi nei confronti del responsabile dell'inquinamento per le spese sostenute e per l'eventuale maggior danno subito.”; “In ogni caso, il proprietario non responsabile dell'inquinamento può essere tenuto a rimborsare, sulla base di provvedimento motivato e con l'osservanza delle disposizioni di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241, le spese degli interventi adottati dall'autorità competente soltanto nei limiti del valore di mercato del sito determinato a seguito dell'esecuzione degli interventi medesimi.”.
La Sesta Sezione del Consiglio di Stato, rivalutando la fattispecie alla luce della pronuncia europea, ha, quindi, affermato che nel caso in questione “mancando un intervento di bonifica effettuato direttamente da soggetti privati, all’intervento resti conseguentemente tenuto (d’ufficio) l’ente pubblico a ciò preposto, allo stesso comunque competendo l’onere di garantire alla collettività il recupero (bonifica) dei siti danneggiati da inquinamento”. Pertanto, conclude il Consesso, essendo ignoto (per quanto è dato sapere) il soggetto cui addebitare l’azione di compromissione specifica dell’ambiente interessato, non può essere ascritta all’azienda ricorrente la responsabilità di un inquinamento derivante da fattori che non le si ricollegano, ed è da escludere che da tale società possa ragionevolmente attendersi un’azione diretta e personale di bonifica. FM
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Inserito in data 30/11/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 28 novembre 2016, n. 5001 La rilevanza dell’assolvimento degli obblighi fiscali in materia di tariffe incentivanti Il punto centrale della controversia oggetto della pronuncia in esame è la sussistenza o meno dell’obbligo della società appellante di presentare la denuncia di attivazione di officina elettrica all’Ufficio Tecnico di Finanza (da ora UTF) insieme alla comunicazione di inizio di attività. Il Supremo Collegio procede preliminarmente alla ricognizione normativa delle tariffe incentivanti riguardanti l’energia elettrica da impianti solari fotovoltaici, e rileva tutta una serie di obblighi da assolvere, tra i quali gli obblighi previsti dalla normativa fiscale in materia di produzione di energia elettrica. In particolare, la Quarta Sezione rileva che nell’allegato 3.2 lettera h), del decreto ministeriale n. 212 del 6 agosto 2010 (“Termini, modalità e procedure per la concessione ed erogazione delle agevolazioni in favore dei programmi di investimento riguardanti la produzione di beni strumentali funzionali allo sviluppo delle fonti di energia rinnovabili e al risparmio energetico nell'edilizia”) si richiede che anche alla richiesta di incentivazione di un impianto, che immette tutta l’energia in rete, debba essere allegata copia della comunicazione fatta all’UTF sulle caratteristiche dell’impianto. Il Collegio rileva siffatto obbligo anche nel disposto dell’art. 53 bis d.lgs. n. 504/1995 (“Testo unico delle disposizioni legislative concernenti le imposte sulla produzione e sui consumi e relative sanzioni penali e amministrative”), ove prevede che “contestualmente all'avvio della propria attività, i soggetti che producono energia elettrica non esclusa dal campo di applicazione dell'accisa ai sensi dell'articolo 52, comma 2, diversi dai soggetti obbligati di cui all'articolo 53, ne danno comunicazione al competente Ufficio dell'Agenzia delle Dogane e presentano una dichiarazione annuale contenente l'indicazione dei dati relativi all'energia elettrica prodotta e a quella immessa nella rete di trasmissione o distribuzione”. Alla luce della richiamata disciplina - in particolare del decreto ministeriale 6 agosto 2010 – il Consiglio di Stato dichiara che “affinché un impianto possa considerarsi effettivamente entrato in esercizio è invece necessario che l’interessato abbia assolto anche gli obblighi di natura fiscale, nel caso di specie quelli previsti dall’art. 53 bis del d.lgs. n. 504/1995”. Ciò in quanto, osserva il Collegio, “non vi è dubbio infatti che l’obbligo di denuncia di attivazione abbia natura fiscale, giacché è necessario per consentire al competente ufficio dell’Agenzia delle Dogane di espletare i propri compiti anche di verifica dell’applicabilità o meno delle imposte ai soggetti della filiera della produzione di energia elettrica”. La disciplina contenuta nel decreto ha la finalità di accertare l’adempimento degli “obblighi previsti dalla normativa fiscale in materia di energia elettrica”. A ben vedere, è pacifico nella giurisprudenza della Quarta Sezione che, l’inoltro della comunicazione all’UTF, siccome previsto da una norma legislativa di rango primario, assume una sua specifica valenza tale da porre siffatto obbligo di natura fiscale sullo stesso piano di tutti gli altri oneri di tipo tecnico- amministrativo, che vanno adempiuti ai fini del perfezionamento dell’entrata in esercizio dell’impianto fotovoltaico. (Così Consiglio di Stato, sezione IV n. 2077/2016) Non è di conseguenza condivisibile la tesi di parte appellante secondo cui per “obblighi previsti dalla normativa fiscale in materia di produzione dell’energia elettrica, debbano intendersi quelli finalizzati all’applicazione dell’accisa”. Con le ragioni sopra esposte, la Quarta Sezione respinge l’appello, confermando la sentenza di primo grado. DU
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Inserito in data 29/11/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 25 novembre 2016, n. 4995 Limiti del sindacato giurisdizionale sulle determinazione adottate dalle Commissioni di gara Con la decisione emarginata in epigrafe, la terza sezione del Consiglio di Stato affronta, preliminarmente, la eccezione processuale sollevata dalla parte appellata la quale eccepisce la irricevibilità dell’appello perché notificato oltre la scadenza del termine di trenta giorni dalla comunicazione della sentenza, previsto dall’art.120, comma 2 bis, c.p.a, introdotto dall’art.204 d.lgs. n. 50 del 2016 e asseritamente applicabile anche alla presente controversia. Sul punto il Collegio afferma la infondatezza della eccezione sotto diversi profili attinenti all’ambito di applicazione della norma ed a questioni inerenti al diritto intertemporale applicabile. Ed invero si osserva che, nella fattispecie in esame, “il ricorso di primo grado non è stato “amministrato” con le regole procedurali del rito speciale in questione anche perché il ricorso è stato notificato prima dell’emanazione del d.lgs. n.50 del 2016. Ciò conduce alla conclusione che il giudizio di appello deve intendersi estraneo al perimetro applicativo della prescrizione contenuta nel nuovo codice appalti. La disposizione predetta prevede un rito accelerato e “speciale” il cui ambito di applicazione è limitato alle sole impugnazioni delle ammissioni e delle esclusioni dalla procedura di gara. Sotto tale ulteriore profilo si evidenzia che la controversia portata alla attenzione del Collegio esuli dall’ambito applicativo del rito de quo giacché esso “resta circoscritto al solo gravame dei provvedimenti che determinano le ammissione alla (e le esclusioni dalla) procedura di gara (Cons. St., sez, III, 27 ottobre 2016, n.4528)”. Ed invero, “con il ricorso di primo grado è stata impugnata l’aggiudicazione dell’appalto alla gara e non la ammissione, sicchè, anche sotto questo assorbente profilo, la presente controversia esula dai confini dell’ambito di operatività del rito “superspeciale”, nella misura in cui quest’ultimo resta circoscritto al solo gravame dei provvedimenti che determinano l’ammissione alla (e le esclusioni dalla) procedura (Cons. St., sez, III, 27 ottobre 2016, n.4528). Sotto un profilo di diritto intertemporale, il Collegio mette in rilievo la impossibilità di applicare il rito accelerato alla causa posta alla fattispecie di cui trattasi. Orbene, il legislatore del 2016 si è fatto carico delle questioni di diritto transitorio e le ha chiaramente risolte scegliendo e utilizzando (tra quelle astrattamente disponibili, ovvero, principio della retroattività o la regola del tempus regit actum) l’opzione dell’ultrattività, mediante, cioè, la previsione generale che le disposizioni introdotte dal d.lgs. n.50 del 2016 si applicano solo alle procedure bandite dopo la data dell’entrata in vigore del nuovo “Codice” e, quindi, dopo il 19 aprile 2016 (il comma 1 dell’art. 216 statuisce, infatti, che la disposizione “si applica alle procedure ed ai contratti per i quali i bandi o avvisi con cui si indice la procedura di scelta del contraente siano pubblicati successivamente alla data della sua entrata in vigore”). In punto di merito, la appellante contesta la correttezza dell’operato della Commissione di gara e, segnatamente, la valutazione di alcuni aspetti dell’offerta presentata dalla società aggiudicataria. Al riguardo il Collegio precisa che il sindacato giurisdizionale sulla legittimità delle determinazioni compiute dalle Commissioni di gara non può estendersi fino a scrutinare il merito dei pertinenti giudizi tecnici, “se non nelle limitate ipotesi in cui gli stessi risultino assunti sulla base di una fallace rappresentazione della realtà fattuale o in esito ad una delibazione del tutto illogica o arbitraria della qualità dell’offerta tecnica” (cfr., ex multis, Cons. St., sez. V, 18 gennaio 2016, n.120). Si contesta, altresì, la illegittimità delle predette determinazioni perché carenti di motivazione. Ritiene il Collegio che anche tale censura è infondata, in quanto “l’assegnazione dei punteggi relativamente ai citati parametri non esigeva un apprezzamento discrezionale della qualità dei prodotti, ma solo il vincolato accertamento della presenza, in quelli offerti da ciascuna impresa concorrente, delle caratteristiche tecniche a cui risulta riferito ognuno dei criteri in questione”. L’unico motivo di appello che il Collegio accoglie perché ritenuto è quello relativo al capo di condanna alla rifusione delle spese processuali a carico della appellante. Ed infatti, afferma il Collegio che “la complessità in fatto e la peculiarità in diritto delle questioni controverse giustificavano, infatti, la compensazione delle spese del primo grado di giudizio, così come giustificano la compensazione di quelle del presente grado”. PC
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Inserito in data 28/11/2016 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 25 novembre 2016, n. 4993 La valutazione delle offerte tecniche ed economiche deve esaurirsi in una sola seduta Con la pronuncia indicata in epigrafe, il Consesso afferma che “nelle procedure di aggiudicazione di appalti pubblici le garanzie di imparzialità, pubblicità, trasparenza e speditezza dell’azione amministrativa postulano che le sedute della commissione di gara debbano ispirarsi al principio di concentrazione e di continuità e che, quindi, la valutazione delle offerte tecniche ed economiche deve esaurirsi, di norma, in una sola seduta, senza interruzioni, di guisa da scongiurare possibili influenze esterne e da garantire l’assoluta indipendenza e genuinità del giudizio dell’organo incaricato della valutazione” (cfr. ex multis Cons. St., sez. IV, 4 agosto 2015, n.3851). Il Collegio puntualizza, altresì, che è “la stessa protrazione dei lavori della Commissione per diversi mesi a costituire, di per sé, un vulnus alle esigenze di trasparenza e di imparzialità dei lavori della Commissione, essendo sufficiente, per giudicare integrata la violazione di quest’ultimo, il solo pericolo di indebite influenze esterne, e non essendo, quindi, necessaria la dimostrazione di un concreto inquinamento dei giudizi sulle offerte”. Tuttavia, tale regola è stata definita “tendenziale”, nel senso che “non si tratta di un precetto inviolabile e che, al contrario, tollera deroghe alla sua operatività, ma è stato anche chiarito che la sua inosservanza resta ammessa solo in presenza di situazioni particolari che impediscano obbiettivamente l’esaurimento di tutte le operazioni di gara in una sola seduta e, comunque, anche in questa evenienza, alle condizioni della durata minima dell’intervallo temporale tra le diverse riunioni e dell’adeguatezza delle modalità di conservazione dei plichi, a presidio dell’imparzialità e della correttezza delle operazioni valutative” (cfr. ex multis Cons. St., sez. V, 22 gennaio 2015, n.257). EF
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Inserito in data 26/11/2016 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV - ORDINANZA DI RIMESSIONE ALLA CORTE COSTITUZIONALE, 17 novembre 2016, n. 4765 Obbligo di conformarsi alle sentenze della Corte EDU e legittimità costituzionale degli artt. 106 c.p.a. e 395 e 396 c.p.c. Con l’ordinanza in esame il Consiglio di Stato, rimette nuovamente alla Consulta la questione della possibilità di ampliare le cause di revocazione delle sentenze del giudice amministrativo stabilite dagli artt. 106 c.p.a. e 395 e 396 c.p.c. La Quarta Sezione, infatti, ritiene rilevante e non manifestamente infondata, in relazione agli artt. 117 comma 1, 111 e 24 Cost., la questione di costituzionalità degli artt. 106 Cod. proc. amm. e 395 e 396 Cod. proc. civ., nella parte in cui non prevedono un’ulteriore ipotesi di revocazione della sentenza quando ciò sia necessario, ai sensi dell'art. 46, par. 1, della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà Fondamentali, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo. L’ordinanza de quo, da un lato ribadisce quanto già in passato evidenziato in materia dall’Adunanza Plenaria, dall’altro lato richiama gli argomenti espressi dalla stessa Corte di Strasburgo con la sentenza definitiva resa nella vicenda oggetto della odierna questione di legittimità. In particolare, nel rimettere la questione alla Consulta, si evidenza, in primo luogo l’art. 41 della CEDU, rubricato “Equa soddisfazione”, il quale dispone che “Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa”. Si richiama, inoltre, l’art. 46 della CEDU, rubricato “Forza vincolante ed esecuzione delle sentenze”, il quale dispone che “Le Alte Parti contraenti si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte sulle controversie nelle quali sono parti”; quest’ultimo articolo disciplina anche il procedimento di accertamento della violazione dell’obbligo di conformazione alle sentenze definitive individuando nel Comitato dei Ministri l’organo competente ad adire la Corte EDU per ottenere l’accertamento della violazione e, in caso di esito positivo, adottare le misure conseguenti. Dal quadro normativo esposto - rileva il giudice a quo - risulta, quindi, che in caso di accertata violazione della Convenzione, l’obbligo nascente in capo allo Stato di conformarsi alla sentenza della Corte EDU (ai sensi del citato art. 46) costituisce non un obbligo politico, bensì giuridico e, come tale, coercibile in forza dei poteri riconosciuti al Comitato dei Ministri cui compete il controllo sulla esecuzione.
I giudici di Palazzo Spada riportano, infine, una sentenza con cui la Corte Costituzionale ha già avuto modo di intervenire in una fattispecie analoga a quella odierna - concernente la questione della possibile revisione di un processo penale a seguito di una pronuncia della Corte di Strasburgo - ed ha statuito nei seguenti termini: “È costituzionalmente illegittimo, per violazione dell'art. 117, comma 1, cost. in relazione all'art. 46, par. 1, Cedu, l'art. 630 c.p.p. nella parte in cui non prevede un diverso caso di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo, quando ciò sia necessario per conformarsi a una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell'uomo” (sentenza 7 aprile 2011, n. 113). FM
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Inserito in data 25/11/2016 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, SENTENZA 23 novembre 2016, n. 4918 Immodificabilità soggettiva negli appalti pubblici: giurisdizione del G.O. Tale principio, “lungi dall’essere il portato precettivo di un divieto assoluto, ai sensi del combinato disposto dell’art. 37, comma 9 e commi 18 e 19 del Codice, persegue piuttosto lo scopo di consentire alla p.a. appaltante di verificare il possesso dei requisiti da parte dei soggetti che partecipano alla gara e, correlativamente, di precludere modificazioni soggettive, sopraggiunte ai controlli in grado di impedire le suddette verifiche preliminari (cfr., Consiglio di Stato, 13 maggio 2009, n. 2964) ovvero che tale verifica venga vanificata (cfr., Consiglio di Stato, 2 agosto 2006, n. 5081, nonché Consiglio di Stato 23 luglio 2007, n. 4101)”. Infatti, dal combinato disposto dell’art. 37 (comma 9 e commi 18 e 19) e dell’art. 116 del D.lgs n. 50 /2006 emerge che il divieto di modificazione della composizione dei raggruppamenti temporanei e dei consorzi ordinari di concorrenti rispetto a quella risultante dall'impegno presentato in sede di offerta può essere derogato, in specifiche ipotesi, purché sussistano: il necessario possesso dei requisiti di qualificazione da parte del soggetto risultante dalla novazione soggettiva e la comunicazione da parte del richiedente dell’avvenuta trasformazione, non opposta dalla stazione appaltante nel termine di sessanta giorni. La mancata attivazione da parte della p.a. del potere autoritativo di verifica dei requisiti soggettivi ed oggettivi dei soggetti subentranti non determina il radicamento della giurisdizione dinanzi al giudice amministrativo, poiché le questioni relative a vicende societarie afferiscono a “posizioni di diritto soggettivo nei rapporti interni tra i partecipanti all’a.t.i.”. Da ciò discende che il giudice competente a decidere le controversie in ordine alla violazione del principio di immodificabilità soggettiva durante la fase di esecuzione del contratto è il giudice ordinario. GB
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Inserito in data 24/11/2016 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 21 novembre 2016, n. 4864 La discrezionalità è sindacabile dal giudice amministrativo solo in caso di illogicità dei motivi Oggetto della pronuncia in esame è la legittimità del concorso bandito da un’azienda sanitaria locale per la copertura di un posto di dirigente medico di medicina legale. In particolare, si controverte sulla correttezza della prova orale e di quella pratica. Con riferimento alla prova orale, il Collegio osserva - in via generale - che “la scelta dei quesiti su cui concentrare l’esame resta riservata a una sfera di discrezionalità piuttosto ampia, che, come tale, deve intendersi sindacabile dal giudice amministrativo negli stretti limiti in cui siano configurabili ipotesi di sviamento o di manifesta irragionevolezza” (cfr. ex multis Cons. St., sez. VI, 8 febbraio 2016, n.506). Ne deriva che, nel caso in esame, “la dedotta concentrazione della prova orale su temi afferenti alla responsabilità medica deve ritenersi immune, di per sé, da profili di palese illogicità”, e che, quindi, la prova orale contestata si rivela legittimamente incentrata - in coerenza con il paradigma normativo di riferimento - “sui compiti connessi alle funzioni da conferire” (art. 26, comma 1, lett. c, d.P.R. 10 dicembre 1997, n.483 “Regolamento recante la disciplina concorsuale per il personale dirigenziale del Servizio sanitario nazionale”). Riguardo, invece, alla prova pratica, il Supremo Consesso rileva che la definizione normativa dell’oggetto della prova come afferente a “tecniche e manualità peculiari della disciplina messa a concorso”, che - secondo quanto disposto dall’art.26, comma 1, lett. b, d.P.R. citato - dev’essere intesa come “significativa di un esame che non implica necessariamente l’esecuzione di operazioni materiali, ma che serva a verificare la capacità e l’abilità del candidato nel risolvere casi o problemi pratici che possono presentarsi al suo esame nel corso del lavoro per cui viene reclutato” (così anche Cons. St., sez. III, 29 novembre 2012, n.6087). Ad avviso del Collegio, nella fattispecie in esame, il modus procedendi seguito dall’azienda si rivela del tutto coerente con i caratteri sopra indicati, “nella misura in cui non si risolve in una trattazione teorica e, anzi, serve proprio a verificare l’abilità operativa del candidato, e, quindi, immune dai vizi erroneamente riscontrati a suo carico dai giudici di primo grado”. La Terza Sezione, dunque, conclude escludendo l’omessa predeterminazione dei criteri valutativi, risultando nella specie, al contrario, che la Commissione abbia proceduto al predetto, preliminare adempimento. DU
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Inserito in data 23/11/2016 CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA - GRANDE CAMERA, SENTENZA 15 novembre 2016 - C - 258/15 Non contrasta con la Dir. 2000/78 il limite d’età per l’accesso al corpo di polizia statale La domanda di pronuncia pregiudiziale posta al vaglio della Corte riguarda “l’interpretazione dell’articolo 2, paragrafo 2, dell’articolo 4, paragrafo 1, e dell’articolo 6, paragrafo 1, lettera c), della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro”. In particolare, la domanda suddetta è stata proposta nell’ambito di una controversia incardinata da un cittadino basco contro l’Accademia di polizia del suo Paese, “relativamente alla decisione di quest’ultima di pubblicare un bando di concorso contenente il requisito secondo il quale i candidati ai posti di agenti della polizia della Comunità autonoma dei Paesi Baschi non dovevano aver compiuto 35 anni di età”. A tal proposito, la Grande Camera ritiene che tale normativa non contrasti con la Direttiva 2000/78/CE, in quanto il limite d’età, da un lato, deve considerarsi adeguato all’obiettivo consistente nel garantire il carattere operativo e il buon funzionamento del servizio di polizia di cui trattasi e, dall’altro, non eccedente quanto necessario al conseguimento di tale obiettivo. Opinare diversamente, infatti, avrebbe reso impossibile sia l’assunzione di compiti impegnativi sul piano fisico, che l’espletamento degli stessi per un periodo sufficientemente lungo. Né può altresì richiamarsi il precedente giurisprudenziale del 13 novembre 2014, Vital Pérez (C‑416/13, EU:C:2014:2371), in cui “non era stato dimostrato che l’obiettivo di garantire il carattere operativo e il buon funzionamento del corpo degli agenti della polizia locale richiedesse di mantenere una certa struttura delle età al suo interno, imponendo di assumere esclusivamente funzionari con età inferiore a 30 anni”. EF
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Inserito in data 22/11/2016 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI - 18 novembre 2016, n. 4822 Interventi di manutenzione straordinaria e necessità del titolo abilitativo edilizio Nella decisione oggetto della presente disamina il Collegio, condividendo i motivi a fondamento della impugnazione avverso la sentenza resa dal T.A.R. Calabria, accoglie l’appello e, in riforma della sentenza impugnata, annulla l’ordinanza comunale di demolizione delle opere edilizie poste in essere dalla appellante (ricorrente in primo grado). Ed infatti, il Giudice di prime cure aveva ritenuto legittima la impugnata ordinanza sull’assunto che le opere edilizie poste in essere erano da considerarsi abusive, poiché effettuate in assenza di titolo edilizio ed in mancanza di preventiva autorizzazione paesaggistica, giacché l’intervento era stato realizzato in area sottoposta a vincolo paesaggistico. In particolare, secondo la decisione in esame, è corretto l’argomento sostenuto dalla appellante secondo cui “l’intervento edilizio posto in essere, consistito nella sostituzione di un solaio di cemento armato in una copertura con intavolato di faggio e nel rifacimento della parete di ingresso del fabbricato con mattoni di antica provenienza aventi anche una funzione decorativa, non necessiti di alcun preventivo titolo abilitativo, potendosi qualificare alla stregua di un’attività edilizia libera ai sensi dell’art. 6 del d.P.R. n. 380 del 2001 ed irrilevante sul piano paesaggistico, ai sensi dell’art. 149 del d.lgs. n. 42 del 2004, recante il Codice dei beni culturali e del paesaggio”. Ed invero, sotto il profilo della necessità del rilascio del titolo edilizio, afferma il Collegio che “ai sensi dell’art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001, rientrano negli interventi di manutenzione straordinaria le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, sempre che non alterino la volumetria complessiva degli edifici e non comportino modifiche delle destinazioni di uso”. Nel caso di specie, rileva il Collegio che, “la sostituzione del solaio eseguita con la modifica del solo materiale utilizzato, senza alterazione delle cubature, è qualificabile alla stregua di un intervento di manutenzione straordinaria, per la cui esecuzione è sufficiente la sola comunicazione di inizio lavori ai sensi dell’art. 6 del d.P.R. n. 380 del 2011”. Inoltre, sotto il profilo della carenza della autorizzazione paesaggistica ex art. 149 del d.lgs. n. 42 del 2004, il Collegio dubita che i lavori eseguiti dalla appellante abbiano una incidenza negativa sul piano della loro compatibilità paesaggistica. Sotto tale ulteriore profilo, il Consesso evidenzia non solo la carenza di motivazione della ordinanza di demolizione impugnata in primo grado, ma mette, altresì, in evidenza come l’intervento edilizio posto in essere sia migliorativo rispetto alla stato dei luoghi precedente e, pertanto, l’ordinanza de quo “si appalesa misura eccessiva e non adeguata a salvaguardare l’interesse paesaggistico protetto, tanto più che è mancato ogni riferimento motivazionale ad una ipotetica incompatibilità dei lavori eseguiti con i valori paesaggistici compendiati nei luoghi”. PC |
Inserito in data 21/11/2016 TAR PUGLIA - BARI, SEZ. III - 16 novembre 2016, n. 1290 Sanzione pecuniaria ex art. 38 DPR 380/01 e terzi destinatari: legittimità I Giudici baresi chiariscono la natura della sanzione pecuniaria indicata in epigrafe, normalmente irrogata in capo agli autori di abusi edilizi e, nella specie, invece addebitata a carico di un soggetto terzo, odierno ricorrente, avente causa dell’effettivo destinatario. Proprio in ragione di ciò, viene contestata la legittimità di un simile procedimento sanzionatorio – sia sotto il profilo oggettivo (stante l’estraneità rispetto all’abuso commesso), sia sotto l’aspetto soggettivo – riguardo alla buona fede presuntivamente paventata dal ricorrente. Il Collegio, analizzando le doglianze provenienti da ambo le parti del presente giudizio, non condivide la posizione del ricorrente. Esso evidenzia, infatti, come la sanzione irrogata appartenga al genus delle misure ripristinatorie e, a sostegno di tale posizione, ricorda come essa sia generalmente prevista in sostituzione della misura demolitoria, di cui è indiscussa la natura reale. Pertanto, affermano i Giudici, posto il carattere reale dell’una (quella demolitoria), non può che concludersi che anche l’altra (quella pecuniaria) partecipa dell’identica natura, attesa l’alternatività delle misure in questione. Stante, dunque, la realità di tale misura – questa non può che seguire le sorti dell’immobile – oggetto di abuso edilizio – anche nei successivi trasferimenti di proprietà; non di certo il soggetto che, eventualmente, ne sia stato artefice – come addotto dal ricorrente che paventa, invece, una natura personale della misura afflittiva subìta e, pertanto, la propria estraneità al fatto contestato. In considerazione di ciò e richiamando anche giurisprudenza pregressa (Cfr., ex multis, TAR Liguria n. 306 del 2009; TAR Toscana n. 361 del 2012), i Giudici pugliesi riconoscono come legittima la comminatoria in capo all’attuale proprietario dell’opera abusiva – odierno ricorrente e, per l’effetto, ne respingono l’impugnativa. CC
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Inserito in data 19/11/2016 TAR PIEMONTE - TORINO, SEZ. II - 15 novembre 2016, n. 1412 Diniego del rilascio del titolo abitativo alla guida, requisiti morali e giurisdizione Il Collegio piemontese chiarisce la portata dell’art. 120 comma 1 del Codice della strada ricavandone, frattanto, i confini in punto di giurisdizione. La norma appena richiamata così dispone: “Non possono conseguire la patente di guida i delinquenti abituali, professionali o per tendenza e coloro che sono o sono stati sottoposti a misure di sicurezza personali o alle misure di prevenzione previste dalla legge 27 dicembre 1956, n. 1423, ad eccezione di quella di cui all'articolo 2, e dalla legge 31 maggio 1965, n. 575, le persone condannate per i reati di cui agli articoli 73 e 74 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, fatti salvi gli effetti di provvedimenti riabilitativi, nonché i soggetti destinatari dei divieti di cui agli articoli 75, comma 1, lettera a), e 75-bis, comma 1, lettera f), del medesimo testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990 per tutta la durata dei predetti divieti. Non possono di nuovo conseguire la patente di guida le persone a cui sia applicata per la seconda volta, con sentenza di condanna per il reato di cui al terzo periodo del comma 2 dell'articolo 222, la revoca della patente ai sensi del quarto periodo del medesimo comma”. Il secondo comma dell’art. 120 dispone poi che nei confronti dei soggetti titolari di patente di guida che vengano, successivamente al rilascio, a trovarsi nelle condizioni indicate nel comma precedente il prefetto revoca la patente di cui siano in possesso. I Giudici, intervenendo sul punto e richiamando giurisprudenza consolidatasi in materia, ricordano come il provvedimento emesso ex articolo 120 del Codice della Strada, quivi per l’appunto impugnato, non è espressione di discrezionalità amministrativa, bensì atto vincolato sia nel presupposto (esistenza delle situazioni ivi elencate), sia nel contenuto (impossibilità del rilascio della patente). La parte interessata da tali provvedimenti subisce invero un pregiudizio che investe una posizione di diritto soggettivo che non degrada ad interesse legittimo per effetto della loro adozione (Cass. SS.UU. n.22491 del 2010, CdSez. V, n. 3712 del 29 agosto 2016)”. In considerazione di ciò, gravando sul diritto soggettivo del ricorrente, il Collegio ritiene fondata l’eccezione circa il sollevato difetto di giurisdizione e, pertanto, rimette l’odierno contenzioso dinanzi all’Autorità giurisdizionale Ordinaria - ai sensi e con gli effetti dell’art. 11 del codice del processo amministrativo. CC
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Inserito in data 18/11/2016 TAR EMILIA ROMAGNA - BOLOGNA, SEZ. I, 7 novembre 2016, n. 907 Destituzione dal servizio e reato di induzione indebita ex art. 319 quater cp Con la pronuncia di cui in epigrafe i Giudici bolognesi intervengono sul delicato rapporto tra la qualificazione penalistica di una fattispecie delittuosa e le accessorie conseguenze sotto il profilo amministrativo – disciplinare. Nella specie, viene respinto il ricorso di un assistente capo della Polizia di Stato, il quale era stato destituito dal servizio a seguito di una sentenza di condanna per il reato di induzione indebita a dare o promettere utilità, contemplato dall’articolo 319 quater del codice penale. A fronte della doglianza sollevata dal ricorrente, circa il limitato rilievo penalistico della condotta dal medesimo tenuta e l’esiguità della somma richiesta in sede di induzione, il Collegio contesta come sia comunque venuto meno, inesorabilmente, il rapporto di fiducia che deve esistere tra il corpo amministrativo ed il dipendente. Non ha nessuna rilevanza – proseguono i Giudici - la circostanza che per il reato di cui all’art. 319 quater c.p. non sia prevista la destituzione automatica: si tratterebbe in quel caso di una sanzione penale accessoria. Infatti, la circostanza che l’utilità conseguita non abbia un particolare valore, è rilevante a livello processuale per stabilire la quantificazione della pena, ma le conseguenze amministrative non possono essere legate a questi dettagli.
Appare congrua, pertanto, la prevista destituzione dal servizio – irrogata ex articoli 1 e 13 del DPR 737/1981 e, pertanto, il Tribunale emiliano rigetta il gravame, condannando il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio. CC
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Inserito in data 17/11/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, 15 novembre 2016, n. 4704 No all’assunzione di parenti nelle Università La ratio delle incompatibilità previste dalla legge per le procedure concorsuali di reclutamento dei docenti deve valere, “a maggior ragione” per le “chiamate dirette”. L’art 18, comma 1, lett. b) della L. 240/2010, relativo alla procedura di valutazione comparativa per il reclutamento dei professori di prima e di seconda fascia, sancisce che “non possono partecipare a tale procedimento coloro che abbiano un grado di parentela o di affinità, fino al quarto grado compreso, con un professore appartenente al dipartimento o alla struttura che effettua la chiamata ovvero con il rettore, il direttore generale o un componente del consiglio di amministrazione dell'ateneo”. L’estensione delle suddette preclusioni anche alla speciale procedura di “chiamata diretta” di cui all’art. 24, comma 6, L. 240/2010 è legittima, anche in assenza di espressa previsione legislativa. Il combinato disposto dell’ art. 18, comma 1, lett. b) e dell’art. 24, comma 6 da cui discende tale estensione non viola i principi costituzionali di proporzionalità e legittimo affidamento ( artt. 1, 3, 4, 35, 51 Cost.), ma, al contrario, trova il suo fondamento nell’art. 97 della Costituzione che mira a tutelare l’imparzialità dell’amministrazione. Il Consiglio di Stato sottolinea che, come è stato evidenziato dal giudice di primo grado, la normativa in esame appare “ragionevole e proporzionata, in vista del perseguimento dell’obiettivo di evitare, per il futuro, il ripetersi di situazioni di compresenza di congiunti all’interno della stessa università, e ciò a tutela del bene primario del prestigio e della credibilità dell’istituzione, suscettibile, nell’ipotesi opposta, di essere pregiudicato dinanzi all’opinione pubblica ed alla comunità scientifica nazionale ed internazionale”. “D’altro canto l’aspettativa a svolgere la propria carriera nella medesima sede non appare degna di particolare tutela anche in considerazione della recente proliferazione di nuove sedi universitarie che comunque garantiscono adeguate collocazioni lavorative.” G.B.
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Inserito in data 16/11/2016 CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 11 novembre 2016, n. 240 La Consulta ed i benefici combattentistici: nulla ai militari delle missioni ONU Oggetto della pronuncia in esame sono i c.d. benefici combattentistici, che costituiscono un istituto generale del pubblico impiego (non riservato allo status di militare) che si traduce in scatti aggiuntivi di cui fruire durante il servizio attivo, ovvero in un ampliamento della base pensionabile al momento del collocamento a riposo. Con la suddetta pronuncia la Corte Costituzionale dichiara in parte inammissibili ed in parte infondate una serie di questioni, sollevate con diverse ordinanze (tra febbraio 2015 e gennaio 2016, dal Tar Friuli Venezia Giulia e dal Tar Pescara), riguardanti l’esclusione del riconoscimento dei benefici succitati a favore dei militari coinvolti in missioni ONU. In particolare, l’asserita illegittimità costituzionale, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, riguarda l'articolo unico della L. 11 dicembre 1962, n. 1746 - come interpretato dal diritto vivente e dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato - in quanto limiterebbe i benefici combattentistici ivi previsti espressamente alle sole attività belliche della seconda guerra mondiale, con esclusione dei militari coinvolti in zone di intervento ONU. Ad avviso dei giudici rimettenti, invece, la nozione di combattente in campagne di guerra potrebbe estendersi, per la identità dei rischi sopportati, a coloro che partecipano a missioni per conto dell’ONU. Nel pronunciarsi, la Consulta ha ricostruito il complesso quadro normativo disciplinante la materia e stratificatosi negli ultimi decenni, giungendo alla conclusione secondo cui il legislatore ha sempre dimostrato di aver ben presente la distinzione tra le campagne di guerra e le missioni ONU, tanto che lo stesso, quando ha ritenuto di estendere ai partecipanti alle suddette missioni alcuni benefici riservati alle campagne di guerra lo ha disposto, mentre in altre ipotesi ha escluso espressamente tale estensione (art. 5, l. 9 ottobre 1971, n. 824). Tali scelte discrezionali del legislatore non appaiono irragionevoli alla Corte, anzi, a conferma di ciò si richiama la stessa disciplina delle missioni svolte per conto delle Nazioni Unite che, di volta in volta (ma ora con una previsione stabile, in quanto inserita nella legge quadro di settore n. 145 del 2016), stabilisce il trattamento economico ed accessorio unitamente ad altri benefici, tenendo in considerazione anche le rilevanti specificità e criticità delle singole missioni. Proseguendo nelle sue argomentazioni, la Corte ha inoltre richiamato i propri precedenti negativi in ordine all’estensione della qualifica di combattente (sentenze n. 234 del 21 aprile 1989, in Cons. Stato, 1989, II, 566 e n. 211 del 3 maggio 1993, id., 1993, II, 837). Il Giudice delle Leggi ha, infine, respinto l’obiezione secondo cui l’ordinamento interno dovrebbe adeguarsi a quello internazionale, ormai orientato ad assimilare al concetto di guerra altri concetti quali quelli di crisi internazionale o di conflitto armato; tale adeguamento giustificherebbe l’estensione dei benefici combattentistici al personale militare impegnato nelle missione di pace svolta per conto dell’ONU. Tuttavia, la Consulta, per un verso esclude l’esistenza nell’ordinamento italiano di un principio generale di assimilazione e, per un altro verso, ribadisce che tale equiparazione tra fattispecie militari possa essere solo frutto di una scelta discrezionale del legislatore, a tal fine richiama un risalente precedente in tema di polizia coloniale (5 maggio 1988, n. 509, in Riv. corte conti, 1988, fasc.4, 223) secondo cui <<non è irragionevole che il legislatore abbia riservato determinati benefici ai soli partecipanti a veri e propri fatti di guerra, ai quali non possono assimilarsi, per il diverso grado di rischio e sacrificio, le operazioni di polizia coloniale>>. FM
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Inserito in data 15/11/2016 TAR LAZIO - ROMA, SEZ. I, 14 novembre 2016, n. 11270 Sui limiti dei poteri di vigilanza dell’ANAC Con la pronuncia in epigrafe, il TAR chiarisce la portata applicativa dell’art. 16 del d.lgs. n. 39/2013 (“Disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico a norma dell'articolo 1, commi 49 e 50, della legge 6 novembre 2012, n. 190), perimetrando il potere di vigilanza dell’ANAC (Autorità Nazionale Anticorruzione) in ordine alle disposizioni del citato decreto. La norma precisa che un simile potere si attua “anche con l'esercizio di poteri ispettivi e di accertamento di singole fattispecie di conferimento degli incarichi” (art. 16, comma 1). Nella specie, l'ANAC ordinava al soggetto da essa vigilato di avviare un procedimento nei confronti del Presidente dell’ente, nell'ambito del quale contestare la menzionata causa di inconferibilità ed elevare la sanzione inibitoria ai sensi dei commi 1 e 2, dell'art. 18, D.Lgs. n. 39/2013. In via preliminare va osservato che la legge n. 190/2012, recante le disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell'illegalità nella pubblica amministrazione, ha previsto, all’art. 1, comma 49, la delega al Governo per l’adozione di uno o più decreti legislativi diretti a modificare la disciplina vigente in materia di attribuzione di incarichi dirigenziali e di incarichi di responsabilità amministrativa di vertice nelle pubbliche amministrazioni e negli enti di diritto privato sottoposti a controllo pubblico. La lettera d) del comma 50, ha previsto che fossero compresi tra gli incarichi oggetto della disciplina quelli “di amministratore di enti pubblici e di enti di diritto privato sottoposti a controllo pubblico” In attuazione della delega, il d.lgs. 39/2013, all’art.1, comma 2, lett. b), ha disposto che si intendono per “enti pubblici” gli enti di diritto pubblico non territoriali nazionali, regionali o locali, comunque denominati, istituiti, vigilati, finanziati dalla pubblica amministrazione che conferisce l’incarico, ovvero i cui amministratori siano da questa nominati. L’intento del legislatore delegante va, quindi, ricercato attraverso la complessiva analisi delle finalità perseguite, attraverso l’introduzione della disciplina in materia di inconferibilità degli incarichi, che sono chiaramente percepibili nell’esigenza di introdurre meccanismi di tutela atti a prevenire e contrastare il fenomeno della corruzione nel settore pubblico e presso gli enti privati sottoposti a controllo pubblico. La perimetrazione del campo di applicazione delle previsioni in materia di prevenzione della corruzione deve essere effettuata avendo come obiettivo la tutela delle finalità di pubblico interesse perseguite dal legislatore e quindi la natura delle attività esercitate dai soggetti destinatari delle norme. Va aggiunto che secondo i ricorrenti, nessuna disposizione, tanto della legge delega n. 190/2012 quanto del d.lgs. n. 39/2013, attribuisce all’ANAC il potere di ordinare ai soggetti vigilati l’adozione di determinati atti in relazione al conferimento di incarichi e, soprattutto, di predeterminarne il contenuto. Ad avviso del Collegio, le contestazioni svolte sul punto colgono nel segno e meritano accoglimento. Invocando il principio di legalità dell'azione amministrativa e ricordandone la rilevanza costituzionale (ex artt. 1, 23, 97 e 113 Cost.), il TAR evidenzia come esso imponga che sia la legge a individuare lo scopo pubblico da perseguire e i presupposti essenziali, di ordine procedimentale e sostanziale, per l'esercizio in concreto dell'attività amministrativa. Ne discende che il contenuto dei poteri spettanti all’Autorità nell’ambito dei procedimenti per il conferimento di incarichi va ricercato nel dato normativo primario, non essendo consentito il ricorso ad atti regolatori diversi, quali le linee guida o altri strumenti di cd. soft law, per prevedere l’esercizio di poteri nuovi e ulteriori. Il TAR Lazio osserva come “la norma delinea chiaramente il ruolo e i compiti dell’ANAC in materia di inconferibilità di incarichi e li descrive nei termini dell’esercizio di un generale potere di vigilanza, rafforzato attraverso il riconoscimento di forme di dissuasione e di indirizzo dell’ente vigilato, che possono financo condurre alla sospensione di un procedimento di conferimento ancora in fieri ma che non possono comunque mai portare alla sostituzione delle proprie determinazioni a quelle che solo l’ente vigilato è competente ad assumere. Neppure è possibile ricavare, in via logica, una portata più ampia del potere d’ordine ivi contemplato, in ragione delle finalità sottostanti al complessivo funzionamento delle norme in materia di prevenzione della corruzione.” Ad avviso del Collegio, una differente interpretazione, che riconoscesse all’ANAC il suggestivo ruolo di “estremo garante” in materia di anticorruzione, sarebbe inaccettabile, poiché finirebbe con l’introdurre un surrettizio potere sostitutivo dell’ente vigilato a favore dell’Autorità, in palese contrasto con il principio di legalità. In definitiva, osserva il Collegio che solo ed esclusivamente al responsabile per la prevenzione della corruzione dell’ente, e non anche all’ANAC, spetta il potere di dichiarare la nullità di un incarico ritenuto inconferibile e assumere le conseguenti determinazioni. Invero, una possibile dialettica tra l’Autorità e l’ente vigilato in relazione alle valutazioni compiute, può suggerire al responsabile una correzione del suo operato, ma mai spingersi sino ad obbligare l’ente ad adeguarsi alle considerazioni svolte dall’Autorità. DU
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Inserito in data 14/11/2016 TAR LOMBARDIA - MILANO, SEZ. IV, 7 novembre 2016, n. 2057 Accordi quadro ex art. 54 Nuovo codice appalti e bando illegittimo per indeterminatezza criteri di aggiudicazione Con la sentenza emarginata in epigrafe il Tribunale amministrativo milanese dichiara la illegittimità di un bando di gara finalizzato alla stipula di un accordo quadro ex art. 54 (d.lg.s n. 50 del 2016 - Nuovo codice appalti), affermando la eccessiva indeterminatezza dei criteri e dei termini che disciplinano la prestazione dei lavori, dei servizi e delle forniture e, pertanto, in violazione della ratio dell’istituto in esame. In particolare, la ricorrente lamenta l’illegittimità di una serie di disposizioni contenute nella lex specialis (capitolato tecnico e di oneri) di gara per violazione dell’art. 54, comma 2, del D.Lgs. 50/2016, giacché il bando e gli altri atti di gara non indicherebbero in maniera sufficientemente precisa e determinata i criteri per l’aggiudicazione dei futuri appalti specifici, “rinviando spesso a successive e non ben determinate decisioni dei singoli enti, il che impedirebbe ai partecipanti di presentare offerte ben ponderate, non essendo assolutamente chiare le condizioni di partecipazione agli appalti specifici nonché la lacunosità dei criteri di aggiudicazione degli appalti specifici”. Il Collegio, nella sua decisione, evidenzia quanto sia complesso valutare la legittimità di un bando finalizzato alla stipulazione di un accordo quadro. Ed invero, “le esigenze di flessibilità nella programmazione degli acquisiti, espresse dalla stazione appaltante, non possono comportare un uso distorto dell’istituto, né giustificano soluzioni della lex specialis lesive dei noti principi di ragionevolezza e proporzionalità dell’azione amministrativa”. Infatti, per come sottolineato nel ricorso circa la genericità del contenuto tecnico ed economico degli appalti specifici, il Tribunale riscontra una eccessivo numero di rinvii effettuati dalla lex specialis alle successive determinazioni dei singoli enti appaltanti, “non accompagnati però da chiare indicazioni sul contenuto dei successivi appalti specifici,” sicché si tratta di rinvii alquanto lacunosi”. Inoltre, alla predetta genericità ed indeterminatezza dei criteri di aggiudicazione, si accompagna, altresì, la previsione dell’obbligo per il fornitore risultato idoneo all’accordo quadro di partecipare ai successivi appalti specifici. Tale obbligo è rafforzato dalla circostanza di dover pagare una “cauzione a garanzia dell’accordo quadro”, che la committente potrà escutere in caso di violazione dell’obbligo di partecipazione agli appalti specifici. Ad avviso del Collegio, la previsione della predetta cauzione costituisce un ulteriore motivo per ritenere illegittimo il bando oggetto di impugnativa giacché “il predetto obbligo di partecipazione (salvo il pagamento di una cospicua cauzione/sanzione) a tutte le gare insieme fondate su quel prezzo e poi regolate da svariate, ulteriori specifiche e imprevedibili condizioni, fissate dalle singole stazioni appaltanti, “finirebbe con il trasformare l’istituto dell’accordo quadro, funzionale alla maggiore efficienza nell’individuazione dei fornitori di beni e servizi, in un meccanismo aleatorio, distorsivo della concorrenza ed idoneo a pregiudicare lo stesso principio di remuneratività degli appalti”. D’altra parte, il precetto di cui al comma 5 dell’art. 54 vieta che con gli appalti specifici si possano apportare “modifiche sostanziali” all’accordo quadro e che, in sede di confronto competitivo fra operatori sui singoli appalti, è consentito dalla norma di “precisare” ma non di alterare, le condizioni previste nell’accordo quadro.
In conclusione, secondo il Collegio “il sistema previsto dal bando oggetto della impugnativa finisce per snaturare la figura dell’accordo quadro, risolvendosi di fatto nella scelta da parte del committente pubblico di un certo numero di fornitori, obbligati successivamente a partecipare ad ulteriori procedure di gara, le cui condizioni saranno però determinate di volta in volta dai singoli enti appaltanti; laddove, viceversa, la libertà di presentazione dell’offerta, in questa seconda fase, avrebbe in qualche modo equilibrato la circostanza della specificazione successiva dei criteri di aggiudicazione degli appalti specifici”. PC
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Inserito in data 12/11/2016 TAR LAZIO - ROMA, SEZ. III Quater, 9 novembre 2016, n. 11092 La mancata sottoscrizione dell’offerta tecnica comporta l’esclusione dalla gara Con la pronuncia in esame, il Collegio romano avalla quella giurisprudenza secondo cui «la sottoscrizione dell'offerta, prescritta ai sensi dell'art. 74 d.lgs. n. 163 del 2006, si configura come lo strumento mediante il quale l'autore fa propria la dichiarazione contenuta nel documento, serve a renderne nota la paternità ed a vincolare l'autore alla manifestazione di volontà in esso contenuta. Essa assolve la funzione di assicurare provenienza, serietà, affidabilità e insostituibilità dell'offerta e costituisce elemento essenziale per la sua ammissibilità, sia sotto il profilo formale che sotto quello sostanziale, potendosi solo ad essa riconnettere gli effetti dell'offerta come dichiarazione di volontà volta alla costituzione di un rapporto giuridico. La sua mancanza inficia, pertanto, la validità e la ricevibilità della manifestazione di volontà contenuta nell'offerta senza che sia necessaria, ai fini dell'esclusione, una espressa previsione della legge di gara (Cons. St. Sez. V, 7.11.2008, n. 5547). Non può ritenersi equivalente alla sottoscrizione dell'offerta l'apposizione della controfirma sui lembi sigillati della busta che la contiene» (così C.d.S. 25 gennaio 2011, n. 528). Inoltre, l’art. 46 comma 1-bis del d.lgs. n. 163/2006, relativo all'incertezza sul contenuto o sulla provenienza dell'offerta, va letto “nel senso che può essere sanzionata con l'esclusione dalla gara l'offerta che presenti un margine di incertezza significativo, sia per il contenuto intrinseco della stessa, sia in relazione all'oggetto dell'appalto: analogamente, sono da ritenere essenziali quegli elementi dell'offerta atti ad incidere in maniera significativa sul contenuto della stessa, tanto che la loro mancanza renda l'offerta non soddisfacente rispetto alle richieste della stazione appaltante”. Pertanto, va escluso il concorrente il quale abbia omesso la sottoscrizione dell'offerta tecnica – la quale non è negozialmente imputabile ad alcuno – mentre la mancata esplicita previsione di tale carenza tra le cause di esclusione è irrilevante "trattandosi di mancanza di un elemento essenziale dell'offerta che anche nell'attuale assetto normativo disegnato dall'attuale art. 46, comma 1-bis, del Codice appalti, in cui è stato codificato il principio di tassatività delle cause di esclusione, rileva quale causa di estromissione del concorrente dalla gara d'appalto” (in questi termini Consiglio di Stato, 21 giugno 2012 n. 3669 e 8 agosto 2013, n. 727). In conclusione, “la mancata sottoscrizione dell'offerta tecnica, che costituisce uno dei documenti integranti la domanda di partecipazione alla gara, non può essere considerata, in via di principio, un'irregolarità solo formale sanabile nel corso del procedimento, atteso che essa fa venire meno la certezza della provenienza e della piena assunzione di responsabilità in ordine ai contenuti della dichiarazione nel suo complesso posto che la sottoscrizione di un documento è lo strumento mediante il quale l'autore fa propria la dichiarazione anteposta contenuta nello stesso, consentendo così non solo di risalire alla paternità dell'atto, ma anche di rendere l'atto vincolante verso i terzi destinatari della manifestazione di volontà (ibidem)”. EF
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Inserito in data 11/11/2016 CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA - NONA SEZIONE, SENTENZA 10 novembre 2016, C - 199/15 È legittima l’esclusione dalla gara per irregolarità del DURC, anche se poi regolarizzata La Corte di Giustizia chiamata a pronunciarsi in via pregiudiziale sull’interpretazione dell’art. 45 della direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 31 marzo 2004 - relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi- sancisce che il suddetto articolo “deve essere interpretato nel senso che non osta a una normativa nazionale che obbliga l'amministrazione aggiudicatrice a considerare quale motivo di esclusione una violazione in materia di versamento di contributi previdenziali ed assistenziali risultante da un certificato richiesto d'ufficio dall'amministrazione aggiudicatrice e rilasciato dagli istituti previdenziali, qualora tale violazione sussistesse alla data della partecipazione ad una gara d'appalto, anche se non sussisteva più alla data dell'aggiudicazione o della verifica d'ufficio da parte dell'amministrazione aggiudicatrice.” Pertanto, l’esclusione di un’impresa dalla procedura di gara per irregolarità del documento unico di regolarità contributiva (DURC) è legittima, anche in caso di regolarizzazione successiva. La Corte di Giustizia argomenta procedendo all’analisi del contesto normativo di riferimento. L’art. 45 della direttiva 2004/18, relativo ai criteri di selezione qualitativa della situazione personale del candidato o dell’offerente, contempla, tra le ipotesi di esclusione dalla gara, l’irregolarità degli obblighi di pagamento dei contributi previdenziali e assistenziali. L’assenza di tale situazione ostativa può essere provata mediante certificato ( rilasciato dall’autorità competente dello Stato membro) che, su invito dell’amministrazione aggiudicatrice, può essere successivamente “integrato o chiarito”. La corte chiarisce che le “eventuali regolarizzazioni posteriori” devono essere attuate entro un termine che consenta il rispetto dei principi di trasparenza e di parità di trattamento e che le “correzioni o aggiunte possono riguardare esclusivamente dati la cui anteriorità rispetto alla scadenza del termine fissato per presentare candidatura sia oggettivamente verificabile e non possono riguardare informazioni la cui comunicazione è richiesta a pena di esclusione.” Le valutazioni in ordine alla portata non ostativa dell’art. 45 rispetto alla legislazione nazionale in materia si impone anche nel caso di certificato rilasciato dagli istituti previdenziali e richiesto d’ufficio dall’amministrazione aggiudicatrice. Infatti, osserva la Corte che dalla formulazione delle disposizioni in esame “non si evince assolutamente che alle autorità competenti sia vietato richiedere d’ufficio agli istituti previdenziali il certificato prescritto”. Inoltre, l’art. 45, paragrafo 2, “non osta ad una normativa nazionale che obbliga le amministrazioni aggiudicatrici a considerare quale motivo di esclusione una violazione in materia di versamento di contributi previdenziali e assistenziali risultanti da un certificato richiesto d’ufficio dall’amministrazione aggiudicatrice e rilasciato dagli istituti previdenziali, qualora tale violazione sussistesse alla data della partecipazione ad una gara d’appalto, escludendo così ogni margine di discrezionalità delle amministrazioni aggiudicatrici a tale riguardo.” GB
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Inserito in data 10/11/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, SENTENZA 7 novembre 2016, n. 4645 L’offerta non può essere sottoscritta dal soggetto privo di potere La questione posta al vaglio del Consesso riguarda l’estensione del potere di rappresentanza conferito con procura speciale avente ad oggetto “la (sola) partecipazione a gare d’appalto di opere e lavori pubblici” e, di conseguenza, la legittimazione alla sottoscrizione dell’offerta. A tal uopo, il Consiglio di Stato osserva che ”la natura di atto giuridico unilaterale, avente forma scritta (cfr. art. 1392 c.c.), della procura speciale non consente di estenderne in via ermeneutica l’oggetto, fino a ricomprendervi il conferimento di un potere di rappresentanza non conferito sì da contestare la volontà come espressamente manifestata dal rappresentato nell’atto”. Non soccorrono, “in contrario, le norma dettate dal codice civile in tema di rappresentanza degli enti commerciali con riferimento all’inopponibilità ai terzi delle limitazioni del potere di rappresentanza dell’institore e del procuratori non trascritte nel registro delle imprese”. Aggiungasi che “l’inopponibilità delle limitazioni del potere di rappresentanza dell’institore non trascritte, di cui agli artt. 2206 e 2207 c.c., è posta da tutela dei terzi contraenti con (eventualmente) pregiudizio dell’impresa rappresentata, vincolata ad un contratto non voluto”. Del resto, è ingiustificato assoggettare il terzo -stazione appaltante- “alla decisione del rappresentato di esercitare o meno il potere di ratificare, attesoché la situazione passiva (cfr. art. 1399 , comma 3, c.c.) che non consente al terzo contraente di sciogliersi unilateralmente dal vincolo contrattuale in attesa della ratifica non deriva – diversamente dall’avvenuta stipulazione del contratto con il rappresentante senza potere – da un atto di cui il terzo si sia reso partecipe”. Esito che, tradotto nell’evidenza pubblica, “condizionerebbe la continuità dello svolgimento del procedimento, conformato al principio di concentrazione delle operazioni di gara, alla decisione del rappresentato il quale, oltretutto, potrebbe liberamente valutare ex post, a gara conclusa (come di fatto avvenuto nel caso in esame), la convenienza di ratificare l’atto, compromettendo in apicibus la par condicio fra i concorrenti” (cfr., in termini, Cons. Stato, sez. V, 17 dicembre 2008 n. 6292; TAR Lazio, sez. II, 5 maggio 2014 n. 4643). Ne consegue, dunque, che la sottoscrizione dell’offerta da parte di soggetto privo di potere “non consente d’imputarla alla persona giuridica, esonerandola dall’assunzione di impegni vincolanti nei confronti della stazione appaltante”. Peraltro, “la radicalità del vizio dell’offerta non consente l’esercizio del soccorso istruttorio che va contemperato con il principio della parità tra i concorrenti, anche alla luce dell’altrettanto generale principio dell'autoresponsabilità dei concorrenti, per il quale ciascuno di essi sopporta le conseguenze di eventuali errori commessi nella formulazione dell'offerta e nella presentazione della documentazione” (cfr., da ultimo, Cons. Stato Sez. V, 15 febbraio 2016, n. 627). In conclusione, sotto il profilo sistematico, va sottolineato che “il nuovo codice degli appalti (art. 83 d.lgs. 18 aprile 2016 n. 50), pur estendendo i margini di applicabilità del soccorso istruttorio, ha cura di precisare che non sono sanabili la mancanza, l’incompletezza o – omissis – ogni altra irregolarità essenziale afferenti all’offerta tecnica ed economica”. EF
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Inserito in data 09/11/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, 7 novembre 2016, n. 4647 Limiti alla responsabilità per danno ambientale del proprietario attuale di aree interessate da un fenomeno di inquinamento preesistente Nella sentenza in esame il Consiglio di Stato affronta la discussa questione dei limiti della responsabilità per danno ambientale del proprietario attuale delle aree interessate da un conclamato fenomeno di inquinamento non addebitabile sul piano eziologico alla sfera di azione del proprietario medesimo. Nel giudizio di primo grado il TAR Marche aveva annullato il provvedimento e gli altri atti presupposti e conseguenziali con i quali, all’esito di numerose conferenze di servizi, la P.A. aveva imposto ad un’impresa adempimenti funzionali alla messa in sicurezza delle aree contermini agli edifici aziendali interessate da fenomeni di inquinamento della falda. Le amministrazioni (odierne appellanti) già in primo grado avevano sostenuto la legittimità dei provvedimenti annullati, poiché ispirati, a loro dire, dall’intento di porre rimedio in via d’urgenza ad una diffusa situazione di inquinamento ambientale. Il TAR marchigiano, però, aveva ritenuto non imputabile l’impresa, sull’assunto che la stessa sarebbe mera proprietaria delle aree, ma non responsabile dell’inquinamento. Il Consiglio di Stato, respingendo l’appello proposto dal Ministero dell’ambiente, il Ministero della salute ed il Ministero dello sviluppo economico, mostra di condividere la posizione assunta dal giudice di prime cure. Nelle sue argomentazioni, il Supremo Consesso richiama, in primo luogo, l’orientamento già in passato espresso dalla Corte di Giustizia U.E. , la quale, interpellata dall'Adunanza Plenaria (dello stesso Consiglio di Stato) sulla compatibilità della disciplina del Codice dell’Ambiente con i principi dell’Unione Europea in materia ambientale, aveva affermato che "la direttiva 2004/35/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 21 aprile 2004, sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, deve essere interpretata nel senso che non osta a una normativa nazionale (...) la quale, nell'ipotesi in cui sia impossibile individuare il responsabile della contaminazione di un sito o ottenere da quest'ultimo le misure di riparazione, non consente all'autorità competente di imporre l'esecuzione delle misure di prevenzione e di riparazione al proprietario di tale sito, non responsabile della contaminazione, il quale è tenuto soltanto al rimborso delle spese relative agli interventi effettuati dall'autorità competente nel limite del valore di mercato del sito, determinato dopo l'esecuzione di tali interventi". Tale orientamento della giurisprudenza europea, afferma la Sesta Sezione, consolida la legittimità del Codice dell’Ambiente nella parte in cui esclude, per il proprietario estraneo all’inquinamento del sito, l’imposizione di misure di prevenzione o di riparazione, ad eccezione di quelle che il soggetto intraprenda spontaneamente ai sensi dell’art. 245 cit.. Il Consiglio di Stato entra poi nel merito dell’eccezione sollevata dalle amministrazioni appellanti secondo cui gli interventi imposti alla società in questione “rientrerebbero nelle misure di emergenza esigibili anche in confronto del proprietario non responsabile dell’inquinamento il quale, in ogni caso, sarebbe tenuto ad eseguire gli interventi di bonifica prescritti per essersi prestato alle preliminari attività di monitoraggio delle acque di falda; donde sarebbe pienamente legittimo l’ordine di messa in sicurezza di emergenza della falda a mezzo della realizzazione di barriere idrauliche in prossimità delle sorgenti di contaminazione della falda in aggiunta all’eliminazione dei focolai di inquinamento”. Orbene, tale tesi, ribadisce il Consesso, non è condivisibile, poiché, nel caso di specie, le amministrazioni appellanti non forniscono un riscontro probatorio - anche soltanto indiziario - che dimostri un apporto, anche solo concausale, dell’impresa al fenomeno di inquinamento della falda acquifera (come ad esempio potrebbe essere la dimostrazione della corrispondenza tra le sostanze inquinanti ritrovate nel sito ed i componenti utilizzati dall’impresa nell’attuale processo di lavorazione); inoltre, la natura stessa delle attività imposte dalla P.A., come il “barrieramento idraulico delle falde”, non è qualificabile alla stregua di attività di messa in sicurezza di emergenza, ma piuttosto è riconducibile a vera e propria attività di bonifica del sito (non addossabili al proprietario che non è responsabile dell’inquinamento). Si deve, pertanto, ritenere, conclude il Consiglio, che la società appellata sia estranea al riscontrato inquinamento della falda acquifera, in assenza di sufficienti elementi probatori (neppure di ordine indiziario), ed in subordine, pur ravvisando nella fattispecie la sussistenza di un’autonoma iniziativa della stessa società (proprietaria delle aree) nella fase iniziale del procedimento di recupero ambientale, occorre escludere che ad essa possano essere imposte le importanti e gravose opere di bonifica previste dai gravati provvedimenti; “ciò in considerazione della oggettiva difficoltà di assimilare le opere imposte al proprietario (barrieramento idraulico delle acque di falda) con quelle di messa in sicurezza di emergenza ( che risultano conseguenti ad eventi di contaminazione repentina e sono funzionali a contenere la diffusione delle sorgenti primarie di contaminazione, impedirne il contatto con altre matrici presenti nel sito, in attesa di eventuali ulteriori interventi di bonifica o di messa in sicurezza operativa o permanente, ai sensi dell’ art. 240, comma 1, lett. m) d.lgs. n. 152 del 2006)”. A sostegno delle proprie conclusioni, la Sesta Sezione richiama sul punto anche il pacifico orientamento giurisprudenziale dello stesso Consiglio di Stato (ex multis, Cons. Stato, VI, n. 550 del 2016; Cons. Stato, VI, n. 4225 del 2015) “che esclude il coinvolgimento coatto del proprietario di un'area inquinata, non responsabile dell'inquinamento, nelle attività di rimozione, prevenzione e messa in sicurezza di emergenza. Al più tale soggetto, in qualità di proprietario dell'area, potrà essere chiamato, nel caso, a rispondere sul piano patrimoniale e a tale titolo potrà essere tenuto al rimborso delle spese relative agli interventi effettuati dall'autorità competente ( nella specie, il Comune, ai sensi dell’art. 14 della LR Marche 2 agosto 2006 n. 13, come mod. dalla LR 29 novembre 2013 n. 44) nel limite del valore di mercato del sito determinato dopo l'esecuzione di tali interventi, secondo quanto desumibile dal contenuto dell'art. 253 del Codice dell'ambiente”. FM
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Inserito in data 08/11/2016 CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 4 novembre 2016, n. 23 Il contratto di avvalimento nelle gare pubbliche Con la sentenza in epigrafe, l’Adunanza Plenaria, chiamata a pronunciarsi sulla corretta interpretazione dell’art. 88 del d.P.R. n. 207/2010, in particolare sulla determinazione dell’oggetto del contratto di avvalimento, esclude la nullità del contratto di avvalimento per le ragioni indicate nell’ordinanza di rimessione. L’Adunanza fornisce un’interessante genesi dell’istituto dell’avvalimento, la cui enucleazione in ambito eurounitario risponde all’obiettivo preciso di garantire “massima partecipazione alle gare, consentendo ai concorrenti di utilizzare i requisiti di capacità tecnico-professionale e economico-finanziaria di soggetti terzi, indipendentemente dalla natura giuridica dei legami con altri soggetti”. Il Supremo Consesso ricorda che l’istituto dell’avvalimento è stato introdotto nell’ordinamento nazionale in attuazione di puntuali prescrizioni dell’ordinamento UE e che esso risulta volto, secondo quanto chiarito dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’UE, a conseguire l’apertura degli appalti pubblici alla concorrenza nella misura più ampia possibile, coinvolgendo anche piccole e medie imprese. Alla luce di ciò, il Collegio osserva che l’applicazione dei richiamati canoni di parità di trattamento e di non discriminazione osta a interpretazioni sottoposte a requisiti ulteriori e più stringenti rispetto a quelli ordinariamente previsti per la generalità dei contratti, ai sensi degli articoli 1325 e 1346 del Cod. Civ. In realtà, è al contenuto di tali disposizioni che va riportato il disposto di cui all’art. 88, comma 1, del D.P.R. n. 207 del 2010, che va pertanto letto in coerenza con le predette disposizioni codicistiche. In particolare, l’applicazione dei richiamati canoni osta alla tesi secondo cui per la validità dei contratti in generale, è richiesto un oggetto di carattere determinato ovvero determinabile. Al contrario per il contratto di avvalimento sarebbe sempre e comunque richiesto un oggetto determinato (restando esclusa la determinabilità dello stesso sulla base degli ordinari criteri dell’ermeneutica contrattuale).
Le considerazioni dinanzi svolte, relative al potenziale contrasto con il diritto UE di un’interpretazione volta ad imporre in modo indefettibile il requisito della determinatezza dell’oggetto del contratto di avvalimento, neppure consentono di prestare adesione alla teoria della nozione di < Tuttavia, un’analoga ratio non si rinviene nel settore della contrattualistica pubblica, nel cui ambito agiscono operatori professionali. Per le ragioni esposte, l’Adunanza Plenaria enuncia il seguente principio di diritto: “L’articolo 49 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 e l’articolo 88 del decreto del Presidente della Repubblica 5 ottobre 2010, n. 207, in relazione all’articolo 47, paragrafo 2 della Direttiva 2004/18/CE, devono essere interpretati nel senso che essi ostano a un’interpretazione tale da configurare la nullità del contratto di avvalimento in ipotesi (quale quella che qui rileva) in cui una parte dell’oggetto del contratto di avvalimento, pur non essendo puntualmente determinata, fosse tuttavia agevolmente determinabile dal tenore complessivo del documento, e ciò anche in applicazione degli articoli 1346, 1363 e 1367 del codice civile”. Sicché, nella fattispecie in esame non è ravvisabile un’ipotesi di nullità del contratto di avvalimento. DU
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Inserito in data 07/11/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 3 novembre 2016, n. 4617 Subappalto c.d. necessario e nominativo del subappaltatore in sede di offerta Con la pronuncia emarginata in epigrafe, la terza sezione del Consiglio di Stato respinge l’appello proposto avverso la sentenza resa dal T.A.R. Milano, quarta sezione, n. 00391/2016, in una controversia concernente l’aggiudicazione, da parte di una concorrente, di servizi sociosanitari, assistenziali, alberghieri nonché per la fornitura di prestazioni socio sanitarie e assistenziali. Si precisa che taluni dei predetti servizi vengono svolti in subappalto. In particolare, la originaria ricorrente (odierna appellante), sul presupposto che si versi in una ipotesi di subappalto necessario, denuncia la mancata indicazione in sede di presentazione della offerta (da parte della aggiudicataria), del nominativo del subappaltatore. Non ritenendo, quindi, sufficiente la semplice dichiarazione della intenzione di subappaltare il servizio. Per maggior chiarezza, ricorre il c.d. subappalto necessario nella ipotesi in cui l’appaltatore, pur essendo titolato a partecipare alla gara, deve necessariamente ricorrere al subappalto per l’effettuazione di alcune lavorazioni (non essendo in possesso delle qualifiche necessarie richieste dalla legge) . Sotto tale ultimo profilo, la sentenza in esame ribadisce il principio autorevolmente espresso dalla adunanza plenaria (sentenza n. 9 del 2015), secondo cui “in sede di gara pubblica, l'indicazione del nominativo del subappaltatore già in sede di presentazione dell'offerta non è obbligatoria neanche nell'ipotesi in cui il concorrente non possieda la qualificazione nelle categorie scorporabili previste all'art. 107, comma 2, d.P.R. 5 ottobre 2010, n. 207”. Invero, con il predetto principio, il supremo Consesso amministrativo ha risolto il contrasto giurisprudenziale in tema di subappalto necessario, che vedeva contrapposte due opposte soluzioni, peraltro entrambe basate su ricostruzioni plausibili e ragionevoli. Secondo una prima tesi, infatti, la necessità della dimostrazione della qualificazione per tutte le lavorazioni per le quali la normativa di riferimento la esige implicherebbe la necessità dell’indicazione del nominativo del subappaltatore già nella fase dell’offerta. Ciò in modo da permettere alla stazione appaltante il controllo circa il possesso, da parte della concorrente, di tutti i requisiti di capacità richiesti per l’esecuzione dell’appalto. Viceversa, una diversa impostazione esclude che ai fini della partecipazione ad una gara sia necessario il possesso delle qualificazioni anche con riferimento alle categorie scorporabili, ritenendo così sufficiente il solo obbligo della indicazione delle lavorazioni che il concorrente intende affidare in subappalto, ma non anche la indicazione del nominativo della impresa subappaltatrice. Come detto, la plenaria del 2015 ha aderito alla seconda delle due sopra riportate ricostruzioni escludendo, pertanto, l'obbligatorietà dell'indicazione del nominativo del subappalto già in sede di presentazione dell'offerta, anche "nell'ipotesi in cui il concorrente non possieda la qualificazione nelle categorie scorporabili”, cioè quando si deve necessariamente ricorrere al subappalto. Al riguardo il Collegio osserva, così come affermato dal Giudice di prime cure, che “il subappalto è un istituto che attiene alla fase di esecuzione dell'appalto (e che rileva nella gara solo negli stretti limiti della necessaria indicazione delle lavorazioni che ne formeranno oggetto), di talché il suo mancato funzionamento (per qualsivoglia ragione) deve essere trattato alla stregua di un inadempimento contrattuale, anche l’indicazione nominativa del subappaltatore desumibile già in sede di offerta non può avere l’effetto di vincolare il concorrente alla scelta di quell’impresa come subappaltatrice, impedendogli di indicare una diversa impresa al momento opportuno.
In conclusione, in sede di presentazione delle offerte non è obbligatorio indicare il nominativo della impresa subappaltatrice, essendo sufficiente la mera indicazione dei lavori che si intendono affidare a terzi. Inoltre, la eventuale indicazione del nominativo del subappaltatore in sede di presentazione delle offerte, non deve considerarsi vincolante per il concorrente il quale potrà ben decidere di rivolgersi ad altra impresa per la esecuzione dei lavori. PC
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Inserito in data 05/11/2016 TAR VENETO - VENEZIA, SEZ. III, 2 novembre 2016, n. 1225 V.I.A. : Intensità del sindacato esercitabile dal Giudice amministrativo La valutazione d’impatto ambientale (VIA) è “un procedimento teso ad individuare gli effetti negativi e/o positivi che determinati progetti pubblici o privati possono comportare sull’ambiente, al fine di giudicarne la compatibilità con l’ambiente interessato” e rappresenta “un importante terreno d’incontro e d’interazione tra discrezionalità amministrativa e tecnica”. Nel giudizio di valutazione di impatto ambientale, infatti, “l’amministrazione esercita una amplissima discrezionalità che non si esaurisce in un mero giudizio tecnico, ma presenta al contempo profili particolarmente intensi di discrezionalità amministrativa e istituzionale sul piano dell’apprezzamento degli interessi pubblici e privati coinvolti e della loro ponderazione rispetto all'interesse all'esecuzione dell'opera o del progetto”. Tale apprezzamento ” è sindacabile dal G.A. soltanto in ipotesi di manifesta illogicità o travisamento dei fatti, nel caso in cui l'istruttoria sia mancata, o sia stata svolta in modo inadeguato, e sia perciò evidente lo sconfinamento del potere discrezionale riconosciuto all'amministrazione” (Cfr. ex multis, Cons. St., sez. V, 6 luglio 2016 n. 3000, Cons. St., sez. V, 22 marzo 2012 n. 1640; Cons. St., sez. VI, 13 giugno 2011, n. 3561;). “Le posizioni soggettive dei soggetti coinvolti nella procedura sono pacificamente qualificabili in termini di interesse legittimo ed è altrettanto assodato che le relative controversie non rientrano nel novero delle tassative ed eccezionali ipotesi di giurisdizione di merito previste dall’art. 134 c.p.a.” La natura discrezionale della decisione finale assunta dalla P.A. in materia di VIA si riflette sulla “intensità del sindacato del G.A.” Il sindacato relativo ai profili di discrezionalità tecnica è” intrinseco”, ma non “sostitutivo”, con l’effetto che il Giudice “non può sovrapporre alla valutazione tecnica opinabile del competente organo della PA la propria. Diversamente ragionando egli finirebbe col farsi amministratore, sostituendo un giudizio opinabile con uno altrettanto incerto e opinabile, assumendo così un potere che la legge riserva alla P.A.” Quanto al controllo esercitabile dal G.A. sulle valutazioni schiettamente discrezionali, esso “deve essere svolto ab extrinseco, nei limiti della rilevabilità ictu oculi dei vizi di legittimità dedotti, essendo diretto ad accertare la sussistenza di seri indici di invalidità e non alla sostituzione dell’amministrazione”. “Sulla scorta di consolidati principi (cfr., Cass. civ., sez. un., 17 febbraio 2012, nn. 2312 e 2313; Cons. St., sez. V, 22 marzo 2012 n. 1640; Cons. St., sez. VI, 9 febbraio 2011, n. 871) la sostituzione, da parte del G.A, della propria valutazione a quella riservata alla discrezionalità dell’amministrazione costituisce ipotesi di sconfinamento vietato della giurisdizione di legittimità nella sfera riservata alla P.A., quand’anche l’eccesso in questione sia compiuto da una pronuncia il cui contenuto dispositivo si mantenga nell’area dell’annullamento dell’atto.” Peraltro,” in base al principio di separazione dei poteri sotteso al nostro ordinamento costituzionale, solo l’amministrazione è in grado di apprezzare, in via immediata e diretta, l’interesse pubblico affidato dalla legge alle sue cure; conseguentemente, il sindacato sulla motivazione delle valutazioni discrezionali deve essere rigorosamente mantenuto sul piano della verifica della non pretestuosità della valutazione degli elementi di fatto acquisiti e non può avvalersi di criteri che portano ad evidenziare la mera non condivisibilità della valutazione stessa.” GB
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Inserito in data 04/11/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, 31 ottobre 2016, n. 4566 L’effetto conformativo del giudicato sull’attività amministrativa discrezionale Con la pronuncia indicata in epigrafe, il Consesso afferma che in presenza “di un’attività amministrativa vincolata, il giudicato produce un effetto conformativo sostanzialmente pieno sull’attività amministrativa successiva al giudicato stesso, perché stabilisce quali sono le modalità di svolgimento della futura azione amministrativa”. Viceversa, sottolinea che, in presenza di un’attività connotata da discrezionalità, “l’effetto conformativo è solo parziale”. Infatti, il principio di separazione dei poteri, che ha rilevanza costituzionale, impedisce “che il giudice possa definire profili del rapporto che attengono al merito delle scelte amministrative”. Ne consegue che “l’attività dell’amministrazione successiva al giudicato dovrà rispettare le regole giudiziali e, per le parti non oggetto della sentenza, le regole legali”. A tal uopo, la giurisprudenza amministrativa ha rilevato che nuove ragioni ostative al soddisfacimento della pretesa azionata possano essere fatte valere una sola volta dopo il giudicato. Si è, infatti, affermato che «potendo in teoria l’Amministrazione pronunciarsi un numero di volte in via di principio infinito sullo stesso affare, ove questa ogni volta ponesse a sostegno del “nuovo” provvedimento fatti “nuovi” (in quanto non precedentemente esaminati) verrebbe vanificata la portata accertativa e soprattutto conformativa di ogni decisione». E’ stato individuato, in via empirica, il punto di equilibrio tra «due opposte esigenze rappresentate dalla garanzia della inesauribilità del potere di amministrazione attiva e dalla portata cogente del giudicato» nell’obbligo per amministrazione «dopo un giudicato di annullamento da cui derivi il dovere o la facoltà di provvedere di nuovo, di esaminare l'affare nella sua interezza, sollevando, una volta per tutte, tutte le questioni che ritenga rilevanti, dopo di ciò non potendo tornare a decidere sfavorevolmente neppure in relazione a profili non ancora esaminati» (in questo senso, Cons. Stato, sez. IV, 11 febbraio 2013, n. 769). Tuttavia, altra parte della giurisprudenza ha ritenuto che con il secondo provvedimento l’amministrazione non possa considerarsi «obbligata a fornire una risposta definitiva e coerente rispetto all’istanza di attribuzione del bene delle vita, e che se ciò non avviene quel bene va senz’altro attribuito». Aggiungendosi, però, che «l’adozione di un secondo diniego dopo il giudicato può far soltanto presumere l’atto elusivo del giudicato stesso: ma si tratta di una presunzione non assoluta, che può essere superata sia dall’interessato, sia da considerazioni di ordine sistematico riguardanti il complessivo sviluppo concreto della vicenda che giustifichi l’adozione di un secondo provvedimento non conforme alla pretesa» (Cons. Stato, sez. VI, 11 febbraio 2013, n. 769). EF
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Inserito in data 03/11/2016 TAR SICILIA - CATANIA, SEZ. I, ORDINANZA di RIMESSIONE ALLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA - 26 ottobre 2016, n. 2742 Legittimità dei limiti dettati, sia dalla legge statale che da quella regionale, in materia commerciale: chiamata la CgUE Con l’ordinanza in esame, la Prima Sezione del Tar Catania rimette alla Corte di Giustizia UE alcuni dubbi di compatibilità, con il diritto europeo, della disciplina, sia nazionale che regionale, in materia commerciale. Nel caso di specie avrebbe dovuto trovare applicazione la l. reg. Sicilia 22 dicembre 1999, n. 28, secondo cui l’apertura, il trasferimento di sede e l'ampliamento della superficie di una grande struttura di vendita sono soggetti ad autorizzazione rilasciata dal Comune competente per territorio nel rispetto della programmazione urbanistico-commerciale volta a favorire, per il settore dei generi di largo e generale consumo, una ponderazione tra l’insediamento di nuovi centri commerciali e la capacità di domanda della popolazione residente e fluttuante. Nella pronuncia in oggetto, il Tar siciliano ricostruisce – richiamando alcune più risalenti pronunce della Consulta – l’assetto normativo sia nazionale che regionale in materia di attività commerciali. In esito a tale operazione esegetica, la Prima Sezione richiamai i principi ormai consolidati a livello nazionale in base ai quali, ferma restando l’abolizione di “contingenti e limiti territoriali”, è venuta meno anche la possibilità di utilizzare, al fine di negare autorizzazioni commerciali, vincoli che non siano quelli connessi alla “tutela della salute, dei lavoratori, dell'ambiente, ivi incluso l'ambiente urbano, e dei beni culturali”. In altri termini, esclusa una liberalizzazione totale nella materia in esame, l’ordinanza ribadisce che i predetti vincoli statali non sono estensibili in via interpretativa ed aggiunge che nell’ambito degli stessi non sono ascrivibili quelli concernenti la materia definita “mobilità e traffico”. A differenza di altre ipotesi in cui i giudici hanno rimesso la questione inerente la legittimità della sola normativa regionale alla Corte Costituzionale (per violazione della competenza legislativa esclusiva statale ad esempio in tema di tutela della concorrenza), in tal caso i giudici siciliani, anche in ragione del carattere speciale della competenza legislativa, come garantita dallo Statuto della Regione Sicilia, hanno preferito rimettere la più ampia questione direttamente al giudice europeo. Tale rinvio pregiudiziale diretto si giustifica, sia in considerazione della sottoposizione alla Corte U.E. del dubbio circa la compatibilità europea della disciplina nazionale, laddove essa pone i predetti possibili vincoli legati alla tutela di interessi sensibili; sia in ragione del fatto che la stessa normativa nazionale di principio, risulta a propria volta emanata in espressa applicazione della “disciplina dell'Unione Europea e nazionale in materia di concorrenza, libertà di stabilimento e libera prestazione di servizi”. In conclusione i quesiti posti dal Tar Sicilia alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea sono: «se le norme del Trattato e le altre fonti di diritto dell’Unione “in materia di concorrenza, libertà di stabilimento e libera prestazione di servizi” ostino oppure no a che una regolamentazione regionale in materia di commercio, esplicazione di potestà legislativa esclusiva, non sia considerata sostituita in toto dalla normativa nazionale – anch’essa esplicazione di potestà legislativa esclusiva, ed emanata in dichiarata applicazione della “disciplina dell'Unione Europea e nazionale in materia di concorrenza, libertà di stabilimento e libera prestazione di servizi” – nella parte in cui tale normativa nazionale specifica a tutela di quali interessi e vincoli una attività economica può essere limitata; se le norme del Trattato e le altre fonti di diritto dell’Unione “in materia di concorrenza, libertà di stabilimento e libera prestazione di servizi” ostino conseguentemente oppure no a che una regolamentazione regionale in materia di commercio, esplicazione di potestà legislativa esclusiva, integri la normativa nazionale – anch’essa esplicazione di potestà legislativa esclusiva, ed emanata in dichiarata applicazione della “disciplina dell'Unione Europea e nazionale in materia di concorrenza, libertà di stabilimento e libera prestazione di servizi” – e indichi quindi anche interessi e vincoli diversi, a tutela dei quali una attività economica può essere limitata, e che possono rendere necessario verificare previamente un rapporto equilibrato tra gli insediamenti commerciali e la capacità di domanda della popolazione residente e fluttuante». FM |
Inserito in data 02/11/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 31 ottobre 2016, n. 4558 Nelle gare di appalto, la qualificazione delle partecipanti deve essere valutata in gara Il Consiglio di Stato con la pronuncia in epigrafe, ritiene fondate le censure dell’appallante sull’illegittimità dell’ammissione del raggruppamento temporaneo di imprese aggiudicatario (r.t.i.). Nella specie, veniva indetta una procedura ristretta per la realizzazione del sistema di collegamento tra un aeroporto e una stazione ferroviaria. In particolare, si trattava dell’affidamento secondo il criterio del massimo ribasso dei lavori di costruzione di un parcheggio monopiano a servizio del predetto sistema di collegamento per un importo, a base di gara, comprendente gli oneri di sicurezza non soggetti a ribasso. In seguito all’aggiudicazione, la seconda classificata insorgeva dinnanzi al TAR, per l’annullamento di essa per carenza dei requisiti di partecipazione (sia tecnici che economici), e, consequenzialmente, per il proprio subingresso. Il Supremo Collegio ritiene fondata la censura sull’irregolarità della posizione fiscale del r.t.i. aggiudicatario, in quanto sulla scorta degli insegnamenti dell’Adunanza plenaria 20 agosto 2013 n. 20, la situazione di irregolarità di fatto è insorta dopo la partecipazione alla gara. Il Consiglio di Stato ritiene inoltre doveroso, nel caso di specie, osservare il principio di diritto enunciato dall’Adunanza plenaria con la sentenza 20 luglio 2015 n. 8 - come richiamato nell’atto di appello - per il quale “nelle gare di appalto per l’aggiudicazione di contratti pubblici i requisiti generali e speciali devono essere posseduti dai candidati non solo alla data di scadenza del termine per la presentazione della richiesta di partecipazione alla procedura di affidamento, ma anche per tutta la durata della procedura stessa fino all’aggiudicazione definitiva ed alla stipula del contratto, nonché per tutto il periodo dell’esecuzione dello stesso, senza soluzione di continuità”. Pertanto, ivi si afferma a chiare lettere che in base ai canoni dell'imparzialità e della par condicio non si può consentire che vengano ammesse alla gara offerte provenienti da soggetti sprovvisti dei requisiti. Ciò, in ragione della loro peculiare rilevanza sul piano economico e tecnico, che per la legge deve essere valutata “in gara " (si parla infatti di “qualificazione obbligatoria"). La Quinta Sezione dichiara, inoltre, la piena equiparazione tra gli operatori economici offerenti in via diretta e gli operatori in rapporto di avvalimento; ove, pertanto, è coerente l’esclusione per chi si avvale di un soggetto ausiliario privo di uno di questi requisiti. Nella specie, ad avviso del Collegio la scopertura, che per quanto di minima entità era comunque sussistente, che era stata corretta grazie a un soccorso istruttorio ammesso dall’interessato, rende inammissibile l’ammissione alla gara. Dall’esclusione del r.t.i. ,primo aggiudicatario, deriva la qualificazione di prima graduata all’appellante, con il riconoscimento del diritto al risarcimento dei danni in forma generica – vista l’ormai avvenuta conclusione delle opere - commisurato al mancato guadagno per l’ingiusta collocazione in graduatoria, corrispondente all’importo offerto, calcolato nella misura del 10%, oltre alla rivalutazione e interessi legali nella misura legale secondo il tasso vigente al momento della stipula del contratto. DU
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Inserito in data 31/10/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 26 ottobre 2016 n. 4487 Contributo dovuto dai cittadini dei paesi extra Unione per il rilascio del permesso di soggiorno: illegittimità degli importi dovuti per eccessiva onerosità Con la sentenza emarginata in epigrafe, il Collegio respinge l'appello proposto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, dal Ministero dell’Interno e dal Ministero dell’Economia e delle Finanze (qui di seguito, per brevità, le Amministrazioni), confermando, pertanto, la sentenza del T.A.R. Lazio (Roma), sez. II-quater, n. 6095/2016, dinnanzi al quale era stata proposta impugnazione avverso il decreto ministeriale del 6 ottobre 2011, attuativo degli artt. 5, comma 2-ter, e 14-bis del d. lgs. n. 286 del 1998 (T.U. Immigrazione), adottato dalle Amministrazioni appellanti per stabilire gli importi relativi ai contributi dovuti per il rilascio ed il rinnovo del permesso di soggiorno. Si precisa che la predetta impugnativa dinnanzi al T.A.R Lazio è stata proposta da CGIL (Confederazione Generale Italiana del Lavoro) nonchè da INCA (Istituto Nazionale Confederale di Assistenza). In primis, è opportuno ricordare che il Giudice di prime cure aveva investito la Corte di Giustizia dell'Unione europea, in via pregiudiziale , della questione incidentale riguardante la compatibilità con il diritto europeo della normativa italiana che disciplina la materia dei contributi previsti per il rinnovo o il rilascio dei permessi di soggiorno. L'oggetto del rinvio è la questione se, alla luce dei principî stabiliti dalla direttiva n. 2003/109/CE - relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo - ostino ad una normativa, come quella delineata dagli articoli sopra riportati, nella parte in cui si dispone che la richiesta di rilascio e di rinnovo del permesso di soggiorno è sottoposta al versamento di un contributo, il cui importo è fissato in un minimo di € 80,00 e in un massimo di € 200,00 con decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze, di concerto con il Ministero dell’Interno. Sul punto la Corte di Giustizia si pronuncia nel senso della incompatibilità della normativa nazionale italiana con il dettato europeo, ritenendo i contributi previsti dal decreto ministeriale sproporzionati (per eccesso) rispetto alle finalità perseguite dalla direttiva e, dunque, idonei a creare un ostacolo all’esercizio dei diritti conferiti da quest’ultima. Il T.A.R. Lazio, preso atto della pronuncia del Giudice europeo e della fondatezza del ricorso proposto da GGIL ed INCA con riferimento alla esosità del contributo de quo, annulla gli articoli (1, comma 1 e 2, commi 1 e 2 del d,lgs citato), nella sola parte in cui si riferiscono al contributo di cui all’art. 1, e l’art. 3 del D.M. 6 ottobre 2011. Ebbene, avverso la decisione del Giudice di primo grado viene proposto appello dinnanzi al Consiglio di Stato il quale, come vedremo in seguito, respinge l'impugnativa giudicandola infondata. Innanzitutto, con riguardo alla carenza di legittimazione attiva il Collegio, disattendendo i motivi prospettati dalle Amministrazioni a fondamento della asserita inammissibilità del ricorso dinnanzi al T.A.R., evidenzia il ragionamento del Giudice regionale il quale "ha correttamente rilevato che un’organizzazione sindacale, quale è la CGIL, sebbene non possa agire per la difesa di singole posizioni o di interessi di una sola parte degli iscritti, è ben legittimata ad agire in giudizio a tutela delle prerogative della stessa organizzazione sindacale, quale istituzione esponenziale di una categoria di lavoratori e degli stessi interessi collettivi della stessa categoria, unitariamente considerata". Pertanto, in linea con la consolidata giurisprudenza del Consiglio di Stato, "le associazioni sindacali sono ben legittimate a difendere in sede giurisdizionale gli interessi di categoria dei soggetti, di cui hanno la rappresentanza istituzionale o di fatto giacchè fanno valere un interesse collettivo dell’intera categoria di tali lavoratori e non già il singolo interesse di ciascuno di essi". L’associazione sindacale risulta senz’altro titolare di una posizione soggettiva che la legittima ad agire per tutelare l’interesse dei cittadini stranieri che richiedono il rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno. Ciò posto, in riferimento al secondo e principale motivo proposto dalle Amministrazioni appellanti, incentrato sulla violazione e falsa applicazione della direttiva CE ad opera della normativa italiana , il Collegio si allinea alla posizione del Giudice di prime cure ed afferma la illegittimità delle previsioni del decreto ministeriale impugnato in primo grado, confermando così il ragionamento del T.A.R. circa la portata della sentenza della Corte di giusitizia la quale "ben comprende che i singoli importi di cui al decreto ministeriale risultano essere sproporzionati e fin troppo elevati in relazione alle finalità della direttiva europea". Ed invero, "il Giudice europeo mette in primo piano la considerevole incidenza economica che un contributo siffatto può avere su taluni cittadini di paesi terzi che soddisfano le condizioni poste dalla direttiva 2003/109 per il rilascio dei permessi di soggiorno previsti da quest’ultima, e ciò a maggior ragione per il fatto che, in considerazione della durata di tali permessi provvisori, tali cittadini sono costretti a richiedere il rinnovo dei titoli assai di frequente e che all’importo di detto contributo può aggiungersi quello di altri tributi previsti dalla preesistente normativa nazionale, cosicché, in tali circostanze, l’obbligo di versare il contributo può rappresentare un ostacolo alla possibilità per i predetti cittadini dei paesi terzi di far valere i diritti conferiti dalla direttiva". Orbene, con la decisione in epigrafe si rileva che "la necessità di richiedere il rinnovo dei permessi di più breve durata, perché maturi il quinquennio di legale permanenza sul territorio italiano richiesto dall’art. 9, comma 1, del d. lgs. n. 286 del 1998, impone allo straniero di pagare quantomeno, inizialmente, un contributo minimo di € 80,00 e via via, nel corso della sua regolare permanenza, quelli successivi per il rinnovo dei permessi, anche per il superiore importo di € 120,00, fino al pagamento dell’importo finale, pari ad € 200,00, per ottenere il permesso UE per soggiornanti di lungo periodo". Risulta evidente che trattasi di un sistema contributivo già di per sè oneroso il quale è ulteriormente aggravato dall'affiancamento di ulteriori oneri fissi (segnatamente, marche da bollo, registrazione nel sistema telematico etc.). D'altra parte, tra le finalità della diretttiva rientra senza alcun dubbio la protezione della libertà di stabilimento la quale verrebbe, per così dire, vanificata da una normativa nazionale, quale quella italiana che, mediante l’introduzione di una legislazione relativa ai permessi di più breve durata, sostanzialmente penalizzante o addirittura proibitiva, già solo a livello economico, per la stabile permanenza degli stranieri nel territorio nazionale, rende così irraggiungibile o, per lo meno arduo, l’obiettivo di conseguire i permessi di lunga durata. Alla luce delle argomentazioni predette, il Collegio afferma che "la direttiva 2003/109 osta ad una normativa nazionale, come quella italiana che impone ai cittadini di paesi terzi che richiedono il rilascio o il rinnovo di un permesso di soggiorno nello Stato italiano, di pagare un contributo di importo variabile (tra € 80,00 ed € 200,00), in quanto un siffatto importo risulta sproporzionato rispetto alle finalità perseguite ed è atto a creare un ostacolo all’esercizio dei diritti conferiti dalla leglislazione europea. Al riguardo viene utilizzata la espressione “vero e proprio percorso ad ostacoli al fine di ottenere un permesso permanente per lo straniero intenzionato a stabilirsi in Italia. Si consideri, per come ha ben esposto il giudice di prime cure nella ordinanza di rimessione alla Corte europea, che "il costo per il rilascio della carta d’identità italiana ammonta attualmente, nel nostro Paese, a circa 10 euro", somma otto volte inferiore a quella prevista per il rilascio del permesso di minor durata (€ 80,00). Ne discende, dunque, la infondatezza delle censure sollevate dalle Amministrazioni appellanti. Conclusivamente il Collegio respinge l'appello, conferma la sentenza impugnata e rimette alle Amministrazioni appellanti, nell'esercizio della loro discrezionalità, la rideterminazione (con decreto ministeriale) degli importi dei contributi de quibus, in modo tale che la loro equilibrata e proporzionale riparametrazione non costituisca un ostacolo all’esercizio dei diritti riconosciuti dalla direttiva n. 2003/109/CE. PC
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Inserito in data 29/10/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 26 ottobre 2016, n. 4475 Diritto di accesso ai documenti relativi a fatture di acquisto materiale: diniego infondato La pronuncia in esame è interessante poiché delimita, ancora una volta, gli aspetti ed i confini propri del diritto di accesso e dei soggetti a questo legittimati. Nella specie, la Quinta Sezione accoglie il gravame proposto da un consigliere regionale avverso una sentenza con cui il TAR valdostano, sancendo la natura imprenditoriale di una società totalmente partecipata dalla Regione, aveva negato ai membri dell’Organo consiliare l’ostensibilità del carteggio dalla medesima emesso al termine di una gara pubblica. Contrariamente a quanto addotto dal Tribunale di prime cure, infatti, i Giudici dell’appello ritengono che sia del tutto indifferente per l’Amministrazione regionale la natura imprenditoriale o meno del soggetto deputato allo svolgimento di simili attività; quel che conta, invero, è che esso sia teso a promuovere e a compiere tutte quelle attività o a porre in essere tutti quegli interventi che, direttamente o indirettamente, favoriscano lo sviluppo socio-economico del territorio regionale, in armonia con le direttive della Regione”. In considerazione di ciò, pertanto, il Collegio ritiene come ostensibile il carteggio prodotto al termine della gara pubblica – nella specie le fatture di acquisto di materiale. I Giudici considerano, altresì, come qualificato e meritevole di tutela l’interesse del consigliere regionale – odierno appellante – in vista dell’espletamento del proprio mandato consiliare e, in ragione di ciò, ne accolgono il sollevato gravame. CC
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Inserito in data 28/10/2016 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V - 26 ottobre 2016, n. 4476 La locazione di locali con prestazione di forniture e di servizi richiede la gara La locazione di locali “appositamente e inscindibilmente attrezzati di servizi” e “connessi a forniture” necessita l’esperimento di una normale procedura di gara. Quando la fruizione di un immobile è “strettamente collegata ad una serie di servizi e forniture, che concretizzano prestazioni nient’affatto accessorie o complementari”- senza le quali “la pura disponibilità di locali” risulterebbe “inidonea a soddisfare le esigenze che muovono l’amministrazione a contrarre”- non è configurabile “la causa oggettiva pura e semplice di una locazione”. Da ciò discende la mancata operatività dell’ ipotesi di esclusione dall’ambito di applicazione del Codice dei contratti pubblici di cui all’art. 19, primo comma. Infatti, quando la causa concreta del contratto presenta un nesso funzionale inscindibile tra locazione di spazi idonei, fornitura di materiali e suppellettili, prestazione di servizi, non è configurabile un contratto di locazione, ma un contratto misto che rende necessario l’espletamento di una procedura di gara per la scelta del contraente. Nel caso di specie, si trattava di un contratto di locazione di locali idonei all’espletamento delle prove scritte per l’abilitazione all’esercizio della professione forense , e “al contempo”, di una “prestazione di forniture (c.d. gruppi concorso, allestimenti uffici per la commissione e di tutta la segreteria, le linee telefoniche, le postazioni attrezzate per la commissione e la segreteria, l’amplificazione sonora, servizi igienici, consumi energetici, aerazione locali) e di servizi (presidio conduzione impianti ed antincendio, presidio sanitario con ambulanza e presenza di due medici, pulizie e presidio dei servizi igienici)”. Elementi connessi da un “nesso funzionale inscindibile. GB.
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Inserito in data 27/10/2016 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 24 ottobre 2016, n. 4454 La stazione appaltante non può sindacare nel merito l’interdittiva antimafia Con la pronuncia indicata in epigrafe, questa Sezione condivide la costante giurisprudenza (cfr., ex plurimis, Cons. St., sez. III, 23 gennaio 2015, n. 305), secondo cui l’interdittiva antimafia “può fondarsi, oltre che su fatti recenti, anche su fatti più risalenti nel tempo, quando dal complesso delle vicende esaminate, e sulla base degli indizi (anche più risalenti) raccolti, possa ritenersi sussistente un condizionamento attuale dell’attività dell’impresa”. In particolare, se “dall’esame dei fatti più recenti non è confermata l’attualità del condizionamento, pur ipotizzabile sulla base dei fatti più risalenti, l’informativa deve essere annullata” (Cons. St., sez. III, 13 marzo 2015, n. 1345). Tuttavia, la persistenza di legami, vincoli e sodalizi non può essere smentita dal mero decorso del tempo, rivelandosi quest’ultimo insufficiente “se non corroborato da ulteriori e convincenti elementi indiziari”; senza considerare, inoltre, che “l’infiltrazione mafiosa, per la natura stessa delle organizzazioni criminali dalle quali promana e per la durezza e, insieme, durevolezza dei legami che esse instaurano con il mondo imprenditoriale, ha una stabilità di contenuti e, insieme, una mutevolezza di forme, economiche e giuridiche, capace di sfidare il più lungo tempo e di occupare il più ampio spazio possibile, come questa Sezione non ha mancato di rilevare anche nella sua giurisprudenza più recente” (v., ex plurimis, Cons. St., sez. III, 3 maggio 2016, n. 1743). D’altronde, il Collegio puntualizza che l’interdittiva antimafia “può basarsi su una valutazione unitaria delle circostanze emerse nel corso del procedimento, da intendersi richiamate per relationem nel momento in cui vi è la determinazione finale della Prefettura”. In sostanza, a seguito dell’impugnazione dell’atto, “l’Amministrazione in sede difensiva ben può porre l’attenzione su alcune circostanze richiamate per relationem, senza che ciò implichi una ‘motivazione postuma’: questa è configurabile quando il provvedimento non esplicita la ‘ragione’ dell’atto e in sede difensiva l’Amministrazione la intende evidenziare, ma non anche quando la ragione dell’atto è esplicitata (quando si tratta di una interdittiva, il pericolo del condizionamento mafioso) e si sottopone al giudice la valutazione di circostanze di fatto risultanti dagli atti del procedimento”. D’altra parte, il Consesso chiosa che “le misure di cui all’art. 32, commi 1, 2 e 8, del d.l. n. 90 del 2014 possono essere applicate contestualmente all’adozione dell’interdittiva antimafia e che l’intervento sostitutivo dell’autorità prefettizia, in ipotesi di interdittiva già in atto, è consentito solo nelle ipotesi eccezionali, previste dal comma 10, che giustificano la prosecuzione del rapporto contrattuale, previa ‘bonifica’ dell’assetto societario, per preminenti ragioni di interesse generale, al punto che l’attività di temporanea e straordinaria gestione dell’impresa è considerata di ‘pubblica utilità’, come chiarisce il comma 4. Tanto sono preminenti ed eccezionali tali ragioni e tanto esse sono di interesse generale, peraltro, che il successivo art. 92, comma 2-bis, del d. lgs. n. 159 del 2011 prevede che il procedimento, previsto dall’art. 32, comma 1, del d.l. n. 90 del 2014, debba essere avviato obbligatoriamente d’ufficio dal Prefetto, con la conseguenza che l’impresa interessata è legittimata ad esercitare, nell’ambito di esso, esclusivamente gli strumenti di partecipazione previsti dagli art. 7, 8 e 10 della l. n. 241 del 1990 e non a chiedere l’avvio del procedimento stesso. L’art. 92, comma 2-bis, del d. lgs. n. 159 del 2011 prevede che il Prefetto, adottata l’informazione antimafia interdittiva, verifica, altresì, la sussistenza dei presupposti per l’applicazione delle misure di cui all’art. 32, comma 10, d.l. n. 90 del 2014, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 114 del 2014, e, in caso positivo, ne informa tempestivamente il Presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione”. Invero, la lettura combinata dell’art. 32, comma 10, del d.l. n. 90 del 2014 e dell’art. 92, comma 2-bis, del d. lgs. n. 159 del 2011, inserito dall’art. 3, comma 1, lett. b), numero 2), del d. lgs. n. 153 del 2014, consente di affermare che “l’adozione delle misure previste dall’art. 32 non deve precedere necessariamente l’emissione dell’informativa, ma anzi che il Prefetto, nell’emettere l’informativa, valuta anche dopo la sua emissione la sussistenza dei presupposti eccezionali per l’adozione di tali misure”. Peraltro, i Giudici di Palazzo Spada avallano il filone interpretativo, secondo cui “l’Amministrazione è esonerata dall’obbligo di comunicazione di cui all’art. 7 della l. 7 agosto 1990, n. 241, relativamente all’informativa antimafia e al successivo provvedimento di revoca un’aggiudicazione rilasciata, atteso che si tratta di procedimento in materia di tutela antimafia, come tale intrinsecamente caratterizzato da profili di urgenza” (v., ex plurimis, Cons. St., sez. V, 2 marzo 2009, n. 1148; Cons. St., sez. VI, 7 luglio 2006, n. 6555). Precisano, altresì, che “in presenza di un’informativa prefettizia antimafia che accerti il pericolo di condizionamento dell’impresa da parte della criminalità organizzata, non residua in capo all’organismo committente alcuna possibilità di sindacato nel merito dei presupposti che hanno indotto il Prefetto alla sua adozione, atteso che si tratta di provvedimento volto alla cura degli interessi di rilievo pubblico – attinenti all’ordine e alla sicurezza pubblica nel settore dei trasferimenti e di impiego di risorse economiche dello Stato, degli enti pubblici e degli altri soggetti contemplati dalla normativa in materia – il cui apprezzamento è riservato in via esclusiva all’Autorità di pubblica sicurezza e non può essere messo in discussione da parte dei soggetti che alla misura di interdittiva devono prestare osservanza”. Ne discende che ogni successiva statuizione della stazione appaltante si configura “dovuta e vincolata a fronte del giudizio di disvalore dell’impresa con la quale è stato stipulato il contratto e il provvedimento di revoca o recesso non deve essere corredato da alcuna specifica motivazione, salvo la diversa ipotesi, del tutto eccezionale, in cui a fronte dell’esecuzione di gran parte delle prestazioni e del pagamento dei corrispettivi dovuti, venga riconosciuto prevalente l’interesse alla conclusione della commessa con l’originario affidatario” (Cons. St., sez. III, 12 marzo 2015, n. 1292). La stazione appaltante non ha, dunque, alcun “specifico potere discrezionale di sindacare l’interdittiva, ma deve emanare l’atto consequenziale”. EF
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Inserito in data 26/10/2016 CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 20 ottobre 2016, n. 224 La violazione del c.d. giudicato costituzionale: la Consulta ritorna ad occuparsene Con la sentenza in esame, la Corte Costituzionale nell’accogliere la questione di legittimità sollevata dal Tar Milano - in merito all’art. 17, comma 1, della legge della Regione Lombardia 18 aprile 2012, n. 7 - ribadisce le regole fondamentali in tema di giudicato costituzionale. In particolare, riafferma la incostituzionalità delle norme (statali o regionali) che intervengono al fine di mitigare gli effetti di una pronuncia della Consulta, per conservare o ripristinare, in tutto o in parte, quanto previsto dalla norma dichiarata illegittima. La fattispecie in oggetto presenta la peculiarità di riguardare una legge regionale che in sostanza costituisce una riedizione di una precedente norma già oggetto, nel 2011, di declaratoria di illegittimità costituzionale su rimessione del medesimo giudice amministrativo. La Corte, infatti, aveva già dichiarato costituzionalmente illegittime una serie di norme regionali fra cui l'art. 22, l. reg. Lombardia 5 febbraio 2010, n. 7, che, nello stabilire che la ricostruzione dell'edificio fosse da intendersi senza vincolo di sagoma, risultava in contrasto con il principio fondamentale stabilito dall'art. 3, comma 1, lett. d), d.P.R. n. 380 del 2001 T.U. edilizia, che definisce gli "interventi di ristrutturazione edilizia" e, di conseguenza, si poneva anche in conflitto con il riparto di competenza previsto dall’art. 117, comma 3, Cost., in materia di governo del territorio. Il legislatore regionale, nonostante la suddetta precedente pronuncia della Consulta, ha adottato la norma oggetto della sentenza in commento, in base alla quale sono dichiarati “validi ed efficaci” gli interventi di ristrutturazione consistenti nella demolizione e ricostruzione senza vincolo di sagoma, a condizione, però, che il titolo sia stato rilasciato prima del 30 novembre 2011 e che la comunicazione di inizio lavori sia stata protocollata prima del 30 aprile 2012. Orbene, la vicenda da cui trae origine la questione vede la proprietaria di un immobile - confinante con un’area nella quale il Comune interessato ha autorizzato, con permesso di costruire, un intervento di ristrutturazione mediante demolizione dell’edificio esistente e ricostruzione con sagoma diversa - presentare istanza di autotutela in relazione al permesso di costruire, invocando la sentenza n. 309 del 2011. L’istanza viene, però, respinta dal Comune in ragione dell’art. 17, comma 1, della legge reg. Lombardia n. 7 del 2012 ed «al fine di tutelare il legittimo affidamento dei soggetti interessati». L’istante, quindi, impugnando il provvedimento negativo del Comune, insieme al permesso di costruire, eccepisce l’illegittimità costituzionale della predetta legge regionale, in riferimento all’art. 136 Cost. Nel pronunciarsi sul ricorso, il Tar milanese solleva diverse questioni di costituzionalità tra cui: in primo luogo, il contrasto con l’art. 136, comma primo, Cost. e con la legge cost. n. 1 del 1948, poiché la norma regionale avrebbe inteso limitare gli effetti per il passato della sentenza n. 309 del 2011, escludendo che essa rilevi per i titoli edilizi anteriori alla sua pubblicazione; in secondo luogo, perché la disposizione impugnata sarebbe affetta dallo stesso vizio accertato dalla sentenza n. 309 del 2011 con riguardo alle disposizioni allora in questione, determinando un contrasto con l’art. 117, comma terzo, Cost., in relazione all’art. 3, comma 1, lettera d), del d.P.R. n. 380 del 2011, nel testo allora vigente. La Corte Costituzionale, ritenendo fondata nel merito la questione sollevata in riferimento all’art. 136 Cost. e all’art. 1 della l. cost. n. 1 del 1948, afferma che essa “ha già stigmatizzato (ex plurimis, sentenza n. 169 del 2015) le disposizioni con cui il legislatore, statale o regionale, interviene per mitigare gli effetti di una pronuncia di illegittimità costituzionale, per conservare o ripristinare, in tutto o in parte, gli effetti della norma dichiarata illegittima. Tale è il caso della disposizione impugnata, emanata al dichiarato «fine di tutelare il legittimo affidamento dei soggetti interessati» in relazione agli «interventi di ristrutturazione edilizia oggetto della sentenza n. 309 del 2011». Essa, come risulta esplicitamente dal suo tenore letterale, mira a convalidare e a confermare nell’efficacia gli atti amministrativi emessi in diretta applicazione della precedente normativa regionale, dichiarata costituzionalmente illegittima dalla citata pronuncia di questa Corte, i cui effetti la disposizione regionale vorrebbe parzialmente neutralizzare. A nulla rilevano, ovviamente, i mutamenti successivamente intervenuti nella legislazione statale, che hanno rimosso il divieto di alterazione della sagoma nelle ristrutturazioni edilizie, su cui si fondavano le dichiarazioni di illegittimità costituzionale contenute nella sentenza n. 309 del 2011…” “l’odierna questione e la norma che ne costituisce oggetto concernono situazioni anteriori a tale innovazione della legislazione statale e non sono da essa interessate. Per questi motivi la disposizione impugnata deve essere dichiarata costituzionalmente illegittima per violazione dell’art. 136 Cost., mentre resta assorbito ogni altro motivo di censura”. FM |
Inserito in data 25/10/2016 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 24 ottobre 2016, n. 4417 Sullo scorporo degli oneri di urbanizzazione secondaria Con la pronuncia in epigrafe, il Consiglio di Stato dichiara la legittimità della condizione che subordina il rilascio della concessione edilizia al preventivo pagamento di un dato importo a titolo di oneri di urbanizzazione secondaria. Tale condizione è stata ritenuta illegittima dal giudice di primo grado per violazione dell’art. 8 della convenzione di lottizzazione stipulata dalle parti, la società xxx s.r.l., di seguito, breviter, la “Società” e il comune di xxx, di seguito, breviter, il “Comune”. Nella specie, si tratta di una norma il cui contenuto discende dall’art. 86 della Legge Regionale n. 61/1985, che consente espressamente, previo accordo tra le parti,“ lo scomputo totale o parziale della quota di contributo dovuta per oneri di urbanizzazione anche di diversa categoria” . Nel proprio iter argomentativo, il TAR riconduce alla convenzione di lottizzazione stipulata dalle parti, l’ammissibilità dello scomputo delle somme dovute, ritenendo che con l’espressione “anche per quelle relative ad opere di specie diverse”, le parti intendessero riferirsi proprio allo scomputo degli oneri di urbanizzazione secondaria. Il Supremo Collegio ritiene che “l’accoglimento del ricorso di primo grado si fonda su un presupposto palesemente errato”, ossia sulla lettura della convenzione che riconosce alla Società la possibilità di effettuare il versamento di una somma a titolo di oneri di urbanizzazione primaria in sostituzione delle opere secondarie. Tuttavia, la Quinta Sezione ritiene che “queste ultime non hanno nulla a che vedere con gli oneri di urbanizzazione secondaria, attenendo al costo di realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria (oltre al valore delle aree da cedere); somma ampiamente superiore all’importo tabellare degli oneri di urbanizzazione primaria che in ragione di tale maggior valore verranno “scomputati“al 100%”. Il Collegio precisa che “ai sensi dell’art.86 della Legge Regionale n.61 del 1985, lo “scomputo” che tale norma consente, non deve essere confuso con lo “sconto”, che in essa non è invece in alcun modo previsto né sarebbe stato possibile prevedere”. In particolare, il Collegio chiarisce che se lo “sconto” consiste nella possibilità di corrispondere per oneri di urbanizzazione “una somma minore rispetto a quella dovuta e richiesta da chi ne ha titolo”, la ratio dello “scomputo” ex art. 86 L.R. cit., consiste nella possibilità di “detrarre dal dovuto” per contributo relativo agli oneri di urbanizzazione tabellari, ciò che viene o sarà (in base ad impegno assunto) corrisposto sotto altra forma. Ciò al fine di evitare che l’obbligato paghi due volte per lo stesso titolo. La Quinta Sezione precisa che “la particolarità dello scomputo degli oneri di urbanizzazione secondaria dovuti nell’ambito di una lottizzazione convenzionata, consiste nel fatto che normalmente il lottizzante non realizza siffatte opere, ma in accordo con il Comune, cede le aree di cui dispone per la realizzazione di tali opere. Se le prime corrispondono alle aree standard previste per la zona o sono superiori gli oneri dovuti per l’urbanizzazione secondaria, potranno essere scomputati integralmente; se non raggiungono le aree standard, come nella specie, le “monetizza” trattenendo tali aree, ma impegnandosi a corrispondere una somma che esprime il valore delle stesse, senza tuttavia essere esente dall’obbligo di versare in aggiunta quanto ancora dovuto in base alle apposite tabelle parametriche comunali, a titolo di oneri di urbanizzazione secondaria”. Pertanto, in nessun caso potrà corrispondersi meno di quanto dovuto in base a tali tabelle, poiché, come chiarito, si tratta di “scomputo” e non di “sconto”. A ben vedere, ciò che occorre tener presente è la profonda diversità fra contributi per spese di urbanizzazione e contributi dovuti per la monetizzazione di aree standard, legata ai rispettivi fini, che esclude ogni possibilità di scomputare dai primi l’importo dei secondi “trattandosi di distinti e ugualmente necessari costi che l’amministrazione deve sopportare per la sostenibilità dell’intervento “(così Cons. Stato Sez. IV , 8 gennaio 2013 n.32). DU
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Inserito in data 24/10/2016 TAR LIGURIA - GENOVA, SEZ. II - ORDINANZA DI RIMESSIONE ALLA CORTE COSTITUZIONALE, 17 ottobre 2016, n. 1007 Condizione di procedibilità del ricorso in ottemperanza ex art. 5 sexies L. Pinto: questione di legittimità costituzionale Con la pronuncia emarginata in epigrafe, il T.A.R. Liguria rileva diversi profili di incostituzionalità dell’art. 5 sexies (L. Pinto n. 89 del 2001), introdotto dall’art. 1 della legge di stabilità per il 2016 (L. n. 208 del 2015). La disposizione predetta introduce una condizione di procedibilità necessaria per ottenere il pagamento delle somme dovute dall’Amministrazione a titolo di indennizzo per l’irragionevole durata di un processo. La norma impone al creditore di rilasciare una dichiarazione di autocertificazione e sostitutiva di notorietà, attestante la non avvenuta riscossione di quanto dovuto (comma 1). Detta dichiarazione, come detto, costituisce una vera e propria condizione di procedibilità, giacché il comma 4 della disposizione stabilisce che “la mancanza, l’incompletezza ovvero l’irregolarità della documentazione richiesta precluda all’Amministrazione l’emissione dell’ordine di pagamento”. Inoltre la norma introduce, al comma 5, un nuovo termine semestrale decorrente dalla data in cui sono assolti gli obblighi comunicativi di cui si è detto, termine entro cui l’Amministrazione debitrice può effettuare il pagamento. Il comma medesimo dispone, altresì, che, prima dello spirare di detto termine, il creditore non può procedere all’esecuzione forzata, alla notifica dell’atto di precetto o alla proposizione di un ricorso per l’ottemperanza del provvedimento liquidatorio (comma 7). Stando così le cose, il Collegio rileva che il suddetto termine di 180 giorni si aggiunge al termine di 120 giorni già previsto (in via generale) dall’art. 14 del D. L. n. 669/1996, per tutti i crediti vantati nei confronti di un’Amministrazione dello Stato, con ciò evidenziando “la cumulabilità e non la artenatività dei due termini previsti” giacché il successivo comma 11 della disposizione oggetto della pronuncia in esame, prevede che “in caso di mancato, incompleto o irregolare adempimento degli obblighi di comunicazione di cui al primo comma, il pagamento non possa essere disposto neppure nell’ambito dei procedimenti esecutivi già in corso”, cioè quelli per i quali il termine contemplato dal predetto art. 14 D. L. n. 669/1996 (120 giorni dalla notifica del titolo esecutivo) costituiva già condizione per procedere ad esecuzione forzata. La conseguenza della cumulabilità dei detti termini è che il creditore non può procedere all’esecuzione forzata, né proporre ricorso per l’ottemperanza del provvedimento, prima che sia decorso un termine complessivo di dieci mesi. Dunque, ad avviso del Collegio, la norma richiamata violerebbe gli articoli 3 e 24 (commi primo e secondo), 111 (commi primo e secondo), 113 comma 2 e 117 comma 1 della Costituzione. Più precisamente, con riguardo all’art. 3 Cost., “la nuova condizione di procedibilità rappresenta un ulteriore vulnus al principio di uguaglianza, nella misura in cui determina una graduazione puramente temporale delle ragioni creditorie, in contrasto con il principio della par condicio creditorum di cui all'art. 2741 comma 1 del codice civile”. In secondo luogo, per violazione del diritto di difesa di cui agli artt. 24, primo e secondo comma, e 113, secondo comma Cost., in quanto “la previsione di un termine semestrale (ulteriore rispetto al quello di 120 giorni previsto dal citato art. 14, d.l. n. 669 del 1996) comporta l’impossibilità per il cittadino di agire in via immediata e diretta per il soddisfacimento del proprio credito, pur essendo egli in possesso di un titolo esecutivo perfetto”. Invero, la previsione di un ulteriore termine, oltretutto più lungo di quello che il Legislatore ha ritenuto congruo per il pagamento di tutti gli altri debiti della P.A. (L. 669 del 1996) pare dunque essere una scelta ingiustificata anche rispetto alle esigenze di effettività della tutela creditoria del cittadino. Sul punto la Consulta ha già avuto modo di osservare come “il diritto di difesa sia frustrato non soltanto allorquando le norme vigenti consentono che sia radicalmente impedito il loro esercizio, pur formalmente riconosciuto, ma anche se è possibile che si creino, senza la previsione di adeguati rimedi, situazioni tali da rendere eccessivamente difficile l'esercizio stesso” (sent. 8/5/2009, n. 142). Ed invero il Collegio afferma che la previsione di tale ulteriore termine più lungo risulta essere una scelta ingiustificata anche rispetto alle esigenze di effettività della tutela creditoria del cittadino, costituente una non consentita compressione del diritto di agire in giudizio e del diritto di difesa in ambito processuale. Sempre con riferimento alla denunciata compressione del diritto di difesa, i giudici liguri rilevano come la disposizione de quo contrasti, altresì, con gli artt. 6 e 13 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e conl’art. 47 della Carta dei diritti UE. Al riguardo, anche la giurisprudenza comunitaria ha da sempre affermato la importanza della effettività della tutela dei ricorrenti nei confronti della PA evidenziando che la esigenza di effettività attiene alla definizione delle modalità procedurali che reggono le azioni giudiziarie (cfr. Corte Giust. UE, sent. 18/3/2010, C-317/08, Alassini; sent. 27/6/2013, C-93/12, ET Agrokonsulting). Alla luce delle sovra esposte considerazioni, i giudici genovesi rimettono la questione alla Corte costituzionale affermando che la previsione di una condizione di proponibilità del ricorso per ottemperanza configura, infatti, un ingiustificato privilegio per la Pubblica Amministrazione inadempiente che si traduce, sul piano della tutela giurisdizionale, in una rilevante discriminazione tra situazioni soggettive sostanzialmente analoghe ed in un apprezzabile ostacolo processuale per il soddisfacimento del credito del cittadino. A questo punto, non rimane che attendere la decisione dei giudici costituzionali. PC
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Inserito in data 22/10/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 20 ottobre 2016, n. 4386 Diniego di rinnovo del permesso di soggiorno, nucleo familiare e requisiti reddituali La Terza Sezione del Consiglio di Stato interviene in tema di diniego di permesso di soggiorno e relativi presupposti. In particolare, la pronuncia in esame è significativa in quanto – nel gravame avverso la suddetta misura emessa da una Questura lombarda - ricorda la necessità di contemperare la regolazione dei flussi migratori con le esigenze di sviluppo del Paese – come la giurisprudenza amministrativa unitamente ormai afferma (Cfr. Consiglio di Stato, sez. III, 11 maggio 2015, n. 2335; 11 luglio 2014, n. 3596). In considerazione di ciò e stante la particolare condizione di vita del ricorrente, residente in Italia sin dalla tenera età e contornato da uno stabile nucleo familiare, il Collegio ne accoglie l’appello. Ordina, pertanto, all’Amministrazione competente di intervenire in sede di rilascio, ed intima la necessità ed opportunità di non valutare la carenza del requisito reddituale come ostativo al rilascio del permesso di soggiorno, posto che tale misura possa essere concessa anche in attesa di nuova occupazione – tenendo conto di fattori umani e sociologici di rilievo, quali quelli palesati nel caso oggi in esame. CC
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Inserito in data 21/10/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 18 ottobre 2016, n. 4346 E’ risarcibile il danno da ritardo nell’adozione del provvedimento favorevole Con la pronuncia in esame, il Consiglio di Stato avalla la prevalente giurisprudenza, secondo cui, “il solo ritardo nell’emanazione di un atto amministrativo è elemento sufficiente a configurare un “danno ingiusto”, con conseguente obbligo risarcitorio, nel caso di procedimento amministrativo lesivo di un interesse pretensivo dell’amministrato, quando tale procedimento sia da concludere con un provvedimento favorevole per il destinatario ovvero se sussistano fondate ragioni per ritenere che l’interessato avrebbe dovuto ottenerlo” (in termini Cons. Stato, V, 25 marzo 2016, n. 1239; IV, 10 giugno 2014, n. 2964). Detto altrimenti, a partire dalla sentenza Cons. Stato, Ad. plen., 15 settembre 2005, n. 7, “non è risarcibile il danno da mero ritardo, ma quello da impedimento, caratterizzato dal fatto che la tardiva adozione del provvedimento impedisce di conseguire tempestivamente il bene della vita che spetta. E’ stato infatti ritenuto che il sistema di tutela degli interessi pretensivi consente la riparazione per equivalente solo allorché l’interesse pretensivo, incapace di trovare realizzazione con l’atto, in congiunzione con l’interesse pubblico, assuma a suo oggetto la tutela di interessi sostanziali; conseguentemente non vi è spazio per il risarcimento quando i provvedimenti adottati in ritardo siano di carattere negativo per colui che ne ha presentato l’istanza”. D’altre parte, il Consesso conferma l’orientamento “per cui l’ingiustizia e la sussistenza stessa del danno da ritardo dell’Amministrazione non possono, in linea di principio, presumersi iuris tantum in meccanica ed esclusiva relazione al ritardo nell’adozione del provvedimento amministrativo (favorevole), ma il danneggiante deve, in conformità all’art. 2697 Cod. civ., provare tutti gli elementi costitutivi della relativa domanda, dunque la sussistenza sia dei presupposti di carattere oggettivo che di quelli di carattere soggettivo”. EF
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Inserito in data 20/10/2016 TAR LAZIO - ROMA, SEZ. II BIS - SENTENZA 20 ottobre 2016, n. 10445 Referendum costituzionale: ricorso inammissibile per difetto assoluto di giurisdizione Il ricorso per l’annullamento del Decreto del Presidente della Repubblica del 27 settembre 2016 per la indizione del referendum popolare confermativo della legge costituzionale, recante “Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione”- approvata dal Parlamento e pubblicata nella G.U. n. 88 del 15 aprile 2016- nonché, di ogni altro atto e/o comportamento presupposto, consequenziale e/o connesso, è inammissibile per difetto assoluto di giurisdizione. Il T.A.R. Lazio argomenta ripercorrendo l’iter di indizione del referendum costituzionale, di cui il decreto presidenziale oggetto di gravame rappresenta l’atto conclusivo, al fine di “individuare”, alla luce delle norme di riferimento che lo governano, “le singole sfere di attribuzione di potere e di competenza riconosciute ai vari soggetti che vi intervengono, sulla cui base verificare la sindacabilità in sede giurisdizionale degli atti dagli stessi adottati. Il T.A.R osserva che, in conformità alle previsioni dettate dalla legge n. 352 del 1970 - recante norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo - i promotori hanno formulato le richieste di consultazione referendaria che sono state vagliate dall’Ufficio Centrale per il Referendum, costituito presso la Corte Suprema di Cassazione, il quale ha dichiarato - con le ordinanze del 6 maggio e dell’8 agosto 2016 - “la conformità delle richieste referendarie e la legittimità del quesito da sottoporre agli elettori”. Successivamente, con il decreto del presidente della repubblica oggetto di gravame è stato indetto il “referendum popolare confermativo” avente ad oggetto il medesimo quesito contenuto nelle predette ordinanze. Come osservato dal T.A.R., il decreto presidenziale “ha contenuti plurimi” aventi “natura e regimi di sindacabilità differenti”. Il profilo contenutistico inerente al quesito referendario, di cui si contesta la legittimità, è “insindacabile”, “tenuto conto che la formulazione dello stesso proviene dalle ordinanze dell’Ufficio Centrale per il Referendum e che è stato meramente recepito nel conclusivo decreto presidenziale”. “A tale conclusione si addiviene in ragione della insindacabilità, da parte del giudice amministrativo delle ordinanze adottate, in materia, dall’Ufficio centrale del Referendum istituito presso la Suprema Corte di Cassazione, stante la natura di organo rigorosamente neutrale dello stesso, essenzialmente titolare di funzioni di controllo esterno espletate in posizione di terzietà ed indipendenza nell’ambito del procedimento referendario costituzionale, con la connessa impossibilità di qualificare gli atti dallo stesso adottati in materia di referendum come atti oggettivamente e soggettivamente amministrativi”. Da ciò consegue che “le determinazioni” assunte da tale Ufficio non sono emanate “nell’esplicazione di un potere amministrativo”, ma “nella prospettiva della tutela dell’ordinamento generale dello Stato e nell’esercizio di funzioni pubbliche neutrali affidate ad un organo che, per composizione e struttura, si colloca in posizione di terzietà e di indipendenza, in quanto indifferente rispetto agli interessi in gioco e non chiamato a dirimere conflitti, ma a svolgere un’attività diretta alla soddisfazione di interessi generali garantendo l’osservanza della legge, collocandosi su di un piano diverso rispetto all’esercizio di funzioni amministrative”. La “natura dei poteri” esercitati dall’Ufficio Centrale per il Referendum, unitamente al “fondamento giustificativo dei poteri attribuiti al Presidente della Repubblica”, che svolge “analoga funzione neutrale e di garanzia”, rendono il decreto impugnato ed il quesito formulato “insuscettibili di sindacato giurisdizionale, in quanto non riconducibili all’esercizio di attività amministrativa ma all’esplicazione di funzioni di garanzia e di controllo aventi carattere neutrale e poste a presidio dell’ordinamento”. Il ricorso è, pertanto, dichiarato inammissibile “per difetto assoluto di giurisdizione” con l’ulteriore preclusione della “possibilità di individuare, ai sensi dell’art. 11 del codice del processo amministrativo, un diverso giudice nazionale cui sottoporre la controversia”. GB
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Inserito in data 19/10/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, 30 settembre 2016, n. 4048 Pratiche commerciali scorrette e sanzioni inflitte dall’AGCM Con la sentenza in esame, il Consiglio di Stato si pronuncia sulle sanzioni inflitte ad una Compagnia aerea dall’Autorità Garante della Concorrenza, che, a seguito delle segnalazioni pervenutele, ha provveduto ad accertare la sussistenza di alcune pratiche commerciali scorrette poste in essere a danno dei consumatori. Nei fatti, l’AGCM, sulla base dell’istruttoria compiuta e della documentazione acquisita, ha condannato una compagnia aerea per aver posto in essere tre pratiche commerciali ritenute scorrette, ai sensi degli artt. 20-23 del Codice del Consumo, vietandone la continuazione e comminando delle sanzioni amministrative pecuniarie. La prima condotta censurata consiste nel non essere stati - i consumatori - adeguatamente informati, nel corso della procedura di acquisto del volo, circa una caratteristica essenziale dell'offerta, ovvero riguardo al fatto che alcune tratte non fossero operate direttamente dalla compagnia venditrice del biglietto, bensì da un diverso vettore aereo di nazionalità estera. Il secondo comportamento sanzionato si riferisce alle modalità ingannevoli di presentazione ai consumatori dell’offerta denominata “Carnet Italia”: precisamente, non si è consentita all’utente un’immediata e chiara comprensione delle limitazioni previste nell’apposita specifica classe tariffaria e delle reali condizioni di utilizzo del prodotto. In ultimo, la terza pratica commerciale ritenuta scorretta è quella definita “no show rule”, e consiste nell’annullamento del biglietto di ritorno/sequenziale, in caso di mancata fruizione della tratta di andata/precedente, senza prevedere una specifica procedura per consentire al consumatore di effettuare comunque il volo di ritorno/successivo . Le suddette sanzioni amministrative sono state impugnate dalla compagnia aerea (nello specifico da due aziende facenti capo al medesimo gruppo imprenditoriale operante nel trasporto aereo), ma il giudice di prime cure, esaminati gli atti e le censure sollevate, ha respinto il ricorso. Avverso la pronuncia di primo grado è stato, quindi, proposto appello, limitatamente, però, a due delle tre condotte descritte, precisamente: la poco chiara informazione circa la presenza di tratte aeree operate da un vettore straniero e la c. d. “no show rule”. Chiamato a pronunciarsi, il Consiglio di Stato, con la sentenza in commento, ha in primo luogo risolto la questione (pregiudiziale) della paventata conflittualità tra discipline di settore e Codice del Consumo; secondariamente ha chiarito la portata del principio di correttezza e buona fede in riferimento alle pratiche commerciali in questione ed, infine, ha delineato i caratteri del sindacato di legittimità del giudice amministrativo sui provvedimenti dell’Autorità Garante della Concorrenza. Più in dettaglio, il Supremo Consesso afferma, innanzitutto, che «il rispetto delle normativa di settore non vale ad esonerare il professionista dal porre in essere quei comportamenti ulteriori che, pur non espressamente previsti, discendono comunque dall’applicazione del più generale principio di buona fede a cui si ispira tutta la disciplina a tutela del consumatore». In altri termini, spiega il Collegio, le discipline dettate dal Codice del Consumo e dalle normative di settore possono ritenersi complementari, quindi, correttamente l’Autorità garante della concorrenza ha provveduto, nella fattispecie, ad emanare i provvedimenti sanzionatori. Argomentando sulla portata del principio di correttezza e buona fede, la Sesta Sezione ha, inoltre, evidenziato che, nella vicenda in esame, l’AGCM non ha contestato alla compagnia aerea la mancanza di ogni informazione sul vettore aereo operativo - informazione che era dovuta ai sensi della normativa di settore - ma ha contestato la violazione dell’obbligo di correttezza e buona fede, tutelata dal Codice del Consumo, «per non aver dato adeguato risalto, in modo chiaro e trasparente, a tale dovuta informazione». Con riferimento, infine, al sindacato di legittimità del giudice amministrativo sui provvedimenti dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato (di cui l’appellante eccepisce la non corretta effettuazione), il Consiglio di Stato chiarisce che «tale sindacato comporta la verifica diretta dei fatti posti a fondamento del provvedimento impugnato che si estende anche ai profili tecnici, il cui esame sia necessario per giudicare della legittimità di tale provvedimento, quando, tuttavia, nei profili tecnici siano coinvolti valutazioni ed apprezzamenti che presentano un oggettivo margine di opinabilità, detto sindacato, oltre che in un controllo di ragionevolezza, logicità e coerenza della motivazione del provvedimento impugnato, è limitato alla verifica che quel medesimo provvedimento non abbia esorbitato dai margini di opinabilità sopra richiamati, non potendo il giudice sostituire il proprio apprezzamento a quello dell’Autorità garante ove questa si sia mantenuta entro i suddetti margini». Per principio pacifico, infatti, aggiunge il Supremo Consesso, «il giudice amministrativo in relazione ai provvedimenti dell'AGCM esercita un sindacato di legittimità, che non si estende al merito, salvo per quanto attiene al profilo sanzionatorio: pertanto, deve valutare i fatti, onde acclarare se la ricostruzione di essi operata dall'AGCM sia immune da travisamenti e vizi logici, e accertare che le disposizioni giuridiche siano state correttamente individuate, interpretate e applicate. Laddove residuino margini di opinabilità in relazione ai concetti indeterminati, il giudice amministrativo non può comunque sostituirsi all'AGCM nella definizione del mercato rilevante, se questa sia, attendibile secondo la scienza economica, immune da vizi di travisamento dei fatti, da vizi logici, da vizi di violazione di legge (fra le più recenti, Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 3047 dell’11 luglio 2016) ». Le eccezioni riguardanti la misura delle sanzioni comminate dall’AGCM sono state rigettate, in considerazione, tra l’altro, della loro esiguità. FM |
Inserito in data 18/10/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 12 ottobre 2016, n. 4224 Sul divieto di reformatio in peius nel passaggio di carriera presso diversa Amministrazione dello Stato Nelle presente fattispecie si controverte sul «passaggio di carriera presso (…) diversa amministrazione» ai sensi dell’art. 202 dello statuto degli impiegati civili dello Stato – d.P.R. n. 3/1957 - avvenuto in seguito al superamento di un concorso esterno, e per effetto del quale al precedente rapporto di impiego si è sostituito quello di nuova costituzione. Nella specie, il postulante veniva nominato referendario di Tribunale amministrativo regionale con decreto del Presidente della Repubblica in data 31 dicembre 2013, con decorrenza giuridica in pari data, ed economica dalla data di immissione nelle funzioni, avvenuta il successivo 15 gennaio 2014. Con successiva istanza, chiedeva che gli venisse riconosciuto il trattamento economico in godimento all’atto della nomina a referendario di tribunale amministrativo, ovvero quello di avvocato di ruolo della Banca d’Italia, mediante corresponsione dell’assegno personale pari alla differenza dei due trattamenti previsti dall’art. 202 del Testo Unico citato. Avendo ottenuto riscontro negativo, impugnava la nota del Segretario Generale dinnanzi al TAR Lazio, il quale accoglieva il ricorso, annullando la nota e dichiarando il diritto del ricorrente ad ottenere l’assegno previsto dalla citata disposizione del citato d.P.R. n. 3/1957. Per la riforma della pronuncia, hanno proposto appello la Presidenza del consiglio dei Ministri, il Segretariato Generale ed il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa. In via preliminare, il Supremo Collegio rileva la ratio dell’istituto del trascinamento, ossia lo scopo di garantire al dipendente pubblico il “maturato economico”, a fronte di ordinamenti giuridico-economici differenziati tra le varie amministrazioni presso le quali lo stesso fosse transitato nell’evoluzione della sua carriera. In sostanza, “la norma mirava a incoraggiare la mobilità dei dipendenti pubblici, evitando che l’ingresso nella qualifica iniziale di un ruolo di altra amministrazione pur dopo il superamento di una selezione concorsuale, potesse determinare un una penalizzazione dello stesso sul piano economico”. Ebbene, per la fattispecie del passaggio di ruolo tra diverse amministrazioni “rileva unicamente il primo periodo del comma 458 in esame, comportante appunto l’abrogazione dell’istituto del trascinamento previsto dalla più volte citata disposizione del testo unico n. 3 del 1957, con effetto a partire dall’anno finanziario 2014, oggetto della legge n. 147 del 2013, senza alcuna previsione di retroattività a situazioni precedentemente costituitesi”. Alla luce di quanto rilevato, ritiene la Quinta Sezione che “il Tribunale amministrativo ha correttamente applicato al caso di specie il consolidato principio giurisprudenziale in materia di pubblico impiego secondo cui “ai fini di individuare lo stato giuridico ed economico del dipendente pubblico occorre avere riguardo esclusivo al provvedimento (autoritativo) di inquadramento, poiché quest’ultimo delinea in maniera indefettibile non solo la qualificazione professionale e le mansioni ad essa correlate ma anche il trattamento economico del dipendente medesimo” (ex multis: Cons. Stato, Sez. III, 15 dicembre 2011, n. 6576; Sez. V, 23 febbraio 2015, n. 888; Sez. VI, 5 maggio 2016, nn. 1770 - 1772). Più precisamente, con riguardo al diritto all’assegno personale ex art. 202 T.U. n. 3 del 1957 invocato dall’appellato, rileva non già l’assunzione delle funzioni presso il Tribunale amministrativo di destinazione, ma il decreto presidenziale di nomina del 31 dicembre 2013. Infatti, è quest’ultimo provvedimento ad avere determinato il trattamento economico spettante all’odierno appellato, rispetto al quale occorre verificare l’eventuale diritto al riconoscimento del trattamento superiore goduto presso l’amministrazione di provenienza, allora vigente, laddove l’assunzione delle funzioni dà invece luogo alla decorrenza di tale trattamento economico. Il secondo periodo del comma 458, che introduce un divieto di reformatio in melius per la mera titolarità di un incarico avente un regime economico più favorevole rispetto alla posizione di ruolo rivestita, afferisce al diverso caso del rientro nel ruolo di appartenenza a seguito della cessazione di un incarico avente un regime economico più favorevole, rispetto al quale è strumentale l’obbligo di adeguamento ai sensi dell’art. 459, rispetto alle situazioni pregresse, e non riguarda il caso di specie. Così argomentando, la Quinta Sezione respinge il ricorso. DU
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Inserito in data 17/10/2016 CORTE COSTITUZIONALE - SENTENZA 12 ottobre 2016, n. 219 Q.l.c.: Art. 16 bis, co. 5, L. n. 11 del 2005, azione di rivalsa dello Stato nei confronti degli Enti territoriali per adozione di provvedimenti illegittimi Con la sentenza emarginata in epigrafe, i Giudici costituzionali hanno dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale ordinario di Bari in merito all’art. 16-bis, comma 5, della legge 4 febbraio 2005, n. 11 (Norme generali sulla partecipazione dell’Italia al processo normativo dell’Unione europea e sulle procedure di esecuzione degli obblighi comunitari), per contrasto con gli articoli artt. 3, 24, 97, 117, primo comma, 114, 118 e 119, quarto comma, della Costituzione, nella controversia tra il Comune di San Ferdinando di Puglia e il Presidente del Consiglio dei ministri ed il Ministero dell’economia e delle finanze . La disposizione per la quale è stato promosso il giudizio di costituzionalità prevede il diritto di rivalsa dello Stato nei confronti delle amministrazioni locali responsabili di violazioni della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, per gli oneri finanziari sostenuti in esecuzione delle sentenze di condanna rese dalla Corte di Strasburgo nei confronti dello Stato. Il Giudice rimettente è chiamato a decidere sulla domanda proposta dal Comune di San Ferdinando di Puglia al fine di ottenere l’accertamento negativo del diritto di rivalsa esercitato dallo stesso Ministero per il pagamento della somma di euro 903.100, versata a titolo risarcitorio alla parte privata ricorrente, in esecuzione di della condanna dell’Italia da parte della Corte EDU. Ancor più in dettaglio, la predetta condanna è conseguenza di una procedura espropriativa portata a compimento dal predetto ente Comune; procedura conclusasi con la acquisizione di fatto di un terreno privato senza adozione del provvedimento finale di esproprio prescritto dalla legge e, dunque, illegittimo. La disposizione per cui è materia viene, dal Giudice a quo, censurata sotto diversi profili: in primo luogo, viene denunciato il contrasto con il principio di ragionevolezza, di cui agli artt. 3 e 97 Cost. in quanto il diritto di rivalsa verrebbe, nella specie, esercitato in applicazione di una normativa entrata in vigore successivamente alla condanna dell’Italia da parte della Corte di Strasburgo. Difetterebbero, inoltre, gli elementi costitutivi della responsabilità dell’ente territoriale. Ad avviso del rimettente, infatti, il Comune di San Ferdinando di Puglia avrebbe fatto fedele e doverosa applicazione delle leggi dello Stato. Inoltre, lo Stato italiano avrebbe colpevolmente omesso di svolgere le proprie difese e di presentare osservazioni nel giudizio dinanzi alla Corte di Strasburgo. Nell’impossibilità, per il Comune, di partecipare al giudizio innanzi alla CEDU, la condanna sarebbe la conseguenza del comportamento processuale di inerzia e negligenza dello Stato. Ed ancora, la norma violerebbe gli artt. 3, 97 1 117, primo comma, Costituzione perché disciplinante, in modo eguale, attraverso l’uniforme previsione del diritto di rivalsa in capo allo Stato, situazioni che, invece, sono differenti. Ed invero, mentre il contrasto tra il diritto interno ed il diritto comunitario obbliga tanto i giudici quanto le amministrazioni a disapplicare il primo, tale meccanismo non opera nel contrasto tra diritto interno e diritto convenzionale. In quest’ultima ipotesi, infatti, solo la Corte costituzionale può annullare la norma interna per contrasto con la CEDU e con l’art. 117, primo comma, Cost. Invero, nessun giudice e nessuna pubblica amministrazione può disapplicare una normativa interna ritenuta in contrasto con la CEDU. D’altra parte, sempre in relazione agli articoli 3 e 97 Costituzione, la norma consentirebbe una deresponsabilizzazione dello Stato laddove permette a quest’ultimo di rivalersi nei confronti di altro ente per comportamenti non direttamente addebitabili al medesimo, bensì per un atto, quale è la legge, di cui lo Stato stesso è l’unico soggetto giuridicamente responsabile, mentre l’ente medesimo ha l’obbligo, e non già la mera facoltà, di attenersi a tale atto normativo primario. E ancora, la previsione della rivalsa statale sul bilancio comunale violerebbe, inoltre, l’art. 24 Cost., sul duplice rilievo, da un lato, dell’impossibilità, per il Comune, di partecipare al giudizio dinanzi alla Corte europea, e, dall’altro, dell’inerzia difensiva dello Stato italiano nell’ambito di tale giudizio. Per converso, la difesa statale eccepisce, preliminarmente, l’inammissibilità della questione per la mancanza di una congrua motivazione sulla rilevanza nonché sulla genericità delle ragioni esposte a sostegno della tesi della incostituzionalità della norma in esame. Inoltre, non si terrebbe in considerazione l’illegittimità della procedura espropriativa condotta dal Comune, per l’omessa adozione del decreto finale di esproprio e per l’acquisizione di fatto del bene occupato. Viene, inoltre, eccepito l’omesso tentativo di interpretazione costituzionalmente conforme della disposizione censurata. Ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato, non vi sarebbe alcun automatismo nella condanna dell’amministrazione locale in sede di rivalsa. Infatti, sia alla Presidenza del Consiglio dei ministri, sia al giudice adìto, sarebbe consentita la valutazione dell’incidenza dell’azione causale delle amministrazioni territoriali nella produzione del danno e la comparazione delle responsabilità di queste ultime rispetto a quelle dello Stato. Tale decisivo aspetto sarebbe stato trascurato dal giudice a quo. Nel merito, l’Avvocatura generale dello Stato deduce l’infondatezza della questione di costituzionalità. Con riferimento alla denunciata retroattività della disposizione censurata, viene, evidenziato che − secondo la costante giurisprudenza costituzionale − il legislatore può adottare disposizioni con effetto retroattivo al fine di salvaguardare alcuni interessi fondamentali, quali quelli protetti da principi costituzionali, nel rispetto del criterio di ragionevolezza. Si rileva, altresì, la finalità della disposizione censurata che è quella di estendere alla fase esecutiva delle sentenze dei giudici europei (Corte di Giustizia e Corte EDU) un istituto generale del diritto civile, qual è la rivalsa, in base al quale avviene il recupero delle somme versate da un soggetto a causa di azioni ascrivibili alla responsabilità di un terzo. Si tratterebbe, infatti, di una disposizione mirante a porre rimedio allo squilibrio economico conseguente alla violazione di leggi (imputabile all’ente territoriale), da un lato, e all’onere del pagamento del conseguente risarcimento (posto a carico dello Stato), dall’altro lato. In questo senso, la norma de quo non introduce alcuna disciplina sanzionatoria. Pertanto, non vi sarebbe alcuna irrazionalità nella previsione del diritto di rivalsa dello Stato per le somme pagate in conseguenza dell’azione illegittima dell’amministrazione locale. La difesa statale descrive i fatti che hanno portato alla condanna dello Stato italiano da parte della Corte di Strasburgo. Ed invero, la condanna predetta è riconducibile, esclusivamente ed interamente, alla illegittimità del provvedimento di esproprio adottato dalla Amministrazione comunale. D’altra parte, si evidenzia che il beneficio di tale espropriazione rimarrebbe ad esclusivo vantaggio dell’ente comunale per avere acquisito al suo patrimonio il bene e l’opera pubblica che vi è stata realizzata. Con riguardo al denunciato contrasto con gli artt. 3 e 97 Cost., viene sottolineato che il comportamento tenuto dalla Amministrazione, consistente nell’occupazione acquisitiva avvenuta in violazione dell’ordinario procedimento di espropriazione per pubblica utilità, integra gli estremi di un fatto illecito dal quale discende, ai sensi dell’art. 2043 del codice civile, il diritto al risarcimento del danno a favore del proprietario del terreno occupato. L’illecito è, pertanto, ascrivibile alla pubblica amministrazione per avere occupato (sine titulo) il suolo privato, trasformandolo in modo irreversibile, per effetto della realizzazione su di esso di un’opera pubblica. A cagione di ciò, si inverano i presupposti della responsabilità della pubblica amministrazione, ai sensi dell’art. 2043 cod. civ., produttiva, come tale, di danno risarcibile. In sostanza, anche gli enti territoriali − qualora si rendano responsabili di violazioni del diritto interno costituenti lesioni del diritto sovranazionale − debbono rispondere delle conseguenze negative derivanti dall’inosservanza di tali vincoli. Chiariti i termini della controversia, unitamente alle difese ed eccezioni delle parti, possiamo ad una sintetica disamina della sentenza che qui ci occupa. Preliminarmente, la Corte costituzionale rileva l’inammissibilità dell’atto di costituzione del Comune di San Ferdinando di Puglia il quale si è costituito oltre il termine di venti giorni dalla pubblicazione dell’ordinanza di rimessione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica (si veda, al riguardo, l’art. 3 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale). Ed invero, per costante giurisprudenza costituzionale, il termine fissato dall’articolo predetto ha natura perentoria e dalla sua violazione consegue, in via preliminare ed assorbente, l’inammissibilità degli atti di costituzione depositati oltre la sua scadenza (ex plurimis, sentenze n. 236 e 27 del 2015, n. 364 e n. 303 del 2010, n. 263 e n. 215 del 2009; ordinanze n. 11 del 2010, n. 100 del 2009 e n. 124 del 2008). Non può, altresì, essere accolta la eccezione di invalidità della notifica dell’ordinanza di rimessione, poiché avvenuta mediante posta elettronica certificata. Ebbene, secondo la Consulta, la notifica in esame è regolarmente avvenuta nelle forme previste dall’art. 149-bis del codice di procedura civile. Tale disposizione è applicabile al giudizio dinanzi a questa Corte in forza del rinvio contenuto nell’art. 39 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (codice del processo amministrativo). La Corte, inoltre, denuncia un difetto di motivazione della ordinanza con la quale viene promossa la questione di legittimità costituzionale della norma censurata per contrasto con i parametri costituzionali di cui agli artt. 97, 114, 117, primo comma, 118 e 119, quarto comma, Cost.; al riguardo, viene denunciato il carattere assertivo ed apodittico delle motivazioni esposte nella ordinanza di rimessione del Giudice a quo. Ed infatti, per costante giurisprudenza di questa Corte, “è inammissibile la questione di legittimità costituzionale posta senza un’adeguata ed autonoma illustrazione, da parte del giudice rimettente, delle ragioni per le quali la normativa censurata integrerebbe una violazione del parametro costituzionale evocato”. Per converso, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., la Corte afferma la infondatezza delle le eccezioni di inammissibilità della questione di legittimità costituzionale eccepite dalla difesa statale circa la genericità della descrizione della fattispecie, in quanto “non sarebbero specificati i riferimenti temporali della vicenda e non si darebbe risalto al carattere illegittimo della procedura condotta dal Comune, attesa la mancata adozione del decreto finale di esproprio e l’acquisizione di fatto del bene occupato”. Sotto tale ultimo profilo, la Corte, al contrario, rileva che l’ordinanza di rimessione chiarisce, in termini sintetici ma adeguati, la necessità di fare applicazione della disposizione censurata ai fini della decisione della controversia, in quanto il fondamento del diritto vantato dallo Stato e oggetto di contestazione nel giudizio a quo risiede proprio nella disposizione censurata. Il giudice rimettente ha riferito, infatti, di essere investito del giudizio di accertamento negativo del credito azionato dallo Stato in via di rivalsa ai sensi dell’art. 16-bis della legge n. 11 del 2005, per il pagamento di quanto versato a titolo risarcitorio alla parte privata ricorrente, in esecuzione della condanna della Corte di Strasburgo, per violazione del diritto di proprietà derivante da una procedura espropriativa illegittima. Con riguardo alla eccezione di inammissibilità della questione di legittimità costituzionale per l’omesso tentativo di un’interpretazione conforme, la Corte rileva che tale possibilità è stata consapevolmente esclusa dal rimettente, il quale – dopo avere illustrato le ragioni a sostegno della denunciata illegittimità − ravvisa nel tenore letterale della disposizione un impedimento ad un’interpretazione compatibile con i principi costituzionali evocati. Al riguardo, la giurisprudenza costituzionale ha affermato che la compiuta valutazione da parte del giudice a quo degli argomenti svolti dalle parti, ancorché inidonea ad escludere possibili soluzioni difformi, sia indicativa del tentativo, in concreto effettuato dal rimettente, di utilizzare gli strumenti interpretativi a sua disposizione per verificare la possibilità di una lettura alternativa della disposizione censurata, eventualmente conforme a Costituzione. In definitiva, “la possibilità di un’ulteriore interpretazione alternativa, che il giudice a quo non ha ritenuto di fare propria, non riveste alcun significativo rilievo ai fini del rispetto delle regole del processo costituzionale, in quanto la verifica dell’esistenza e della legittimità di tale ulteriore interpretazione è questione che attiene al merito della controversia, e non alla sua ammissibilità” (cfr. sentenza n. 221 del 2015). Infine, con riguardo all’art. 3 della Costituzione, la Corte ritiene infondata la censura mossa dal Giudice rimettente in riferimento alla irragionevolezza della scelta legislativa per aver introdotto una disciplina di carattere sanzionatorio configurante una responsabilità degli enti sub-statali, non già per attività proprie (e dunque addebitabili agli stessi) quanto, piuttosto, per attività che essi pongono in essere al solo fine di assicurare la fedele attuazione di quanto disposto dalla legge. Ed infatti, ad avviso del Giudice a quo, il diritto di rivalsa dello Stato verrebbe esercitato per un atto, quale è la legge, di cui lo Stato stesso è l’unico soggetto giuridicamente responsabile. Sotto tale ultimo profilo, la Corte, partendo dall’esame del dato letterale della disposizione contestata (art. 16-bis, comma 5), mette in rilievo come l’esercizio del diritto statale di rivalsa presuppone che gli enti locali “si siano resi responsabili di violazioni delle disposizioni della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”. Il fondamento della rivalsa statale nei confronti degli enti locali viene, quindi, esplicitamente individuato nella responsabilità per condotte, imputabili agli stessi enti, poste in essere in violazione della CEDU. La Corte, dunque, esclude che vi sia un automatismo nella condanna dell’amministrazione locale in sede di rivalsa e, conseguentemente, di una deroga al principio dell’imputabilità. Ed infatti, per come evidenziato dalla stessa Avvocatura generale dello Stato, compete, sia alla Presidenza del Consiglio dei ministri, in sede di adozione del decreto costituente titolo esecutivo, sia al giudice adìto, in sede di contestazione giudiziale dello stesso, la valutazione dell’incidenza causale dell’azione delle amministrazioni territoriali nella produzione del danno e la comparazione delle responsabilità di queste ultime rispetto a quelle dello Stato. Per concludere, i Giudici della Consulta, rilevano che l’art. 16-bis è una disposizione di carattere processuale, finalizzata all’esercizio del diritto di rivalsa − di per sé riconducibile all’area della responsabilità aquiliana ai sensi dell’art. 2043 del codice civile – attraverso l’emissione del relativo titolo esecutivo. Pertanto, nessun contrasto con il principio di ragionevolezza è ravvisabile nella predetta disposizione la quale, si noti, ai fini della sua applicabilità è necessario che si accerti il rilievo convenzionale della violazione effettuata, accertamento che è rimesso alla Corte di Strasburgo. Infatti, la disposizione in esame fa testuale riferimento alle ipotesi di responsabilità accertate con “sentenze di condanna rese dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nei confronti dello Stato”. L’avvenuto accertamento della violazione, espresso nella forma della sentenza di condanna da parte della Corte europea, è quindi l’elemento costitutivo della fattispecie delineata dall’art. 16-bis ed è anche il momento discriminante ai fini della applicazione della disciplina da esso dettata. Ciò vale ad escludere la denunciata retroattività della disposizione censurata, la quale risulta applicabile alle sole ipotesi di responsabilità accertate con sentenza di condanna resa successivamente all’entrata in vigore della legge n. 11 del 2005. Alla luce delle sovra esposte considerazioni, la Corte dichiara la questione di legittimità costituzionale inammissibile, in riferimento agli artt. 97, 114, 117, primo comma, 118 e 119, quarto comma, della Costituzione; non fondata, in riferimento all’artt. 3 e 24 della Costituzione. PC
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Inserito in data 15/10/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, 14 ottobre 2016, n. 4266 Il sindacato del G.A. sui provvedimenti dell'AGCM si estende anche ai profili tecnici Con la sentenza in esame, il Consiglio di Stato affronta il tema della sostituzione indebita del Giudice Amministrativo nell’esercizio di poteri riservati all’AGCM. A tal proposito, il Collegio non intende discostarsi dal filone interpretativo fornito dalla Sezione sul punto (v. “ex multis”, sez. VI, n. 6050 del 2014), secondo cui “il giudice amministrativo - nella ricerca di un punto di equilibrio, da verificare di volta in volta in relazione alla fattispecie concreta, tra le esigenze di garantire la pienezza e l'effettività della tutela giurisdizionale e di evitare che il giudice possa esercitare egli stesso il potere amministrativo che compete all'Autorità - può sindacare con pienezza di cognizione i fatti oggetto dell'indagine ed il processo valutativo, mediante il quale l'Autorità applica al caso concreto la regola individuata, ma, ove ne accerti la legittimità sulla base di una corretta applicazione delle regole tecniche sottostanti, il suo sindacato deve arrestarsi, in quanto diversamente vi sarebbe un'indebita sostituzione del giudice all'amministrazione, titolare del potere esercitato” (Cons. St., Sez. VI, 13 settembre 2012, n. 4873). Ed, invero, “con rapporto alle valutazioni tecniche, anche quando riferite ai c.d. “concetti giuridici indeterminati”, la tutela giurisdizionale, per essere effettiva, non può limitarsi ad un sindacato meramente estrinseco, ma deve consentire al giudice un controllo intrinseco, avvalendosi eventualmente anche di regole e conoscenze tecniche appartenenti alla medesima scienza specialistica applicata dall'Autorità. Il sindacato del giudice amministrativo è, quindi, pieno e particolarmente penetrante e può estendersi sino al controllo dell'analisi (economica o di altro tipo) compiuta dall'Autorità, e, in superamento della distinzione tra sindacato “forte” o “debole”, va posta l'attenzione unicamente sulla ricerca di un sindacato, certamente non debole, tendente ad un modello comune a livello comunitario, in cui il principio di effettività della tutela giurisdizionale sia coniugato con la specificità di controversie, in cui è attribuito al giudice il compito non di esercitare un potere in materia antitrust, ma di verificare - senza alcuna limitazione - se il potere a tal fine attribuito all'Autorità sia stato correttamente esercitato. Tale orientamento esclude limiti alla tutela giurisdizionale dei soggetti coinvolti dall'attività dell'A.g.c.m, individuando quale unica preclusione l'impossibilità per il giudice di esercitare direttamente il potere rimesso dal legislatore all'Autorità” (Cons. St., sez. VI, 6 maggio 2014, n. 2302). Pare il caso di aggiungere che dal canto proprio Cass. civ., SS. UU., 14 maggio 2014, n. 10411, ha statuito che “il sindacato di legittimità del giudice amministrativo sui provvedimenti dell'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato comporta la verifica diretta dei fatti posti a fondamento del provvedimento impugnato e si estende anche ai profili tecnici, il cui esame sia necessario per giudicarne della legittimità, salvo non includano valutazioni ed apprezzamenti che presentano un oggettivo margine di opinabilità (come nel caso della definizione di mercato rilevante nell'accertamento di intese restrittive della concorrenza), nel qual caso il sindacato, oltre che in un controllo di ragionevolezza, logicità e coerenza della motivazione del provvedimento impugnato, è limitato alla verifica della non esorbitanza dai suddetti margini di opinabilità, non potendo il giudice sostituire il proprio apprezzamento a quello dell' Autorità Garante”. D’altra parte, con la sentenza indicata in epigrafe, il Consesso si pronuncia anche sul concetto di “pubblicità ingannevole”. Sul punto, avalla l’orientamento espresso dalla stessa VI Sezione secondo cui, qualora l'episodio che abbia dato luogo alla segnalazione di ingannevolezza di un messaggio pubblicitario “sia stato generato da un caso isolato, l'episodio stesso è da considerare di scarsa significatività e, come tale, non riconducibile - perché divenga giuridicamente rilevante - ad una vera e propria "pratica" commerciale dal carattere di oggettiva ingannevolezza. Questa unicità dell'episodio è circostanza determinante che esclude l'abitualità, o serialità, propria della "pratica", vale a dire della prassi commerciale scorretta, e che avrebbe dovuto essere adeguatamente valutata alla luce dell'allora vigente art. 2 lett. a) d.lg. 25 gennaio 1992 n,. 74 (in materia di messaggi pubblicitari ingannevoli diffusi attraverso mezzi di comunicazione), e della definizione di pubblicità ivi richiamata (normativa poi abrogata dall'art. 146 e assorbita nel codice del Consumo, e oggi regolata dall'art. 2 comma 1 lett. a) e b) d.lg. 2 agosto 2007 n. 145, di attuazione dell'art. 14 della direttiva 2005/29/Ce che modifica la direttiva 84/450/Cee sulla pubblicità ingannevole)” (così Cons. Stato, VI, 21 settembre 2011, n. 5297). Inoltre, i Giudici di Palazzo Spada esaminano lo schema della responsabilità aquiliana. In particolare, se, da un lato, ritengono vero che il risarcimento del danno a carico della P. A. non sia conseguenza automatica e costante “dell'annullamento giurisdizionale dell’atto amministrativo posto che si richiede invece a questo fine la verifica positiva, oltre che della lesione della situazione soggettiva di interesse tutelata dall'ordinamento, della sussistenza della colpa in capo all’Amministrazione e del nesso causale tra provvedimento illegittimo e danno sofferto”, dall’altro ribadiscono che anche “l’illegittimità del provvedimento è però un elemento dal quale deriva una presunzione di colpa in capo alla P. A. e che l'onere probatorio gravante sul richiedente può ritenersi assolto con l'indicazione dell’illegittimità del provvedimento, potendo riconoscersi in capo all'amministrazione l'onere di provare l'assenza di colpa attraverso l’errore scusabile” (v. , ex multis, Cons. Stato, III, 10 luglio 2014, n. 3526). EF
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Inserito in data 14/10/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 13 ottobre 2016, n. 4238 Certificato di qualità rilasciato da ente non accreditato “La produzione di un certificato rilasciato da un ente non accreditato non può comportare ex se l’esclusione da una procedura di gara, ma impone all’amministrazione una valutazione in ordine al concreto possesso dei requisiti in capo al concorrente; valutazione che ben può avvenire anche attraverso l’esame della detta certificazione.” Il Consiglio di Stato argomenta procedendo ad una lettura “in chiave non formalistica” degli artt. 43 e 44 d.lgs. 163/2006 - rispettivamente in tema di norme di garanzia della qualità e norme di gestione ambientale- secondo la quale “l’impresa partecipante deve poter provare l’esistenza della qualificazione con mezzi idonei che garantiscano un soddisfacente grado di certezza, nel limite della ragionevolezza e della proporzionalità della previsione della legge speciale di gara, la quale deve garantire la massima partecipazione (Cons. St., Sez. V, 9 settembre 2013, n. 4471)”. Il Consiglio di Stato chiarisce che le suddette norme “stabiliscono che i requisiti richiesti per la partecipazione alla gara possano essere provati utilizzando tre diversi strumenti: a) certificati rilasciati da organismi indipendenti accreditati; b) certificati equivalenti rilasciati da organismi stabiliti in altri Stati membri; c) altre prove relative all'impiego di misure equivalenti di garanzia della qualità prodotte dagli operatori economici.” Tali strumenti sono “utili allo stesso modo” e sono finalizzati alla dimostrazione della sussistenza dei requisiti per la partecipazione alla procedura di gara (Cons. St., Sez. V, 12 novembre 2103, n. 5375), con la differenza che, nell’ultima ipotesi “il possesso dei requisiti non può ritenersi in via presuntiva posseduto dal concorrente, ma deve essere oggetto di scrutinio da parte della stazione appaltante.” “La produzione di una certificazione rilasciata da parte di un soggetto non accreditato”, in particolare, rappresenta “l’ipotesi tipica in cui il possesso dei requisiti non può ritenersi in via presuntiva posseduto dal concorrente, ma deve essere oggetto di scrutinio da parte della stazione appaltante”. Pertanto, “in assenza di indizi probatori in ragione dei quali si possa affermare il mancato possesso dei requisiti in materia di gestione ambientale da parte dell’aggiudicataria, non si ravvisa alcun uso illegittimo del potere discrezionale in capo alla stazione appaltante circa il giudizio di equivalenza delle prove offerte dall’appellata tramite la certificazione prodotta ovvero di deficit istruttorio al riguardo”. GB
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Inserito in data 13/10/2016 CORTE COSTITUZIONALE - ORDINANZA 12 ottobre 2016, n. 220 Art. 140 cpc e presunto vulnus ai principi di cui agli articoli 3, 24 e 111 Cost. I Giudici della Consulta intervengono su una questione di legittimità costituzionale sollevata con riguardo all’articolo 140 del codice di procedura civile, nella parte in cui fa decorrere gli effetti della notifica, per il destinatario della stessa, dalla data in cui l’ufficiale giudiziario, depositata la copia dell’atto da notificare nella casa del comune dove la notificazione deve eseguirsi ed affisso un avviso dell’avvenuto deposito in busta chiusa e sigillata alla porta dell’abitazione o dell’ufficio o dell’azienda del destinatario, gliene dà notizia per raccomandata con avviso di ricevimento, anziché prevedere che la notificazione si ha per eseguita decorsi dieci giorni dalla data di spedizione della lettera raccomandata, con la quale lo si avvisa dell’avvenuto deposito dell’atto presso la casa comunale. Quest’ultima, infatti, è la prassi prevista dall’articolo 8, quarto comma, della legge 20 novembre 1982, n. 890 e ss. mm. (Notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari) che, consentendo – come è evidente – un lasso temporale maggiore per il destinatario, parrebbe procurare – in capo al destinatario della notifica ex articolo 140 c.p.c. – un vulnus al diritto di difesa – ex articolo 24 della Costituzione, così come ad un equo contradditorio – implicitamente desumibile ex articoli 3 e 111 della Carta Fondamentale. I Giudici della Consulta, dirimendo il presunto contrasto, statuiscono la manifesta infondatezza dell’odierna questione. In particolare, il Collegio evidenzia come trattasi di tematiche profondamente diverse e, in quanto tali, giustificate in termini di ragionevolezza e quindi non illegittime - come la giurisprudenza costituzionale insegna (Cfr. ex multis, sentenza n. 146 del 2016). Infatti, evidenziano i Giudici, da un lato, l’articolo 140 del codice di procedura civile, per come dichiarato costituzionalmente illegittimo, presuppone, per il perfezionamento del procedimento di notificazione, l’avvenuta ricezione, da parte del destinatario dell’atto, della raccomandata contenente l’avviso di deposito dell’atto stesso, in tal modo ponendo l’accipiens nelle condizioni di poter prendere prontamente contezza del contenuto del medesimo; mentre, dall’altro lato, la previsione di un termine di dieci giorni per il ritiro dell’atto presso l’ufficio postale, previsto dall’art. 8 della legge n. 890 del 1982 in tema di notificazione degli atti a mezzo del servizio postale, si collega non al momento di effettiva ricezione dell’avviso, ma alla spedizione dello stesso, ovvero alla data di ritiro dell’atto se anteriore, con l’ovvio epilogo di individuare una diversa e ragionevole modulazione del termine per il perfezionamento dell’iter notificatorio. Di conseguenza, chiosa il Collegio, non avrebbe alcun senso estendere il termine “di compiuta giacenza”, di cui al quarto comma dell’articolo 8 della richiamata legge n. 890 del 1982, alla diversa ipotesi disciplinata dall’articolo 140 del codice di procedura civile, considerato che, in tal caso, la conoscenza legale dell’atto coincide con il momento in cui può essere conseguita anche la conoscenza. Diviene facile, pertanto, comprendere la declaratoria di infondatezza della questione – come dichiarata dalla Consulta – stante la mancata incisione dei parametri costituzionali sopra richiamati. CC
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Inserito in data 12/10/2016 TAR CALABRIA - CATANZARO, SEZ. I, ORDINANZA DI RIMESSIONE alla CORTE COSTITUZIONALE, 7 ottobre 2016, n. 1943 La tutela dell’ambiente ed i limiti di intervento del legislatore regionale: questione rimessa alla Corte Costituzionale Con l’Ordinanza in esame, il Tar Catanzaro rimette alla Corte Costituzionale una rilevante questione sul tema del riparto di competenze Stato – Regioni in materia ambientale. In particolare, il riferimento è ad una norma regionale che, comportando la sospensione “sine die” di alcuni procedimenti, risulta contrastare con la disciplina nazionale, che, al contrario, stabilisce termini certi per l’istruttoria e la definizione dei procedimenti nella medesima materia. Nei fatti, una legge regionale ha attribuito all’amministrazione titolare del procedimento per il rilascio di VIA e di AIA al fine della realizzazione e gestione di nuovi impianti di smaltimento o recupero rifiuti, il potere/dovere di sospendere provvisoriamente i relativi procedimenti - nel caso in cui all’entrata in vigore della legge essi siano ancora in corso - in attesa dell’adozione del nuovo piano regionale di gestione dei rifiuti e, in ogni caso, per la durata massima di un anno dall’entrata in vigore dell’atto normativo. La legge in questione è, tra l’altro, vincolante per l’amministrazione, nel senso che, una volta ritenuti sussistenti i presupposti della fattispecie concreta nei termini indicati dal legislatore regionale, l’attuazione della sospensione risulta doverosa. I provvedimenti sospensivi, adottati dalla pubblica amministrazione nel rispetto della normativa regionale, sono stati, quindi, impugnati dall’azienda coinvolta nei procedimenti, e il Tar, riscontrando la discrasia con la disciplina nazionale sulla stessa materia, ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della legge regionale in oggetto, con riferimento all’art. 117 co.2 lett. s) . Il Tar Calabria, con la presente ordinanza, oltre ad effettuare un’attenta ricostruzione della fattispecie concreta, ripercorre i punti salienti della giurisprudenza costituzionale che in tema di ambiente, a partire dalla nota sentenza 203 del 2003, ha perimetrato l’area della competenza legislativa esclusiva statale e dei conseguenti spazi residui della normazione regionale. In particolare, il Collegio calabrese richiama il principio secondo cui le disposizioni legislative statali adottate nella materia della “tutela dell’ambiente e dell’ecosistema” fungono da limite alla normazione regionale (anche per le regioni a statuto speciale), essendo consentito al legislatore regionale soltanto ed eventualmente di accrescere i livelli della tutela ambientale, senza intaccare l’equilibrio tra esigenze contrapposte espressamente indicato dalla legge statale. Le Regioni, continua il TAR, sono dunque legittimate ad intervenire solo a condizione che perseguano finalità proprie riguardanti competenze regionali e, comunque, garantendo livelli di tutela dell'ambiente più elevati rispetto a quelli previsti dalla legislazione statale. Con riferimento alla fattispecie in oggetto, viene poi richiamata quella giurisprudenza Costituzionale che indica specificamente la disciplina dei rifiuti come pienamente riconducibile alla materia della “tutela dell’ambiente e dell’ecosistema” e, pertanto, attribuita in via esclusiva alla competenza legislativa dello Stato ex art. 117, co. 2, lettera s), Cost.. Nel rimettere la questione alla Consulta, il giudice a quo, sottolinea il carattere dilatorio della norma regionale in esame e afferma che essa, quindi, va illegittimamente ad incidere in via derogatoria sulle norme del c.d. codice ambientale, le quali - a livello statale – mirano, invece, ad una rapida e completa definizione dei procedimenti in materia di impianti di smaltimento e di trattamento dei rifiuti. In definitiva, afferma il Tar, l’operatività del futuro piano regionale dei rifiuti, viene in concreto perseguita, non mediante l’accelerazione, in ambito amministrativo, dei tempi di approvazione del nuovo atto di pianificazione regionale (così come dovrebbe essere), ma mediante una sospensione ex lege dei procedimenti autorizzatori in corso, e, quindi, in contrasto con le norme primarie statali e gli obiettivi di tutela ambientale ad esse collegati. FM
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Inserito in data 11/10/2016 TAR LAZIO - ROMA, SEZ. III - ORDINANZA DI RIMESSIONE ALLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA, 3 ottobre 2016, n. 10012 Soccorso istruttorio a pagamento e principio di concorrenza: la rimessione alla Corte di Giustizia dell'Unione europea L’ordinanza in epigrafe sottolinea i dubbi nutriti dal Collegio in ordine all’applicazione della disciplina del “soccorso istruttorio a pagamento”, sancita dall’art. 38, comma 2-bis, d.lgs. n. 163 del 2006 – norma abrogata dal nuovo codice degli appalti – oggetto della fattispecie sottoposta al vaglio del Collegio, disposizione di non facile interpretazione a fronte del disposto della nuova direttiva 2014/24/UE, ispirata ai principi di parità di trattamento e trasparenza. Nel caso di specie, il Collegio rileva come l’art. 38, comma 1, d.lgs. n. 163/2006, “non contempla la possibilità di graduare la sanzione in ragione della gravità dell’irregolarità commessa o in relazione alle singole fattispecie escludenti contemplate, ciò in ragione del fatto che, in ogni caso, la sanzione è correlata unicamente alla categoria dell’essenzialità, non per mancanza dei requisiti sul piano sostanziale, ma per incompletezza ed irregolarità della relativa attestazione”. A parere del Collegio, la ratio giustificatrice della norma sarebbe quella di garantire la serietà delle domande di partecipazione e delle offerte presentate dalle imprese partecipanti, da un lato responsabilizzando le partecipanti nella predisposizione della documentazione di gara, e dall’altro tutelando l’esigenza di indennizzare il seggio di gara per l’aggravio e il prolungamento procedimentale per il supplemento dell’istruttoria, dall’altro. La sanzione è inoltre comminata anche nel caso di presentazione dell’offerta da parte di RTI (come è accaduto nella vicenda sottoposta all’esame del Collegio), il quale non costituisce soggetto diverso dai concorrenti; alla stessa stregua dell’impresa ausiliaria – in ipotesi di avvalimento – qualora la stessa produca una dichiarazione - che deve essere prodotta ai sensi dell’art. 49, comma 2, lettera c) del Codice - carente ex art. 38. Al riguardo si osserva come quello che era stato concepito come un beneficio in favore delle imprese, in tal modo, “si tramuterebbe in un disincentivo alla partecipazione alle gare pubbliche”, poiché esporrebbe i concorrenti al rischio di vedersi comminare sanzioni pecuniarie consistenti (il cui importo può arrivare sino a 50.000,00 euro) come conseguenza dell’incompletezza o dell’irregolarità documentale, incentivando una sorta di “caccia all’errore” da parte delle amministrazioni appaltanti, in direzione opposta rispetto alla su indicata ratio legis. Il Collegio ha infatti osservato come “non a caso, il soccorso istruttorio a pagamento è stato fortemente ridimensionato nel nuovo codice, adottato in attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE”. Il nuovo testo normativo non può tuttavia trovare applicazione nella fattispecie oggetto del ricorso, atteso che la procedura concorsuale è stata bandita prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 50/2016. Con l’ordinanza in epigrafe, la questione è stata posta al vaglio della Corte di Giustizia ai sensi dell’art. 267 del TFUE e dell’art. 23 dello Statuto della Corte di Giustizia dell’Unione Europea. Nella specie, si rimettono alla Corte di Giustizia le seguenti questioni pregiudiziali sull’interpretazione dell’art. 38, comma 2-bis citato, in rapporto alla disciplina prevista dagli artt. 45 e 51 della Direttiva 2004/18/CE e ai principi di concorrenza, proporzionalità, parità di trattamento e non discriminazione in materia di procedure per l’affidamento di lavori, servizi e forniture: a) se attribuire carattere oneroso al soccorso istruttorio con efficacia sanante – pur rientrando nelle facoltà degli Stati membri – sia o meno compatibile con il diritto comunitario; b) se, piuttosto, l’art. 38, comma 2-bis, citato, nel testo previgente, contrasti con i principi di massima apertura del mercato alla concorrenza. In tale contesto, il pagamento della sanzione nei termini prescritti dall’art. 38, comma 2-bis del d.lgs. n. 163/2006, costituisce una “particolarità” dell’ordinamento italiano, che non trova alcun appiglio nella normativa europea. Ed è sul quantum della sanzione pecuniaria considerata – concepita in termini unitari e onnicomprensivi - che, in particolare, si pone il serio dubbio circa la compatibilità della norma italiana con il principio di proporzionalità nell’ambito degli affidamenti pubblici. Sebbene, talora si parli di “indennizzo forfettario” in favore dell’Amministrazione per l’aggravio dell’attività amministrativa a cui è stata esposta a causa di “irregolarità essenziali” commesse da un operatore, si tratta di “un costo eccessivo rispetto allo scopo prefissato”. Ad avviso del Collegio, l’art. 38, comma 2-bis, citato “introduce nella disciplina interna un fattore di potenziale disparità di trattamento tra le imprese che del soccorso intendano avvalersi”, provocando “un’ingiusta sperequazione” di portata “anti-concorrenziale”. DU
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Inserito in data 10/10/2016 TAR TOSCANA - FIRENZE, SEZ. I, 3 ottobre 2016, n. 1415 Nuovo rito in prevenzione ex art. 120 comma 2 bis, C.p.A.: esclusione e lesività Con la decisione emarginata in epigrafe, il T.A.R. Toscana respinge il ricorso promosso da una società cooperativa sociale avverso il provvedimento di ammissione di altra cooperativa per l’affidamento del servizio di gestione del centro Diurno Anziani comunale. Più in particolare, il ricorso viene dichiarato inammissibile per carenza di immediata lesività dell’atto impugnato, stante la inapplicabilità del rito disciplinato dall’art. 120, comma 2 bis, c.p.a., così come modificato dall’ art. 204 del nuovo codice dei contratti pubblici (d.lgs. 2016 n. 50). La ricorrente infatti, al fine di impugnare il verbale di ammissione alla gara di altra società concorrente, attiva lo speciale rito disciplinato dall’art. 120, comma 2 bis, introdotto dall’art. 204 del d.lg.s 2016 n. 50. La norma stabilisce che il provvedimento che determina le esclusioni e le ammissioni dalla procedura di affidamento va impugnato nel termine di giorni trenta decorrenti dalla data della sua pubblicazione sul profilo della stazione appaltante (si veda anche l’art. 29 d.lgs. 2016 n. 50). Orbene, ritiene il Collegio che la questione della immediata applicabilità del nuovo comma 2 bis dell’art. 120 vada riguardata, preliminarmente, alla luce di quanto stabilito dall’art. 216 del nuovo codice dei contratti pubblici, rubricato disposizioni transitorie e di coordinamento. La norma dispone che “il presente articolo si applica alle procedure ed ai contratti per i quali i bandi o avvisi con cui si indice la procedura di scelta del contraente siano pubblicati successivamente alla data della sua entrata in vigore nonché, in caso di contratti senza pubblicazione di bandi o avvisi, alle procedure o ai contratti in relazione ai quali, alla data di entrata in vigore del presente codice, non siano stati ancora inviati gli inviti a presentare le offerte”. Il Collegio, rifacendosi al costante orientamento della giurisprudenza amministrativa, afferma che il concorrente, mentre ha interesse a dolersi della propria esclusione dalla gara ovvero di clausole impeditive della partecipazione, non è titolare di un’analoga posizione nel caso in cui intenda contestare l’ammissione di altro partecipante alla gara; ciò in quanto l’atto di ammissione del concorrente alla gara, avendo natura endoprocedimentale, non possiede autonoma lesività (sul punto cfr. T.A.R. Sicilia, Palermo, sez. III, 4 gennaio 2016 n. 10; Consiglio di Stato, sez. VI, 11 marzo 2015 n. 1261; T.A.R. Toscana, sez. I, 27 ottobre 2011, n. 1596). Né d’altra parte – prosegue il Collegio nella decisione de quo - appare condivisibile l’orientamento di altro T.A.R. secondo cui la natura processuale della norma de quo renda la stessa immediatamente operante, giacché essa è entrata in vigore prima della proposizione del ricorso. Ed infatti, in senso contrario a quanto appena detto ostano ragioni di carattere letterale e sistematico. Quanto alle prime, è la stessa lettera dell’art. 216 del Codice dei contratti pubblici che induce a ritenere che non vi siano deroghe al criterio generale che stabilisce l’entrata in vigore del nuovo rito rendendolo applicabile solo alle “procedure e ai contratti per i quali i bandi o avvisi con cui si indice la procedura di scelta del contraente siano pubblicati successivamente alla data della sua entrata in vigore”; sotto il secondo profilo (di ordine sistematico), pare evidente, dal testuale riferimento contenuto ad altre disposizioni del Codice, segnatamente l’art. 29, co. 1, l’impossibilità di dare immediata applicazione al nuovo rito in prevenzione; la norma da ultimo citata stabilisce, infatti, che “al fine di consentire l'eventuale proposizione del ricorso ai sensi dell’articolo 120 del codice del processo amministrativo, sono altresì pubblicati, (sul profilo del committente, nella sezione Amministrazione trasparente), nei successivi due giorni dalla data di adozione dei relativi atti, il provvedimento che determina le esclusioni dalla procedura di affidamento e le ammissioni all'esito delle valutazioni dei requisiti soggettivi, economico-finanziari e tecnico-professionali”, ed è da tale pubblicazione che decorre il termine per l’impugnazione dei provvedimenti di esclusione e ammissione non a caso contestato dalla controinteressata). Il Collegio infine ritiene, altresì, condivisibile l’orientamento dottrinale che definisce il nuovo e speciale sottosistema processuale come un sistema anticipato, preliminare, immediato, autonomo, decadenziale, finalizzato comunque alla rapida costituzione di certezze giuridiche poi incontestabili sui protagonisti della gara, certamente legato al riassetto complessivo del sistema della contrattualistica pubblica, i cui profili sostanziali sono indefettibilmente legati a quelli processuali contestualmente introdotti. In sintesi, con la pronuncia in esame e stante le sopraddette considerazioni, ritiene il Collegio, in ragione della inapplicabilità del rito disciplinato dall’art. 120, co 2 bis, che il ricorso deve essere dichiarato inammissibile per carenza di immediata lesività dell’atto impugnato. PC
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Inserito in data 08/10/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 5 ottobre 2016, n. 4118 Le dichiarazioni non veritiere nelle gare di appalto sono cause legittime di esclusione La sanzione espulsiva comminata dalla stazione appaltante a fronte di dichiarazioni non veritiere sui requisiti di partecipazione alla gara, ed, in particolare, su quelli inerenti alle condanne penali subite, è “corretta” e “doverosa”. “La completezza e la veridicità” di tali dichiarazioni costituiscono, infatti, “valori in sé”, “presidiati dalla più grave sanzione espulsiva in danno del dichiarante infedele, quali significative manifestazioni e, insieme, massime garanzie dell’irrinunciabile interesse pubblico alla trasparenza nelle pubbliche gare”(cfr. ex plurimis, C.d.S. sez. V, 29 aprile 2016, n. 1641). In conformità a consolidati principi di diritto, affermati dal Consiglio di Stato in materia, “nel caso di mancata dichiarazione di precedenti penali, non può operare il principio del c.d. falso innocuo, laddove si tratti di assenza di dichiarazioni previste dalla legge e dal bando di gara a pena di esclusione (cfr. C.d.S. sez V, 27 dicembre 2013, n.6271)”. Inoltre, con riferimento all’estinzione del reato, va ribadito che la stessa non può discendere automaticamente per il mero decorso del tempo, ma deve essere accertata da pronuncia espressa del giudice dell’esecuzione penale (cfr., ex multis, C.d.S. sez V, 17 giugno 2014, n.3092; C.d.S. sez. V, 5 settembre 2014, n. 4528). Pertanto, “la mancanza della dichiarazione circa la condanna subita” rende la ditta partecipante alla gara “inaffidabile” - “a fronte di un preciso e inequivocabile obbligo stabilito dalla lex specialis” - e ne “giustifica l’esclusione”, “indipendentemente da ogni valutazione sulla gravità e sulla moralità professionale dell’impresa”. Non compete, infatti, “ai candidati” “effettuare alcun filtro in ordine all’importanza o incidenza della condanna subita sulla moralità professionale”, avendo questi “l’obbligo di menzionare tutte le sentenze penali di condanna” (cfr. C.d.S.sez. V, 30 novembre 2015, n. 5403). L’omessa menzione rappresenta una “carenza sostanziale” della “dichiarazione non veritiera” che non può essere sanata ricorrendo all’ esercizio del soccorso istruttorio che “può colmare dichiarazioni incomplete o irregolari, ma non può “integrare ex post, dichiarazioni totalmente assenti”. GB
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Inserito in data 07/10/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 5 ottobre 2016, n. 4107 L’intervento in autotutela è esperibile anche dopo l’aggiudicazione provvisoria Secondo il Collegio l’art. 38, comma 2-bis, ultimo periodo, del d.lgs. 163/2006, introdotto dall’art. 39, comma 1, del d.l. 90/2014 (“ … successivamente alla fase di ammissione, regolarizzazione o esclusione delle offerte … ”) va interpretato (cfr. CGA, n. 740/2015) nel senso che che debba ritenersi “precluso (...) un intervento in autotutela soltanto dopo che sia stata adottata l’aggiudicazione definitiva”. Infatti, “nel solco di quanto affermato dalla predetta sentenza (ed anche tenendo conto di TAR Palermo, I, n. 150/2016, n. 1112/2015 e n. 449/2015), può osservarsi anzitutto che una fase di c.d. “ammissione, regolarizzazione o esclusione delle offerte” non figura tra le fasi della procedura di evidenza pubblica individuate dall’art. 11 del d.lgs. 163/2006; rispetto a dette fasi “effettive” (decreto o determina a contrarre; selezione dei contraenti; selezione dell’offerta; aggiudicazione definitiva; stipulazione del contratto), è soltanto dopo la fase conclusa dall’aggiudicazione definitiva che può ipotizzarsi il divieto di ricalcolo delle medie e delle soglie”. Il comma 2-bis, del resto, “non prescrive una precisa cadenza temporale per l’avvio e la definizione del sub procedimento di regolarizzazione, non essendo neppure chiaro se detta fase, doverosa, debba collocarsi a monte (con qualche aggravio in termini di celerità) o a valle della fase di apertura delle buste contenenti le offerte economiche”. D’altro canto, “l’atto di aggiudicazione provvisoria non è individuabile come provvedimento conclusivo della procedura di evidenza pubblica, tanto che la sua omessa impugnazione non preclude l’impugnazione dell’aggiudicazione definitiva, e ai fini della sua revoca o del suo annullamento (a differenza di quanto accade per l’autotutela dell’aggiudicazione definitiva) non vi è obbligo di avviso di avvio del procedimento; pertanto, sarebbe incoerente escludere la possibilità di intervenire in autotutela nei confronti di una pre-decisione come l’aggiudicazione provvisoria”. Invero, se non si consentisse alla stazione appaltante di “rivedere gli esiti delle decisioni preliminari assunte durante la gara, sarebbe anche difficile individuare uno spazio concreto per l’attività di controllo, che pure l’organo competente ad adottare l’atto di aggiudicazione definitiva è tenuto ad effettuare, sugli atti compiuti dal seggio di gara sino all’aggiudicazione provvisoria”. Inoltre, “l’interpretazione proposta consente di rendere l’ultimo periodo del comma 2-bis pienamente compatibile con il principio di carattere generale di cura permanente dell’interesse pubblico, sotteso al potere di autotutela amministrativa ed espressione del principio costituzionale di buon andamento dell’azione amministrativa”.
Infine, “sotto il profilo della logicità e della ragionevolezza, detta interpretazione, senza frustrare le esigenze di celerità perseguite dalla norma, evita che l’amministrazione, pur essendosi accorta dell’errore, debba mantenere ferma l’aggiudicazione in favore di un operatore che non lo merita, esponendosi conseguentemente all’azione risarcitoria avanzata da chi, se la gara fosse stata condotta legittimamente, sarebbe risultato aggiudicatario”. EF
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Inserito in data 06/10/2016 TAR SICILIA - CATANIA, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALLA CORTE COSTITUZIONALE - 28 settembre 2016, n. 2337 Dubbi di legittimità costituzionale in ordine alla disciplina dell’art. 89 bis del Codice Antimafia Con l’ordinanza in esame il Tar Catania ha rimesso alla Corte Costituzionale la questione inerente l’effettiva portata della disciplina, contenuta nell’art. 89 bis del Codice Antimafia, in tema di accertamento di tentativi di infiltrazione mafiosa. Nei fatti, un’impresa, mediante segnalazione certificata di inizio attività, otteneva dal Comune di Messina l’autorizzazione per la vendita al dettaglio di prodotti alimentari; in precedenza la stessa azienda aveva partecipato al bando per l’erogazione di un finanziamento dell’Assessorato Regionale dell’Agricoltura e, nel corso del relativo procedimento, l’Amministrazione procedente aveva chiesto alla Prefettura di Messina rituali informazioni ai sensi dell’art. 83 del d.lgs. n. 159/2011 (Codice Antimafia). Il competente Ufficio Territoriale del Governo, ai sensi dell’art. 91 del citato decreto, aveva emanato un’informazione antimafia interdittiva, in cui si evidenziava la sussistenza di possibili tentativi di infiltrazione mafiosa, rilevando che il coniuge del legale rappresentante della società era stato rinviato a giudizio per il reato di cui all’art. 73 del d.p.r. n. 309/1990 e che alcuni procedimenti di natura patrimoniale si erano conclusi con provvedimenti di sequestro e confisca di beni riconducibili al gruppo imprenditoriale di cui si tratta. La società, non più interessata a conseguire il finanziamento regionale, aveva omesso di impugnare quell’informazione antimafia della Prefettura. Il Comune di Messina, in considerazione del provvedimento “lato sensu” autorizzatorio derivante dalla segnalazione certificata di inizio attività, interpellava la Prefettura sull’esistenza di cause ostative ai sensi dell’art. 67 del codice antimafia e la Prefettura comunicava di avere già emesso – in altro procedimento – la sopra indicata informazione antimafia interdittiva. Il Comune chiedeva, quindi, alla Prefettura ulteriori informazioni e la Prefettura trasmetteva una nota ministeriale con allegato il parere del Consiglio di Stato n. 3088/15 del 17 novembre 2015 in merito all’applicabilità dell’art. 89-bis del d.lgs. n. 159/2011 ai provvedimenti di natura meramente autorizzatoria, con conseguente esclusione del soggetto interessato da ogni attività economica sottoposta al preventivo assenso della Pubblica Amministrazione. A quel punto il Comune di Messina comunicava all’impresa in oggetto l’avvio del procedimento per la decadenza della segnalazione certificata di inizio attività e, successivamente, con ordinanza, lo stesso Comune, tenuto conto dell’ambito di applicazione dell’art. 89-bis del codice antimafia, disponeva la decadenza della menzionata segnalazione certificata di inizio attività, vietando alla società di proseguire l’attività di vendita di prodotti alimentari. L’impresa, quindi, presentava ricorso innanzi al TAR Sicilia – Sez. Staccata di Catania sostenendo, in primis, che il provvedimento del Comune era illegittimo, giacché assunto al di fuori delle ipotesi contemplate dall’art. 89-bis del codice antimafia, posto che tale disposizione fa espresso riferimento all’espletamento delle verifiche di cui al precedente art. 88, secondo comma, le quali sono risultate eseguite quanto al procedimento relativo al bando dell’Assessorato Regionale dell’Agricoltura, ma non in relazione al procedimento relativo alla segnalazione certificata di inizio attività presentata al Comune di Messina. In secondo luogo, continuava l’impresa, a differenza di quanto ritenuto dal Consiglio di Stato nel parere n. 3088/15 del 17 novembre 2015 (contenuto nella nota ministeriale richiamata dal Prefetto), “l’informazione antimafia, in quanto relativa all’ipotesi in cui l’Amministrazione debba stipulare contratti, rilasciare concessioni o disporre erogazioni, va sempre distinta dalla comunicazione antimafia, che, invece, concerne attività private sottoposte a regime autorizzatorio, e l’art. 89-bis del codice antimafia, in armonia con quanto indicato nella relazione ministeriale allo schema di decreto legislativo n. 153/2014, assolve la finalità di evitare l’ingerenza della criminalità organizzata nel settore degli appalti e dei rapporti con l’Amministrazione, impedendo, in altri termini, che le imprese soggette a tentativi di infiltrazione possano comunque conseguire benefici economici da parte della pubblica autorità”. Da ultimo, concludeva l’azienda, posto che l’applicazione della semplice comunicazione antimafia ai procedimenti di natura autorizzatoria è precisata dalla legge delega n. 136/2010, ne deriva che l’art. 89-bis del Codice Antimafia “risulta costituzionalmente illegittimo, perché in contrasto con la legge delega, che non consente l’estensione dell’informazione antimafia ai procedimenti autorizzatori, nonché con il principio di uguaglianza, con il canone di ragionevolezza e con il principio di libertà di iniziativa economica, introducendo tale disposizione un regime differenziato in relazione a fattispecie sostanzialmente identiche (nel senso che al soggetto in concreto sottoposto a tentativi di infiltrazione mafiosa non sarebbero mai precluse le attività soggette ad autorizzazione, salva l’ipotesi - che però non giustifica una differente disciplina - in cui i tentativi di infiltrazione siano stati accertati in occasione di una precedente informazione antimafia)”. Il Collegio, mostrando di condividere i dubbi evidenziati dalla parte ricorrente, nel richiedere l’intervento della Consulta, svolge una chiara ricostruzione della disciplina vigente e degli istituti in materia, a partire dalla distinzione fra informativa e comunicazione antimafia ed i relativi presupposti. Con riferimento alla questione dell’applicazione analogica dell’art 89 bis anche all’ipotesi di precedente ed efficace informazione antimafia interdittiva, che abbia accertato la sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa, secondo l’ordinanza in esame, ciò costituirebbe un eccesso di delega, in quanto fra i principi e i criteri direttivi di cui all’art. 2, d.lgs. n. 159 del 2011 non è contemplata la possibile estensione del rilascio dell’informazione antimafia, con i più severi accertamenti che tale provvedimento presuppone, alle ipotesi in cui l’ordinamento ha previsto, invece, la richiesta ed il rilascio della semplice comunicazione antimafia. Di fronte al chiaro dato letterale della norma, l’ordinanza esclude anche la possibilità di aderire ad una diversa interpretazione della norma, in termini costituzionalmente orientati. A tal proposito, si esclude altresì la possibilità di rinviare alla relazione illustrativa della norma, secondo la quale l’art. 89-bis assolverebbe la finalità di “evitare vuoti normativi suscettibili di favorire l’ingerenza nel settore degli appalti e dei rapporti con la Pubblica Amministrazione”. Al contrario, la lettera dell’art. 89-bis, comma 1, rinvia espressamente alle verifiche di cui all’art. 88, comma 2, le quali, devono essere svolte con riferimento a tutte le ipotesi in cui l’ordinamento ha previsto la richiesta della comunicazione antimafia. Oltre alla questione dell’eccesso di delega, l’ordinanza in commento, solleva anche il dubbio che il legislatore, con tale norma, abbia trattato in modo differente situazioni che potrebbero anche considerarsi sostanzialmente identiche. In particolare, il Giudice a quo si chiede perché i tentativi di infiltrazione sarebbero rilevanti nei casi in cui sia richiesta la comunicazione antimafia relativa ad un soggetto nei cui confronti risultino pregresse cause interdittive, nonché nel caso di precedente ed ancora efficace informazione antimafia interdittiva, mentre gli stessi tentativi di infiltrazione risulterebbero irrilevanti, anche se sussistenti, negli altri casi. In tale ottica, la norma in questione violerebbe il principio di ragionevolezza ricavabile dall’art. 3, primo comma, Cost., attribuendo rilievo ai tentativi di infiltrazione, non in ragione dell’obiettiva importanza del provvedimento o del contratto, ma in considerazione di circostanze contingenti consistenti nella pregressa sussistenza di una causa interdittiva o nella precedente emanazione di un’informazione antimafia interdittiva. Si resta in attesa della pronuncia della Consulta. FM
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Inserito in data 05/10/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 22 settembre 2016, n. 3916 Nella vendita in monopolio, l’interesse commerciale dell’esercente soggiace a quello pubblico Nella pronuncia in epigrafe, il Consiglio di Stato, chiamato a pronunciarsi sulla legittimità dell’autorizzazione al trasferimento “fuori zona” di una rivendita di generi di monopolio, aderisce alla tesi per cui tale vendita è strutturata secondo “un sistema nel quale l’interesse commerciale dell’esercente deve soggiacere a quello pubblico di carattere fiscale” (così CdS, Sez. IV, sent. n. 4811 del 2014). Nella specie, si tratta di un trasferimento “fuori zona” come qualificato dall’art. 10, comma 5 del D.M. n. 38/2013, ossia di uno spostamento della sede ad oltre 600 metri di distanza dalla rivendita originaria, che può qualificarsi tale in base alla sussistenza di tutta una serie di requisiti inerenti a specifici parametri (distanza, redditività e produttività). Nella vicenda è emerso come la sussistenza dei predetti requisiti, abbia avvalorato la tesi dell’appellante, laddove ha sostenuto l’operatività del principio di cui all’art. 21 octies, comma 2, della l. n. 241/1990, in tema di vizi non invalidanti. In particolare, l’appellante ha ritenuto che, nonostante la mancata recezione dell’integrazione documentale nei termini, l’Amministrazione avrebbe emanato un atto legittimo, in ossequio al principio di conservazione degli atti e di economicità dell’azione amministrativa. Inoltre, al Collegio pare che la ragione principale che ha spinto i controinteressati a ricorrere riguardi “gli effetti pregiudizievoli in termini di redditività per le rivendite coinvolte”. Pertanto, secondo quanto asserito dal Supremo Collegio, ha ben fatto “l’Amministrazione a concedere l’autorizzazione al trasferimento << fuori sede>>, ove ha ritenuto prevalenti le finalità di adeguata diffusione del servizio e di massimizzazione del gettito erariale, in quanto l’interesse dei privati a non vedersi ridotto il ricavato della rivendita dei generi di monopolio è certamente subordinato rispetto all’interesse pubblico primario.” In altri termini, “l’unico faro che deve orientare l’amministrazione è la capillarità, intesa come adeguata diffusione del servizio e non il mantenimento di rendite di posizione eventualmente acquisite nel tempo dai titolari delle rivendite esistenti”. DU
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Inserito in data 04/10/2016 TAR CALABRIA - CATANZARO, SEZ. II, 26 settembre 2016, n. 1845 Rimessa in pristino dello stato dei luoghi, abusi edilizi e responsabilità Il Collegio calabrese, riportando un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, ricorda come - in tema di abusi edilizi commessi da persona diversa dal proprietario - la posizione di questi possa definirsi neutrale, quando risulti, in modo inequivocabile, la completa estraneità del proprietario stesso al compimento dell’opera abusiva o che, essendo venuto a conoscenza, si sia poi adoperato per impedirlo con gli strumenti offertigli dall’ordinamento (Consiglio di Stato, sez. VI, 4 maggio 2015, n.2211; sez. VI, 29 gennaio 2016, n.357). Tanto è accaduto nel caso di specie, ove i germani ricorrenti – impugnando l’ordinanza di demolizione e le correlate sanzioni ad essi rivolte – dichiarano di aver ottenuto il cespite per linea ereditaria, ricevendolo nello stato in cui effettivamente si trova e, peraltro, di non avere strumento alcuno dal quale essi stessi potessero desumere il carattere illecito del manufatto censurato. Si deduce, quindi, la relativa estraneità rispetto all’abuso edilizio sanzionato e l’assenza di responsabilità; pertanto, i Giudici ne accolgono le doglianze palesate in ricorso. CC
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Inserito in data 03/10/2016 CORTE COSTITUZIONALE - SENTENZA 23 settembre 2016, n. 213 Permessi di assistenza al poratore di handicap e famiglia di fatto: q.l.c. Con la sentenza emarginata in epigrafe, la Consulta dichiara la illegittimità costituzionale dell’art. 33, comma 3, della L. 1992 n. 104, per violazione degli artt. 2, 3 e 32 della Costituzione, nella parte in cui non include il convivente more uxorio tra i soggetti beneficiari dei permessi di assistenza al portatore di handicap in situazione di gravità. La questione di legittimità costituzionale è stata sollevata dal Tribunale ordinario di Livorno, sezione lavoro, con ordinanza del 15 settembre 2014, nell’ambito di una controversia avente ad oggetto il ricorso proposto da un dipendente della Azienda USL 6 di Livorno, nei confronti di quest’ultima, con cui si chiede, in via principale, l’accertamento del diritto ad usufruire dei permessi di assistenza di cui all’art. 33, comma 3, della legge n. 104 del 1992 a favore del proprio compagno, convivente more uxorio, portatore di handicap gravissimo e irreversibile (morbo di Parkinson) e, al contempo, per contrastare la pretesa della USL di recuperare nei suoi confronti le ore di permesso di cui aveva usufruito per l’assistenza già prestata al proprio convivente nel periodo 2003-2010, su autorizzazione della stessa USL, poi revocata dalla Azienda, per l’assenza di legami di parentela, affinità o coniugio con l’assistito. In via subordinata, la ricorrente chiedeva che fosse sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 33, comma 3, della legge n. 104 del 1992, nella parte in cui non include il convivente more uxorio tra i beneficiari del permesso mensile retribuito, per violazione degli artt. 2, 3, 32 e 38 Cost. nonché dell’art. 117) Cost., in relazione agli artt. 1, 3, 7, 20 e 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007. Il Tribunale rimettente, dopo aver accolto la domanda della ricorrente, evidenzia che il concetto di famiglia preso in considerazione dalla norma in questione non sia quello di famiglia nucleare tutelata dall’art. 29 Cost., quanto quello di famiglia estesa nella quale sono ricompresi i parenti e gli affini sino al terzo grado, anche se non conviventi con l’assistito ed aggiunge: “La famiglia che viene in rilievo nell’art. 33, è dunque quella intesa come formazione sociale ai sensi dell’art. 2 Cost., strumento di attuazione e garanzia dei diritti fondamentali dell’uomo e luogo deputato all’adempimento di doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Ebbene, proprio partendo da una tale premessa, il giudice a quo desume “una discrasia tra la norma in parola, nella parte in cui non attribuisce alcun diritto di assistenza al convivente more uxorio, e i principi sanciti a più riprese dalla giurisprudenza nazionale (tanto costituzionale che di legittimità) e sovranazionale in punto di tutela della famiglia di fatto retta dalla convivenza more uxorio e dei diritti e doveri connessi all’appartenenza a tale formazione sociale”. A livello sovra nazionale il rimettente, inoltre, richiama la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in merito all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, sulla tutela del diritto alla vita familiare, intesa come comprensiva non solo delle relazioni basate sul matrimonio ma anche di altri legami familiari di fatto (sentenza 24 giugno 2010, Schalk e Kopf contro Austria). A questo indirizzo corrisponde – prosegue il giudice a quo – un orientamento giurisprudenziale nazionale, sia costituzionale che di legittimità, che valorizza il riconoscimento ai sensi dell’art. 2 Cost. delle formazioni sociali, nelle quali va ricondotta “ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione” (sentenza della Corte costituzionale n. 138 del 2010). In sostanza, il rimettente sottolinea come la Corte costituzionale, sin dagli anni ’80, abbia affermato espressamente che l’art. 2 Cost. sia altresì riferibile alle convivenze di fatto, purché caratterizzate da un grado accertato di stabilità (sentenza n. 237 del 1986). Per di più, anche nella giurisprudenza di legittimità si rinvengono significative pronunce in merito alla rilevanza di formazione sociale della convivenza more uxorio, fonte di diritti e doveri morali e sociali del convivente nei confronti dell’altro. Il Tribunale a quo, tra l’altro, rileva come nella stessa legislazione nazionale, ferma la diversità dei rapporti personali e patrimoniali nascenti dalla convivenza di fatto rispetto a quelli originati dal matrimonio, siano emersi segnali nel senso di una sempre maggiore rilevanza della famiglia di fatto. Pertanto, avuto riguardo al richiamato quadro legislativo e giurisprudenziale sulla cosiddetta famiglia di fatto, ad avviso del rimettente, l’art. 33, comma 3, della legge n. 104 del 1992, nell’escludere dal novero dei possibili beneficiari dei permessi retribuiti il convivente more uxorio, violerebbe l’art. 2 Cost., non consentendo alla persona affetta da handicap grave di beneficiare della piena ed effettiva assistenza nell’ambito di una formazione sociale che la stessa ha contribuito a creare e che è sede di svolgimento della propria personalità. La norma in oggetto contrasterebbe anche con l’art. 3 Cost. stante la irragionevole disparità di trattamento tra il portatore di handicap inserito in una stabile famiglia di fatto ed il soggetto in identiche condizioni facente parte di una famiglia fondata sul matrimonio, diversità che non trova ragione , secondo il Tribunale a quo, nella ratio della norma che è quella di garantire, attraverso la previsione delle agevolazioni, la tutela della salute psico-fisica della persona affetta da handicap grave (art. 32 Cost.), nonché la tutela della dignità umana e quindi dei diritti inviolabili dell’uomo di cui all’art. 2 Cost., beni primari non collegabili geneticamente ad un preesistente rapporto di matrimonio ovvero di parentela o affinità. Il giudice a quo precisa che il dubbio di costituzionalità non riguarda la perfetta equiparabilità della convivenza di fatto al rapporto di coniugio, ma la ragionevolezza, ex art. 3 Cost., della diversità di trattamento per quanto attiene alla particolare disciplina dei diritti di assistenza alle persone con handicap. Il Giudice delle leggi, ricostruendo la ratio legis dell’istituto del permesso mensile retribuito di cui all’art. 33, comma 3, della legge n. 104 del 1992, alla luce dei suoi presupposti e delle vicende normative che lo hanno caratterizzato, nonché il suo interesse primario, ovvero quello di “assicurare in via prioritaria la continuità nelle cure e nell’assistenza del disabile che si realizzino in ambito familiare”, afferma che la salute psico-fisica del disabile, quale diritto fondamentale dell’individuo tutelato dall’art. 32 Cost., rientra tra i diritti inviolabili che la Repubblica riconosce e garantisce all’uomo, sia come singolo che nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità (art. 2 Cost.). Va, dunque, garantito e tutelato, al soggetto con handicap in situazione di gravità, sia come singolo che in quanto facente parte di una formazione sociale per la quale, ai sensi dell’art. 2 Cost., deve intendersi “ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico” (sentenza n. 138 del 2010). Fatte tali indispensabili premesse, la Consulta afferma la irragionevolezza della scelta legislativa nel non avere incluso, tra i soggetti legittimati a fruire del permesso mensile retribuito de quo, il convivente more uxorio della persona con handicap in situazione di gravità. Ad avviso della Corte, l’art. 3 Cost. va qui invocato, non sotto il profilo della eguaglianza, restando comunque diversificata la condizione del coniuge da quella del convivente, ma per la contraddittorietà logica della esclusione del convivente dalla previsione di una norma che intende tutelare il diritto alla salute psico-fisica del disabile. Ed infatti, “la distinta considerazione costituzionale della convivenza di fatto e del rapporto coniugale, non esclude la comparabilità delle discipline riguardanti aspetti particolari dell’una e dell’altro che possano presentare analogie ai fini del controllo di ragionevolezza a norma dell’art. 3 Cost.” (sentenze n. 416 e n. 8 del 1996; ordinanza n. 121 del 2004). In entrambi i casi, il comune denominatore è dato dall’esigenza di tutelare il diritto alla salute psico-fisica del disabile grave, nella sua accezione più ampia, collocabile tra i diritti inviolabili dell’uomo ex art. 2 Cost., nell’ambito delle formazioni sociali ove la sua personalità si estrinseca. Detto altrimenti, “ il diritto – costituzionalmente presidiato – del portatore di handicap di ricevere assistenza nell’ambito della sua comunità di vita, verrebbe ad essere irragionevolmente compresso, non in ragione di una obiettiva carenza di soggetti portatori di un rapporto qualificato sul piano affettivo, ma in funzione di un dato “normativo” rappresentato dal mero rapporto di parentela o di coniugio. L’art. 33 co.3, dunque, nel non includere il convivente tra i soggetti legittimati a fruire del permesso mensile retribuito, vìola, quindi, gli invocati parametri costituzionali, risolvendosi in un inammissibile impedimento all’effettività dell’assistenza e dell’integrazione. Alla luce delle sopra richiamate argomentazioni, la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 33, comma 3, della legge n. 104 del 1992, “nella parte in cui non include il convivente tra i soggetti legittimati a fruire del permesso mensile retribuito per l’assistenza alla persona con handicap in situazione di gravità, in alternativa al coniuge, parente o affine entro il secondo grado”. PC |
Inserito in data 01/10/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 28 settembre 2016, n. 4008 L’errore di fatto revocatorio non coinvolge l'attività valutativa del giudice Con la pronuncia in esame, il Consesso riprende una sentenza della Plenaria (10 gennaio 2013, n.1; e sulla scia di questa sez. IV, 24 maggio 2016, n. 2197), che in un passaggio afferma quanto segue: “La giurisprudenza del Consiglio di Stato e quella della Corte di Cassazione hanno pressoché univocamente individuato le caratteristiche dell'errore di fatto revocatorio, che, ai sensi rispettivamente dell'art. 81 n. 4 del R.D. 17 agosto 1907, n. 642, ora dell'art. 106 c.p.a., e dell'art. 395, comma 4, c.p.c., può consentire di rimettere in discussione il contenuto di una sentenza, ciò per evitare che il distorto utilizzo di tale rimedio straordinario dia luogo ad un inammissibile ulteriore grado di giudizio di merito, non previsto e non ammesso dall'ordinamento. E’ stato più volte ribadito che l'errore di fatto, idoneo a fondare la domanda di revocazione ai sensi delle citate disposizioni normative deve essere caratterizzato: a) dal derivare da una pura e semplice errata od omessa percezione del contenuto meramente materiale degli atti del giudizio, la quale abbia indotto l'organo giudicante a decidere sulla base di un falso presupposto di fatto, facendo cioè ritenere un fatto documentalmente escluso ovvero inesistente un fatto documentalmente provato; b) dall'attenere ad un punto non controverso e sul quale la decisione non abbia espressamente motivato; c) dall'essere stato un elemento decisivo della decisione da revocare, necessitando perciò un rapporto di causalità tra l'erronea presupposizione e la pronuncia stessa (C.d.S., A.P., 17 maggio 2010, n. 2; sez. III, 1° ottobre 2012, n. 5162; 24 maggio 2012, n. 3053; sez. IV, 24 gennaio 2011, n. 503, 23 settembre 2008, n. 4607; 16 settembre 2008, n. 4361; 20 luglio 2007, n. 4097; e meno recentemente, 25 agosto 2003, n. 4814; 25 luglio 2003, n. 4246; 21 giugno 2001, n. 3327; 15 luglio 1999 n. 1243; C.G.A., 29 dicembre 2000 n. 530; sez. VI, 9 febbraio 2009, n, 708; 17 dicembre 2008, n. 6279; C.G.A., 29 dicembre 2000, n. 530; Cass. Civ., sez. I, 24 luglio 2012, n. 12962; 5 marzo 2012, n. 3379; sez. III, 27 gennaio 2012, n. 1197); l'errore deve inoltre apparire con immediatezza ed essere di semplice rilevabilità, senza necessità di argomentazioni induttive o indagini ermeneutiche (C.d.S., sez. VI 25 maggio 2012, n. 2781; 5 marzo 2012, n. 1235) L'errore di fatto revocatorio si sostanzia quindi in una svista o abbaglio dei sensi che ha provocato l'errata percezione del contenuto degli atti del giudizio (ritualmente acquisiti agli atti di causa), determinando un contrasto tra due diverse proiezioni dello stesso oggetto, l'una emergente dalla sentenza e l'altra risultante dagli atti e documenti di causa: esso pertanto non può (e non deve) confondersi con quello che coinvolge l'attività valutativa del giudice, costituendo il peculiare mezzo previsto dal legislatore per eliminare l'ostacolo materiale che si frappone tra la realtà del processo e la percezione che di essa ha avuto il giudicante, proprio a causa della svista o abbaglio dei sensi (C.d.S., sez. III, 1° ottobre 2012, n. 5162; sez. VI, 2 febbraio 2012, n. 587; 1 dicembre 2010, n. 8385). Pertanto, mentre l'errore di fatto revocatorio è configurabile nell'attività preliminare del giudice di lettura e percezione degli atti acquisiti al processo, quanto alla loro esistenza ed al significato letterale (senza coinvolgere la successiva attività d'interpretazione e di valutazione del contenuto delle domande e delle eccezioni ai fini della formazione del convincimento, così che rientrano nella nozione dell'errore di fatto di cui all'art. 395, n. 4), c.p.c., i casi in cui il giudice, per svista sulla percezione delle risultanze materiali del processo, sia incorso in omissione di pronunzia o abbia esteso la decisione a domande o ad eccezioni non rinvenibili negli atti del processo, C.d.S., sez. III, 24 maggio 2012, n. 3053), esso non ricorre nell'ipotesi di erroneo, inesatto o incompleto apprezzamento delle risultanze processuali ovvero di anomalia del procedimento logico di interpretazione del materiale probatorio ovvero quando la questione controversa sia stata risolta sulla base di specifici canoni ermeneutici o sulla base di un esame critico della documentazione acquisita, tutte ipotesi queste che danno luogo se mai ad un errore di giudizio, non censurabile mediante la revocazione (che altrimenti si trasformerebbe in un ulteriore grado di giudizio, non previsto dall'ordinamento, C.d.S., sez. III, 8 ottobre 2012, n. 5212; sez. V, 26 marzo 2012, n. 1725; sez. VI, C.d.S., sez. VI, 2 febbraio 2012, n. 587; 15 maggio 2012, n. 2781; 16 settembre 2011, n. 5162; Cass. Civ., sez. I, 23 gennaio 2012, n. 836; sez. II, 31 marzo 2011, n. 7488)”.
Pertanto, alla luce dell’orientamento suddetto, deve ritenersi escluso che la mancata rilevazione di un’asserita causa d’inammissibilità rilevabile d’ufficio costituisca di per sé errore di fatto revocatorio, in quanto “l’errore di fatto non costituisce una semplice (e non riscontrata) omessa lettura del fascicolo di causa ma deve consistere in un errore evidente avente ad oggetto le risultanze processuali”. EF
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Inserito in data 30/09/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 27 settembre 2016, n. 3945 La nomina del commissario ad acta e l’ astreinte non sono alternativi ma cumulabili Il rimedio della penalità di mora è coerente e può coesistere con la tecnica surrogatoria della nomina del commissario ad acta. I due rimedi non sono “alternativi, ma “cumulabili”, “stante la diversità della natura giuridica e delle finalità” degli istituti. La penalità di mora, secondo l’indirizzo dell’Adunanza Plenaria – decisione n.14 del 25/06/2014 - cui il Consiglio di Stato dichiara di aderire, “costituisce una misura coercitiva indiretta a carattere pecuniario, inquadrabile nelle pene private o sanzioni civili indirette”. Si tratta di un “ulteriore rimedio processuale, posto a disposizione del creditore della P.A.”, volto ad assicurare “l’effettività e la pienezza della tutela giurisdizionale a fronte della mancata o non esatta o comunque intempestiva esecuzione della sentenza di merito” (cfr. C.d.S. Sez. V, 20/12/2011, n. 6688). Coerentemente con le diverse finalità dei due istituti, l’affiancamento della misura dell’astreinte con la nomina di un commissario ad acta “ha un senso logico” e “trova la sua giustificazione proprio perché”, la “doppia richiesta “ non è finalizzata alla “doppia riparazione di un unico danno” (quello da ritardo nell’esecuzione), ma determina “l’aggiunta di una misura sanzionatoria ad una tutela risarcitoria”. Pertanto, la richiesta della penalità di mora non è “incompatibile” con la nomina del commissario ad acta. Il Consiglio di Stato non tralascia di ribadire che il rimedio dell’astreinte può essere concesso se ricorrono “i concreti presupposti di applicazione della misura sanzionatoria”, ed è applicabile “solo per il periodo successivo al termine fissato nella sentenza di ottemperanza e unicamente nel caso di mancato rispetto di detto termine (cfr. C.d.S. Sez. IV, 22/05/2014, n. 26153; idem 16/06/2015, n. 2922). G.B.
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Inserito in data 29/09/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 28 settembre 2016, n. 4018 Procedimento in contraddittorio tra PA e cittadino interessato: rilievo dell’art. 10 bis - L. 241/90 Nella decisione in esame, il Consiglio di Stato pone l’accento sull’atteggiamento di reciproca collaborazione che dovrebbe sempre caratterizzare il comportamento della Pubblica Amministrazione e del privato cittadino nell’ambito del procedimento amministrativo, in ossequio alla logica del contraddittorio, di cui è inequivocabile espressione l’art. 10 bis della legge 7 agosto 1990, n. 241. Nel caso in esame, un lavoratore extra comunitario residente in Italia aveva presentato alla Questura di Brescia domanda di rinnovo del permesso di soggiorno. L’autorità di pubblica sicurezza, ritenendo che le condizioni lavorative del richiedente non gli consentissero di raggiungere il limite minimo di reddito - requisito necessario per essere autorizzati a soggiornare in Italia - gli comunicava preavviso di rigetto e, non ricevendo nel termine nessuna controdeduzione, respingeva l’evocata istanza. Il lavoratore, quindi, presentava ricorso al TAR Lombardia, sostenendo che nelle more del procedimento amministrativo di rilascio era riuscito a migliorare la propria posizione lavorativa e reddituale e che, pertanto, l’Amministrazione avrebbe dovuto tener conto della situazione medio tempore sopravvenuta, ai sensi e per gli effetti dell’art. 5, quinto comma, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286. Tale ragionamento veniva condiviso dal giudice di primo grado. Il Supremo Consesso, chiamato a pronunciarsi in sede di appello, riformando la sentenza di primo grado, dimostra invece di condividere la tesi del Ministero appellante, il quale, sebbene disponibile a prendere in considerazione eventuali elementi sopravvenuti, rileva come questi ultimi non siano mai stati portati alla sua attenzione nel corso dell’istruttoria procedimentale. Ulteriormente argomentando, la Terza Sezione assegnataria, evidenzia che l’Amministrazione potrebbe, in effetti, ricavare elementi sulla situazione lavorativa del residente extra comunitario effettuando delle ricerche presso Camere di Commercio, Agenzia delle Entrate ed enti previdenziali, ma tale adempimento “può essere attivato solo qualora sorgano dei dubbi su quanto risulta agli atti dell’Amministrazione, dubbi che possono insorgere solo su impulso dell’interessato”. In altre parole, continua il Collegio, “è proprio nella logica del procedimento in contraddittorio, di cui è espressione l’art. 10 bis della legge 7 agosto 1990, n. 241, che l’interessato collabori alla formazione della consapevole volontà dell’Amministrazione, fornendo gli elementi a sua disposizione”. A sostegno della propria tesi, il Consiglio di Stato richiama altre pronunce giurisprudenziali in cui si asserisce che il privato non può pretendere che l’Amministrazione si attivi in ricerche riguardanti circostanze che nemmeno lo stesso soggetto interessato aveva provveduto a evidenziare (C. di S., VI, 27 agosto 2010, n. 5994; C. di S., III, 25 gennaio 2016, n. 244, 21 ottobre 2015, n. 4805). Invece, le pronunce invocate dal ricorrente in primo grado (C. di S., III, 6 febbraio 2015, n. 622, e C. di S., VI, 8 febbraio 2011, n. 1053) e richiamate nella sentenza appellata, non vengono ritenute aderenti al caso di specie, poiché relative ad elementi sopravvenuti poi acquisiti nel corso del procedimento.
In conclusione, il Collegio (confermando il C. di S., III, 25 gennaio 2016, n. 244, sulla necessità di considerare gli elementi sopravvenuti nell’esame di nuova istanza, volta a superare il primo diniego) accoglie l’appello, dichiarando che “l’Amministrazione legittimamente esamina la domanda di rinnovo del permesso di soggiorno sulla base degli elementi forniti dal richiedente, e non può essere onerata di ulteriori ricerche”. FM
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Inserito in data 28/09/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 28 settembre 2016, n. 4007 Decadenza del permesso di costruire La Quarta Sezione del Consiglio di Stato, confermando la posizione addotta dai Giudici di prime cure, ricorda il termine annuale previsto dall’articolo 15 secondo comma del DPR n. 380/01 entro cui occorre dare inizio ai lavori – una volta che sia stato ottenuto il permesso di costruire. Considerato, nel caso di specie, il vano decorrere di un anno dal rilascio della suddetta autorizzazione ad aedificandum, il Comune appellato non poteva che emettere una pronuncia di decadenza, quale quella oggi impugnata. Infatti ricordano i Giudici, richiamando anche giurisprudenza pregressa, che la declaratoria di decadenza del permesso di costruire costituisce un provvedimento avente carattere strettamente vincolato all’accertamento del mancato inizio o completamento dei lavori entro i termini stabiliti dall’art. 15 comma 2 del DPR n. 380/2001 (rispettivamente un anno e tre anni dal rilascio del titolo abilitativo, salvo proroga) ed ha natura ricognitiva del venir meno degli effetti del permesso di costruire ( Cfr. Cons. Stato Sez. IV 23/2/2012 n. 974; idem n. 2915/2012).
In guisa di ciò, anche in appello non può non essere sconfessata la posizione del privato, il quale ha invano posto in dubbio la condotta dell’Amministrazione comunale. CC
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Inserito in data 27/09/2016 TAR LAZIO - ROMA, SEZ. I, 15 settembre 2016, n. 9759 La concreta lesività del parere non vincolante si manifesta solo se trasposto nell’atto conclusivo e non prima Nel caso in epigrafe, oggetto dell’impugnativa è un parere non vincolante reso dall’ANAC su questioni insorte durante lo svolgimento delle procedure di gara, ai sensi dell’art. 6, comma 7, lett. n) del D.Lgs. n. 163 del 2006. La citata norma sancisce la natura “non vincolante” del parere in questione e tratteggia la possibilità che il soggetto istituzionale, al quale il parere è indirizzato, ben potrebbe discostarsi dal medesimo con determinazione congruamente motivata. Ne consegue, che la concreta lesività del parere dell’Autorità si manifesta “solo nell’ipotesi in cui sia trasposto o richiamato nell’atto conclusivo del procedimento che dispone in senso conforme ad esso, ma non prima”. Nel caso di specie, il provvedimento finale coincide con quello della Regione Umbria – emesso in data posteriore al parere in questione – che è stato poi impugnato innanzi al TAR competente per territorio. Nel contesto delineato, è evidente che la lesività alla sfera giuridica delle ricorrenti si è prodotta soltanto in seguito, cioè quando “l’organo istituzionalmente preposto all’assetto degli interessi in esame, si è pronunciato nell’ambito della sua potestà discrezionale, sia pure conformandosi alle conclusioni suggerite dall’ANAC”. In realtà, l’incidenza del parere dell’ANAC sulla fattispecie oggetto del ricorso, può essere valutata solo in relazione alla capacità di integrare la motivazione del provvedimento finale, con la conseguenza che il parere in discorso “potrà semmai impugnarsi unitamente al provvedimento finale che lo recepisce”. Alla luce di quanto dedotto, il TAR ha dichiarato il ricorso inammissibile per carenza di lesività diretta. DU
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Inserito in data 26/09/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL'ADUNANZA PLENARIA - 22 giugno 2016, n. 2766 Oneri di urbanizzazione assistiti da garanzia fideiussoria ed escussione da parte del Comune: attesa a breve la Plenaria Con l’Ordinanza emarginata in epigrafe, a seguito di un vivace dibattito occorso in giurisprudenza, la quarta sezione del Consiglio di Stato rimette all’A..P., che si terrà il 5 ottobre p.v., la questione riguardante il c.d. contributo di urbanizzazione, oggi previsto dagli artt. 11 e 16 del T.U. n. 380 del 2001, costituenti attuazione del principio fondamentale dell’onerosità del permesso di costruire (originariamente, ex art. 1 L. n. 10 del 1977). Il pagamento del predetto contributo è solitamente assistito da garanzia fideiussoria (peraltro, nella fattispecie che qui interessa, priva di beneficium excussionis), per l’adempimento del debito principale oltre che dalla previsione dello strumento sanzionatorio ex art. 16 T.U. n. 380 del 2001, per il caso di inadempimento o pagamento tardivo. Più in particolare, l’Amministrazione appellata, in luogo di rivalersi immediatamente sul fideiussore, così da ottenere immediatamente il soddisfacimento del suo credito, ha agito direttamente nei confronti della debitrice (società appellante), chiedendo non solo il debito garantito, ma anche le sanzioni previste dalla normativa di settore, determinando così un considerevole aumento del debito principale. Nella Ordinanza de quo, la questione che si pone consiste nello stabilire se in realtà la prima opzione operativa (l’incameramento della garanzia con conseguente preclusione all’applicazione delle sanzioni), sia necessitata o facoltativa. Ebbene: Secondo un indirizzo giurisprudenziale, peraltro minoritario, il problema interpretativo all’esame non può che risolversi facendo coerente applicazione dei principi civilistici in tema di obbligazioni, primo fra tutti quello che impone al creditore in buona fede di collaborare con il debitore ai fini del puntuale adempimento dell’obbligazione. Una simile impostazione, come si vede, esclude che il Comune stesso possa far ricorso alle sanzioni ex art. 3 l. 28 febbraio 1985 n. 47 senza esercitare la predetta garanzia che, oltre a limitare il danno per il debitore, permette, tra l’altro, l’immediato soddisfo del proprio credito. Infatti, la natura giuridica della concessione edilizia o delle sanzioni ex art. 3 legge n. 47 del 1985 non può esimere il Comune dall'osservanza degli obblighi posti dalla legge in capo al creditore in materia di adempimento delle obbligazioni, ivi compreso quello della necessaria cooperazione con il debitore nella fase dell'adempimento. “ ( ad es. V Sez. n. 1001 del 1995). Un secondo orientamento giurisprudenziale, maggioritario, al quale l’Ordinanza di rimessione aderisce, inquadra la fattispecie in una prospettiva pubblicistica, determinata dalla presenza di strumenti – le sanzioni e la riscossione coattiva – tipici di un procedimento autoritativo (e non paritetico). Dunque, l’Amministrazione sarebbe facoltizzata a richiedere la fideiussione, la quale, non avrebbe finalità di facilitare l'adempimento dell’obbligato principale, bensì costituirebbe una garanzia personale prestata unicamente nell'interesse dell'Ente, sul quale non incombe alcun obbligo di preventiva escussione del fideiussore. Un terzo indirizzo, per così dire mediano rispetto ai predetti orientamenti, pur non negando l’applicazione delle sanzioni in caso di ritardato pagamento, ritiene, tuttavia, illegittimo che le stesse possano applicarsi nella loro misura massima. Questa impostazione, facendo perno sul principio di leale collaborazione tra cittadino ed Amministrazione (principio di valenza pubblicistica e rientrante nell'ambito dei principi di imparzialità di cui all'art. 97 Cost.), intravede nel ritardo con cui l’Ente procede alla richiesta di pagamento e nell'assenza di qualsivoglia tentativo di escussione della fideiussione, una significativa violazione del dovere di correttezza che dovrebbe improntare il comportamento dell'Amministrazione comunale. Dunque, secondo il richiamato indirizzo, l'Amministrazione non è un soggetto che agisce per massimizzare il suo profitto ma è un soggetto che agisce per realizzare nel modo migliore possibile un interesse pubblico che le è stato affidato dalla legge e che consiste, appunto, nella celere realizzazione delle opere di urbanizzazione (e, quindi, nella pronta disponibilità delle somme ad esse relative). Motivo per cui, il ritardo con cui il Comune agisce per riscuotere le somme a titolo di oneri di urbanizzazione dovuti, se non può impedire del tutto l'applicazione delle sanzioni, atteso il loro carattere cogente scaturente dal disposto di legge, ne impedisce, tuttavia, l'applicazione nella loro misura massima. A questo punto, non rimane che attendere la pronuncia del Supremo Consesso amministrativo. PC
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Inserito in data 23/09/2016 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 20 settembre 2016, n. 3910 Annullamento in autotutela illegittimo senza motivazione sull’interesse pubblico Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale e dottrinale, ormai codificato nell’art. 21-nonies della L. n. 241/1990, “il legittimo esercizio del potere di autotutela non può fondarsi unicamente sull’intento di ripristinare la legittimità violata, ma deve essere scrutinato in ragione della sussistenza di un interesse pubblico prevalente all’adozione del provvedimento di ritiro”. Da ciò discende che l’annullamento in autotutela del provvedimento di aggiudicazione definitiva, e di tutti gli atti di gara, motivato dalla stazione appaltante con l’esigenza di uniformarsi agli obblighi conformativi scaturenti da una precedente pronuncia che dichiarava l’illegittimità di una clausola di partecipazione, è illegittimo. È illegittimo, in quanto “viziato”, per “difetto di istruttoria e di motivazione”, non avendo l’amministrazione “esposto alcuna ulteriore ragione, se non quelle connesse alla riconosciuta parziale illegittimità della lex specialis di gara”. È illegittimo, in quanto “difforme” rispetto ai “consolidati acquis formatisi sul tema della legittimità di ritiro”, non avendo l’amministrazione “in alcun modo dato atto della ponderazione dei vari interessi che nel caso in esame vengono in rilievo, anche alla luce dello stato di avanzamento dell’opera e del tempo trascorso dal provvedimento di aggiudicazione e dalla sottoscrizione del contratto”. In ordine alla pretesa risarcitoria, il principio generale della domanda e della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, “certamente applicabile anche nel giudizio amministrativo”, impone che “la mancata proposizione della domanda di annullamento dell’aggiudicazione” precluda “anche in radice il riconoscimento del danno per equivalente pecuniario”. Condotta processuale “valutata dal giudice ai sensi dell’art. 1227 c.c.”(cfr. art. 30, comma 3, art. 124, comma 2, c.p.a.). GB
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Inserito in data 22/09/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 31 agosto 2016, n. 3732 La sanzione dell'astreinte deve essere richiesta dalla parte interessata unitamente al ricorso in ottemperanza Nella sentenza in esame, il Consiglio di Stato si sofferma sull'istituto dell'astreinte, in particolare sulla necessità, per la parte che voglia avvalersene, di richiedere espressamente l’applicazione di tale sanzione unitamente al ricorso per l’ottemperanza. Riformando la pronuncia resa dal giudice di primo grado, limitatamente alla parte in cui lo stesso condannava l’Ente Pubblico al pagamento di penalità di mora (c.d. astreinte), la IV Sezione mostra di condividere quanto sostenuto dall’amministrazione appellante, cioè che nel caso di specie il TAR “aveva violato il precetto di cui all'art. 112 cpc in quanto aveva disposto tale condanna d'ufficio” nonostante l’appellato non avesse richiesto tale statuizione nel ricorso in ottemperanza. Nel suo percorso argomentativo, il Supremo Consesso, rileva che – come emerge dagli atti - l'originario ricorrente non aveva, in effetti, avanzato richiesta di astreinte contestualmente al ricorso in ottemperanza di primo grado, quindi, la sentenza impugnata aveva disposto tale condanna d'ufficio, ed in carenza di apposita richiesta di parte. Proseguendo nella sua esposizione, il Consiglio di Stato dichiara di mantenersi nel solco interpretativo tracciato dalla giurisprudenza amministrativa, la quale, rifacendosi al tenore letterale dell'art. 114 del cpa, è concorde nel ritenere che la sanzione dell'astreinte debba essere richiesta dalla parte interessata. Pertanto la Sezione assegnataria conclude che “solo con la richiesta unitamente al ricorso per ottemperanza la parte esprime univocamente tanto la convinzione che la sentenza, ovvero il decreto, non è stato osservato, quanto la volontà di ottenerne l'esecuzione, nonché il suo specifico oggetto (tra le tante, T .A.R. Trento, -Trentino-Alto Adige-, sez. I, 20/05/2016, n. 220; Consiglio di Stato, Sez. IV, 4 dicembre 2015, n. 5536 e n. 5537)”. FM
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Inserito in data 21/09/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 13 settembre 2016, n. 3865 Appalto di servizi, risoluzione contrattuale e giurisdizione La Quinta Sezione del Consiglio di Stato respinge l’appello promosso da una società cooperativa sociale avverso la sentenza resa dal TAR Campania – Napoli, n. 2812/2016, con la quale il Giudice di prime cure ha declinato la propria giurisdizione a favore della giurisdizione ordinaria, in una controversia avente ad oggetto la risoluzione di un rapporto contrattuale con la pubblica Amministrazione, nonostante che, nella fattispecie, pur essendosi dato inizio alla esecuzione delle prestazioni, non si era ancora provveduto alla stipula del relativo contratto. Ed invero, sotto tale ultimo profilo, con la pronuncia in esame, il Consesso ritiene che nessun contrasto con i principi enunciati dalla Adunanza Plenaria n. 14/2014 è ravvisabile (come asserito dalla appellante), dal momento che l’art. 11 del d.lgs. 163/2006 disciplina le ipotesi nelle quali è possibile disporre l’esecuzione in via d’urgenza del contratto, ossia prima della sua concreta stipulazione; afferma infatti il Collegio “è la stessa legge che consente il riferimento e l’operatività della disciplina negoziale, non ancora oggetto di formale stipulazione”. Pertanto, nella fattispecie, si versa nell’ambito della esecuzione di prestazioni, ossia di un rapporto giuridico in cui ciascuna delle parti ha il diritto di .invocare la risoluzione del contratto eseguito in via d’urgenza ex art. 11 d.lgs. 163 del 2006 e ciò ai sensi dell’art. 134 del medesimo decreto, che disciplina il diritto di recesso e dei susseguenti 135 e 136 regolanti la risoluzione del contratto. Il Consiglio di Stato, inoltre, precisa che, contrariamente a quanto sostenuto dalla appellante, la fattispecie è da qualificarsi appalto di servizi (e non concessione), non risultando posto a carico dell’appellante il rischio economico. Sono stati così rigettati i motivi di gravame esposti dalla originaria ricorrente, la quale aveva denunciato in primo luogo la erroneità della sentenza di prime cure per non avere affermato la sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo in ragione della mancata formalizzazione del contratto; secondo quest’ultima, infatti, in detta ipotesi non vi sarebbe stata alcuna posizione paritetica tra le Parti e l’Amministrazione non avrebbe potuto utilizzare la tutela negoziale della risoluzione contrattuale, bensì quella della autotutela pubblicistica, con conseguente radicamento della giurisdizione amministrativa. PC
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Inserito in data 20/09/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 16 settembre 2016, n. 3892 Le regole di trasparenza applicate dai privati sono espressione di autonomia negoziale
Con la pronuncia in esame, il Consesso ritiene che in assenza di espresse previsioni di legge in tal senso, i soggetti formalmente privati non siano “titolari di poteri pubblicistici, anche se ad altri e specifici fini siano considerati organismi di diritto pubblico”.
In particolare, “anche ove scelgano di applicare regole di trasparenza ed equità proprie dei concorsi pubblici, i soggetti privati lo fanno ponendo ‘autovincoli’ alla propria autonomia negoziale, la cui violazione ben può essere sindacata dal giudice civile, trattandosi di atti finalizzati all’instaurazione di un rapporto lavorativo di natura privatistica”. Ed, invero, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 1, comma 2, e 63, comma 4, D.Lg.vo n. 165 del 2001 «spettano alla cognizione del Giudice Amministrativo soltanto le controversie, relative ai concorsi indetti dalle Amministrazioni dello Stato, compresi gli istituti e le scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, dalle aziende e dalle Amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, dalle Regioni, dalle Province, dai Comuni, dalle Comunità Montane, dai Consorzi e/o dalle associazioni di Enti Locali, dalle Università, dagli Istituti autonomi case popolari, dalle Camere di Commercio e loro associazioni, da tutti gli Enti Pubblici non economici nazionali, regionali e locali, dalle amministrazioni e aziende ed Enti del Servizio Sanitario Nazionale, dall’ARAN e da tutte le altre Agenzie previste dal D.Lg.vo n. 300/1999». Alla luce di quanto suddetto, i Giudici ritengono che una fondazione di diritto privato non possa ritenersi - per il sol fatto di svolgere, sulla base di intese ed accordi attuativi con la Regione e l’ASL competente, attività riconducibili al SSN – “un ‘ente’ del SSN, poiché a tal fine è necessaria una previsione di legge che qualifichi l’ente nel quadro del S.S.N. sottoponendolo alle regole pubblicistiche” (in proposito cfr SS.UU., 25 novembre 2013, n. 26283). Né, d’altra parte, può applicarsi quella giurisprudenza riguardante l’individuazione della nozione di «organismo di diritto pubblico», “poiché tale figura soggettiva, di derivazione comunitaria, rileva nel settore degli appalti ed è tesa, in chiave pro-concorrenziale, ad applicare le regole di evidenza pubblica anche ai soggetti che, pur non essendo formalmente pubblici, soggiacciono ad una dominante influenza pubblica”. EF |
Inserito in data 19/09/2016 CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA, SEZIONE OTTAVA - SENTENZA 7 settembre 2016, C- 549/14 Divieto di rinegoziazione dell’offerta: torna a pronunciarsi la Corte di Giustizia Sull’interpretazione dell’art. 2 della direttiva 2004/18, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, si è pronunciata la Corte di Giustizia, escludendo che dopo l’aggiudicazione di un appalto pubblico, si possa apportare una modifica sostanziale allo stesso, senza previamente avviare una nuova procedura di aggiudicazione dell’appalto. Ciò, anche quando “tale modifica costituisca, obiettivamente, una modalità transattiva avente ad oggetto rinunce reciproche per entrambe le parti, allo scopo di porre fine a una controversia dall’esito incerto, sorta a causa delle difficoltà incontrate nell’esecuzione di tale appalto”. La Corte di Giustizia, ribadendo un principio consolidato sul cd. divieto di rinegoziazione dell’offerta, ha ricondotto l’obbligo di avviare una nuova procedura di aggiudicazione in caso di modifica sostanziale all’appalto iniziale, alla necessità di applicare le stesse condizioni a tutti gli operatori economici. Diversamente, taluni appalti – osserva la Corte di Giustizia – a causa del loro contenuto aleatorio, rendono prevedibile già a priori il rischio di sopravvenienza di difficoltà in fase di esecuzione; in questi casi, la Corte riserva all’amministrazione aggiudicatrice la possibilità di apportare talune modifiche sostanziali al contenuto iniziale dell’appalto pubblico, anche dopo l’aggiudicazione, a condizione, però, che ciò sia stato previsto nei documenti che hanno disciplinato la procedura di aggiudicazione, e che ne siano state fissate le modalità di applicazione. Inoltre, nell’iter argomentativo della pronuncia, la Corte pone in evidenza come siano le “difficoltà oggettive riscontrate in fase esecutiva e non la volontà delle parti di rinegoziare i termini essenziali del contratto iniziale” a rappresentare “l’elemento nuovo”, che si colloca alla base della modifica sostanziale oggetto della composizione transattiva. In particolare, la CGE precisa come siffatte difficoltà di esecuzione riscontrate dopo l’aggiudicazione, non siano da sole sufficienti a giustificare modifiche sostanziali intraprese in sede di trattativa privata, in quanto violerebbero comunque i principi di parità di trattamento e di non discriminazione sanciti dal Trattato FEU, nonché dall’art. 2 della citata direttiva, fatta salva l’eventualità in cui “i documenti relativi all’appalto prevedano la facoltà di adeguare talune sue condizioni, anche importanti, dopo la sua aggiudicazione e fissino le modalità di applicazione di tale facoltà”. Pertanto, in mancanza di siffatte previsioni, la necessità di applicare per un determinato appalto pubblico le stesse condizioni a tutti gli operatori economici richiede, in caso di modifica sostanziale, di avviare una nuova procedura di aggiudicazione. DU
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Inserito in data 10/08/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 10 agosto 2016, n. 3615 I servizi di trasporto sanitario possono essere attribuiti mediante affidamento diretto Con la pronuncia in esame, il Collegio osserva che la Corte di Giustizia ha “espressamente consentito di derogare al generale principio della pubblica gara estesa a tutti gli operatori economici, in favore delle Associazioni no profit, solo per i servizi di ambulanza e di trasporto sanitario d’urgenza; tuttavia non ha espressamente escluso dalla deroga i servizi di trasporto sanitario in genere, che restano comunque connessi alle ragioni di necessità ed urgenza tipiche del settore, dovendo essere i servizi di trasporto, ordinari e non, fungibili ove necessario a far fronte alle emergenze, e dovendo rispondere anche i servizi ordinari ai criteri di urgenza necessari per la tutela della salute umana, così come è ben evidenziato dalla avvenuta espressa inclusione, fra i servizi non di emergenza/urgenza, del trasporto di organi espiantati per trapianti, pur essendo anche tale trasporto caratterizzato da intuibili profili di imprevedibilità e di somma urgenza nell’esecuzione”. La contestata estensione della previsione in deroga non appare quindi irragionevole o non proporzionata, alla stregua delle indicazioni della Corte di Giustizia (sez. V, 28/01/2016, n. 50) secondo cui per il trasporto sanitario “le autorità locali di uno Stato membro possono procedere ad attribuire la fornitura di servizi di trasporto sanitario mediante affidamento diretto, in assenza di pubblicità, ad associazioni di volontariato a condizione che le associazioni non abbiano fini di lucro, abbiano una finalità sociale e lo Stato persegua un obiettivo di solidarietà, come la tutela della salute della collettività e ragioni di efficienza di bilancio”. EF
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Inserito in data 09/08/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, 9 agosto 2016, n. 3557 Va motivata l’indizione di un nuovo concorso in presenza di graduatoria ancora efficace Con la pronuncia in esame, il Consiglio di Stato conferma il principio generale secondo cui “in presenza di una graduatoria concorsuale ancora efficace, la regola da seguire per la copertura dei posti vacanti è quella dello scorrimento della medesima prima dell’indizione di un nuovo concorso”. Come anche questa Sezione ha di recente ricordato, con la sentenza n. 1796 del 9 aprile 2015, la disciplina vigente, «pur non spingendosi fino ad assegnare agli idonei un vero e proprio diritto soggettivo all’assunzione mediante scorrimento della graduatoria, con correlativo obbligo cogente per l’ente, impone all’amministrazione, che abbia a determinarsi diversamente, un rigoroso obbligo di motivazione della propria scelta derogatoria». Trattasi, invero, di “obbligo che non recede ma è solo ridimensionato e attenuato in presenza di particolari ragioni di opportunità che militino per una scelta organizzativa diversa dallo scorrimento, come l’esigenza di stabilizzare personale precario o il sopraggiungere di una modifica sostanziale della disciplina applicabile alla procedura concorsuale”. Secondo quanto affermato anche dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la decisione n. 14 del 28 luglio 2011, “la disciplina dettata in materia individua, infatti, nello scorrimento delle graduatorie concorsuali ancora efficaci la regola generale per la copertura dei posti vacanti nella dotazione organica e ne rafforza il ruolo di modalità ordinaria di provvista del personale, in relazione alla finalità primaria di ridurre i costi gravanti sulle amministrazioni per la gestione delle procedure selettive”. Pertanto, l’indizione di un nuovo concorso è “l’eccezione e richiede un’apposita e approfondita motivazione, che deve dar conto del sacrificio imposto ai concorrenti già idonei e della sussistenza di preminenti diverse esigenze di interesse pubblico”. In conseguenza, “non sussiste un vero e proprio diritto soggettivo alla assunzione degli idonei mediante scorrimento, che sorgerebbe per il solo fatto della vacanza e della disponibilità di posti in organico, dovendo comunque l’amministrazione assumere la decisione organizzativa di procedere al reclutamento di personale, correlata a eventuali limiti normativi alle assunzioni, alla disponibilità di bilancio, alle scelte programmatiche compiute dagli organi di indirizzo e alla valutazione di ulteriori altri elementi di fatto e di diritto rilevanti”. EF
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Inserito in data 28/07/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, 26 luglio 2016, n. 3387 Non esiste una definizione unitaria ed omogenea di ente pubblico Nel nostro ordinamento, anche in ragione dell’influenza del diritto europeo, “non esiste una definizione unitaria ed omogenea di ente pubblico”. Invero, “la valorizzazione del profilo funzionale relativo alle finalità perseguite porta a individuare diverse nozioni di pubblica amministrazione in ragione degli ambiti generali e settoriali di disciplina che vengono in rilievo e, per ciascuna pubblica amministrazione, una possibile articolazione della natura, pubblica o privata, in ragione della specifica disciplina applicabile” (Cons. Stato, sez. VI, 1° giugno 2016, n. 2326). Limitando l’analisi a quanto rileva per la trattazione del ricorso, il Consesso rileva che “presupposti necessari per la presenza di un ente pubblico sono di tipo organizzativo e sostanziale”. In particolare, “il presupposto organizzativo è rappresentato dal rispetto del principio di legalità. La Costituzione impone che deve essere la legge a stabilire quando un soggetto possa qualificarsi come pubblico (art. 97 Cost.). La legge 20 marzo 1975, n.70 (Disposizioni sul riordinamento degli enti pubblici e del rapporto di lavoro del personale dipendente), in attuazione di tale regola, dispone, con previsione generale, che «nessun nuovo ente pubblico può essere istituito o riconosciuto se non per legge»“. Il presupposto sostanziale, invece, “è costituito dalla presenza di indici idonei a rilevare la pubblicità dell’ente”. A tal proposito, i Giudici di Palazzo Spada hanno osservato che tale criterio sostanziale di identificazione valorizza “una serie di indici esteriori sintomatici e non necessariamente cumulativi della pubblicità, rappresentati, in particolare: dall’istituzione per legge e dalla costituzione ad iniziativa pubblica; dal rapporto di strumentalità con lo Stato o ente territoriale, che implica l’esercizio di poteri di indirizzo e controllo; dal finanziamento pubblico; dal fine di interesse pubblico che deve essere perseguito; dall’attribuzione di poteri pubblici”. In conclusione, “l’esigenza di maggiore certezza ha indotto il legislatore ad affiancare a questo criterio un altro criterio di tipo formale, consistente nell’indicazione dei soggetti che devono ritenersi pubbliche amministrazioni (si veda art. 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n.165, recente «Norme generale sull'ordinamento del lavoro alle dipendente delle amministrazioni pubbliche», che, richiamando genericamente anche «tutti gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali», non ha una valenza autosufficiente, imponendo che a questo criterio formale si affianchi quello, sopra esposto, di natura sostanziale)”. EF
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Inserito in data 27/07/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 26 luglio 2016, n. 3372 La violazione del dovere di sinteticità tipizza uno dei casi di temerarietà del giudizio Con la pronuncia in esame, il Consiglio di Stato si esprime sulla sussistenza dei presupposti per l’applicazione della norma di cui all’art. 26, comma 2, c.p.a., confermando quanto già sancito dalla stessa Quinta Sezione con sentenza 11 giugno 2013, n. 3210. Sul punto occorre rilevare che l’attuale testo normativo, novellato dal d.lgs. n. 195 del 2011, entrato in vigore l’8 dicembre 2011, dispone che “Il giudice condanna d’ufficio la parte soccombente al pagamento di una sanzione pecuniaria, in misura non inferiore al doppio e non superiore al quintuplo del contributo unificato dovuto per il ricorso introduttivo del giudizio, quando la parte soccombente ha agito o resistito temerariamente in giudizio. Al gettito delle sanzioni previste dal presente comma si applica l’articolo 15 delle norme di attuazione”. Tale norma si lega a quanto sancito dall’art. 26, comma 1, c.p.a., come modificato dall'art. 1, comma 1, lett. d), d.lgs. 14 settembre 2012, n. 160, secondo cui “Quando emette una decisione, il giudice provvede anche sulle spese del giudizio, secondo gli articoli 91, 92, 93, 94, 96 e 97 del codice di procedura civile, tenendo anche conto del rispetto dei principi di chiarezza e sinteticità di cui all'art. 3, comma 2”. Sul piano sistematico, dunque, “si staglia una previsione normativa di chiusura dell’ordinamento processuale amministrativo che consente di approntare, in via generale e residuale, un’adeguata reazione alla violazione del principio internazionale e costituzionale del giusto processo, espressamente richiamato dall’art. 2, comma 1, c.p.a., non diversamente tipizzata (si pensi agli artt. 18, comma 7, e 123, comma 1, c.p.a.); di guisa che tutte le violazioni di tale superiore principio ricevano una adeguata sanzione (cfr. Cons. giust. amm., 19 aprile 2012, n. 395, in ordine alla violazione del dovere di sinteticità). Si evita, altresì, la beffa di norme processuali, prescrittive di oneri ed obblighi, ma minus quam perfectae, ovvero prive di una sanzione”. Emblematico è il caso della “violazione del dovere di sinteticità sancito dall’art. 3, comma 2, c.p.a., strumentalmente connesso al principio della ragionevole durata del processo (art. 2, comma 2, c.p.a.), a sua volta corollario del giusto processo, che assume una valenza peculiare nel giudizio amministrativo caratterizzato dal rilievo dell’interesse pubblico in occasione del controllo sull’esercizio della funzione pubblica e che è infatti icasticamente richiamato dal comma 1. La sinteticità degli atti costituisce uno dei modi - e forse tra i più importanti - per arrivare ad una giustizia rapida ed efficace; essa è declinata in varie norme del codice: si pensi alla disciplina dell'udienza pubblica, dove si prevede che qualora lo chiedano “le parti possono discutere sinteticamente” (art. 74); al processo cautelare “nella camera di consiglio le parti possono costituirsi e i difensori sono sentiti ove ne facciano richiesta. La trattazione si svolge oralmente e in modo sintetico” (art. 55, comma 7); sulla stessa scia si muovono gli articoli 40, comma 1, lett. c) e d), e 101, comma 1, c.p.a. (in relazione al contenuto del ricorso introduttivo in primo grado e in appello); parimenti utile è ricordare, in chiave comparata, l’art. 366, comma 1, n. 3, c.p.c., laddove stabilisce che il ricorso deve contenere “L’esposizione sommaria dei fatti della causa” (cfr., sul punto, Cass. civ., Sez. Un., 11 aprile 2012, n. 5698 che ha fatto applicazione della norma in esame, dichiarando inammissibile un ricorso in cassazione, dopo aver richiamato il dovere di sinteticità degli scritti difensivi). E’ pacifica la natura sanzionatoria della misura pecuniaria in esame, che tipizza uno dei casi di temerarietà del giudizio e che prescinde da una specifica domanda nonché dalla prova del danno subito, ed il cui gettito, commisurato a predeterminati limiti edittali, è destinato al bilancio della giustizia amministrativa, atteso che lo scopo della norma è quello di tutelare la rarità della risorsa giudiziaria, un bene non suscettibile di usi sovralimentati o distorti, soprattutto a presidio dei casi in cui il suo uso è davvero necessario (cfr., sul punto, Consiglio di Stato, sez. V, n. 1733 del 2012; Cass. civ., sez. I, n. 17902 del 2010, cui si rinvia a mente dell’art. 88, co. 2, lett. d), c.p.a.)”.
Per quanto concerne la quantificazione della pena, entro i limiti edittali sanciti dall’art. 26, comma 2, cit., “il Collegio ritiene di determinarla nella misura del contributo unificato, avuto riguardo ai criteri applicativi elaborati dalla giurisprudenza ai sensi dell’originario secondo comma dell’articolo 26 c.p.a. che, in parte qua, ben possono orientare l’esercizio del potere di scelta della misura della sanzione pecuniaria” (nella specie si tratta di correlare la misura pecuniaria alle spese di lite, cfr. Cons. St., sez. V, n. 1733 del 2012 cit.; sez. V, n. 3252 del 2011, cui si rinvia a mente dell’art. 88, comma 2, lett. d), c.p.a.). EF
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Inserito in data 26/07/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 19 luglio 2016, n. 3206 Divieto di valutazioni tecniche non previste dal bando in caso di gara con il prezzo più basso I Giudici di Palazzo Spada, nella pronuncia in esame, si sono espressi in ordine alla possibilità o meno per la stazione appaltante - nell’ipotesi di gare bandite con il “criterio del prezzo più basso”- di esprimere valutazioni tecniche sulla qualità del prodotto, non previste dalla lex specialis. Per costante giurisprudenza del Consiglio di Stato – ha precisato il Collegio – la gara che deve aggiudicarsi secondo il criterio del prezzo più basso “impone una valutazione stringente sulla conformità o meno del prodotto alla specifiche già predeterminate dalla lex specialis e non consente alla stazione appaltante di formulare apprezzamenti sul grado di maggiore o minore qualità tecnica dell’offerta, sottoponendo i prodotti a prove o verifiche non previste dalla lex specialis”. Confermando il tenore della pronuncia resa dal giudice di primo grado, la III Sezione ha quindi precisato che l’istruttoria sui prodotti deve essere compiuta prima di elaborare e bandire un appalto e non dopo, in corso di gara, diversamente si violerebbe il principio di trasparenza e della par condicio. Nel caso specifico - ha conclusivamente affermato il Collegio - quanto ai chiarimenti resi dalla stazione appaltante nella gara in esame, i medesimi devono ritenersi illegittimi nella parte in cui si sono discostati dalle previsioni tassative della lex specialis.
Ed infatti – si legge in un passaggio della pronuncia - “se è ben vero che nelle gare bandite secondo il criterio del prezzo più basso, l’Amministrazione può e deve verificare la conformità del prodotto alle specifiche tecniche predeterminate dalla lex specialis, essa non può sottoporre le offerte a verifiche e prove non previste e non predeterminate ed esprimere valutazioni tecniche sulla minore o maggiore qualità dei prodotti, basate su una comparazione qualitativa tra i prodotti offerti (consentita invece nelle gare bandite con il metodo dell’offerta economicamente vantaggiosa), con il risultato illegittimo, peraltro, di escludere in toto l’offerta ritenuta solo qualitativamente meno vantaggiosa, come è accaduto nel caso di specie”. MB
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Inserito in data 25/07/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, 21 luglio 2016, n. 3304 La perdita di chance va intesa come “attuale possibilità di ottenere un’utilità futura” Con la pronuncia indicata in epigrafe, il Consiglio di Stato ritiene che “subordinare il risarcimento del danno alla certezza del risultato finale significherebbe disconoscere tout court la tutela risarcitoria della chance; che, invece, come in più occasioni affermato dalla giurisprudenza sia civile sia amministrativa, rappresenta un bene della vita (consistente nell’attuale possibilità di ottenere un’utilità futura) meritevole di autonoma tutela risarcitoria, la cui lesione dà luogo ad un danno emergente e non ad un lucro cessante (ciò che si risarcisce, in altri termini, è la perdita attuale di un bene già presente nel patrimonio del danneggiato, non il mancato conseguimento di un futuro guadagno)”. Infatti, “il livello di certezza del risultato finale (…) può semmai incidere sulla quantificazione della chance in termini economici (maggiore è la probabilità maggiore è il valore economico della chanche e viceversa), ma non incidere sull’an del risarcimento”. Purché non sia meramente irrisoria o insignificante, quindi, “la chance di conseguire una utilità futura merita tutela risarcitoria, perché costituisce un autonomo bene della vita (di natura per così dire strumentale) che ha un suo valore economico e non si identifica con il bene della vita finale”. Non si può, quindi, “negare il risarcimento della chance invocando la mancanza di certezza di conseguimento del bene della vita finale, proprio perché i due beni hanno diversa natura e diverso valore economico. Il primo, a differenza del secondo, è risarcibile e non richiede la prova della certezza, anzi presuppone proprio l’incertezza della spettanza del bene finale”. Peraltro, “deve ricordarsi come la giurisprudenza civile abbia ormai accolto la tesi secondo cui la causalità materiale nell’ambito dell’illecito aquiliano (la causalità tra la condotta non iure e l’evento lesivo) si accerta sulla base di un criterio che, a sua volta, non presuppone la certezza assoluta che la condotta illecita sia stata la condicio sine qua non dell’evento lesivo”. Il criterio sancito dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (cfr. Cass., Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 581) è, infatti, “quello che corrisponde alla formula del “più probabile che non”, in forza della quale il rapporto di causalità si considera provato ogni volta che l’ipotesi che sia stata proprio la condotta controversa a cagionare l’evento è quella più probabile, rispetto all’ipotesi alternativa”. Alla luce di tale orientamento, “il rapporto di causalità tra la ritardata nomina a ricercatore e il mancato conseguimento della qualifica di professore, quindi, dovrebbe essere ritenuto (processualmente) certo, per il solo fatto che questa ipotesi risulti logicamente più probabile rispetto a quella alternativa”. EF
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Inserito in data 23/07/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 20 luglio 2016, n. 3293 Sull’onere della P.A. di dare riscontro alle osservazioni ex art. 10 bis L. 241/90 Con la pronuncia in esame, il Consesso osserva che “non è dato ravvisare a carico dell’Amministrazione un onere particolarmente stringente di dare minuzioso riscontro alle osservazioni rese ai sensi dell’art. 10 bis, atteggiandosi le medesime pur sempre a un contributo al procedimento da parte del privato di tipo squisitamente collaborativo”.
A tal proposito, i Giudici di Palazzo Spada precisano che, ai sensi dell’art. 21 octies, della medesima l. n. 241 del 1990, la mancata o insufficiente motivazione dell’apporto collaborativo proposto con le osservazioni non può refluire sulla validità dell’atto di diniego che esprima “un potere privo di margini di discrezionalità in ragione della presupposta e vincolante regolamentazione comunale richiamata nell’adottata determinazione” ( Cons. Stato sez. IV 9/12/2015 n. 5577; Cons Stato Sez. V 25/1/2016 n. 233). EF
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Inserito in data 22/07/2016 TAR FRIULI VENEZIA GIULIA - TRIESTE, SEZ. I, 13 luglio 2016, n. 374 Sospensione di licenza commerciale ex art. 100 TULPS per ragioni di ordine pubblico La vicenda sottoposta al Collegio triestino concerne la legittimità o meno del provvedimento di sospensione della licenza commerciale di un esercizio di generi alimentari, disposta ex art. 100 TULPS dal Questore, sul presupposto che il locale fosse divenuto punto di riferimento per pregiudicati e persone dedite al consumo di sostanze alcooliche e/o stupefacenti. Il Collegio, nella pronuncia in epigrafe, ha ricordato che, ai sensi del citato art. 100 del r.d. 18 giugno 1931, n. 773, “il questore può sospendere la licenza di un esercizio (…) che sia abituale ritrovo di persone pregiudicate o pericolose o che, comunque, costituisca un pericolo per l'ordine pubblico (…) o per la sicurezza dei cittadini”. Il predetto potere, ampiamente discrezionale, ha natura tipicamente preventiva e cautelare, essendo previsto a garanzia di interessi pubblici primari quali la sicurezza e l'ordine pubblico; da ciò deriva che la sospensione della licenza deve ritenersi legittimamente adottata in tutte le ipotesi in cui, a prescindere dall’eventuale responsabilità del titolare dell'esercizio, ricorra una situazione che possa qualificarsi quale fonte di pericolo concreto ed attuale per la collettività. La finalità della misura – ha ricordato la I Sezione - è infatti quella "di impedire - attraverso la temporanea chiusura del locale - il protrarsi di una situazione di pericolosità sociale e, nel contempo, di prevenire il reiterarsi di siffatte situazioni, rendendo consapevoli quei soggetti (o chi si è in ogni caso reso protagonista di comportamenti criminosi e/o intollerabili)...in modo da indurre...il modificarsi della loro condotta..." . Con riferimento poi al mancato invio della comunicazione di avvio del procedimento, il Collegio ha osservato che secondo un costante e condivisibile indirizzo giurisprudenziale "non sussiste l'obbligo di preventiva comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell'art. 7 della L. n. 241 del 1990 nel caso in cui l'urgenza, che consenta tale omissione, è rinvenibile ex se nel pericolo di compromissione dell'ordine pubblico, rappresentato dalle circostanze prese a presupposto per l'emanazione della misura di sicurezza pubblica" . MB
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Inserito in data 21/07/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 15 luglio 2016, n. 3166 Non si possono annullare le operazioni elettorali per mere irregolarità In base ad un condiviso orientamento, “la radicale invalidità delle operazioni elettorali può essere ravvisata solo quando la mancanza di elementi o di requisiti essenziali impedisca il raggiungimento dello scopo che connota il singolo atto, mentre non possono comportare l’integrale annullamento delle operazioni le mere irregolarità, ossia quei vizi da cui non derivi alcun pregiudizio per le garanzie o la compressione della libera espressione del voto” (in tal senso - ex plurimis -: Cons. Stato, III, 23 maggio 2016, n. 2119; id., V, 15 maggio 2015, n. 2920). Del resto, osserva il Consesso che, essendo il procedimento elettorale preordinato alla formazione e all'accertamento della volontà degli elettori (anche in considerazione della rilevanza costituzionale della disciplina del diritto di voto - art. 48 Cost. -), l’effetto invalidante consegue solo a quelle “anormalità procedimentali che impediscano l'accertamento della regolarità delle operazioni elettorali con effettiva e radicale diminuzione delle garanzie di legge”.
Le altre anormalità, invece, “quali le omissioni di adempimenti formali ovvero le irregolarità comunque inidonee ad alterare in odo irrimediabile il canone della genuinità del voto nel suo complesso costituiscono delle mere irregolarità tutte le volte che non incidano negativamente sulla finalità che il procedimento persegue, id est l'autenticità, la genuinità e la correttezza degli adempimenti” (arg. ex Cons. Stato, V, 19 giugno 2012, n. 3557). EF
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Inserito in data 20/07/2016 TAR TOSCANA - FIRENZE, SEZ. II, 12 luglio 2016, n. 1159 Mancata verbalizzazione del numero delle schede autenticate ma non utilizzate
Nella pronuncia in epigrafe, il TAR fiorentino ha affrontato la questione dell’annullamento delle operazioni elettorali nel caso di utilizzo del sistema delle c.d. “schede ballerine”.
Il Collegio ha affermato che costante ed unanime giurisprudenza amministrativa appare assestata nell’attribuire all’irregolarità consistente nella mancata verbalizzazione del numero delle schede autenticate ma non utilizzate valore invalidante del voto nelle sole ipotesi in cui “non risulti possibile ricostruire, comunque, il dato mancante e quindi l'esatto svolgimento delle operazioni di voto”.
La normativa riguardante il procedimento elettorale – è stato ulteriormente precisato nella pronuncia de qua - disciplina in modo rigoroso i tempi e le modalità di svolgimento delle operazioni elettorali e di verbalizzazione delle stesse, ponendo a carico del presidente della sezione precisi e puntuali obblighi. Si tratta di operazioni tassative, che devono essere eseguite nell’ordine indicato dalla legge, dovendosene dare pedissequa ed adeguata contezza nel processo verbale sezionale, essendo mirate a garantire la legittimità, la trasparenza e la regolarità della votazione e dello scrutinio e, quindi, la genuinità del risultato finale.
In particolare, “la mera identità numerica tra schede votate e numero dei votanti non è, in sé considerata, prova della correttezza del procedimento elettorale, laddove sia rilevata la mancanza di schede autenticate e non votate, per la cui integrità la legge prescrive le particolari operazioni sopra richiamate, potendo tale anomalia essere di per sé causa di nullità per il pericolo di alterazione dei risultati elettorali”.
Così argomentando, il Collegio ha accolto il ricorso, disponendo l’annullamento degli atti impugnati e la rinnovazione delle operazioni di voto. MB
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Inserito in data 19/07/2016 CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA - QUINTA SEZIONE, SENTENZA 14 luglio 2016, C - 458/14 e C - 67/15 No alla proroga automatica di concessioni demaniali con interesse transfrontaliero certo Con la pronuncia in esame, la Corte di Giustizia U.E. afferma il seguente principio di diritto: “L’articolo 49 TFUE deve essere interpretato nel senso che osta a una normativa nazionale, come quella di cui ai procedimenti principali, che consente una proroga automatica delle concessioni demaniali pubbliche in essere per attività turistico‑ricreative, nei limiti in cui tali concessioni presentano un interesse transfrontaliero certo”. Infatti, in presenza di interesse transfrontaliero certo, l’assegnazione della concessione “in totale assenza di trasparenza ad un’impresa con sede nello Stato membro dell’amministrazione aggiudicatrice costituisce una disparità di trattamento a danno di imprese con sede in un altro Stato membro che potrebbero essere interessate alla suddetta concessione” (v., per analogia, sentenze del 17 luglio 2008, ASM Brescia, C‑347/06, EU:C:2008:416, punti 59 e 60, nonché del 14 novembre 2013, Belgacom, C‑221/12, EU:C:2013:736, punto 37).
A tal uopo, deve ritenersi che l’esistenza di un interesse transfrontaliero certo vada valutata “sulla base di tutti i criteri rilevanti, quali l’importanza economica dell’appalto, il luogo della sua esecuzione o le sue caratteristiche tecniche, tenendo conto delle caratteristiche proprie dell’appalto in questione” (v., in tal senso, sentenze del 14 novembre 2013, Belgacom, C‑221/12, EU:C:2013:736, punto 29 e giurisprudenza ivi citata, nonché del 17 dicembre 2015, UNIS e Beaudout Père et Fils, C‑25/14 e C‑26/14, EU:C:2015:821, punto 30). EF
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Inserito in data 18/07/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 11 luglio 2016, n. 3070 Esclusione dalla gara dovuta a grave inadempimento dell’impresa concorrente
La IV Sezione del Consiglio di Stato, con la pronuncia in commento, si è espressa in ordine alla legittimità del provvedimento della Commissione di esclusione di un’impresa da una gara di appalto per “grave negligenza”, disposta in quanto la stessa P.A. aveva, in precedenza, disposto la risoluzione di un contratto di appalto per grave inadempimento della concorrente.
In particolare, la Stazione appaltante aveva ritenuto operante nei confronti dell’impresa concorrente la previsione di cui all’art. 38 co. 1 lett. f) del d.lgs. 163/06, “reputando che la suddetta risoluzione, dovuta a grave inadempimento dell’appaltatore, rileva sotto l’aspetto del venir meno dell’affidabilità dell’impresa, ed è tale da ledere in modo sostanziale il rapporto fiduciario con questa Stazione appaltante”.
Nel confermare la sentenza resa in primo grado dal Collegio calabrese, i giudici di Palazzo Spada hanno ribadito che il citato articolo - pienamente consonante con la normativa comunitaria - esclude dalla partecipazione a procedure di affidamento di concessioni e appalti di lavori, servizi e forniture, e dalla stipulazione dei relativi contratti “…i soggetti che, secondo motivata valutazione della stazione appaltante, hanno commesso grave negligenza o malafede nell'esecuzione delle prestazioni affidate dalla stazione appaltante che bandisce la gara; o che hanno commesso un errore grave nell'esercizio della loro attività professionale, accertato con qualsiasi mezzo di prova da parte della stazione appaltante”.
Nel fattispecie de qua, l’esclusione dalla gara era stata disposta dalla Commissione sul rilievo che nei confronti dell’appellante fosse stata disposta, in precedenza, dalla stessa Stazione appaltante la risoluzione ex art. 106 co. 6 d.lgs. n. 163/2006 di un contratto d’appalto e che quindi tale risoluzione “dovuta a grave inadempimento dell’appaltatore, rileva sotto l’aspetto del venir meno dell’affidabilità dell’impresa, ed è tale da ledere in modo sostanziale il rapporto fiduciario con questa Stazione appaltante”.
Il Collegio, richiamando pregressa giurisprudenza del Consiglio di Stato, ha rilevato come sotto un profilo generale, ai fini dell’applicazione della causa di esclusione di cui all’art. 38 co. 1 lett. f), non occorre che sia accertata in modo irrefragabile la responsabilità contrattuale, essendo invece sufficiente “la valutazione fatta dalla stessa Amministrazione con il richiamo per relationem all'atto con cui, in altro rapporto contrattuale di appalto, aveva provveduto alla risoluzione per inadempimenti contrattuali”.
In altro senso – ha ulteriormente affermato la IV Sezione – “deve distinguersi tra il giudizio afferente alla fase negoziale del pregresso rapporto, ove azionato, della sussistenza dell’inadempimento colpevole, ossia il c.d. giudizio interno, e quello concernente la legittimità del potere amministrativo di esclusione, riservato al G.A., che è un giudizio c.d. esterno, censurabile solo nei limiti del travisamento del fatto e dell’illogicità e contraddittorietà della motivazione”.
Nel caso di specie – ha conclusivamente affermato il Collegio - l’appellante si era limitata a dedurre censure finalizzate essenzialmente a contestare la legittimità della risoluzione, tendenti, quindi, “a spostare nell’alveo del giudizio amministrativo ambiti di cognizione propri e tipici del giudizio civile già instaurato e pendente tra le parti, laddove devono condividersi i rilievi svolti dal giudice amministrativo calabrese in ordine alla sufficienza, logicità e congruità della motivazione addotta a sostegno dell’esclusione”. MB
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Inserito in data 16/07/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 11 luglio 2016, n. 3055 Sulla giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche I giudici di Palazzo Spada, nella sentenza in esame, hanno individuato i presupposti in presenza dei quali la giurisdizione spetta al Tribunale superiore delle acque pubbliche ed, in particolare, si sono interrogati, nel caso di specie, sulla sussistenza o meno della suddetta giurisdizione in presenza di un’ordinanza contingibile e urgente riguardante la diga di sbarramento di un torrente. Precisa il Consiglio, richiamando al riguardo la costante giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, che la giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche prevista dall’art. 143 r.d. n. 1775 del 1933 sussiste ogniqualvolta l’atto impugnato, ancorché proveniente da organi dell’amministrazione non preposti alla cura degli interessi del settore delle acque pubbliche, abbia tuttavia una immediata incidenza sull’uso di queste ultime, interferendo così con le funzioni amministrative relative a tale uso. In particolare, applicando il criterio “dell’incidenza diretta”, rientrano in questa ipotesi i provvedimenti che concorrono in concreto a disciplinare la gestione e l’esercizio delle opere idrauliche o a determinare i modi di acquisto dei beni necessari all’esercizio e alla realizzazione delle opere stesse, o a stabilire o modificarne la localizzazione o a influire nella loro realizzazione, sebbene gli stessi provvedimenti ineriscano a interessi più generali e diversi ed eventualmente connessi rispetto agli interessi specifici relativi alla demanialità delle acque o ai rapporti concessori di beni del demanio idrico. Per contro – continua il Collegio – sono escluse dalla giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche le controversie aventi ad oggetto atti solo strumentalmente inseriti in procedimenti finalizzati ad incidere sul regime delle acque, per la cui adozione non sono richieste le competenze giuridiche e tecniche, ritenute dal legislatore necessarie - attraverso la configurazione di uno speciale organo giurisdizionale, nella particolare composizione richiesta - per la soluzione dei problemi posti dalla gestione delle acque pubbliche. Alla luce delle superiori considerazioni, il Consiglio di Stato ritiene conclusivamente che l’ordinanza contingibile ed urgente emessa, ai sensi dell’art. 54 del d.lgs. n. 267 del 2000, dal Sindaco di un Comune ha una diretta attinenza alla diga di sbarramento del torrente, vale a dire di un’opera idraulica, tanto che essa costituisce l’oggetto del provvedimento, ed in particolare dei lavori di messa in sicurezza disposti dal Sindaco. Ne deriva che la giurisdizione in unico grado del Tribunale superiore delle acque pubbliche sulla presente controversia risulta incontestabile, in base all’art. 143 r.d. n. 1775 del 1933, ed in particolare in virtù del criterio dell’incidenza diretta del provvedimento sul regime delle acque pubbliche, ricavato dalla disposizione ora richiamata dall’elaborazione giurisprudenziale sopra ripercorsa.
Peraltro – precisa il Consiglio – non è decisivo in contrario il fine pubblicistico attinente alla causa del potere autoritativo esercitato, dal momento che l’elemento determinante ai fini della giurisdizione del Tribunale superiore è l’oggetto del provvedimento impugnato. SS
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Inserito in data 15/07/2016 TAR PUGLIA - LECCE, SEZ. II - 12 luglio 2016, n. 1106 Notifica del ricorso a mezzo PEC Con la sentenza in epigrafe, il TAR Puglia si è pronunciato sull’ammissibilità o meno della notifica di un ricorso a mezzo PEC quando manchi la preventiva autorizzazione presidenziale ex art. 52, comma 2, c.p.a. e ha aderito all’orientamento precedentemente affermato dal Cons. Stato nella sentenza del 14 gennaio 2016, n. 91. In particolare, il Collegio ha statuito che, per quel che concerne la validità della notifica del ricorso introduttivo, la mancata autorizzazione presidenziale ex art. 52, comma 2, cod. proc. amm. non può considerarsi ostativa alla validità ed efficacia della notificazione del ricorso solo a mezzo posta elettronica certificata (PEC), atteso che nel processo amministrativo trova applicazione immediata la legge 53/1994 (ed in particolare gli articoli 1 e 3 bis), nel testo modificato dall’art. 25 comma 3, lett. a) della legge 183/2011, secondo cui l’avvocato “può eseguire la notificazione di atti in materia civile, amministrativa e stragiudiziale… a mezzo della posta elettronica certificata”. SS
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Inserito in data 14/07/2016 CORTE COSTITUZIONALE - SENTENZA 13 luglio 2016, n. 173 Sì al contributo di solidarietà sui trattamenti pensionistici più alti La Corte Costituzionale, nella sentenza in esame, si è pronunciata sui dubbi di costituzionalità prospettati dalle sezioni giurisdizionali della Corte dei conti per la Regione Veneto, per la Regione Umbria, per la Regione Campania e per la Regione Calabria aventi ad oggetto il contributo di solidarietà sui trattamenti pensionistici più alti introdotto dall’art. 1, comma 486 della Legge di Stabilità per il 2014 in riferimento agli artt. 2, 3, 4, 35, 36, 38, 53, 81, 97 e 136 Cost. La Corte sostiene che il contributo in esame non riveste la natura di imposta, attribuitagli dai rimettenti quale presupposto per il sollecitato controllo di compatibilità con il precetto (altrimenti non pertinente) di cui all’art. 53, in relazione all’art. 3 Cost.: infatti, “il prelievo istituito dal comma 486 della norma impugnata non è configurabile come tributo non essendo acquisito allo Stato, né destinato alla fiscalità generale, ed essendo, invece, prelevato, in via diretta, dall’INPS e dagli altri enti previdenziali coinvolti, i quali – anziché versarlo all’Erario in qualità di sostituti di imposta – lo trattengono all’interno delle proprie gestioni, con specifiche finalità solidaristiche endo-previdenziali, anche per quanto attiene ai trattamenti dei soggetti cosiddetti esodati”. Pertanto – continuano i giudici – in linea di principio, il contributo di solidarietà sulle pensioni può ritenersi misura consentita al legislatore ove la stessa non ecceda i limiti entro i quali è necessariamente costretta in forza del combinato operare dei principi, appunto, di ragionevolezza, di affidamento e della tutela previdenziale (artt. 3 e 38 Cost.), il cui rispetto è oggetto di uno scrutinio “stretto” di costituzionalità, che impone un grado di ragionevolezza complessiva ben più elevato di quello che, di norma, è affidato alla mancanza di arbitrarietà. In tale prospettiva, è indispensabile che la legge assicuri il rispetto di alcune condizioni, atte a configurare l’intervento ablativo come sicuramente ragionevole, non imprevedibile e sostenibile. La Corte precisa che il contributo deve operare all’interno dell’ordinamento previdenziale, come misura di solidarietà “forte”, mirata a puntellare il sistema pensionistico, e di sostegno previdenziale ai più deboli, anche in un’ottica di mutualità intergenerazionale, siccome imposta da una situazione di grave crisi del sistema stesso, indotta da vari fattori – endogeni ed esogeni (il più delle volte tra loro intrecciati: crisi economica internazionale, impatto sulla economia nazionale, disoccupazione, mancata alimentazione della previdenza, riforme strutturali del sistema pensionistico) – che devono essere oggetto di attenta ponderazione da parte del legislatore, in modo da conferire all’intervento quella incontestabile ragionevolezza, a fronte della quale soltanto può consentirsi di derogare (in termini accettabili) al principio di affidamento in ordine al mantenimento del trattamento pensionistico già maturato. Inoltre, l’effettività delle condizioni di crisi del sistema previdenziale consente di salvaguardare anche il principio dell’affidamento, nella misura in cui il prelievo non risulti sganciato dalla realtà economico-sociale, di cui i pensionati stessi sono partecipi e consapevoli. Anche in un contesto siffatto – sottolinea, però, la Corte – un contributo sulle pensioni costituisce una misura del tutto eccezionale, nel senso che non può essere ripetitivo e tradursi in un meccanismo di alimentazione del sistema di previdenza: il prelievo, per essere solidale e ragionevole, e non infrangere la garanzia costituzionale dell’art. 38 Cost. non può, altresì, che incidere sulle “pensioni più elevate”; parametro, questo, da misurare in rapporto al “nucleo essenziale” di protezione previdenziale assicurata dalla Costituzione, ossia la “pensione minima”. In definitiva, il contributo di solidarietà, per superare lo scrutinio “stretto” di costituzionalità, e palesarsi dunque come misura improntata effettivamente alla solidarietà previdenziale (artt. 2 e 38 Cost.), deve: operare all’interno del complessivo sistema della previdenza; essere imposto dalla crisi contingente e grave del predetto sistema; incidere sulle pensioni più elevate (in rapporto alle pensioni minime); presentarsi come prelievo sostenibile; rispettare il principio di proporzionalità; essere comunque utilizzato come misura una tantum. Ritiene, conclusivamente, la Corte Costituzionale che “tali condizioni appaiono, sia pur al limite, rispettate nel caso dell’intervento legislativo in esame” e per tale ragione dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate. SS |
Inserito in data 13/07/2016 TAR CAMPANIA - NAPOLI, SEZ. II, 5 luglio 2016, n. 3326 Motivazione del diniego di un permesso di costruire Con il ricorso in epigrafe è stato impugnato il diniego del permesso di costruire richiesto dalla società ricorrente per la realizzazione di un impianto di distribuzione carburanti, fondato sull’unico motivo che l'intervento risultava in contrasto con il piano di lottizzazione approvato. Il Collegio partenopeo ha ritenuto fondata ed assorbente rispetto agli ulteriori motivi la censura con cui parte ricorrente aveva denunciato il difetto di motivazione del contestato diniego, in termini di mancata indicazione degli specifici parametri dispositivi del piano di lottizzazione ritenuti in concreto violati. Ed invero – hanno osservato i Giudici napoletani - il principio della necessaria motivazione degli atti amministrativi, scolpito nell’art. 3 della legge n. 241/1990, non è altro che il precipitato dei più generali principi di buona amministrazione, correttezza e trasparenza, cui la p.a. deve uniformare la sua azione e rispetto ai quali sorge per il privato la legittima aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni giustificative del provvedimento incidente sui suoi interessi, anche al fine di poter esercitare efficacemente le prerogative di difesa innanzi all’autorità giurisdizionale. In tale ottica, risulta “carente di motivazione il diniego di permesso di costruire fondato su un generico contrasto dell’opera progettata con leggi, regolamenti o strumenti urbanistici, dovendo invece il diniego stesso soffermarsi sulle disposizioni normative e/o sulle previsioni di riferimento contenute negli strumenti urbanistici che si assumano ostative al rilascio del titolo, in modo da consentire all’interessato, da un lato, di rendersi conto degli impedimenti che si frappongono alla realizzazione dell’opera e, dall’altro, di confutare in giudizio, in maniera pienamente consapevole ed esaustiva, la legittimità del provvedimento impugnato; di conseguenza, la determinazione reiettiva del permesso di costruire, quando si limita, come nella specie, ad un’apodittica affermazione di principio sulla contrarietà dell’attività edilizia ad uno strumento urbanistico quale il piano di lottizzazione, risulta viziata da difetto di motivazione, atteso che l’obbligo di motivazione legislativamente imposto va declinato in adeguate argomentazioni che chiariscano la non compatibilità dell’opera con le singole prescrizioni di piano preposte a tutela dell’ordinato sviluppo del territorio”. Né, d’altra parte, ha ulteriormente precisato il Collegio, le deficienze motivazionali delle gravate determinazioni comunali possono – come avvenuto nella fattispecie in esame - essere colmate dalla relazione istruttoria depositata dall’amministrazione resistente. E ciò in quanto “è inammissibile l’integrazione postuma della motivazione di un atto amministrativo, realizzata mediante gli scritti difensivi predisposti dall’amministrazione resistente (…). La motivazione del provvedimento non può essere integrata nel corso del giudizio con la specificazione di elementi di fatto, dovendo la motivazione precedere e non seguire il provvedimento amministrativo, a tutela del buon andamento amministrativo e dell’esigenza di delimitazione del controllo giudiziario”. Sulla scorta delle esposte motivazioni, il TAR Campano ha ritenuto fondata l’eccezione formulata dal ricorrente circa l’illegittimità per carenza motivazionale delle gravate note dirigenziali del Comune, e ne ha, per l’effetto, disposto l’annullamento. MB
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Inserito in data 12/07/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, 4 luglio 2016, n. 2968 Demolizione di opere e ripristino dei luoghi I Giudici di Palazzo Spada, nella pronuncia in epigrafe, hanno affermato la legittimità dell’ordine di demolizione e ripristino dello stato dei luoghi nell’ipotesi in cui il proprietario di un terreno sottoposto a vincolo archeologico abbia, in assenza di preventiva autorizzazione, eseguito attività di movimento sullo stesso. Nella fattispecie, l’appellante aveva impugnato la sentenza resa dal TAR - Abruzzo, concernente la demolizione delle opere realizzate in assenza del nulla osta, eccependo l’illegittimità del provvedimento con il quale l’Ente parco nazionale aveva ingiunto la loro demolizione e la conseguente riduzione in pristino dei luoghi, poiché asseritamente adottato in pendenza delle domande di condono edilizio ancora non definite dall’autorità comunale. Il Collegio, preliminarmente, ha affermato la legittimità dell’ordinanza adottata dall’Ente parco nazionale d’Abruzzo, Molise e Lazio, poiché disposta in attuazione dell’art. 29 della legge n. 394 del 1991, essendo stata accertata, nella fattispecie, la presenza di opere realizzate senza il previo rilascio del nulla osta dell’Ente, previsto dall’art. 13 della citata legge del 1991. Nel merito, la VI Sezione ha osservato come tutte le censure dedotte dal ricorrente siano basate sull’affermata prevalenza della disciplina urbanistica rispetto a quella ambientale, la cui tutela è affidata all’ente parco.
In particolare, l’appellante avrebbe richiamato un precedente della medesima Sezione secondo cui l’articolo 13 della legge n. 394 del 6 dicembre 1991 troverebbe applicazione solo con riguardo agli interventi edilizi da realizzare e non, invece, ai procedimenti di sanatoria di opere abusive già realizzate. Tuttavia – ha osservato il Collegio – la richiamata pronuncia “si limita ad affermare che, nei procedimenti di sanatoria, resta esclusa la formazione del parere positivo per silentium, ma non esclude in alcun modo il potere repressivo anche in fattispecie per le quali penda una qualsiasi procedura di sanatoria”. MB
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Inserito in data 11/07/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 7 luglio 2016, n. 3012 Sui principi fondanti dell’interdittiva antimafia Con la pronuncia in esame, il Consiglio di Stato richiama, sinteticamente, taluni principi espressi recentemente dalla Sezione in tema di interdittiva antimafia (cfr. Cons. Stato, Sez. III, 3 maggio 2016, n. 1743): - l’informativa antimafia, ai sensi degli artt. 84, comma 4, e 91, comma 6, del d. lgs. n. 159/2011, presuppone «concreti elementi da cui risulti che l’attività d’impresa possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività criminose o esserne in qualche modo condizionata»; - quanto alla ratio dell’istituto della interdittiva antimafia, si tratta di una misura volta – ad un tempo - alla salvaguardia dell’ordine pubblico economico, della libera concorrenza tra le imprese e del buon andamento della pubblica Amministrazione: l’interdittiva antimafia comporta che il Prefetto escluda che un imprenditore – pur dotato di adeguati mezzi economici e di una adeguata organizzazione – meriti la fiducia delle Istituzioni (vale a dire che risulti «affidabile») e possa essere titolare di rapporti contrattuali con le pubbliche Amministrazioni o degli altri titoli abilitativi, individuati dalla legge; - ai fini dell’adozione del provvedimento interdittivo, rileva il complesso degli elementi concreti emersi nel corso del procedimento: una visione ‘parcellizzata’ di un singolo elemento, o di più elementi, non può che far perdere a ciascuno di essi la sua rilevanza nel suo legame sistematico con gli altri; - è estranea al sistema delle informative antimafia, non trattandosi di provvedimenti nemmeno latamente sanzionatori, qualsiasi logica penalistica di certezza probatoria raggiunta al di là del ragionevole dubbio (né – tanto meno – occorre l’accertamento di responsabilità penali, quali il «concorso esterno» o la commissione di reati aggravati ai sensi dell’art. 7 della legge n. 203 del 1991), poiché simile logica vanificherebbe la finalità anticipatoria dell’informativa, che è quella di prevenire un grave pericolo e non già quella di punire, nemmeno in modo indiretto, una condotta penalmente rilevante; - il rischio di inquinamento mafioso deve essere valutato in base al criterio del più «probabile che non», alla luce di una regola di giudizio, cioè, che ben può essere integrata da dati di comune esperienza, evincibili dall’osservazione dei fenomeni sociali, qual è, anzitutto, anche quello mafioso; - pertanto, gli elementi posti a base dell’informativa possono essere anche non penalmente rilevanti o non costituire oggetto di procedimenti o di processi penali o, addirittura e per converso, possono essere già stati oggetto del giudizio penale, con esito di proscioglimento o di assoluzione; - quanto ai rapporti di parentela tra titolari, soci, amministratori, direttori generali dell’impresa e familiari che siano soggetti affiliati, organici, contigui alle associazioni mafiose, l’Amministrazione può dare loro rilievo laddove tale rapporto, per la sua natura, intensità, o per altre caratteristiche concrete, lasci ritenere, per la logica del «più probabile che non», che l’impresa abbia una conduzione collettiva e una regìa familiare (di diritto o di fatto, alla quale non risultino estranei detti soggetti) ovvero che le decisioni sulla sua attività possano essere influenzate, anche indirettamente, dalla mafia attraverso la famiglia, o da un affiliato alla mafia mediante il contatto col proprio congiunto; - nei contesti sociali in cui attecchisce il fenomeno mafioso, all’interno della famiglia si può verificare una «influenza reciproca» di comportamenti e possono sorgere legami di cointeressenza, di solidarietà, di copertura o quanto meno di soggezione o di tolleranza; - una tale influenza può essere desunta non dalla considerazione (che sarebbe in sé errata e in contrasto con i principi costituzionali) che il parente di un mafioso sia anch’egli mafioso, ma per la doverosa considerazione, per converso, che la complessa organizzazione della mafia ha una struttura clanica, si fonda e si articola, a livello particellare, sul nucleo fondante della ‘famiglia’, sicché in una ‘famiglia’ mafiosa anche il soggetto che non sia attinto da pregiudizio mafioso può subire, nolente, l’influenza del ‘capofamiglia’ e dell’associazione; - hanno dunque rilevanza circostanze obiettive (a titolo meramente esemplificativo, ad es., la convivenza, la cointeressenza di interessi economici, il coinvolgimento nei medesimi fatti, che pur non abbiano dato luogo a condanne in sede penale) e rilevano le peculiari realtà locali, ben potendo l’Amministrazione evidenziare come sia stata accertata l’esistenza – su un’area più o meno estesa – del controllo di una ‘famiglia’ e del sostanziale coinvolgimento dei suoi componenti (a fortiori se questi non risultino avere proprie fonti legittime di reddito). A questi principi enucleati di recente dalla Sezione, occorre aggiungere quelli che sono stati costantemente affermati dalla giurisprudenza: - non è richiesta la prova dell’attualità delle infiltrazioni mafiose, dovendosi solo dimostrare la sussistenza di elementi dai quali è deducibile – secondo il principio del «più probabile che non» - il tentativo di ingerenza, o una concreta verosimiglianza dell'ipotesi di condizionamento sulla società da parte di soggetti uniti da legami con cosche mafiose, e dell'attualità e concretezza del rischio (Cons. Stato, Sez. III, 5 settembre 2012, n. 4708; Cons. Stato n. 3057/10; 1559/10; 3491/09); - la valutazione del pericolo di infiltrazioni mafiose, di competenza del Prefetto, è connotata, per la specifica natura del giudizio formulato, dall'utilizzo di peculiari cognizioni di tecnica investigativa e poliziesca, che esclude la possibilità per il giudice amministrativo di sostituirvi la propria, ma non impedisce ad esso di rilevare se i fatti riferiti dal Prefetto configurino o meno la fattispecie prevista dalla legge e di formulare un giudizio di logicità e congruità con riguardo sia alle informazioni acquisite, sia alle valutazioni che il Prefetto ne abbia tratto (Cons. Stato, n. 5130 del 2011; Cons. Stato, n. 2783 del 2004; Cons. Stato, n. 4135 del 2006); - l'ampia discrezionalità di apprezzamento del Prefetto in tema di tentativo di infiltrazione mafiosa comporta che la sua valutazione sia sindacabile in sede giurisdizionale in caso di manifesta illogicità, irragionevolezza e travisamento dei fatti, mentre al sindacato del giudice amministrativo sulla legittimità dell'informativa antimafia rimane estraneo l'accertamento dei fatti, anche di rilievo penale, posti a base del provvedimento (in termini, Cons. Stato, n. 4724 del 2001). In conclusione, deve ritenersi che tale valutazione costituisca “espressione di ampia discrezionalità che, per giurisprudenza costante, può essere assoggettata al sindacato del giudice amministrativo solo sotto il profilo della sua logicità in relazione alla rilevanza dei fatti accertati” (Cons. Stato, n. 7260 del 2010). EF
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Inserito in data 09/07/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 7 luglio 2016, n. 3011 Sul potere discrezionale di vietare la detenzione di armi e munizioni In tema di armi e munizioni, il testo unico n. 773 del 1931 prevede che “l’Autorità amministrativa è titolare di poteri strettamente vincolati (ai sensi dell’art. 11, primo comma e terzo comma, prima parte, e dell’art. 43, primo comma, che impongono il divieto di rilascio di autorizzazioni di polizia ovvero il loro ritiro)” e di poteri discrezionali (ai sensi dell’art. 11, secondo comma e terzo comma, seconda parte, e dell’art. 39 e 43, secondo comma). In relazione all’esercizio di quest’ultima tipologia di poteri, “l’art. 39 attribuisce alla Prefettura il potere di vietare la detenzione di armi, munizioni e materie esplodenti a chi chieda il rilascio di una autorizzazione di polizia o ne sia titolare, quando sia riscontrabile una capacità «di abusarne», mentre l’art. 43 consente alla competente autorità – in sede di rilascio o di ritiro dei titoli abilitativi - di valutare non solo tale capacità di abuso, ma anche – in alternativa - l’assenza di una buona condotta, per la commissione di fatti, pure se estranei alla gestione delle armi, munizioni e materie esplodenti, ma che comunque non rendano meritevoli di ottenere o di mantenere la licenza di polizia (non occorrendo al riguardo un giudizio di pericolosità sociale dell’interessato: Cons. Stato, Sez. III, 1° agosto 2014, n. 4121; Sez. III, 12 giugno 2014, n. 2987)”.
Pertanto, questa Sezione ritiene che “gli atti impugnati in primo grado sono stati emessi nell’esercizio di poteri discrezionali, poiché è stato ritenuto che l’appellante vada ritenuto capace di abusare della detenzione di armi e munizioni”. EF
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Inserito in data 08/07/2016 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 4 luglio 2016, n. 2972 Giurisdizione dell’A.G.O. in materia di incarichi al personale docente Con la pronuncia in esame, il Consiglio di Stato ha individuato il giudice competente a decidere una controversia riguardante una procedura per l’attribuzione di incarichi a tempo indeterminato al personale docente nelle istituzioni dell’alta formazione artistica, musicale e coreutica. Hanno esordito i giudici di Palazzo Spada affermando che la individuazione del giudice cui spetta conoscere della impugnazione delle graduatorie (e della esclusione dalle stesse) formate in attuazione dell’art. 19 della l. n. 128/2013 per il personale docente sopra indicato “si connota (e questo è elemento rilevante) per la circostanza che l’impugnativa concerne le sole graduatorie, e non anche il decreto ministeriale che ne è a monte, il quale, con determinazione di stampo organizzatorio, ne ha regolato, in via generale ed astratta, la formazione”. In tal modo – continua il Consiglio – “il docente non ha contestato, sia pure in via derivata attraverso il gravame avverso la graduatoria, la regola organizzatoria, ma ha mosso le proprie censure direttamente contro la graduatoria medesima e le attività di sua concreta formazione”. Pertanto, “rientra nella giurisdizione dell’A.G.O. una controversia relativa al provvedimento con il quale un insegnante è stato escluso dalla procedura di formazione della graduatoria nazionale per l’attribuzione di incarichi a tempo determinato al personale docente ai sensi del d.m. n. 526/2014, per asserita carenza del requisito dei tre anni accademici di servizio all’insegnamento, atteso che in tal caso si è in presenza di atti di gestione del rapporto di lavoro nei cui confronti sono configurabili situazioni giuridiche di diritto soggettivo e non già di interesse legittimo”. Infatti – conclude il Consiglio di Stato – “deve ritenersi che il superamento del concorso selettivo ai fini dell’inclusione nelle graduatorie ‘consumi’ il momento autoritativo dell’azione pubblica, e che sussista una omogeneità di ratio decidendi rispetto alla vicenda delle graduatorie nazionali permanenti, poi divenute ad esaurimento, utili per attribuire incarichi di insegnamento con contratti a tempo indeterminato e determinato, a mano a mano che le cattedre si rendevano disponibili, con riferimento alla quale questo Consiglio di Stato ha declinato la giurisdizione del giudice amministrativo sul rilievo della insussistenza di una procedura concorsuale in senso stretto, vertendosi in tema di accertamento di diritti di docenti già iscritti e trattandosi di atti di gestione di graduatorie utili per vedersi attribuiti gli incarichi di docenza”. SS
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Inserito in data 07/07/2016 CORTE COSTITUZIONALE - SENTENZA 1 luglio 2016, n. 157 Poteri dei Consigli regionali in regime di prorogatio Con la sentenza in epigrafe, la Corte Costituzionale – nel pronunciarsi sulla q.l.c. della legge della Regione Calabria n. 15/2014 in riferimento agli artt. 97, 98 e 123 Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 18 dello Statuto della Regione Calabria, nonché in riferimento al principio dell’affidamento nella certezza dei rapporti giuridici – ha individuato i limiti dei poteri dei Consigli regionali che si trovano in regime di prorogatio. In particolare, ha affermato, che la disposizione statutaria che non prevede specifiche limitazioni ai poteri del Consiglio regionale “non può che essere interpretata come facoltizzante il solo esercizio delle attribuzioni relative ad atti necessari ed urgenti, dovuti o costituzionalmente indifferibili, e non già certo come espressiva di una generica proroga di tutti i poteri degli organi regionali, poiché l’esistenza di tali limiti è immanente all’istituto della stessa prorogatio”. Peraltro, siffatte limitazioni all’attività in prorogatio discendono dalla ratio stessa dell’istituto, che è quella di “coniugare il principio di rappresentatività politica del Consiglio regionale con quello della continuità funzionale dell’organo, continuità che esclude che il depotenziamento possa spingersi ragionevolmente fino a comportare una indiscriminata e totale paralisi dell’organo stesso”. Alla luce delle superiori considerazioni, la Corte Costituzionale conclude per la non fondatezza della questione di legittimità costituzionale della legge della Regione Calabria con la quale è stata revocata la nomina del collegio dei revisori dei conti della Giunta regionale e del Consiglio regionale della Calabria, “a nulla rilevando che tale legge è stata approvata dal Consiglio regionale in regime di prorogatio, poiché, a seguito delle dimissioni del Presidente della Regione, erano state indette le elezioni per il rinnovo dello stesso, ai sensi dell’art. 60 del Regolamento interno del Consiglio regionale. “Costituisce, infatti, una valida ragione di urgenza, non solo la necessità di adottare una nuova normativa a seguito di una pronuncia di illegittimità costituzionale, ma anche quella di evitare il rischio di una pronuncia, ove si ritenga che le argomentazioni portate dal giudice a sostegno della non manifesta infondatezza siano meritevoli di considerazione”. SS
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Inserito in data 06/07/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 28 giugno 2016, n. 2830 Competenze degli infermieri in regime libero-professionale
La questione affrontata nella pronuncia in commento concerne la legittimità o meno della decisione di riservare l’attività di prelievo a domicilio unicamente a soggetti autorizzati ad erogare servizi di medicina e laboratorio ASL, escludendo che la prestazione possa essere resa da infermieri che operano, invece, in regime libero-professionale, ancorché regolarmente iscritti all’Albo professionale.
Ad avviso del Collegio, appare fondato il motivo con cui gli appellanti hanno denunciato la restrizione ingiustificata all’esercizio della libera professione infermieristica, nella fattispecie, derivante dalle scelte operate dall’Azienda ospedaliera.
Ed infatti – ha affermato la III Sezione – ai sensi dell’art. 1 del Regolamento adottato con D.M. 14 settembre 1994, n. 739, adottato ai sensi dell’art. 6, co. 3, del D.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, l’attività dell’infermiere professionale ricomprende ogni prestazione che possa ricondursi alla generale categoria “dell’assistenza generale infermieristica”. A tal fine, l’infermiere professionale agisce sia individualmente, sia in collaborazione con gli altri operatori sanitari e sociali (art. 1, co. 3, lett. e). Quindi, l’infermiere professionale, in possesso del prescritto titolo di formazione e dell’iscrizione all’albo è, secondo il Regolamento, “responsabile dell’assistenza generale infermieristica” (art. 1, co. 1) e “svolge la sua attività professionale in strutture sanitarie pubbliche o private, nel territorio e nell’assistenza domiciliare, in regime di dipendenza o libero-professionale” (art. 1, co. 3, lett. g).
Atteso il tenore di tale disposizione, applicabile su tutto il territorio nazionale, l’infermiere libero professionista può, pertanto, prestare la propria attività assistenziale, anche a domicilio, senza necessità di essere dipendente o collaboratore di un Laboratorio.
Dunque, la scelta dell’Azienda ospedaliera di concludere accordi per l’effettuazione di prelievi a domicilio esclusivamente con i soggetti autorizzati ad erogare servizi di Medicina e Laboratorio – ha conclusivamente affermato il Collegio – “determina una immotivata discriminazione ai danni degli infermieri libero professionisti, causando una irragionevole restrizione della concorrenza nel settore e limitando ingiustificatamente l’accesso al mercato di operatori pienamente legittimati dalla normativa di settore, senza che ricorra alcuna causa eccezionale che giustifichi tale restrizione”. MB
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Inserito in data 05/07/2016 CONSIGLIO DI STATO – SEZ. III - 30 giugno 2016, n. 2937 Incorporazione e fusione: accertamento della regolarità fiscale
Con la sentenza in epigrafe, la Terza Sezione del Consiglio di Stato si è pronunciata sulla legittimità dell’esclusione da una gara di appalto di un Consorzio, stante la sussistenza, a seguito di verifiche sul possesso dei requisiti dichiarati, di violazioni gravi e definitivamente accertate rispetto agli obblighi fiscali, sebbene riferite a società dallo stesso Consorzio incorporate.
I Giudici di Palazzo Spada hanno confermato la decisione resa in primo grado dal TAR Puglia – Bari, richiamandone, per intero, il tenore e le argomentazioni.
In particolare, hanno sottolineato che, secondo la disciplina civilistica vigente, successiva alla modifica del diritto societario del 2003, “ nel momento dell’incorporazione anche le obbligazioni di pagamento delle imposte tributarie pregresse si trasferiscono alla società incorporante, in ragione del realizzarsi di una vicenda evolutivo modificativa dello stesso soggetto giuridico che conserva la sua identità sia pure in un nuovo assetto organizzativo, per cui in applicazione del principio ubi commoda ibi et incommoda, resta inadempiente la società incorporante cui, appunto, la predetta obbligazione tributaria inadempiuta si è trasferita”.
Alla luce dell’esposto principio – ha ulteriormente precisato il Collegio – “la ricostruzione secondo cui le cause di esclusione della società incorporata, relative alle pregresse inadempienze verso il Fisco, si estendono automaticamente alla società incorporante, è coerente con l’art. 38, comma 1, lett. g), cit., la cui ratio è garantire la solvibilità e solidità finanziaria dei contraenti delle pubbliche amministrazioni”.
Peraltro, i suddetti principi sono stati altresì affermati dall’Adunanza Plenaria n. 21 /2012 secondo cui “la fusione per incorporazione di una società in un’altra, alla stregua di quanto dispone il novellato art. 2504-bis, comma 1, cod. civ., non è causa d’interruzione del processo del quale quella società sia parte, trattandosi di un evento da cui consegue non già l’estinzione della società incorporata, bensì l’integrazione reciproca delle società partecipanti all’operazione, ossia di una vicenda meramente evolutiva del medesimo soggetto, che conserva la propria identità pur in un nuovo assetto organizzativo”.
Quindi, nel caso di operazione di incorporazione, le imprese incorporate dalla consorziata destinata ad eseguire l’appalto, costituiscono parte integrante di quest’ultima e non sono soggetti terzi rispetto ad essa distinti, sicché la stazione appaltante è tenuta a verificare il possesso di tutti i requisiti ex art. 38 del D.Lgs. 163/06 – e non solo quelli di cui alla lett. c) - per la società incorporante e per le incorporate, in quanto coesistenti all’interno dello stesso soggetto che partecipa alla procedura di gara. MB
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Inserito in data 04/07/2016 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, sentenza 30 giugno 2016, n. 2947 Ambito e limiti del sindacato del G.A. sugli atti dell’AGCM La sentenza in esame ribadisce quali siano l’ambito e i limiti del sindacato del giudice amministrativo sugli atti dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, riprendendo quanto affermato dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione con sentenza n. 1013/2014. Tale sindacato comporta la verifica diretta dei fatti posti a fondamento del provvedimento impugnato e si estende anche ai profili tecnici, il cui esame sia necessario per giudicare della legittimità di tale provvedimento; ma quando in siffatti profili tecnici siano coinvolti valutazioni ed apprezzamenti che presentano un oggettivo margine di opinabilità detto sindacato, oltre che in un controllo di ragionevolezza, logicità e coerenza della motivazione del provvedimento impugnato, è limitato alla verifica che quel medesimo provvedimento non abbia esorbitato dai margini di opinabilità sopra richiamati, non potendo il giudice sostituire il proprio apprezzamento a quello dell'Autorità Garante ove questa si sia mantenuta entro i suddetti margini. Dunque, il giudice amministrativo esercita un sindacato di legittimità, che non si estende al merito, salvo per quanto attiene al profilo sanzionatorio: deve valutare i fatti, onde acclarare se la ricostruzione operata risulti immune da travisamenti e vizi logici, e accertare che le disposizioni giuridiche siano state correttamente individuate, interpretate e applicate. CDC
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Inserito in data 02/07/2016 TAR PUGLIA - LECCE, SEZ. II - 27 giugno 2016, n. 1040 Annullamento in autotutela per incompatibilità dei commissari di gara I giudici del Tar Puglia, nella sentenza in epigrafe, sono stati ben chiari nell’affermare che è legittimo il provvedimento con il quale la Stazione appaltante ha annullato in autotutela l’aggiudicazione di una gara di appalto, unitamente a tutti gli atti della gara stessa, quando essa sia stata adottata in ragione del fatto che due dei componenti il Comitato esecutivo dell’Ente procedente hanno approvato gli atti di gara e hanno anche assunto il ruolo di componenti della commissione giudicatrice. Infatti, per un verso, in materia di procedure di gara d’appalto, sussiste l’incompatibilità prevista dall’art. 84, comma 4, del D.Lgs. n. 163 del 2006, quando un commissario di gara ha partecipato alla predisposizione di atti della lex specialis della procedura, per l’altro, il comma 4 dell’art. 84 D.Lgs. n. 163 del 2006 (secondo cui “i commissari diversi dal presidente non devono aver svolto né possono svolgere alcun’altra funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente al contratto del cui affidamento si tratta”) “è prescrizione che mira ad assicurare due concorrenti ma distinti valori: quello dell’imparzialità, per evitare indebiti favoritismi da parte di chi conosce approfonditamente le regole del gioco avendo contribuito alla loro gestazione, nascita e formalizzazione; quello dell’oggettività, ad evitare che lo stesso autore di quelle regole dia ad esse significati impliciti, presupposti, indiretti o, comunque, effetti semantici che risentano di convinzioni o concezioni preconcette che hanno indirizzato la formulazione delle regole stesse”. In questa prospettiva – continua il Tar – è evidente che l’aver approvato gli atti di gara non costituisce un’operazione di natura meramente formale ma implica, necessariamente, un’analisi degli stessi, una positiva valutazione e – attraverso la formalizzazione – una piena condivisione. Ne deriva che l’approvazione degli atti di gara integra proprio una “funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente al contratto del cui affidamento si tratta il cui svolgimento è precluso ai componenti la Commissione giudicatrice che, pertanto, nel caso concreto, risulta viziata nella sua composizione proprio perché due componenti – pur senza aver materialmente redatto gli atti di gara – hanno concorso alla loro formalizzazione”. Peraltro, la conseguenza diretta del provvedimento di annullamento impugnato è l’annullamento dell’intera procedura di gara, infatti, ad avviso dei giudici, è infondata anche la censura secondo la quale la delibera impugnata sarebbe illegittima perché non avrebbe dovuto prevedere l’annullamento dell’intera procedura di gara, bensì solo la rinnovazione degli atti della procedura a partire dal provvedimento di nomina della Commissione, con conseguente riesame delle offerte già prodotte da parte di una nuova Commissione. SS
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Inserito in data 01/07/2016 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, sentenza 30 giugno 2016, n. 2940 Scelta del dirigente sanitario di struttura complessa: giurisdizione del G.O. La sentenza in esame affronta il tema dell’individuazione del giudice chiamato a decidere le controversie riguardanti l’affidamento di incarichi di dirigente sanitario di struttura complessa, ai sensi dell’art. 15 d. lgs. 502/1992, come modificato dal d.l. 158/2012. La novella legislativa ha espressamente qualificato come concorso il procedimento di scelta dei responsabili di struttura complessa e a, differenza di quanto previsto in passato, la commissione non si limita ad accertarne l’idoneità, ma attribuisce voti e formula una graduatoria di merito. A quel punto, il direttore generale può attribuire l’incarico a uno dei candidati collocati ai primi tre posti della graduatoria, senza peraltro essere vincolato dalla rispettiva collocazione.
Ciò ha fatto sorgere il dubbio se la giurisdizione spetti, con riferimento a tali controversie, al giudice amministrativo (come affermato da Cons. Stato 4658/2014 e 2790/2015) o al giudice ordinario. In tal senso, peraltro, si è pronunciata anche la Cassazione con sentenza n. 7107/2014, secondo la quale “il conferimento dell'incarico di secondo livello del ruolo sanitario, ai sensi del d.lg. n. 502 del 1992, art. 15 comma 3, non ha carattere concorsuale, essendo demandato ad apposita commissione solo il compito di predisporre un elenco di candidati idonei da sottoporre al direttore generale, il cui atto di conferimento ha natura negoziale di diritto privato che si fonda su una scelta di carattere essenzialmente fiduciario, affidata alla sua responsabilità manageriale”. CDC |
Inserito in data 30/06/2016 TAR LAZIO - ROMA, SEZ. III BIS, 24 giugno 2016, n. 7353 Iscrizione e contribuzione alla Cassa Forense
Con la sentenza in esame, i giudici del Tar Lazio si sono occupati di un’importante questione in tema di iscrizione obbligatoria alla cassa di previdenza di categoria e alla contribuzione di liberi professionisti avvocati.
I ricorrenti, in sostanza, impugnando il Regolamento attuativo ai sensi dell’art. 21, comma 8 e 9 della l. 247/2012, si dolevano del fatto che esso prevedeva la loro iscrizione ope legis alla Cassa di categoria e, conseguentemente, li costringeva a corrispondere, per l’anno 2014, il cd. “importo minimo obbligatorio” di cui agli artt. 7, 8 e 9 del predetto regolamento, pur avendo percepito nel 2013 un reddito molto basso ovvero pari a zero, pena la cancellazione dall’Albo degli Avvocati nei tempi brevi di cui al successivo art.12. Peraltro, i ricorrenti prospettavano molteplici motivi di censura nonché sollevavano questione di legittimità costituzionale del citato art. 21, in primo luogo, per violazione del principio di legalità di cui agli artt. 23, 97 e 113 Cost. nonché del canone di ragionevolezza della legge di cui all’art. 3 Cost., in secondo luogo, per violazione dei principi comunitari di concorrenza di cui agli artt. 117 Cost. e 106 TFUE. e 15, 16 e 21 CEDU nonché per violazione degli artt. 2, 3, 4, 33, comma 5, 41 e 53 Cost. Essi, infine, chiedevano il rinvio alla Corte di Giustizia della U.E. della questione di un presunto conflitto del regolamento con il principio europeo della libera concorrenza di cui agli artt. 101 e 102 TFUE. Il Tar Lazio adito, dal canto proprio, non entra nel merito delle questioni di legittimità prospettate dai ricorrenti in quanto ritiene di dover accogliere l’eccezione sollevata dalla Cassa Nazionale Forense con la quale è stato dedotto il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo: infatti, si tratta – afferma il Collegio – di “contestazioni che attengono, in modo specifico, all’iscrizione e alla contribuzione obbligatoria dei liberi professionisti e che, conseguentemente, investono essenzialmente questioni di ordine e natura squisitamente previdenziale e, quindi, involvono veri e propri diritti soggettivi la cui cognizione, in quanto tali e alla luce della specifica materia interessata, appartiene, per giurisprudenza consolidata in materia, alla giurisdizione del giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro”. SS |
Inserito in data 29/06/2016 CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 28 giugno 2016, n. 13 Diritto di accesso agli atti riguardanti il rapporto dei dipendenti di Poste Italiane Nella sentenza in esame, l’Adunanza Plenaria si è pronunciata, preliminarmente, sulla natura di Poste Italiane s.p.a. e, conseguentemente, sulla possibilità o meno che i dipendenti della società stessa esercitino il diritto di accesso nei confronti dei provvedimenti di auto-organizzazione degli uffici che incidono direttamente sulla disciplina del rapporto di lavoro. La Terza Sezione del Consiglio di Stato, nell’ordinanza di rimessione, aveva, infatti, posto in dubbio l’indirizzo giurisprudenziale costante circa la proponibilità dell’accesso ai documenti nei confronti di soggetti privati affidatari di pubblici servizi: in particolare, aveva sottolineato che la natura privata dell’Ente Poste e del rapporto di lavoro dei relativi dipendenti poteva indurre a ritenere che non tutta l’attività svolta ed i rapporti in essere fossero funzionalmente connessi alla gestione del servizio e che, anzi, doveva ritenersi che l’obbligo di trasparenza, cui risponde l’istituto dell’accesso, “non sia riferibile ai rapporti giuridici privatistici diversi da quelli nei quali il soggetto che chiede l’accesso si presenti e si qualifichi come utente… o comunque come portatore di un interesse (anche diffuso) al servizio pubblico in quanto tale”. L’esigenza di tutela del cittadino/utente, dunque, non sussisterebbe quando il rapporto fra il soggetto che chiede l’accesso e il privato gestore del pubblico servizio fosse di altro tipo, senza alcuna incidenza di profili pubblicistici e con piena possibilità di tutela innanzi al giudice ordinario: pertanto, ad avviso dei giudici remittenti, non sarebbe giustificato il diverso trattamento dei lavoratori dipendenti di un soggetto privato, a seconda del fatto che quest’ultimo sia o meno, occasionalmente, gestore di un pubblico servizio. Dal canto suo, l’Adunanza Plenaria premette che la società Poste Italiane può essere qualificata “come organismo di diritto pubblico”, come definito dall’art. 3, comma 26, d.lgs. 163 del 2006 il cui elemento fondante è “la rilevanza degli interessi generali perseguiti, in rapporto ai quali – anche qualora la gestione fosse produttiva di utili – non può venire meno una funzione amministrativa di controllo, da intendere come possibilità di condizionamento aziendale, anche in termini di scelta maggioritaria degli amministratori, chiamati a perseguire determinati obiettivi di qualità del servizio”. La qualificazione di Poste Italiane s.p.a. come organismo di diritto pubblico però – afferma l’Alto Consesso – è un fattore che rende pacifica l’estensione a detta società delle norme in tema di accesso, ma non chiarisce i limiti, entro cui l’attività societaria deve ritenersi di “pubblico interesse”. I giudici hanno rilevato che, nella specie, si applica l’accezione restrittiva rilevata per l’applicazione della direttiva 2004/17/CE, riferita agli enti erogatori di acqua e di energia, nonché a quelli che forniscono servizi di trasporto e servizi postali: tali enti – in quanto titolari di diritti speciali ed esclusivi – agiscono nell’ambito dei settori sopra indicati, ma svolgono anche attività in pieno regime di concorrenza, direttamente esposti alle regole del mercato e possono, per tale ragione, vedere in qualche misura attenuata la disciplina propria delle amministrazioni pubbliche. Per quanto riguarda il rapporto di lavoro – strumentale a tutte le attività svolte – precisano i giudici che gli obblighi di trasparenza appaiono dunque coerentemente suscettibili di delimitazione, con riferimento al combinato disposto degli articoli 11, comma 3, del d.lgs. n. 33 del 2013 (ambito soggettivo degli obblighi di trasparenza), 1, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001 (ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, in tema di organizzazione degli uffici e di ottimale utilizzazione delle risorse umane) e 1, comma 16 della legge delega n. 190 del 2012. Secondo tali disposizioni “il diritto di accesso è esercitabile dai dipendenti della società Poste Italiane s.p.a., limitatamente alle prove selettive di accesso, alla progressione in carriera ed ai provvedimenti di auto-organizzazione degli uffici, incidenti in modo diretto sulla disciplina, di rilevanza pubblicistica, del rapporto di lavoro”. Peraltro, dall’esame sistematico delle disposizioni in materia emerge “non solo la considerazione del rapporto di lavoro, come fattore strumentale alla normale gestione del servizio pubblico postale, ma anche la rilevanza ex se di tale rapporto, per l’osservanza di regole di imparzialità e trasparenza, che vincolano tutti i soggetti chiamati a svolgere funzioni pubbliche (anche nella veste di datori di lavoro), nell’ambito di servizi che le amministrazioni intendono assicurare ai cittadini, direttamente o in regime di concessione”. Sulla base di tali principi, l’Adunanza plenaria rigetta l’appello proposto da Poste Italiane s.p.a. e afferma che, nella situazione sottoposta al suo esame, “l’accesso agli atti richiesti è ammissibile, in quanto attinenti a procedura selettiva di avanzamento, soggetta alle ricordate regole di imparzialità e trasparenza”. SS |
Inserito in data 28/06/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 28 giugno 2016, n. 2927 Regolamenti volizione preliminare e regolamenti volizione azione Mentre i regolamenti c.d. volizione preliminare sono insuscettibili di produrre autonome lesioni sulla sfera giuridica altrui e, pertanto, non devono formare oggetto di impugnativa autonoma nel termine decadenziale, i regolamenti c.d. volizione azione, con riferimento alle disposizioni immediatamente lesive, devono essere immediatamente impugnati posta, in difetto, la stabilizzazione dei relativi effetti. Ciò non esclude che l’attuazione dei regolamenti volizione-preliminare possa contenere un carattere di immediata e concreta lesività, che abilita i soggetti interessati ad impugnarli, ma solo in via facoltativa. Di regola, però, solo l’adozione a valle del provvedimento di attuazione rende attuale la possibile compromissione delle singole situazioni soggettive, così determinando l’insorgere dell’interesse a ricorrere. In tal caso, l’impugnazione è soggetta all’ordinario termine decadenziale, decorrente dal momento dell’adozione dell’atto applicativo. CDC
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Inserito in data 27/06/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 22 giugno 2016, n. 2769 Atti elusivi emessi dopo il giudicato Con la sentenza in epigrafe, la III Sezione del Consiglio di Stato ha affermato che ai fini della declaratoria della nullità di provvedimenti emanati in violazione o elusione del giudicato, non occorre la formale impugnazione del provvedimento di cui si lamenti tale natura, in quanto il Giudice dell’ottemperanza può esercitare d’ufficio il relativo potere. Nella pronuncia in esame, sono stati preliminarmente passati in rassegna i principi generali applicabili in tema di proponibilità dell’azione di ottemperanza. Anzitutto, in ordine alla precipua funzione dell’istituto, è stato chiarito che lo stesso è finalizzato ad attribuire alla parte vittoriosa in sede di cognizione uno strumento per garantire il rispetto, da parte dell’Amministrazione, degli obblighi derivanti dal giudicato. Certamente, detta verifica sull’esatta attuazione del giudicato implica la precisa individuazione dei contenuti dell’effetto conformativo derivante dalla sentenza di cui si chiede l’esecuzione. Inoltre – ha aggiunto il Collegio – con il peculiare rimedio in questione può essere lamentata non solo la totale inerzia dell’Amministrazione nell’esecuzione del giudicato, ma anche la sua attuazione inesatta, incompleta o elusiva. Infine, il Collegio ha ricordato che il provvedimento sopravvenuto ed emanato in dichiarata esecuzione del giudicato dev’essere impugnato, nel termine di decadenza, con il ricorso ordinario, diversamente, l’atto emesso in violazione o in esecuzione del giudicato dev’essere impugnato con il ricorso per ottemperanza nel termine di prescrizione dell’actio iudicati, in quanto nullo ai sensi dell’art.21-septies l. n.241 del 1990 e 114, comma 4, lett. b), del c.p.a. Venendo al caso di specie, punto centrale della questione è stabilire se si possa dedurre con una memoria difensiva l’elusione del giudicato, quando l’atto sopravvenuto sia stato emesso dopo la proposizione del ricorso per ottemperanza, senza quindi una rituale contestazione con atto notificato. La III Sezione ha ritenuto di optare per la soluzione dell’ammissibilità e della procedibilità del ricorso proposto ai sensi dell’art.112 c.p.a., anche per l’ipotesi in cui non vi sia stata l’impugnazione del provvedimento sopravvenuto elusivo del giudicato. In particolare, la lettura coordinata e sistematica dell’art. 112 c.p.a e del comma 4 dell’art.114 c.p.a. “vincola l’interprete a slegare l’esercizio dei poteri (d’ufficio) attribuiti al giudice dell’ottemperanza dal principio della domanda”. “In altri termini, il giudice dell’ottemperanza è investito, per un verso, della potestà della cognizione piena del rispetto del giudicato (…), per un altro, ove ne ravvisi la mancata attuazione, la violazione o l’elusione, dei poteri dispositivi catalogati all’art.114, comma 4, c.p.a.”. Ed ancora, “Perché il ricorso per ottemperanza risulti idoneo ad investire il giudice adìto delle potestà cognitive e dispositive sopra indicate, è sufficiente che la causa petendi e il petitum siano coerenti con l’art.112 c.p.a. e risultino adeguatamente dettagliati nell’atto introduttivo del giudizio”. Pertanto se, come nella fattispecie, l’atto asseritamente elusivo è stato emesso nel corso del giudizio di ottemperanza, ai fini della sua contestazione non occorre un atto notificato, essendo sufficiente che lo stesso venga dedotto tramite una memoria difensiva. MB
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Inserito in data 24/06/2016 TAR TOSCANA - FIRENZE, SEZ. III - 21 giugno 2016, n. 1049 Decorrenza del termine di impugnazione del permesso di costruire Con la pronuncia de qua, i giudici fiorentini si sono espressi in ordine alla decorrenza del termine di impugnazione di un permesso di costruire per la ristrutturazione conservativa di un immobile. A fronte dell’eccezione di tardività del ricorso, motivato dalla resistente sul presupposto che la ricorrente avesse conseguito piena conoscenza del progetto in una fase antecedente alla presentazione dell’istanza di permesso di costruire (coincidente, nella fattispecie, con il momento di apposizione del cartello di inizio lavori), il Collegio ha osservato come recenti arresti giurisprudenziali abbiano confermato che “ai fini della decorrenza del termine per l'impugnazione del permesso di costruire, ove se ne contesti il contenuto specifico, la conoscenza dello stesso da parte del proprietario limitrofo può intendersi acquisita quando le opere abbiano raggiunto uno stadio ed una consistenza tali da renderne chiara l'illegittimità e la lesività per le posizioni soggettive del confinante”. Nel caso sottoposto all’attenzione della III Sezione, la ricorrente ha contestato proprio la diversità del manufatto realizzato rispetto a quello esistente, circostanza che induce a ritenere come un’effettiva conoscenza delle caratteristiche dell’intervento sia stata desumibile solo nel momento in cui i lavori avevano raggiunto uno stadio e una consistenza tale da rendere evidenti come dette differenze fossero suscettibili di alterare radicalmente le caratteristiche del manufatto. Pertanto, il Collegio, sulla scorta delle anzidette considerazioni, ha accolto il ricorso e, per l’effetto, annullato il permesso di costruire e gli atti ad esso presupposti. MB |
Inserito in data 23/06/2016 CORTE COSTITUZIONALE - ORDINANZA 23 giugno 2016, n. 153 Ai fini dell’ammissione al gratuito patrocinio rileva il reddito dell’ultimo anno La Corte costituzionale è stata chiamata a stabilire se gli artt. 75 e 76 del d.p.r. n. 115/02 sono incostituzionali, per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., “nella parte in cui non dispongono che il giudice debba tenere conto, ai fini dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, «del reddito degli ultimi 12 mesi (anziché di quello dell’anno precedente risultante dalla dichiarazione dei redditi)» oppure, in subordine, nella parte in cui non dispongono la possibilità di una ammissione graduata e parziale al beneficio «in ragione di fasce o scaglioni reddituali»”. Invero, nel caso sottoposto all’attenzione del giudice a quo, era accaduto che il convenuto - regolarmente costituito con un proprio difensore nell’ambito di un giudizio di separazione tra coniugi - si era presentato ad un’udienza, rappresentando di aver perduto il posto di lavoro e di non essere più in grado di corrispondere al proprio avvocato le competenze professionali; perciò, aveva chiesto di essere ammesso al patrocinio a spese dello Stato, pur avendo conseguito, nel precedente anno, un reddito dichiarato ai fini IRPEF superiore al limite fissato per l’ammissione al beneficio. Pertanto, il giudice a quo aveva ritenuto che, in situazioni siffatte, l’art. 76 del DPR 115/02, prescrivendo quale requisito di ammissione al gratuito patrocinio che il reddito risultante dall’ultima dichiarazione dei redditi non superasse la soglia fissata dalla legge, precludesse il diritto della parte all’effettività della difesa tecnica.
Ciò premesso, il Giudice delle Leggi ha rigettato la suesposta questione di legittimità costituzionale, evidenziando, tra l’altro, la praticabilità di una lettura costituzionalmente orientata della disposizione censurata, lettura già fatta propria dalla giurisprudenza di legittimità. Nello specifico, la Corte ha richiamato il costante orientamento della Corte di Cassazione (cfr., ex multis, Corte di cassazione, sezione quarta penale, sentenze 23 giugno-22 settembre 2011, n. 34456, 11 novembre 2010-26 gennaio 2011, n. 2620 e 16 novembre 2005-8 marzo 2006, n. 8103) secondo cui ”né la lettera della legge né lo scopo da essa perseguito autorizzano a ritenere esclusa la possibilità per il richiedente di dimostrare l’intervenuta variazione di reddito a suo sfavore anche perché una diversa interpretazione inciderebbe negativamente sull’effettività della difesa dell’imputato”; ne consegue che l’ultima dichiarazione dei redditi può “essere integrata da altri elementi, sia per negare il beneficio nonostante il reddito dichiarato sia inferiore al limite legale, qualora emerga aliunde un tenore di vita tale da consentire all’istante di sostenere gli esborsi necessari per l’esercizio del diritto di difesa, sia per concederlo, qualora una dichiarazione reddituale di valore superiore al limite legale sia messa in discussione dalla prova di un decremento reddituale sopravvenuto” (si veda da ultimo, Corte di cassazione, sezione quarta penale, sentenza 19 gennaio-2 febbraio 2016, n. 4353). TM
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Inserito in data 22/06/2016 TAR PIEMONTE - TORINO, SEZ. II - 18 giugno 2016, n. 887 Sul certificato di destinazione urbanistica Il Tar Piemonte, nella sentenza in esame, si è occupato dell’applicabilità o meno delle norme in materia di diritto di accesso agli atti amministrativi al certificato di destinazione urbanistica. La ricorrente, infatti, chiedeva al Tribunale di dichiarare il suo diritto di accedere al predetto certificato, con conseguente condanna dell’amministrazione comunale a rilasciarne una copia. I giudici del Tar ritengono il ricorso, oltre che inammissibile, integralmente infondato nel merito in quanto, secondo la giurisprudenza consolidata, “il certificato di destinazione urbanistica rientra nella categoria degli atti di certificazione redatti da pubblico ufficiale aventi carattere dichiarativo o certificativo del contenuto di atti pubblici preesistenti e pertanto esso non può essere sussunto nella categoria del documento amministrativo così come definito dall’art. 22 l. 241 del 1990, costituendo l’esercizio di una funzione dichiarativa o certificativa sulla base degli atti di strumentazione urbanistica”. Ne consegue che il suo rilascio non può avvenire nelle forme del diritto di accesso, ma secondo le specifiche fonti normative, legislative e regolamentari, che precipuamente riguardano tali tipi di atti amministrativi. SS
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Inserito in data 21/06/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, 20 giugno 2016, n. 2713 Diniego di ammissione alla C.I.G. Con la sentenza in epigrafe, i giudici di Palazzo Spada si sono pronunciati sui presupposti per l’ammissione alla Cassa Integrazione Guadagni e sulla legittimità o meno del diniego di ammissione per l’accertato esubero strutturale del personale. Premette il Consiglio che, in base all’art. 1 della l. 164/1975, i requisiti per la concessione del trattamento di integrazione salariale per gli operai dell’industria sono, non solo la temporaneità della sospensione dell’attività lavorativa, ma anche la non imputabilità all’impresa (o agli operai) della medesima sospensione. Peraltro, nel richiamare la giurisprudenza consolidata sul punto, il Collegio precisa che “il sindacato del Giudice Amministrativo sul provvedimento di diniego dell’ammissione alla Cassa Integrazione Guadagni, ordinaria o straordinaria, ha dei limiti connessi con l’ampio margine di discrezionalità tecnica che caratterizza la valutazione dell’Ente previdenziale sul riconoscimento di una situazione di crisi aziendale ai sensi dell’art. 1 citato e, pertanto, le scelte dell’Ente sono sindacabili soltanto se evidentemente illogiche, manifestamente incongruenti o inattendibili ovvero viziate per palesi travisamenti in fatto”. Rilevano i giudici che, nel caso di specie, contrariamente a quanto ritenuto dal primo giudice, il motivo del rigetto della richiesta di concessione della C.I.G. è riconducibile alla scelta dell’impresa di incrementare la mano d’opera con assunzioni “al solo fine di configurare una potenzialità produttiva finalizzata alla partecipazione alle gare d’appalto indette dalla PA”: detta scelta è stata ritenuta dall’INPS – con valutazione immune dai vizi di illogicità ed irragionevolezza – “assolutamente inconciliabile con la finalità dell’istituto previdenziale dell’integrazione salariale” che, com’è noto, è quella di integrare il reddito dei lavoratori perduto a causa della temporanea impossibilità di prestare l’attività lavorativa per un fatto non imputabile al datore di lavoro né ai medesimi lavoratori. Inoltre, il Consiglio di Stato, convenendo con l’appellante Ente previdenziale, ritiene ininfluenti, rispetto alla motivazione posta a fondamento dei provvedimenti dell’Istituto, le considerazioni del primo giudice in ordine “alle buone prospettive di ripresa dell’azienda anche per l’incremento della produzione civile oltre che per l’ottenimento di nuove commesse pubbliche”, proprio perché relative al solo requisito della temporaneità della sospensione e non a quello della non imputabilità sul quale si fondano i provvedimenti di diniego emessi dall’INPS ed impugnati in primo grado. Alla luce di tutte le superiori considerazioni, la Sesta Sezione del Consiglio di Stato accoglie l’appello e riforma integralmente la sentenza di primo grado. SS
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Inserito in data 20/06/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 15 giugno 2016, n. 2638 Notifica del ricorso al controinteressato presso la sede di servizio I Giudici della Sezione IV del Consiglio di Stato, con la sentenza de qua, si sono pronunciati in ordine all’inammissibilità della notifica del ricorso al controinteressato presso la sede di servizio, quando la medesima sia stata eseguita a mani di un collega d’ufficio. Nella fattispecie, l’appellante aveva in particolare eccepito l’insanabile nullità della notifica per due ordini di motivi: in primis, poiché eseguita presso un pubblico Ufficio non tramite consegna a mani del destinatario; in secondo luogo, in quanto effettuata presso un Ufficio non coincidente con la sede presso cui il destinatario della notifica prestava servizio. I Giudici di Palazzo Spada hanno accolto le censure formulate dall’appellante, e in riforma della sentenza resa dal Tribunale capitolino, hanno dichiarato l’inammissibilità del ricorso di primo grado, affermando che, per costante giurisprudenza, “la notifica al controinteressato del ricorso presso l'ufficio pubblico presso il quale presta servizio, non a mani proprie, ma con consegna dell'atto ad altra persona, pur se addetta all'ufficio stesso, è inammissibile, atteso che la possibilità prevista dall'art. 139 comma 2, c.p.c. di procedere alla notifica a mani di " persona addetta all'ufficio " si riferisce esclusivamente agli uffici dove l'interessato tratta i propri affari (..) e non anche quello presso il quale il dipendente pubblico controinteressato presti lavoro subordinato”. Una siffatta interpretazione restrittiva – ha ulteriormente specificato la IV Sezione, richiamando precedenti del Consiglio di Stato – “è confortata anche dal parallelo e alternativo riferimento, operato dallo stesso comma 1 dell'art. 139 c.p.c., al luogo di esercizio, evidentemente in proprio, dell'industria o del commercio, nonché dalla previsione del secondo e comma 3 circa le persone idonee a ricevere la notificazione, che postula la sussistenza di un rapporto strettamente fiduciario tra esse e il destinatario della notificazione stessa; presupposizione non riferibile ad un ufficio, la cui organizzazione non rientra nella disponibilità del destinatario medesimo”. MB
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Inserito in data 18/06/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALLA CORTE COSTITUZIONALE - 13 giugno 2015, n. 2515 Autogoverno giurisdizione amministrativa: sistema elettorale e rimessione Consulta Con l’ordinanza in epigrafe, la V Sezione del Consiglio di Stato ha ritenuto non manifestamente infondate le censure, sollevate dall’appellante, di violazione dell’art. 76 Cost., per eccesso del decreto legislativo n. 62/2006 (concernente l’elezione del Consiglio di Presidenza della Giustizia amministrativa) rispetto alla legge di delegazione sulla cui base lo stesso è stato emanato. In particolare, i sospetti di incostituzionalità riguardano l’introduzione del meccanismo di sostituzione dei consiglieri elettivi venuti a mancare prima della scadenza naturale dell’organo di autogoverno. Segnatamente, mentre il testo originario della legge di ordinamento n. 186/1982 prevedeva, per queste ipotesi, lo scorrimento della graduatoria nel corrispondente gruppo elettorale, nell’attuare la delega contenuta nella l. n. 150/2005, l’art. 1, co. 2 del d.lgs. n. 62/2006 ha introdotto le elezioni suppletive tra i magistrati appartenenti al corrispondente gruppo elettorale, così riformulando il co. 3 dell’art. 9, l. n. 186/1982 e disponendo, conseguentemente, l’abrogazione del citato art. 7, co. 4, della medesima legge di ordinamento. I Giudici di Palazzo Spada, nell’ordinanza in commento, hanno affermato che punto decisivo è stabilire “se, da un lato, la regola delle elezioni suppletive per i consiglieri venuti a mancare prima della scadenza naturale e, dall’altro lato, lo scorrimento in favore dei non eletti della graduatoria risultante dalle elezioni per il rinnovo dell’organo di autogoverno, si pongano rispetto al principio della preferenza unica introdotto per quest’ultimo dalla legge di delegazione, rispettivamente, quale regola necessaria al coordinamento con le altre leggi dello Stato e quale norma divenuta incompatibile e quindi da abrogare”. La giurisprudenza costituzionale - hanno osservato i Giudici della V Sezione – è assestata nel senso che i limiti posti al Governo dall’oggetto, dai principi e dai criteri direttivi fissati nella legge delega devono essere interpretati in modo elastico, tenuto conto dell’ineliminabile margine di discrezionalità che viene esplicata nell’emanazione di atti aventi forza di legge, e nei limiti di una compatibilità imposta dall’esigenza di dettare in sede di attuazione della delega la necessaria e coerente disciplina di “sviluppo” delle scelte espresse dal legislatore delegante. Tuttavia, l’orientamento richiamato concerne interventi di riforma di interi settori di disciplina o, comunque, complessi normativi connotati da una certa organicità, mentre il caso in esame non sembrerebbe ascrivibile a questa tipologia di riforma, in quanto “i caratteri dell’organicità e della complessità si addicono alla riforma dell’ordinamento riguardante la magistratura ordinaria, di cui la legge n. 150 del 2005 ha costituito la cornice per un profondo intervento modificativo del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12, ma non certo alla settoriale modifica che ha riguardato il sistema di elezione dell’organo di autogoverno della giurisdizione amministrativa”.
Quindi, nel dare risposta negativa al quesito, la V Sezione del Consiglio di Stato, ritenendo rilevanti del censure formulate dall’appellante, ha rimesso, nei termini riassunti, la questione alla Corte Costituzionale. MB
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Inserito in data 17/06/2016 TAR PUGLIA - LECCE, SEZ. II, 15 giugno 2016, n. 971 Rimessione in termini per errore scusabile e termine di presentazione delle offerte in materia di concessione di servizi pubblici Con la sentenza in esame, il Tar Lecce si è occupato, in primo luogo, della questione relativa all’applicabilità nel caso di specie della rimessione in termini per errore scusabile e, dunque, alla corretta interpretazione dell’art. 37 c.p.a., in secondo luogo, della questione relativa all’applicabilità dell’art. 70 del codice degli appalti– in base al quale “il termine per la ricezione delle offerte viene stabilito dalle stazioni appaltanti nel rispetto del comma 1 e, ove non vi siano specifiche ragioni di urgenza, non può essere inferiore a venti giorni dalla data di invio dell'invito” – anche in materia di concessioni di servizi pubblici, nonostante tale norma non sia richiamata dall’art. 30 del codice degli appalti. Con riferimento alla prima questione, il Collegio ritiene di far proprio l’orientamento espresso in un’ordinanza del Consiglio di Stato e afferma che “la rimessione in termini sia possibile solo allorché sia apprezzabile una qualche giustificata incertezza sugli strumenti di tutela utilizzabili da parte del destinatario dell’atto, dovuta ad una situazione normativa obiettivamente ambigua o confusa, ad uno stato di obiettiva incertezza per le oggettive difficoltà di interpretazione di una norma”. In effetti, rilevano i giudici che la questione relativa all’applicabilità del rito speciale previsto dagli artt. 119, comma 1, lett. a), e 120 c.p.a. alle concessioni dei servizi, con particolare riferimento al termine per l’impugnazione, era stata già rimessa all’Adunanza Plenaria e, posto che, nel caso di specie, l’errore rispetto al quale dev’essere accertata la scusabilità è proprio quello relativo all’omessa, tempestiva attivazione di un potere processuale, quale quello dell’impugnazione, entro il termine dimidiato di 30 giorni, è ben possibile che le ragioni che hanno impedito un ricorso in termini potrebbero qui proprio riferirsi a difficoltà interpretative della normativa di riferimento circa i presupposti, le modalità, i termini o gli effetti dell’esercizio della potestà in questione. In sostanza, afferma il Tar, proprio l’incertezza dell’applicabilità o meno degli artt. 119 e 120 c.p.a. alle concessioni di servizi pubblici induce a ritenere applicabile al caso di specie l’istituto della rimessione in termini per errore scusabile. Per quel che concerne, invece, la seconda questione, il Collegio premette che la disposizione dell’art. 70, comma 1 del codice degli appalti deve essere considerata espressione di un principio generale, applicabile anche alle gare per l’affidamento delle concessioni, tra le quali rientra la gara in esame; difatti la Commissione europea ha affermato che “un appalto deve essere aggiudicato nel rispetto delle disposizioni e dei principi del trattato CE, al fine di garantire condizioni di concorrenza eque all’insieme degli operatori economici interessati da tale appalto”, e che tale obiettivo può essere raggiunto nel miglior modo tramite la previsione di “termini adeguati” per la presentazione delle offerte, specificando che “i termini stabiliti per presentare una manifestazione d’interesse o un’offerta devono essere sufficienti per consentire alle imprese di altri Stati membri di procedere a una valutazione pertinente e di elaborare la loro offerta”. Nel caso in esame, il termine effettivo era di soli tre giorni, il che determinava così una sostanziale difficoltà nella predisposizione delle offerte stesse, da ciò consegue – conclude il Tar – per tutte le ragioni sopra esposte, l’integrale accoglimento del ricorso. SS
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Inserito in data 16/06/2016 CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 9 giugno 2016, n. 11 Esecuzione del giudicato a formazione progressiva e ius superveniens di matrice comunitaria L’Adunanza Plenaria, con la sentenza in epigrafe, pone fine all’intricata vicenda processuale avente ad oggetto la realizzazione della Cittadella della Giustizia presso il Comune di Bari da parte dell’impresa Pizzarotti e, al contempo, sancisce i principi da applicare nel caso di esecuzione del giudicato riguardante l’annullamento in sede giurisdizionale di un atto discrezionale e sulla efficacia delle sentenze pregiudiziali interpretative della Corte di Giustizia dell’UE. Ad avviso della Quinta Sezione del Consiglio di Stato, deriverebbe una palese violazione del diritto comunitario laddove si applicasse al caso di specie il tradizionale insegnamento giurisprudenziale del “giudicato a formazione progressiva” secondo il quale anche le statuizioni contenute nelle sentenze rese in sede di ottemperanza (nel caso di specie erano due sentenze) sono idonee al giudicato, integrando quello della sentenza di cognizione. Pertanto, la Sezione rimettente, richiamando e criticando la tesi del c.d. giudicato a formazione progressiva, ha chiesto all’Adunanza Plenaria di stabilire in astratto uno o più criteri, certi e ripetibili, per definire il discrimine tra statuizioni della sentenza di ottemperanza suscettibili di passare in giudicato e mere misure esecutive; in seconda battuta, ha chiesto all’Adunanza Plenaria di stabilire, anche alla luce del principio di diritto enunciato dalla Corte di Giustizia, nella già citata sentenza pregiudiziale interpretativa del 2014, se il diritto nazionale conosca dei rimedi per ritornare sul giudicato che ha condotto ad una situazione contrastante con la normativa dell’Unione Europea. Dal canto suo, l’Adunanza Plenaria premette che l’ordine logico delle questioni prospettato dalla Sezione rimettente non appare del tutto condivisibile in quanto, prima ancora di stabilire se le statuizioni contenute nelle sentenze rese in sede di ottemperanza costituiscano giudicato e se, in caso di risposta positiva a tale quesito, esistano strumenti per impedire che il giudicato produca effetti anticomunitari, è necessario, infatti, delimitare esattamente il contenuto e la portata conformativa delle sentenze di cui si chiede l’ottemperanza. Sul punto, ritengono i giudici che dette sentenze non abbiano riconosciuto all’Impresa il diritto incondizionato alla stipula del contratto e alla realizzazione dell’opera: da esse deriva solo un obbligo procedimentale e strumentale (quello di portare a conclusione il procedimento), non un obbligo sostanziale e finale (quello di concluderlo riconoscendo il diritto alla stipula del contratto o, addirittura, alla realizzazione dell’opera). La realizzazione dell’opera – continua il Collegio – viene letteralmente indicata come oggetto di una “possibilità”, che, nel rispetto dei principi di ragionevolezza, buona fede ed affidamento, il Comune aveva solo l’obbligo di verificare, nei limiti consentiti dal mutato quadro economico. Dunque, evocando la necessità di una successiva verifica di compatibilità con il sistema amministrativo e normativo, tutte le sentenze medio tempore emesse lasciano comunque aperto il procedimento, prefigurando lo svolgimento di un successivo tratto procedimentale successivo al giudicato. Si tratta di un aspetto centrale anche per delimitare la portata del giudicato rispetto alle sopravvenienze poi intervenute: il giudicato, infatti, non può incidere sui tratti liberi dell’azione amministrativa lasciati impregiudicati dallo stesso giudicato e, in primo luogo, sui poteri non esercitati e fondati su presupposti fattuali e normativi diversi e successivi rispetto a quest’ultimo. A tal proposito, l’Adunanza Plenaria precisa che la sentenza interpretativa pregiudiziale della Corte di Giustizia è equiparabile ad una sopravvenienza normativa, la quale, incidendo su un procedimento ancora in corso di svolgimento e su un tratto di interesse non coperto dal giudicato ha determinato non un conflitto ma una successione cronologica di regole che disciplinano la medesima situazione giuridica, pertanto, nel caso di specie, la prevalenza della regola sopravvenuta (rispetto al tratto di rapporto non coperto dal giudicato) si impone già in base ai comuni principi che regolano secondo il diritto nazionale il rapporto tra giudicato e sopravvenienze. Peraltro, il Collegio ritiene che avvalori tale conclusione l’ulteriore considerazione che, in tal modo, si evita anche che alla sentenza del giudice amministrativo venga data una portata contrastante con il diritto euro-unitario: a prescindere, infatti, dalla questione se il giudicato sia intangibile anche quando risulta contrario al diritto euro-unitario, deve comunque evidenziarsi come sia già presente nel nostro ordinamento il principio che impone al giudice nazionale di adoperarsi per evitare la formazione (o la progressiva formazione) di un giudicato anticomunitario o, più in generale, contrastante con norme di rango sovranazionale cui lo Stato italiano è tenuto a dare applicazione.
Alla luce delle considerazioni svolte – conclude l’Adunanza Plenaria – i ricorsi proposti dall’Impresa Pizzarotti devono essere respinti. Infatti, le sentenze ottemperande riconoscono solo un obbligo di natura procedimentale, la cui ulteriore attuazione risulta, peraltro, ormai preclusa dall’insormontabile ostacolo rappresentato dalla sentenza della Corte di Giustizia la quale, intervenendo su un tratto di procedimento non investito dal giudicato, ha diretta applicazione e prevale, secondo un criterio di successione temporale, sulla “regola conformativa” desumibile dalle sentenze amministrative rese dalla Quinta Sezione del Consiglio di Stato nel corso della vicenda in oggetto. SS
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Inserito in data 15/06/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 15 giugno 2016, n. 2627 Proroga dichiarazione stato di emergenza, presupposti e diritto al risarcimento La Quarta Sezione del Consiglio di Stato respinge l’appello promosso da un’associazione ambientalista avverso i provvedimenti emessi dall’Amministrazione regionale in vista della necessità di ottenere la proroga dello stato di emergenza – richiesta per completare la costruzione e realizzazione di una superstrada a pedaggio. In particolare, i Giudici rigettano le ragioni – paventate da parte appellante - circa presunti profili di irragionevolezza nelle determinazioni dell’Amministrazione competente e riguardo possibili carenze motivazionali nella decisione di prime cure. Infatti, ritiene la Sezione, richiamando consolidata giurisprudenza amministrativa - da cui il TAR non ha voluto discostarsi – che i presupposti richiesti ex articoli 2 e 5 della L. n. 24 febbraio 1992 – ai fini della sussistenza dello stato di emergenza – effettivamente ricorrano nel caso di specie. Si ricorda, infatti, che tali norme consentono l’utilizzo e l’adozione di poteri emergenziali anche in presenza di circostanze “connesse con l’attività dell’uomo” – in merito alla cui valutazione è lasciata un’amplissima discrezionalità all’Amministrazione. Quest’ultima, infatti, trova un solo limite che risiede nella esistenza di una situazione di pericolo concreto o potenziale all’integrità delle persone, dei beni, degli insediamenti e dell’ambiente, nonché nella ragionevolezza ed impossibilità di fronteggiare altrimenti la situazione (Cfr. Cons. Stato, sez. VI, 28 gennaio 2011, n. 654). Il Collegio, pertanto, non ravvisando alcuna palese arbitrarietà nella scelta amministrativa ma, piuttosto, un eventuale detrimento alla libertà di iniziativa economica o alla tutela dei diritti fondamentali ove venisse accolto il presente gravame e, per l’effetto, fosse impedita la prosecuzione dei lavori, conferma la pronuncia di primo grado, rigettando ogni pretesa risarcitoria avanzata dagli odierni appellanti. CC
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Inserito in data 14/06/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 6 giugno 2016, n. 2417 Istanza di rinnovo di porto d’armi e valutazione discrezionale del Prefetto Il testo unico, nel disciplinare il rilascio della «licenza di porto d’armi», mira a salvaguardare la tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica. Invero, come ha rilevato la Corte Costituzionale (con la sentenza 16 dicembre 1993, n. 440, § 7, che ha condiviso quanto già affermato con la precedente sentenza n. 24 del 1981), il potere di rilasciare le licenze per porto d'armi «costituisce una deroga al divieto sancito dall'art. 699 del codice penale e dall'art. 4, primo comma, della legge n. 110 del 1975»: «il porto d'armi non costituisce un diritto assoluto, rappresentando, invece, eccezione al normale divieto di portare le armi». Ciò implica che – oltre alle disposizioni specifiche previste dagli articoli 11, 39 e 43 del testo unico n. 773 del 1931 – “rilevano i principi generali del diritto pubblico in ordine al rilascio dei provvedimenti discrezionali”. Inoltre, oltre alle disposizioni del testo unico che riguardano i requisiti di ordine soggettivo dei richiedenti (in particolare, gli articoli 11, 39 e 43), rilevano gli articoli 40 e 42, che attribuiscono in materia i più vasti poteri discrezionali per la gestione dell’ordine pubblico. Infatti, alla luce di tali disposizioni, il Ministero dell’Interno, nelle sue articolazioni centrali e periferiche, “può ben effettuare valutazioni di merito in ordine ai criteri di carattere generale per il rilascio delle licenze di porto d’armi, tenendo conto del particolare momento storico, delle peculiarità delle situazioni locali, delle specifiche considerazioni che – in rapporto all’ordine ed alla sicurezza pubblica - si possono formulare a proposito di determinate attività e di specifiche situazioni”. In sostanza, valutazioni degli organi del Ministero dell’Interno “possono e devono tener conto delle peculiarità del territorio, delle specifiche implicazioni di ordine pubblico e delle situazioni specifiche in cui si trovano i richiedenti, ma si possono basare anche su criteri di carattere generale, per i quali l’appartenenza in sé ad una categoria non ha uno specifico rilievo”. Tuttavia, devono ritenersi “configurabili profili di eccesso di potere, qualora l’Amministrazione – nel respingere l’istanza in quanto formulata da un appartenente ad una categoria per la quale non si sono ravvisati particolari esigenze da tutelare col rilascio della licenza di porto d’armi – invece abbia accolto l’istanza di chi versi in una situazione sostanzialmente equivalente: secondo i principi generali, chi impugna un diniego di licenza ben può dedurre che, in un caso equivalente (anche per circostanze di tempo e di luogo), l’istanza di altri sia stata invece accolta”. In conclusione, fermo restando che l’interessato può dolersi delle eventuali disparità di trattamento che si commettano in concreto, “non può essere ravvisato un profilo di contraddittorietà nella determinazione dell’Amministrazione di non disporre il rinnovo della licenza”, trattandosi di una valutazione di merito, insindacabile dal giudice amministrativo in sede di giurisdizione di legittimità. EF
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Inserito in data 13/06/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 1 giugno 2016, n. 2317 Si può ricorrere ai poteri emergenziali per circostanze connesse con l’attività dell’uomo Con la pronuncia in esame, i Giudici di Palazzo Spada rilevano come le criticità, elevate ed insostenibili, nella circolazione stradale “possono assumere connotati tali da giustificare la dichiarazione dello stato di emergenza”. Gli artt. 2 e 5 della legge n. 225 del 1992 consentono, infatti, l’autorizzazione all’utilizzo di poteri emergenziali anche in presenza di circostanze “connesse con l’attività dell’uomo”. Al riguardo, giova aggiungere che “la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha avuto modo di affermare l’amplissima discrezionalità che connota la dichiarazione dello stato di emergenza di cui all’art. 5 della l. n. 225 del 1992: l’unico, fondamentale, limite che incontra l’amministrazione, nell’esercizio di tale discrezionalità risiede nella esistenza di una situazione di pericolo concreto o potenziale all’integrità delle persone, dei beni, degli insediamenti e dell’ambiente, nonché nella ragionevolezza e impossibilità di fronteggiare altrimenti la situazione” (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 28 gennaio 2011, n. 654). Invero, il Collegio ritiene di non doversi discostare dall’orientamento secondo cui “[i]n punto di motivazione e di istruttoria, la valutazione circa la sussistenza di tali presupposti può essere oggetto di sindacato in sede giurisdizionale in presenza di profili di evidente arbitrarietà e irragionevolezza” (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 14 marzo 2016, n. 996). Pertanto, non ritenendo sussistenti profili d’irragionevolezza nelle determinazioni della P.A., afferma che “l’abbassamento della velocità media negli spostamenti di persone e merci, al di sotto di una soglia di accettabilità parametrata alle esigenze di celerità della società contemporanea, sembra idonea causa di lesione dei fondamentali diritti di libertà e dignità personale, di iniziativa economica ed al lavoro”. EF
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Inserito in data 11/06/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 30 maggio 2016, n. 2298 Consorzio – divieto di sostituzione dell’impresa designata Con la pronuncia in epigrafe, la V Sezione del Consiglio di Stato ha confermato la sentenza resa in primo grado dal Tribunale amministrativo regionale della Campania-Napoli che, nel respingere le domande formulate dal Consorzio ricorrente, aveva valorizzato la clausola contenuta nella lex specialis la quale, in conformità al principio di immodificabilità dei partecipanti alle procedure di gara, espressamente sanciva il divieto di sostituzione dell’impresa designata, senza che residuasse alcun margine di valutazione discrezionale in capo alla stazione appaltante. Il Consorzio appellante aveva dedotto, da una parte, la presunta violazione del combinato disposto di cui agli artt. 36 d.lgs. 163/2006 e 1, punto 3, lett. Q) del disciplinare di gara, asseritamente interpretato in spregio del principio del favor partecipationis, dall’altra rilevato il non corretto inquadramento giuridico, da parte del TAR campano, del consorzio stabile, non omologabile a quello previsto per i consorzi ordinari al punto che la clausola in esame, estensivamente applicata al consorzio stabile, sarebbe nulla per violazione dell’art.46 d.lgs. n. 163/2006, laddove prescrive che i bandi di gara non possono contenere prescrizioni, a pena d’esclusione, ulteriori rispetto a quelle espressamente previste dal codice degli appalti e dal regolamento attuativo. I Giudici di Palazzo Spada hanno respinto le censure sollevate dal Consorzio appellante, precisando che il bando di gara è stato pubblicato nel 2009 per cui, ratione temporis, non troverebbe applicazione l’art. 4 co. 2, lett. d) n. 2 d.l. n. 70/2011 conv. in l. n. 21106/2011 che, modificando l’art. 46 co. 1 bis d.lgs. n. 163/2006, ha sancito il principio di tassatività e tipicità della cause d’esclusione dalle procedure di gara. Né d’altra parte – ha sottolineato il Collegio - il tenore lessicale della clausola contenuta nella lex specialis offre argomenti di supporto per ritenere violato il principio del favor partecipationis. “Restituita al cotesto precettivo del principio di immodificabilità soggettiva dei partecipanti alle gare pubbliche, come disegnato dalla giurisprudenza – ha invece sottolineato il Collegio - la clausola ribadisce il divieto per il concorrente costituito nelle forme del consorzio stabile di sostituire l’impresa designata per l’esecuzione dei lavori”, né è suscettibile di essere disattesa ovvero disapplicata dall’amministrazione appaltante, sul punto autovincolata, con esaurimento di ogni residuo margine d’apprezzamento discrezionale. Oltretutto, “i principi di par condicio e di trasparenza delle operazioni di gara, garantiti dall’insurrogabile valutazione sull’affidabilità tecnica dell’impresa offerente come esperita dalla stazione appaltante nel corso della procedura concorrenziale, confermano sul piano assiologico la legittimità della clausola sì da escludere in radice che possa ritenersi illogica o irragionevole”. MB
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Inserito in data 10/06/2016 CORTE COSTITUZIONALE - SENTENZA 1 giugno 2016, n. 126 Legittimazione ad agire per il risarcimento del danno ambientale La Corte Costituzionale, con la sentenza in esame, si è occupata della questione di legittimità, sollevata in riferimento agli art. 2, 3, 9, 24 e 32 Cost., avente ad oggetto l’art. 311, comma 1 d. lgs. 152 del 2006, nella parte in cui attribuisce al Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, e per esso allo Stato, la legittimazione all’esercizio dell’azione per il risarcimento del danno ambientale. Ad avviso del Tribunale remittente, la legittimazione a costituirsi parte civile nei processi per reati ambientali spetta non solo al Ministero ma anche all’ente pubblico territoriale e ai soggetti privati che per effetto della condotta illecita abbiano subito un danno risarcibile ai sensi dell’art. 2043 c.c., diverso da quello ambientale. Infatti – continua il giudice a quo - la giurisprudenza di legittimità ha affermato che non sussiste alcuna antinomia reale fra la norma generale di cui all’art. 2043 c.c. (che attribuisce a tutti il diritto di ottenere il risarcimento del danno per la lesione di un diritto) e la norma speciale di cui all’art. 311 (che riserva esclusivamente allo Stato la legittimazione ad agire per il risarcimento del danno da lesione all’ambiente, inteso come diritto pubblico generale a fondamento costituzionale). Peraltro, il giudice a quo ha prospettato (in riferimento agli artt. 3, 9, 24 e 32 della Costituzione) che l’accentramento della legittimazione ad agire in capo ad un solo soggetto non garantirebbe un sufficiente livello di tutela della collettività e della comunità, nonché degli interessi all’equilibrio economico, biologico e sociologico del territorio, comportando l’irragionevole sacrificio di un aspetto ineludibile nel sistema di tutela. Inoltre, l’esclusione della possibilità di agire in giudizio per la Regione e per egli enti territoriali, soggetti esponenziali della collettività che opera nel territorio leso che è parte costitutiva della soggettività degli stessi, rispetto allo Stato, darebbe luogo a disparità di trattamento tra soggetti portatori di identica posizione giuridica. Infine il giudice a quo ha dedotto (ex art. 2 Cost.) che la deroga alla disciplina generale della responsabilità civile determinerebbe un trattamento deteriore del diritto ad un ambiente salubre − diritto primario ed assoluto, rientrante tra i diritti inviolabili dell’uomo di cui al citato parametro costituzionale − rispetto ai restanti diritti costituzionali di pari valore, i quali, con riguardo alla sfera di tutela della responsabilità civile, non subiscono alcuna limitazione nella titolarità della legittimazione ad agire. La Corte Costituzionale, dal canto suo, ripercorre la disciplina del danno ambientale, evidenziando il mutamento di prospettiva imposto dalle direttive europee, con la conseguente collocazione del profilo risarcitorio in una posizione accessoria rispetto alla riparazione; così, in sede di attuazione della direttiva, con il d.lgs. n. 152 del 2006, è emersa la priorità delle misure di “riparazione” rispetto al risarcimento per equivalente pecuniario, quale conseguenza dell’assoluta peculiarità del danno al bene o risorsa “ambiente”. In ordine al profilo oggetto di censura, la Corte è chiara nell’affermare (e al riguardo richiama una sua precedente pronuncia del 2009) che “la scelta di attribuire all’amministrazione statale le funzioni amministrative trova una non implausibile giustificazione nell’esigenza di assicurare che l’esercizio dei compiti di prevenzione e riparazione del danno ambientale risponda a criteri di uniformità e unitarietà, atteso che il livello di tutela ambientale non può variare da zona a zona e considerato anche il carattere diffusivo e transfrontaliero dei problemi ecologici, in ragione del quale gli effetti del danno ambientale sono difficilmente circoscrivibili entro un preciso e limitato ambito territoriale”. Infatti, una volta messo al centro del sistema il ripristino ambientale, emerge con forza l’esigenza di una gestione unitaria: un intervento di risanamento frazionato e diversificato, su base “micro territoriale”, oltre ad essere incompatibile sul piano teorico con la natura stessa della qualificazione della situazione soggettiva in termini di potere (funzionale), contrasterebbe con l’esigenza di una tutela sistemica del bene; tutela che, al contrario, richiede sempre più una visione e strategie sovranazionali. Inoltre, in termini di possibile iniziativa autonoma, la Corte sottolinea come la riserva allo Stato non escluda che ai sensi dell’art. 311, d.lgs. n. 152 del 2006 sussista il potere di agire di altri soggetti, comprese le istituzioni rappresentative di comunità locali, per i danni specifici da essi subiti. La norma ha mantenuto “il diritto dei soggetti danneggiati dal fatto produttivo di danno ambientale, nella loro salute o nei beni di loro proprietà, di agire in giudizio nei confronti del responsabile a tutela dei diritti e degli interessi lesi”. Del resto – argomentano i giudici costituzionali - la stessa Cassazione ha più volte affermato che la normativa speciale sul danno ambientale si affianca alla disciplina generale del danno posta dal codice civile, non potendosi pertanto dubitare della legittimazione degli enti territoriali a costituirsi parte civile iure proprio, nel processo per reati che abbiano cagionato pregiudizi all’ambiente, per il risarcimento non del danno all’ambiente come interesse pubblico, bensì (al pari di ogni persona singola od associata) dei danni direttamente subiti: danni diretti e specifici, ulteriori e diversi rispetto a quello, generico, di natura pubblica, della lesione dell’ambiente come bene pubblico e diritto fondamentale di rilievo costituzionale. Alla stregua di tutte le superiori considerazioni, la Corte Costituzionale promuove, dichiarando non fondato il dubbio di legittimità sollevato, la disciplina di cui all’art. 311 del d.lgs. 152 del 2006 nella parte in cui attribuisce allo Stato la legittimazione ad agire per il risarcimento del danno ambientale. SS |
Inserito in data 09/06/2016 CORTE COSTITUZIONALE - SENTENZA 6 giugno 2016, n. 129 Riduzione delle spese degli enti territoriali: illegittimità costituzionale Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte Costituzionale dice stop alla riduzione dei trasferimenti erariali mediante criterio delle spese sostenute per i consumi intermedi quando effettuata senza coinvolgere gli Enti interessati, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 16, comma 6 del d.l. 95 del 2012. Ad avviso del Tar Lazio remittente, la norma suindicata - nella parte in cui prevede che le quote da imputare a ciascun Comune sono “determinate, con decreto di natura non regolamentare del Ministro dell’interno, in proporzione alla media delle spese sostenute per consumi intermedi nel triennio 2010-2012, desunte dal SIOPE” - contrasterebbe con gli art. 3, 97 e 119, comma 1 e 3 Cost. dal momento che, in primo luogo, la mancata previsione di un termine per l’adozione del decreto ministeriale volto a determinare la quota di riduzione spettante a ciascun Comune lederebbe l’autonomia finanziaria e il buon andamento dell’amministrazione dell’ente medesimo, incidendo l’eventuale tardività nell’adozione del decreto ministeriale sulla redazione del bilancio finanziario del Comune. Inoltre, la disposizione impugnata comporterebbe una lesione del principio di leale collaborazione, in quanto non subordina la determinazione unilaterale delle quote, da parte dello Stato, all’inerzia della Conferenza Stato-Città e autonomie locali – come, al contrario, era previsto per le riduzioni dei trasferimenti ai Comuni e alle Province per l’anno 2012 e per le riduzioni alle sole Province per l’anno 2013. La disposizione censurata violerebbe, altresì – secondo il Tar remittente – il primo comma dell’art. 119 Cost., dato che individua nei “consumi intermedi” il criterio per la determinazione della quota di riduzione delle risorse da trasferire, senza decurtare da detti consumi le spese sostenute per i servizi ai cittadini. Peraltro, la scelta del legislatore violerebbe il terzo comma dello stesso art. 119 Cost., ricorrendo al criterio dei consumi intermedi diverso da quello previsto dalla disposizione costituzionale per il fondo perequativo (minore capacità contributiva per abitante). La Corte Costituzionale è chiara nell’affermare che la norma censurata, indicando gli obiettivi di contenimento delle spese degli enti locali, si pone come principio di coordinamento della finanza pubblica, che vincola senz’altro anche i Comuni: dunque, nessun dubbio che le politiche statali di riduzione delle spese pubbliche possano incidere anche sull’autonomia finanziaria degli enti territoriali. Tuttavia – continuano i giudici costituzionali – tale incidenza deve, in linea di massima, essere mitigata attraverso la garanzia del loro coinvolgimento nella fase di distribuzione del sacrificio e nella decisione sulle relative dimensioni quantitative, e non può essere tale da rendere impossibile lo svolgimento delle funzioni degli enti in questione. Vero è che i procedimenti di collaborazione tra enti debbono sempre essere corredati da strumenti di chiusura che consentano allo Stato di addivenire alla determinazione delle riduzioni dei trasferimenti, anche eventualmente sulla base di una sua decisione unilaterale, al fine di assicurare che l’obiettivo del contenimento della spesa pubblica sia raggiunto pur nella inerzia degli enti territoriali, ma tale condizione non può giustificare l’esclusione sin dall’inizio di ogni forma di coinvolgimento degli enti interessati, tanto più se il criterio posto alla base del riparto dei sacrifici non è esente da elementi di dubbia razionalità, come è quello delle spese sostenute per i consumi intermedi. Si tratta, ad avviso della Corte, di un criterio che si presta a far gravare i sacrifici economici in misura maggiore sulle amministrazioni che erogano più servizi, a prescindere dalla loro virtuosità nell’impiego delle risorse finanziarie. Infine – conclude la Corte – non si deve sottovalutare nemmeno il fatto che la disposizione impugnata non stabilisce alcun termine per l’adozione del decreto ministeriale che determina il riparto delle risorse e le relative decurtazioni, e che, dunque, un intervento di riduzione dei trasferimenti che avvenisse a uno stadio avanzato dell’esercizio finanziario comprometterebbe un aspetto essenziale dell’autonomia finanziaria degli enti locali, vale a dire la possibilità di elaborare correttamente il bilancio di previsione. Alla stregua di tutte le pregresse argomentazioni, la Corte Costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 16, comma 6 d.l. 95 del 2012 nella parte in cui non prevede, nel procedimento di determinazione delle riduzioni del Fondo sperimentale di riequilibrio da applicare a ciascun Comune nell’anno 2013, alcuna forma di coinvolgimento degli enti interessati, né l’indicazione di un termine per l’adozione del decreto di natura non regolamentare del Ministero dell’interno. SS
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Inserito in data 08/06/2016 TAR LOMBARDIA - MILANO, SEZ. I - 30 maggio 2016, n. 1101 Risarcimento del danno da infortunio sul lavoro del pubblico dipendente I Giudici meneghini, con il provvedimento de quo, hanno accolto le istanze del ricorrente volte ad ottenere il risarcimento, da parte dell’Amministrazione, del danno derivante al pubblico dipendente per infortunio sul lavoro, la cui dinamica, dagli atti di causa, risultava causalmente correlata ad una specifica condotta omissiva dell’Ente. In particolare – ha motivato il Collegio - risulta pienamente integrata, da parte dell’amministrazione, la violazione delle prescrizioni di cui all’art. 2087 c.c., che tutela le condizioni di lavoro e secondo il cui disposto letterale “l'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”, atteso che sono state omesse, da parte dell’amministrazione intimata - datore di lavoro dell’istante - le misure necessarie per scongiurare il verificarsi di incidenti come quello oggetto della vicenda in esame. La stessa Suprema Corte di Cassazione – ha ricordato la Sezione I – ha costantemente affermato che “in tema di rapporto di lavoro, l'obbligo di sicurezza di cui all'art. 2087 c.c. impone al datore di lavoro di adottare tutte le misure che secondo l'esperienza e la tecnica siano in grado di tutelare e garantire l'integrità psico-fisica del lavoratore, restando esclusi da detta tutela solo gli atti e i comportamenti abnormi ed imprevedibili del lavoratore, idonei ad elidere il nesso causale tra le misure di sicurezza adottate e l'eventuale danno realizzatosi”.
L'art. 2087 c.c. deve, infatti, ritenersi una “norma di chiusura” del sistema antinfortunistico, suscettibile di interpretazione estensiva in ragione sia del rilievo costituzionale del diritto alla salute sia dei principi di correttezza e buona fede cui deve ispirarsi lo svolgimento del rapporto di lavoro, sicché, alla luce delle esposte considerazioni, è fondata la richiesta risarcitoria formulata dal ricorrente. MB
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Inserito in data 07/06/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, 24 maggio 2016, n. 2182 Principio di legalità e potere regolatorio delle A.A.I. Con la pronuncia in esame, il Consesso afferma che “il principio di legalità dell’azione amministrativa, di rilevanza costituzionale (artt. 1, 23, 97 e 113 Cost.), impone che sia la legge a individuare, anche se indirettamente, lo scopo pubblico da perseguire e i presupposti essenziali, di ordine procedimentale e sostanziale, per l’esercizio in concreto dell’attività amministrativa”. In particolare, “la giurisprudenza amministrativa è costante nel ritenere che – quando venga in rilievo un potere regolatorio di un’autorità amministrativa indipendente – il primo profilo può avere carattere meno intenso, in ragione dell’esigenza di assicurare, in contesti caratterizzati da un elevato tecnicismo, un intervento regolatorio celere ed efficace. La predeterminazione rigorosa dell’esercizio delle funzioni amministrative comporterebbe un pregiudizio alla finalità pubblica per la quale il potere è attribuito. La dequotazione del principio di legalità in senso sostanziale – giustificata dalla valorizzazione degli scopi pubblici da perseguire in particolari settori come quelli demandati alle autorità amministrative indipendenti – impone, tuttavia, il rafforzamento del principio di legalità in senso procedimentale: il quale si sostanzia, tra l’altro, nella previsione di rafforzate forme di partecipazione degli operatori del settore nell'ambito del procedimento di formazione degli atti regolamentari” (Cons. Stato, VI, 2 maggio 2012, n. 2521; nello stesso senso, da ultimo, 20 marzo 2015, n. 1532). In questa prospettiva, si colloca anche l’art. 2 della legge 14 novembre 1995, n. 481 (Norme per la concorrenza e la regolazione dei servizi di pubblica utilità. Istituzione delle Autorità di regolazione dei servizi di pubblica utilità), il quale dispone che l’Autorità: d) «propone la modifica delle clausole delle concessioni e delle convenzioni, ivi comprese quelle relative all'esercizio in esclusiva, delle autorizzazioni, dei contratti di programma in essere e delle condizioni di svolgimento dei servizi, ove ciò sia richiesto dall'andamento del mercato o dalle ragionevoli esigenze degli utenti, definendo altresì le condizioni tecnico-economiche di accesso e di interconnessione alle reti, ove previsti dalla normativa vigente»; h) «emana le direttive concernenti la produzione e l'erogazione dei servizi da parte dei soggetti esercenti i servizi medesimi, definendo in particolare i livelli generali di qualità riferiti al complesso delle prestazioni e i livelli specifici di qualità riferiti alla singola prestazione da garantire all'utente, sentiti i soggetti esercenti il servizio e i rappresentanti degli utenti e dei consumatori, eventualmente differenziandoli per settore e tipo di prestazione; tali determinazioni producono gli effetti di cui al comma 37». Il richiamato comma 37 dello stesso art. 2 prevede che «il soggetto esercente il servizio predispone un regolamento di servizio» e che «le determinazioni delle Autorità di cui al comma 12, lettera h), costituiscono modifica o integrazione del regolamento di servizio». In conclusione, “tali norme attribuiscono all’Autorità poteri ampi di etero-integrazione, suppletiva e cogente, dei contratti, sopra indicati, per il perseguimento delle specifiche finalità individuate. Si tratta di un potere che, essendo attribuito da una norma imperativa, diventa esso stesso, insieme a tale norma, parametro di validità del contratto. Perciò il contenuto dei contratti viene integrato, secondo lo schema dell’art. 1374 Cod. civ., dall’esercizio del potere dell’Autorità ovvero – qualora detti contratti contengano clausole difformi da quanto previsto dalla determinazione dell’Autorità stessa – tali clausole vanno, ai sensi del primo comma dell’art. 1418 Cod. civ., ritenute nulle per contrarietà a norma imperativa” (cfr. Cass., 27 luglio 2011, n. 16401). EF
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Inserito in data 06/06/2016 TAR CAMPANIA - NAPOLI, SEZ. IV, 1 giugno 2016, n. 2788 Sulla distinzione tra il sostegno educativo didattico e l’assistenza materiale La questione posta al vaglio dei Giudici napoletani riguarda l'accertamento della necessità per un minore di “vedersi erogato il servizio didattico previa predisposizione, da parte dell'amministrazione, di misure di sostegno - didattiche o assistenziali - necessarie per evitare che il soggetto disabile altrimenti fruisca solo nominalmente del percorso di istruzione, essendo impossibilitato ad accedere ai contenuti dello stesso in assenza di adeguate misure compensative (sicché trattasi di prestazioni accessorie e complementari al servizio pubblico istruzione)”. Giova, infatti, ricordare che “l’art. 13, comma 3, della l. n.104/92 pone la distinzione tra il sostegno educativo didattico – assicurato da insegnanti specializzati inquadrati nei ruoli del Ministero della Pubblica Istruzione – e l’assistenza materiale tesa a sviluppare l’autonomia e la comunicazione, fornita da personale non docente messo a disposizione dai Comuni o dalle Province”. Si tratta, in particolare, della cd. assistenza ad personam, che – “pur costituendo un diritto fondamentale riconosciuto a favore dei soggetti in difficoltà per la piena esplicazione del diritto allo studio – non consiste nell’erogazione di prestazioni didattiche, ma solo di tipo assistenziale”. A tal proposito, la giurisprudenza ha già specificato che: “Le figure professionali preposte all’assistenza alla persona devono affrontare i problemi di autonomia e di comunicazione degli utenti con adeguati stimoli all’apprendimento delle abilità. Costoro aiutano l’alunno a partecipare alle attività proposte dall’insegnante, favoriscono il rapporto con il resto del gruppo di classe – per promuovere relazioni positive con i compagni – collaborano con gli insegnanti assistendo alla programmazione delle attività didattiche e cooperano con la famiglia per attivare un proficuo reciproco scambio a vantaggio del minore in difficoltà”. Insomma, “mentre all’insegnante di sostegno spetta la contitolarità nell'insegnamento, essendo egli un docente chiamato a garantire un’adeguata integrazione scolastica – e deve, pertanto, essere inquadrato a tutti gli effetti nei ruoli del personale insegnante – diversamente l’assistente educatore svolge un’attività di supporto materiale individualizzato, estranea all’attività didattica propriamente intesa, ma che è finalizzata ad assicurare la piena integrazione nei plessi scolastici di appartenenza e nelle classi, principalmente attraverso lo svolgimento di attività di assistenza diretta agli alunni affetti da minorazioni fisiche, psichiche e sensoriali in tutte le necessità ai fini di una loro piena partecipazione alle attività scolastiche e formative” (cfr. TAR Lombardia Milano, sez. III, 12 febbraio 2014 n.431; Tar Piemonte Torino, sez. I, 20 febbraio 2006, n. 943; T.A.R. Lombardia Milano, sez. IV, 2 aprile 2008, n. 794; Tar Lombardia Brescia, sez. II, 4 febbraio 2010, n. 581 e giurisprudenza ivi citata). Infine, “sul piano dell’imputazione soggettiva dell’obbligo di fornire un insegnante di sostegno e un assistente alla persona, va osservato che, mentre il primo incombe sul Ministero dell’Istruzione, il secondo grava sugli enti locali e nel caso specifico sul Comune, ai sensi dell’art.139 D.Lgs.n.112/98”. EF
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Inserito in data 04/06/2016 TAR SICILIA - CATANIA, SEZ. IV, 26 maggio 2016, n. 1449 Rapporti tra condanna penale e rilascio della patente di guida Nella sentenza de qua, il Tar Catania si è occupato della richiesta di rilascio del titolo abilitativo alla guida posta in essere da soggetto che è stato condannato per il reato di cui all’art. 73 d.p.r. 309/90 e in particolare della possibilità che il diniego al rilascio della patente operi, in dette ipotesi, automaticamente. In proposito – affermano i giudici – l’art. 120 del D.Lgs. n. 285/1992 opera una specifica individuazione dei reati ritenuti presuntivamente tali da non consentire, in ragione della pericolosità sociale del soggetto condannato, il rilascio della licenza di guida e fra questi rientra il reato di cui all’art. 73. A fronte della pericolosità sociale discendente, in base ad una valutazione effettuata ex ante dal legislatore, dalla sentenza penale di condanna per determinati fatti di reato, ritiene il Collegio che non vi è alcun “rigido automatismo” da dover superare; piuttosto, in ossequio a quanto previsto dal comma 1 dell’art. 120 D.Lgs. n. 285/1992, soltanto la possibilità di superare la preclusione discendente dalla comminata sanzione penale attraverso “gli effetti di provvedimenti riabilitativi” – conseguibili a norma degli artt. 178 e 179 c.p. – che, però, per quanto desumibile dagli atti di causa, non risultano, ad avviso dei giudici, essere intervenuti in favore del ricorrente in relazione alla sentenza penale di condanna. Ne consegue che “la postulata necessità di superare il rigido automatismo con cui di fatto ha operato sinora l’organo amministrativo, a fronte di una valutazione comparativa che tenga conto dei presupposti di fatto e della dimostrata ed effettiva pericolosità sociale del singolo soggetto, è tesi che non merita accoglimento”. SS
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Inserito in data 03/06/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 28 maggio 2016, n. 2244 Ai fini dell’autenticazione la sottoscrizione del P.U. non ammette equipollenti L’art. 1, comma 1, lett. i), del d.P.R. n. 445 del 2000 nel definire l’autenticazione della sottoscrizione come «l’attestazione, da parte di un pubblico ufficiale, che la sottoscrizione è stata apposta in sua presenza, previo accertamento dell’identità della persona che sottoscrive», non esclude che tale attestazione possa essere svolta, in base al combinato disposto dell’art. 21, comma 1, e dell’art. 38, comma 3, del d.P.R. n. 445 del 2000, mediante la forma semplificata prevista da tali disposizioni. L’art. 38, comma 3, del d.P.R. n. 445 del 2000 prevede che «le istanze e le dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà da produrre agli organi della amministrazione pubblica o ai gestori o esercenti di pubblici servizi sono sottoscritte dall’interessato in presenza del dipendente addetto ovvero sottoscritte e presentate unitamente a copia fotostatica non autenticata di un documento di identità del sottoscrittore» e dunque, quanto alla prima modalità (sottoscrizione da parte dell’interessato in presenza del dipendente, ovviamente previa identificazione «dell’interessato»), è del tutto compatibile con la definizione di autenticazione contenuta nell’art. 1, comma 1, del d.P.R. n. 445 del 2000. Pertanto, non è corretto – o quantomeno è limitativo – affermare, come fa il Giudice di prime cure, “che solo la più rigorosa modalità prevista dall’art. 21, comma 2, del d.P.R. n. 445 del 2000 si concili con tale nozione per la necessaria presenza del funzionario autenticatore in funzione accertativa”. La modalità di presentazione agli organi delle pubbliche amministrazioni, ai sensi dell’art. 38, comma 3, del d.P.R. n. 445 del 2000, è connotata da una minore rigidità formale e da una maggiore speditezza, «che consente vi sia, senza ulteriori formalità, la sottoscrizione dell’interessato in presenza del soggetto addetto» (Cons. St., sez. III, 16 maggio 2016, n. 1987), ma “non riduce affatto le garanzie di certezza sottese allo svolgimento della procedura elettorale, contemplando anch’essa la presenza del soggetto addetto avanti al quale è apposta la firma”. La contraria affermazione, “secondo cui l’autentica in ambito elettorale sarebbe sottoposta, a salvaguardia della sua funzione, alle modalità di maggiore rigore fra quelle previste dall’articolo 21, comma 2, del d.P.R. n. 445 del 2000, è dunque una mera petizione di principio, poiché pone quale premessa la conclusione che intende dimostrare e, cioè, che alla procedura elettorale debba necessariamente applicarsi la modalità di autenticazione prevista dall’art. 21, comma 2, del d.P.R. n. 445 del 2000. Il che, alla luce di un’analisi del quadro normativo, certo disorganico e scarsamente coordinato, non solo non è una conclusione certa, tutta da dimostrare, ma largamente opinabile e seriamente contestabile, ove si consideri che l’art. 14, comma 2, della l. n. 53 del 1990 rinvia ad una disposizione – quella dell’art. 20 della l. n. 15 del 1968 – che è stata abrogata e sostituita dall’art. 21 del d.P.R. n. 445 del 2000, senza affatto chiarire se si debba ora applicare il comma 1 o il comma 2 di tale ultima disposizione”. Né certo la delicata questione di tale lacuna normativa, in assenza di un riferimento espresso e inequivocabile al comma 1 o al comma 2 dell’art. 21 del d.P.R. n. 445 del 2000, “può essere risolta dalla mera constatazione che il contenuto dell’abrogato art. 20, comma secondo, della l. n. 15 del 1968 è pedissequamente riportato nel comma 2 dell’art. 21 del d.P.R. n. 445/2000”. Infatti, basta “il solo dato testuale dell’art. 21 a smentire l’apparente solidità di questa constatazione, che si vuole a torto risolutiva, se è vero che il comma 1 dell’art. 21 si riferisce alla presentazione dell’istanza o della dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà da produrre agli organi della pubblica amministrazione, come nel caso di specie, mentre il comma 2 si riferisce, invece, alla presentazione di tali atti a soggetti diversi dagli organi della pubblica amministrazione, ovvero ad organi della pubblica amministrazione, quando si tratti della riscossione da parte di terzi di benefici economici, ipotesi che qui, pacificamente, non ricorrono” (Cons. St., sez. III, 16 maggio 2016, n. 1987). Non si può dunque escludere, ma anzi pare più corretto ammettere che “la modalità più corretta di autenticazione, allo stato della legislazione vigente (pur poco chiara e lacunosa), sia quella prevista dal combinato disposto dell’art. 21, comma 1, e dall’art. 38, comma 3, del d.P.R. n. 445 del 2000, come questa Sezione ha affermato nella sentenza n. 1987 del 16 maggio 2016 più volte richiamata, non essendo comunque precluso al funzionario autenticatore seguire la modalità, più rigorosa, prevista dall’art. 21, comma 2, del d.P.R. n. 445 del 2000”. Tuttavia, pur riconoscendo che la modalità di autenticazione, in materia elettorale, possa essere quella semplificata dell’art. 38, comma 3, del d.P.R. n. 445 del 2000, “non per questo l’autenticazione può venire meno alla sua funzione essenziale e precipua, che è quella, appunto, di essere «l’attestazione, da parte di un pubblico ufficiale, che la sottoscrizione è stata apposta in sua presenza», come prevede l’art. 1, comma 1, lett. i), del d.P.R. n. 445 del 2000, che ricalca la definizione dell’art. 2703, comma secondo, c.c.”. Perché sia tale e, cioè, consista indubitabilmente nell’attestazione che la sottoscrizione sia stata apposta in presenza del pubblico ufficiale, “l’autenticazione deve essere sottoscritta dal pubblico ufficiale stesso, che appunto con la firma si assume il compito, e la responsabilità, di attestare che la firma è stata in sua presenza apposta, conferendo assoluta certezza alla formalità dell’autenticazione, certificando, sino a querela di falso, che la firma è stata apposta in sua presenza”. Ove la sottoscrizione del pubblico ufficiale manchi, pertanto, “difetta il nucleo essenziale e indefettibile dell’autenticazione e, cioè, in primo luogo e soprattutto l’attestazione di cui si è detto e la sua inoppugnabile riconducibilità al funzionario addetto all’autenticazione”.
La sottoscrizione del pubblico ufficiale è, dunque, “una forma sostanziale, indefettibile, insostituibile dell’autenticazione, che non ammette e non può ammettere equipollenti, pena lo snaturamento dell’essenza stessa dell’autenticazione, secondo quanto si è detto”. EF
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Inserito in data 01/06/2016 CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, 25 maggio 2016, n. 10 Ancora su DURC negativo e invito a regolarizzare
Con la sentenza in esame, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato è tornata ad occuparsi della giurisdizione in materia di DURC e della possibilità o meno di regolarizzare eventuali inadempienze contributive nel corso della gara.
In particolare, la Quinta Sezione del Consiglio di Stato ha ritenuto opportuno sottoporre alla Plenaria due questioni consequenziali fra di loro a causa dei contrasti interpretativi insorti e della notevole rilevanza pratica che rivestono. Con il primo dei due quesiti la Sezione chiede “se rientri nella giurisdizione del giudice amministrativo, adito per la definizione di una controversia avente ad oggetto l’aggiudicazione di un appalto pubblico, ovvero al giudice ordinario, accertare la regolarità del DURC, quale atto interno della fase procedimentale di verifica dei requisiti di ammissione dichiarati dal partecipante ad una gara”. Con il secondo quesito la Sezione chiede “se la norma di cui all’art. 31, comma 8, del d.l.69 del 2013, sia limitata al rapporto tra impresa ed Ente preposto al rilascio del DURC senza che lo svolgimento di tale fase riguardi la stazione appaltante (dovendo essa applicare comunque l’art. 38 d.lgs. 163 del 2006, che richiede il possesso dei requisiti al momento della partecipazione alla gara), ovvero se la disposizione abbia sostanzialmente modificato, per abrogazione tacita derivante da incompatibilità, detto art. 38 e si possa ormai ritenere che la definitività della irregolarità sussista solo al momento di scadenza del termine di quindici giorni da assegnare da parte dell’Ente previdenziale per la regolarizzazione della posizione contributiva”. Con riferimento alla prima questione, la Plenaria ha precisato che la problematica del riparto di giurisdizione si pone nel caso in cui sorgano delle controversie inerenti ad un riscontro negativo in tema di regolarità contributiva in quanto, per un verso, la certificazione prodotta dall’ente previdenziale assume il carattere di dichiarazioni di scienza, assistita da pubblica fede ai sensi dell’art. 2700 c.c. e facente prova fino a querela di falso; per altro verso, tale accertamento si inserisce nell’ambito di una procedura di evidenza pubblica, rispetto alla quale sussiste, ai sensi dell’art. 133 c.p.a., la giurisdizione esclusiva del Giudice Amministrativo. Tuttavia, ritiene il Collegio di dover risolvere la questione nel senso che “rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo, adito per la definizione di una controversia avente ad oggetto l’affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture, l’accertamento inerente alla regolarità del documento unico di regolarità contributiva, quale atto interno della fase procedimentale di verifica dei requisiti di ammissione dichiarati dal partecipante ad una gara. Tale accertamento viene effettuato, nei limiti del giudizio relativo all’affidamento del contratto pubblico, in via incidentale, cioè con accertamento privo di efficacia di giudicato nel rapporto previdenziale”. Infatti, nelle controversie in materia di contratti pubblici, “il DURC viene in rilievo non in via principale, ma in qualità di presupposto di legittimità di un provvedimento amministrativo adottato dalla stazione appaltante”. Peraltro, il Collegio evidenzia che “non è revocabile in dubbio la natura di dichiarazione di scienza attribuibile al DURC, che si colloca fra gli atti di certificazione o di attestazione facenti prova fino a querela di falso, tuttavia, questo elemento non risulta ostativo all’esame, da parte del giudice amministrativo, della regolarità delle risultanze della documentazione prodotta dall’ente previdenziale in un giudizio avente ad oggetto l’affidamento di un contratto pubblico di lavori, servizi o forniture”. Diversamente, il diritto di difesa verrebbe, in effetti, leso se si costringesse il privato a contestare, dinanzi al giudice ordinario, la regolarità del DURC e, successivamente, dopo aver ottenuto l’accertamento dell’errore compiuto dall’ente previdenziale, la illegittimità delle determinazioni della stazione appaltante dinanzi al giudice amministrativo: infatti un iter processuale di tal genere risulterebbe eccessivamente gravoso per il privato ed incompatibile con la celerità che il legislatore ha imposto per il rito degli appalti nel c.p.a. Sul punto, anche le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno avuto modo di chiarire che la giurisdizione, in controversie relative a procedure di affidamento di lavori, servizi o forniture, appartiene al giudice amministrativo quando venga in rilievo la certificazione attestante la regolarità contributiva, sulla cui base l’Amministrazione abbia successivamente adottato un provvedimento, e ciò in quanto “la certificazione relativa alla regolarità contributiva dinanzi al giudice amministrativo viene in rilievo alla stregua di requisito di partecipazione alla gara e, pertanto, il regime relativo alla valutazione circa la sua regolarità non può essere differente da quello previsto per gli altri requisiti”. Per ciò che concerne la seconda questione, il Collegio precisa che esso concerne la corretta interpretazione del requisito della definitività dell’accertamento delle violazioni in materia di contributi previdenziali ed assistenziali, previsto dall’art. 38 comma 1 d.lgs. n. 163 del 2006, come causa di esclusione dalle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti pubblici di lavori, servizi e forniture. In seguito all’entrata in vigore dell’art. 31 comma 8 d.l. n. 69 del 2013 è stata, infatti, introdotta una procedura di flessibilizzazione (c.d. “preavviso di DURC negativo”) che consente all’impresa richiedente il rilascio della certificazione contributiva, di sanare la propria posizione, prima della definitiva certificazione negativa: in virtù di tale procedura, l’ente previdenziale, qualora riscontri delle irregolarità, deve invitare l’operatore richiedente a sanare la propria posizione entro il termine di quindici giorni. L’introduzione, o meglio la “legificazione” del preavviso di DURC negativo, ha posto il problema di individuare esattamente il momento a partire dal quale la violazione della legislazione in materia di contributi previdenziali ed assistenziali, possa ritenersi definitiva, ai fini dell’applicazione dell’art. 38 d.lgs. n. 163 del 2006. Sul punto, il Collegio ritiene che il quesito possa essere risolto rinviando al principio di diritto espresso dalla stessa Adunanza Plenaria nelle sentenze nn. 5 e 6 del 29 febbraio 2016 secondo cui “non sono consentite regolarizzazioni postume della posizione previdenziale, dovendo l’impresa essere in regola con l’assolvimento degli obblighi previdenziali ed assistenziali fin dalla presentazione dell’offerta e conservare tale stato per tutta la durata della procedura di aggiudicazione e del rapporto con la stazione appaltante, restando dunque irrilevante, un eventuale adempimento tardivo dell’obbligazione contributiva”. Ne deriva conseguentemente che “l’istituto dell’invito alla regolarizzazione può operare solo nei rapporti tra impresa ed Ente previdenziale, ossia con riferimento al DURC chiesto dall’impresa e non anche al DURC richiesto dalla stazione appaltante per la verifica della veridicità dell’autodichiarazione resa ai sensi dell’art. 38, comma 1, lettera i) ai fini della partecipazione alla gara d’appalto”. In tal modo – concludono i giudici – è stato chiarito che l’art. 31 d.l. 69 del 2013 non ha operato alcuna modifica della disciplina dettata dall’art. 38 d.lgs. n. 163 del 2006. SS |
Inserito in data 31/05/2016 CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, 24 maggio 2016, n. 9 Non va richiesto il nulla osta per gli atti di programmazione e pianificazione urbanistica L’art. 13 della legge nr. 394 del 1991, in materia di aree naturali protette prevede che: “…1. Il rilascio di concessioni o autorizzazioni relative ad interventi, impianti ed opere all’interno del parco è sottoposto al preventivo nulla osta dell’Ente parco. Il nulla osta verifica la conformità tra le disposizioni del piano e del regolamento e l’intervento ed è reso entro sessanta giorni dalla richiesta. Decorso inutilmente tale termine il nulla osta si intende rilasciato. Il diniego, che è immediatamente impugnabile, è affisso contemporaneamente all’albo del comune interessato e all’albo dell’Ente parco e l’affissione ha la durata di sette giorni. L’Ente parco dà notizia per estratto, con le medesime modalità, dei nulla osta rilasciati e di quelli determinatisi per decorrenza del termine”. Di tenore sostanzialmente analogo, sul piano della legislazione regionale, è l’art. 28 della l.r. nr. 29/1997, che per quanto attiene alla disciplina del nulla osta de quo nella Regione Lazio così recita: “…1. Il rilascio di concessioni od autorizzazioni, relativo ad interventi, impianti ed opere all’interno dell’area naturale protetta, è sottoposto a preventivo nulla osta dall’ente di gestione ai sensi dell’articolo 13, commi 1, 2 e 4 della L.R. n. 394/1991. Ai fini dell’acquisizione del nulla-osta, le amministrazioni interessate convocano apposite conferenze di servizi ai sensi degli articoli 14, 14-bis, 14-ter, 14-quater della L. n. 241/1990 e successive modifiche e dell’articolo 17 della legge regionale 22 ottobre 1993, n. 57 (Norme generali per lo svolgimento del procedimento amministrativo, l’esercizio del diritto di accesso ai documenti amministrativi e la migliore funzionalità dell’attività amministrativa) e successive modifiche”. Pertanto, il dato qualificante dell’istituto in esame è costituito dall’obbligatorietà della sua richiesta ai fini del “rilascio di concessioni o autorizzazioni relative ad interventi, impianti ed opere all’interno del parco”, e quindi allorché debba verificarsi la compatibilità con la tutela dell’area naturale protetta di specifici interventi di modificazione o trasformazione che su di essa possono incidere. Tanto corrisponde alla ratio dell’istituto, che è appunto finalizzato “all’accertamento da parte dell’Ente preposto dell’impatto dell’intervento richiesto sui valori naturali e paesaggistici del parco, e quindi della sua ammissibilità a fronte della prioritaria esigenza di salvaguardia e tutela di tali valori; per questo, il legislatore ha chiaramente costruito il nulla osta come atto destinato a precedere il rilascio di provvedimenti abilitativi “puntuali”, ossia legittimanti un singolo e specifico intervento di trasformazione del territorio”. Ne discende che la previsione del più volte citato art. 13 – così come quelle complementari delle leggi regionali in materia – “non è applicabile agli atti di programmazione e pianificazione urbanistica, quand’anche connotati da contenuti fortemente specifici e puntuali quanto a prefigurazione delle future trasformazioni del territorio, come è nel caso (omissis) del Programma integrato di intervento, giusta la disciplina generale di cui all’art. 16 della legge 17 febbraio 1992, nr. 179 (Norme per l’edilizia residenziale pubblica) e quella regionale di cui alla legge regionale del Lazio 26 giugno 1997, nr. 22 (Norme in materia di programmi integrati di intervento per la riqualificazione urbanistica, edilizia ed ambientale del territorio della Regione)”. Del resto, in passato, il Consiglio di Stato, premesso in linea di diritto che l’oggetto della valutazione propria del nulla osta è costituito, oltreché dall’impatto dell’opera sul contesto ambientale oggetto di tutela, da tutti gli aspetti di protezione del territorio, anche relativi alla disciplina di natura urbanistica ed edilizia recepita dal Piano del parco, ha osservato che “i particolari dell’intervento edificatorio sono apprezzabili nella loro effettiva entità e consistenza solo alla luce del maggior grado di dettaglio e livello di approfondimento connotanti gli elaborati progettuali e plani-volumetrici allegati alla successiva richiesta del permesso di costruire, mentre il parere espresso sul piano attuativo a monte si basa su una valutazione di principio attorno alla compatibilità dell’intervento col contesto vincolato in cui viene a collocarsi, e attorno all’incidenza della sua percezione visiva sulle caratteristiche del sito, resa possibile sulla base degli elaborati di massima da allegare a corredo del piano medesimo” (sez. VI, 7 novembre 2012, nr. 5630). EF
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Inserito in data 30/05/2016 TAR LAZIO - ROMA, SEZ. II TER - 24 maggio 2016, n. 6093 Il riparto di giurisdizione non dipende dalla veste formale degli atti della P.A. La domanda introdotta nel presente giudizio era volta a conseguire l’accertamento circa l’effettivo regime contributivo e previdenziale applicabile al rapporto di servizio del ricorrente, Direttore, per alcuni anni, dell’Agenzia per le Erogazioni in Agricoltura (AG.E.A.). Nella fattispecie, il ricorrente aveva impugnato il provvedimento con il quale era stata disposta, al rapporto tra l’Agenzia ed il Direttore, l’applicazione della disciplina giuridica propria dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa, con conseguenti risvolti negativi in termini retributivi, contributivi e previdenziali. Il Collegio, con la pronuncia in commento, ha preliminarmente dichiarato che la giurisdizione sulla domanda appartiene al giudice ordinario, precisando che il riparto di giurisdizione non dipende dalla veste formale degli atti adottati dall’Amministrazione, quanto piuttosto dall’assetto di interessi sottesi, nel caso di specie, determinati dal CCNL di categoria (per i dirigenti). Ogni questione inerente il regime contributivo applicabile – prosegue il Collegio - è strettamente correlata all’interpretazione del contratto medesimo, “posto che non sussistono, nella specie, profili normativi del rapporto che ne facciano dipendere lo svolgimento da atti autoritativi o da determinazioni discrezionali unilaterali dell’Amministrazione”. Da ciò deriva che ogni determinazione volta ad incidere sul regime previdenziale e contributivo conseguente al contratto non può che dipendere dalla corretta interpretazione di quest’ultimo, in considerazione anche del fatto che l’Ente ha conformato la disciplina del rapporto di servizio con il ricorrente ai contenuti del vigente CCNL di categoria per i dirigenti ed ha sottoscritto il contratto individuale in diretta applicazione di quello. MB
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Inserito in data 28/05/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 23 maggio 2016, n. 2111 Danno per mancata aggiudicazione della gara: onere della prova
Con la sentenza in epigrafe, la IV Sezione del Consiglio di Stato ha respinto le domande formulate dalla società ricorrente, finalizzate ad ottenere l’integrale ottemperanza del provvedimento ovvero, in caso di impossibilità di esecuzione in forma specifica, la condanna al risarcimento del danno per equivalente, incluso il danno curriculare, con imposizione delle astreintes ex art. 114, comma 4, lett. e), c.p.a. per l’ipotesi dell’ulteriore ritardo.
I Giudici di Palazzo Spada hanno preliminarmente ricordato come la struttura dell’illecito extracontrattuale della P.A. non diverga dal modello generale delineato dall’art. 2043 c.c., essendone elementi costitutivi quello soggettivo (dolo o colpa), il nesso di causalità, il danno, l’ingiustizia del danno medesimo.
Hanno poi precisato che, ai fini del risarcimento, non è necessario l'accertamento dell'elemento soggettivo ove, come nella specie, il risarcimento funga da strumento necessariamente sostitutivo della non più possibile tutela in forma specifica.
Tuttavia, con riferimento all’allegazione degli ulteriori presupposti dell’obbligazione risarcitoria, il Collegio – richiamando consolidati principi elaborati da precedente giurisprudenza amministrativa, in tema di determinazione del danno da mancata aggiudicazione di gara d'appalto - ha precisato che ai sensi degli artt. 30, 40 e 124, co. 1, c.p.a., il danneggiato deve dimostrare l'an ed il quantum del danno che assume di aver sofferto.
Quindi, incombe sull’impresa danneggiata l’onere di fornire la prova dell'utile che in concreto avrebbe conseguito, qualora fosse risultata aggiudicataria della gara, “poiché nell'azione di responsabilità per danni, il principio dispositivo opera con pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell'azione di annullamento (ex art. 64, commi 1 e 3, c.p.a.)”, essendo invece la valutazione equitativa, ai sensi dell'art. 1226 cod. civ., ammessa soltanto in presenza di situazione di impossibilità - o di estrema difficoltà - di una precisa prova sull'ammontare del danno.
Oltretutto, la prova in ordine alla quantificazione del danno può essere raggiunta anche mediante presunzioni, essendo sufficiente che dal fatto noto sia desumibile univocamente quello ignoto, alla stregua di un giudizio di probabilità basato sull'«id quod plerumque accidit ».
Infine, anche con riferimento al c.d. danno curriculare, il danneggiato deve offrire una prova puntuale del nocumento che asserisce di aver subito – ovvero il mancato arricchimento del proprio curriculum professionale - quantificandolo in una misura percentuale specifica applicata sulla somme liquidata a titolo di lucro cessante.
Alla luce dei principi richiamati, in mancanza di specifiche allegazioni probatorie, è emersa l’impossibilità, nel caso di specie, di accoglimento delle domande proposte dall’impresa ricorrente, con conseguente inevitabile rigetto del ricorso. MB
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Inserito in data 27/05/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 19 maggio 2016, n. 2106 Soccorso istruttorio e dichiarazioni non veritiere Il Consiglio di Stato, con la sentenza in epigrafe, ha chiarito la portata e i limiti del nuovo soccorso istruttorio introdotto dal d.l. 90/2014 con riferimento al caso in cui una società abbia falsamente dichiarato di non aver commesso un errore grave nell’esercizio della propria attività professionale. In particolare, l’originaria ricorrente ha impugnato la sentenza di primo grado dolendosi del fatto che il soccorso istruttorio non avrebbe potuto essere disposto in costanza di una dichiarazione mendace circa l’assenza di errori gravi commessi dalla capogruppo aggiudicataria a fronte delle plurime risoluzioni subite dalla stessa. Nel caso in esame, infatti, non si sarebbe in presenza di una mera carenza documentale, ma di una dichiarazione falsa: l’originaria controinteressata non avrebbe semplicemente omesso di indicare le risoluzioni subite, ma avrebbe negato di averle subite, ponendo in essere una falsità non superabile col soccorso istruttorio nemmeno dopo la novella del 2014, pertanto, dovrebbe valere il disposto dell’art. 75, d.p.r. 445/2000. Dal canto suo, il Consiglio anticipa che, limitatamente al profilo sopra dedotto, l’odierno gravame risulta fondato in quanto, sebbene la stazione appaltante, a fronte di pregresse risoluzioni contrattuali non dichiarate, è legittimata a chiedere l’integrazione documentale ai sensi dell’art. 38 d.lgs. 163/2006, tale integrazione non può operare in presenza di dichiarazioni non veritiere come quelle effettuate, nel caso di specie, dalla società aggiudicataria la quale, in omaggio a quanto richiesto dalla lex specialis, ha attestato falsamente di non trovarsi in alcuna delle situazioni costituenti cause di esclusione ai sensi dell’art. 38. Tanto premesso, precisa il Collegio che “non è dubbio che la novella portata dall’art. 39, co. 1 del d.l. 90/2014 all’art. 38 ha chiarito la volontà del legislatore di evitare (nella fase del controllo delle dichiarazioni e, quindi, dell’ammissione alla gara delle offerte presentate) esclusioni dalla procedura per mere carenze documentali (ivi compresa anche la mancanza assoluta delle dichiarazioni),tuttavia, questione diversa evidentemente è quella della dichiarazione non veritiera e dell’operatività in un simile contesto di quanto disposto dall’art. 75, d.p.r. 445/2000”. Il Consiglio di Stato, peraltro, richiama l’orientamento espresso dalla stessa Sezione nella sentenza 1412/2016 la quale, proprio in relazione ad analoga condotta della stessa controinteressata, ha affermato, in conformità ai moltissimi precedenti giurisprudenziali, “l’obbligo del partecipante ad una pubblica gara di mettere a conoscenza la stazione appaltante delle vicende pregresse (negligenze ed errori) o di fatti risolutivi occorsi in precedenti rapporti contrattuali con le pubbliche amministrazioni”. In una simile ipotesi, quindi – concludono i giudici – si attiva il disposto dell’art. 75, d.p.r. n. 445/2000, mentre non può operare il soccorso istruttorio dal momento che non è contestata la mancanza o l’incompletezza della dichiarazione, ma l’aver reso dichiarazione “non veritiera”. SS |
Inserito in data 26/05/2016 CORTE COSTITUZIONALE - SENTENZA 20 maggio 2016, n. 108 Rapporti tra leggi e principio dell’affidamento Con la sentenza in esame, la Corte Costituzionale ha, dapprima, precisato i limiti che il legislatore incontra nel dettare disposizioni che incidono sfavorevolmente sulla disciplina dei rapporti di durata e, poi, si è occupata della questione di legittimità costituzionale sollevata su una norma della legge finanziaria del 2013 relativa al trattamento per mansioni superiori nella parte in cui si applica ai contratti di conferimento delle mansioni superiori stipulati antecedentemente alla sua entrata in vigore.
Il Tribunale ordinario di Torino, in funzione di giudice del lavoro, ha, infatti, proposto questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 44 e 45, della legge 228/2012 (Legge di stabilità 2013) in riferimento agli artt. 3 e 117 della Costituzione, quest’ultimo in relazione alla direttiva comunitaria che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.
Il combinato disposto dei commi 44 e 45 dell’art. 1 della legge di stabilità per il 2013 stabilisce che gli “assistenti amministrativi incaricati di svolgere mansioni superiori per l’intero anno scolastico […] per la copertura di posti vacanti o disponibili di direttore dei servizi generali e amministrativi (DSGA)”, “a decorrere dall’anno scolastico 2012-2013” saranno retribuiti “in misura pari alla differenza tra il trattamento previsto per il direttore dei servizi generali amministrativi al livello iniziale della progressione economica e quello complessivamente in godimento dall’assistente amministrativo incaricato”. Quindi, per effetto della nuova disposizione, in luogo del criterio in precedenza adottato dall’art. 52 del d.lgs. 165/2001 (che prendeva a riferimento le retribuzioni tabellari nelle rispettive qualifiche iniziali dell’assistente amministrativo e del DSGA), si deve tenere conto dell’intero trattamento economico complessivamente goduto dall’assistente amministrativo incaricato, da cui consegue che, in ogni caso di rilevante anzianità di servizio (superiore a 21 anni), – come è anche quello della ricorrente nel giudizio a quo, che già aveva maturato 28 anni di anzianità – si produce l’azzeramento del compenso per le mansioni superiori, in quanto il trattamento complessivo in godimento è già pari o superiore a quello previsto come trattamento tabellare per la qualifica iniziale di DSGA. Dal quadro appena delineato, si evince, ad avviso del giudice a quo, la violazione dell’art. 3 Cost. sotto il profilo dell’affidamento in quanto la norma successiva viene ad “azzerare” il compenso pattuito dalla ricorrente con l’amministrazione per lo svolgimento delle mansioni superiori, adempimento che rimane comunque a carico della ricorrente anche in assenza di corrispettivo. Esordisce la Corte affermando che il principio dell’affidamento, benché non espressamente menzionato in Costituzione, trova tutela all’interno di tale precetto tutte le volte in cui la legge ordinaria muti le regole che disciplinano il rapporto tra le parti come consensualmente stipulato; inoltre, è bene in proposito ricordare che, pur non potendosi escludere che il principio per cui il contratto ha forza di legge tra le parti (art. 1372 c.c.) possa subire limitazioni da fonte esterna, e quindi non necessariamente consensuali, non è consentito che la fonte normativa sopravvenuta incida irragionevolmente su un diritto acquisito attraverso un contratto regolarmente stipulato secondo la disciplina al momento vigente. SS |
Inserito in data 25/05/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 19 maggio 2016, n. 2085 Sulla verifica del possesso dei requisiti in capo alla mandataria Nel discostarsi dall’indirizzo giurisprudenziale precedente, che alla corrispondenza richiesta dall’art. 37, comma 13, cod. contratti pubblici (allora vigente) tra quote di partecipazione al raggruppamento e quote di esecuzione del contratto aveva aggiunto quello della corrispondenza anche tra queste quote e i requisiti di qualificazione posseduti da ciascuna impresa facente parte del raggruppamento, l’Adunanza plenaria, nella sentenza 30 gennaio 2014, n. 7, ha affermato che tale regola di elaborazione pretoria non è condivisibile perché: «a) in contrasto con il tenore testuale delle disposizioni del codice dei contratti pubblici (e segnatamente, i commi 4 e 13 dell’articolo 37), che non consentono di avallare una siffatta opzione interpretativa; b) in contrasto con la sistematica del codice (e del regolamento attuativo), che disciplina in maniera completa e nella sede propria il regime della qualificazione delle imprese anche riunite in a.t.i., per i lavori, mentre affida alla legge di gara ogni determinazione in materia per gli appalti di servizi e forniture, salvi i limiti sanciti dagli artt. 41 – 45; c) si rileva, inoltre, che una siffatta opzione (volta a superare e, di fatto, integrare l’espressa previsione di legge – comma 13 dell’articolo 37 – la quale si limita ad imporre il parallelismo fra le quote di partecipazione e quelle esecuzione), determinerebbe in molti casi l’effetto di escludere dalle pubbliche gare raggruppamenti ai cui partecipanti sarebbe ascritto null’altro se non una sorta di eccesso di qualificazione; l'approccio in questione si porrebbe in contrasto con i principi del favor partecipationis e della libertà giuridica di impresa, negando in radice la possibilità per taluni operatori economici (in particolare quelli maggiormente qualificati), di individuare in modo autonomo la configurazione organizzativa ottimale per partecipare alle pubbliche gare». Quindi, dando atto delle modifiche apportate al citato art. 37, comma 13, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135 di conversione del d.l. 6 luglio 2012, n. 95, (“Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario”), con cui l’obbligo di corrispondenza tra quote di partecipazione e quote di esecuzione è stato espressamente limitato ai soli appalti pubblici di lavori, l’Adunanza plenaria ha affermato quanto segue: «per gli appalti di servizi e forniture continua a trovare applicazione unicamente la norma sancita dal comma 4 dell’art. 37, che impone alle imprese raggruppate il più modesto obbligo di indicare le parti del servizio o della fornitura facenti capo a ciascuna di esse, senza pretendere anche l’obbligo della corrispondenza fra quote di partecipazione e quote di esecuzione, fermo restando, però, che ciascuna impresa deve essere qualificata per la parte di prestazioni che si impegna ad eseguire, nel rispetto delle speciali prescrizioni e modalità contenute nella legge di gara». La successiva pronuncia dell’Adunanza Plenaria 28 aprile 2014, n. 27 ha quindi ribadito che “negli appalti pubblici di servizi le imprese raggruppate hanno l’obbligo di indicare le parti del servizio o della fornitura facenti capo a ciascuna di esse, senza che debba esservi la corrispondenza fra quote di partecipazione e quote di esecuzione (obbligo poi integralmente abrogato ad opera del d.l. n. 28 marzo 2014, n. 47 - “Misure urgenti per l'emergenza abitativa, per il mercato delle costruzioni e per Expo 2015”, conv. con legge 23 maggio 2014, n. 80). Nella pronuncia di nomofilachia in esame si è quindi precisato che ciascuna impresa del raggruppamento deve nondimeno essere qualificata per la parte di prestazioni che si impegna ad eseguire, nel rispetto delle speciali prescrizioni e modalità contenute nella normativa di gara” (in termini, da ultimo: Sez. V, 25 febbraio 2016, n. 786). Pertanto, “per i raggruppamenti temporanei di impresa ciò cui occorre invece avere riguardo è se ciascun componente abbia o meno i requisiti necessari per eseguire le parti del contratto che ha dichiarato di assumere, in modo da fare acquisire all’amministrazione aggiudicatrice già in sede di gara la piena cognizione del soggetto che eseguirà le singole prestazioni del contratto medesimo e che se ne assumerà pertanto le conseguenti responsabilità, oltre che al fine di consentire alla stessa amministrazione di effettuare una compiuta verifica circa l’effettivo possesso dei requisiti dichiarati” (in questo senso: Sez. V, 25 febbraio 2016, n. 773). Invero, nella sopra citata sentenza 30 gennaio 2014, n. 7, “l’Adunanza plenaria ha tra l’altro ricordato che il parallelismo fra le quote di partecipazione e quelle di esecuzione avrebbe effetti restrittivi della concorrenza, determinando la possibile esclusione dalle procedure di affidamento di raggruppamenti ai cui partecipanti «sarebbe ascritto null’altro se non una sorta di eccesso di qualificazione». Sennonché, “al fine di evitare restrizioni della concorrenza, impedendo ad imprese meno qualificate, ma comunque in misura sufficiente alla quota di esecuzione assunta a proprio carico, di assumere la qualità di mandatari di raggruppamenti temporanei a loro volta qualificati nel loro complesso, la costante giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha offerto una lettura diversa delle citate disposizioni. In particolare, si è ripetutamente affermato al riguardo che il possesso dei requisiti di qualificazione in misura maggioritaria in capo alla mandataria va verificato in base alle quote di partecipazione di ciascuna impresa al raggruppamento e di esecuzione del contratto, e dunque a prescindere dai valori assoluti di classifica di ognuna delle altre” (Sez. III, 24 settembre 2013, n. 4711; Sez. V, 8 settembre 2012, n. 5120). Pertanto, il Collegio dà continuità all’indirizzo giurisprudenziale richiamato, per le condivisibili motivazioni pro-concorrenziali su cui esso si fonda, e che trovano a posteriori piena conferma nell’attuale formulazione del citato art. 92, comma 2, d.p.r. 207 del 2010, come risultante dalle modifiche introdotte con il parimenti citato decreto legge n. 47 del 2014 (il quale prevede ora quanto segue: «i requisiti di qualificazione economico-finanziari e tecnico-organizzativi richiesti nel bando di gara per l’impresa singola devono essere posseduti dalla mandataria o da un’impresa consorziata nella misura minima del 40 per cento e la restante percentuale cumulativamente dalle mandanti o dalle altre imprese consorziate ciascuna nella misura minima del 10 per cento. Le quote di partecipazione al raggruppamento o consorzio, indicate in sede di offerta, possono essere liberamente stabilite entro i limiti consentiti dai requisiti di qualificazione posseduti dall’associato o dal consorziato. Nell’ambito dei propri requisiti posseduti, la mandataria in ogni caso assume, in sede di offerta, i requisiti in misura percentuale superiore rispetto a ciascuna delle mandanti con riferimento alla specifica gara»). EF
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Inserito in data 24/05/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 19 maggio 2016, n. 2090 Sui presupposti e le condizioni per l’emanazione di ordinanze contingibili ed urgenti La questione posta al vaglio del Consiglio di Stato riguarda l’individuazione dei confini dell’articolo 54, comma 5, del TUEL secondo cui “il sindaco, quale ufficiale del Governo, adotta con atto motivato provvedimenti, [anche] contingibili e urgenti nel rispetto dei princìpi generali dell'ordinamento, al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l'incolumità pubblica e la sicurezza urbana (…)”. A tal proposito, la “giurisprudenza di questo Consiglio ha solitamente interpretato in modo piuttosto restrittivo i presupposti e le condizioni che legittimano l’esercizio del richiamato potere di ordinanza, avente carattere sostanzialmente extra ordinem”. E’ stato affermato al riguardo che “il richiamato potere può essere attivato solamente quando si tratti di affrontare situazioni di carattere eccezionale e impreviste, costituenti concreta minaccia per la pubblica incolumità, per le quali sia impossibile utilizzare i normali mezzi apprestati dall'ordinamento giuridico: tali requisiti non ricorrono di conseguenza, quando le pubbliche amministrazioni possono adottare i rimedi di carattere ordinario” (in tal senso: Cons. Stato, VI, 13 giugno 2012, n. 3490). E’ stato, altresì, chiarito che “il carattere eccezionale del richiamato potere comporta che il suo esercizio resti relegato alle sole ipotesi in cui risulta impossibile utilizzare i normali mezzi apprestati dall'ordinamento giuridico: si tratta di un’ipotesi che non ricorre , di conseguenza, quando le pubbliche amministrazioni possono fronteggiare le medesime situazioni adottando i rimedi di carattere ordinario” (in tal senso: Cons. Stato, V, 20 febbraio 2012, n. 904). Alla luce di quanto suddetto, è onere del Comune dimostrare il ricorrere dei presupposti che legittimano il ricorso al potere di ordinanza di cui al comma 4 dell’articolo 54 del TUEL. EF
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Inserito in data 23/05/2016 TAR LOMBARDIA - BRESCIA, SEZ. II - 17 maggio 2016, n. 691 Affidamento in house e relazione tecnica
La fattispecie in esame trae origine dall’impugnazione proposta da una società a capitale misto pubblico-privato che gestisce i servizi di igiene ambientale avverso la deliberazione consiliare recante l’affidamento in house del servizio alla controinteressata, per la presunta violazione dell’art. 34 co. 20 del D.L. 179/2012, conv. in L. 221/2012, dell’art. 3-bis co. 1-bis del D.L. 138/2011 conv. in L. 148/2011 e modificato con L. 190/2014.
Preliminarmente, il Collegio vagliava l’eccezione, sollevata dalla controinteressata resistente, della presunta carenza di interesse della ricorrente all’impugnazione del provvedimento consiliare, tenuto conto che l’ente comunale non detiene partecipazioni presso la stessa.
In ordine all’esposto profilo, i giudici bresciani precisavano che, pur avendo l’amministrazione escluso l’opzione per il metodo della gara ad evidenza pubblica - mostrando di prediligere l’in house providing – ciò, in ogni caso, non preclude l’insorgere, in capo alla ricorrente, di un interesse strumentale a rimettere in discussione la vicenda.
Detta conclusione risultava altresì confermata da recente giurisprudenza amministrativa che, sul punto, aveva precisato che “anche ammettendo che la società non possieda i requisiti per un affidamento diretto, va comunque riconosciuto che essa, quale operatore del settore, ha interesse a che il servizio sia affidato mediante procedura di evidenza pubblica, in luogo dell'affidamento diretto alla controinteressata. Essa è, cioè, portatrice di un interesse strumentale qualificato e differenziato, a contestare davanti a questo Giudice una scelta che prescinde dallo svolgimento di una pubblica gara nella quale potrebbe far valere le proprie chances competitive”.
Venendo al merito della questione, il Collegio riteneva infondata la censura afferente una presunta violazione, da parte dell’Ente comunale, dell’art. 34 co. 20 del D.L. 179/2012 e succ. mod..
In particolare, premetteva che il modello in house costituisce un modo di gestione ordinario dei servizi pubblici locali, alternativo rispetto all’affidamento mediante selezione pubblica, non invece un’eccezione alla regola.
Come recentemente anche affermato dalla giurisprudenza comunitaria, un'autorità pubblica può adempiere ai compiti di interesse pubblico ad essa incombenti mediante propri strumenti senza essere obbligata a far ricorso ad entità esterne non appartenenti ai propri servizi e può farlo altresì in collaborazione con altre autorità pubbliche, essendo venuto meno il principio della eccezionalità del modello in house per la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica”.
Proseguiva il TAR bresciano, precisando come “l'ordinamento non predilige né l' in house, né la piena espansione della concorrenza nel mercato e per il mercato e neppure il partenariato pubblico-privato, ma rimette la scelta concreta al singolo Ente affidante … In definitiva, i servizi pubblici locali di rilevanza economica possono essere gestiti indifferentemente mediante il mercato (ossia individuando, all'esito di una gara ad evidenza pubblica, il soggetto affidatario) ovvero attraverso il c.d. partenariato pubblico-privato (ossia per mezzo di una Società mista e quindi con una "gara a doppio oggetto" per la scelta del socio e per la gestione del servizio), ovvero attraverso l'affidamento diretto, in house ».
La stessa Sezione, di recente, aveva affermato la piena discrezionalità della scelta, espressa da un ente locale nel senso di rendere un dato servizio con una certa modalità organizzativa piuttosto che un'altra, sindacabile nella presente sede giurisdizionale nei soli casi di illogicità manifesta ovvero di altrettanto manifesto travisamento dei fatti.
In particolare – precisava il Collegio - la relazione tecnica che supporta la scelta comunale di operare mediante affidamento in house è finalizzata a rendere trasparenti e conoscibili agli interessati tanto le operazioni di riscontro delle caratteristiche che fanno dell'affidataria una società in house, quanto il processo d’individuazione del modello più efficiente ed economico alla luce di una valutazione comparativa di tutti gli interessi pubblici e privati coinvolti.
Nella fattispecie, la scelta dell’Amministrazione di affidare “in house” il servizio risultava giustificata da una dettagliata ed esaustiva relazione, dalla quale apparivano chiaramente evincibili le ragioni di convenienza economica di tale modalità di affidamento, con la conseguenza che risultavano pienamente riscontrabili i requisiti individuati dalla giurisprudenza comunitaria e nazionale affinché possa legittimamente disporsi l’affidamento in house del servizio. MB
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Inserito in data 20/05/2016 TAR LAZIO - ROMA, SEZ. III QUATER, 17 maggio 2016, n. 5859 Testimonial per pubblicizzare dispositivi medici
Nella pronuncia in epigrafe, il T.A.R. capitolino è intervenuto in ordine all’interpretazione dell’art. 117, lett. f) del d.lgs. n°219/2006, a tenore del quale la pubblicità presso il pubblico di un dispositivo medico non può contenere alcun elemento che “comprende una raccomandazione di scienziati, di operatori sanitari o di persone largamente note al pubblico”.
Nella fattispecie portata all’attenzione dei giudici romani, la casa farmaceutica ricorrente aveva impugnato la determinazione con la quale il Ministero della Salute aveva espresso il diniego avverso l’utilizzo, nella campagna pubblicitaria di un prodotto farmaceutico, dell’immagine di un famoso nuotatore come testimonial.
In particolare, il Ministero, impropriamente richiamando una precedente pronuncia del T.A.R. Lazio (n° 219/2006), aveva motivato il proprio diniego, rappresentando che la raccomandazione di una persona largamente nota al pubblico presupponga “un ruolo attivo del suddetto personaggio, concretizzantesi in una funzione di accreditamento del prodotto e nel conseguente invito ad acquistarlo che va oltre la mera presenza fisica”.
Tuttavia - hanno rilevato i giudici amministrativi con la pronuncia in esame – la motivazione addotta a base del provvedimento non sembrerebbe confacente ai contenuti pubblicitari preclusi dal citato art. 117 del d.lgs. n. 219/2006, che, nel vietare un messaggio pubblicitario contenente la raccomandazione di una persona largamente nota al pubblico, “presuppone un ruolo attivo del suddetto personaggio”, in grado di rappresentare causa di incitamento al consumo del prodotto sanitario.
Oltretutto – ha ulteriormente precisato il T.A.R. – detto ruolo non può ritenersi affatto individuato “nella mera presenza del personaggio famoso nel messaggio pubblicitario, in assenza di alcuna manifestazione di preferenza, sia pure implicita, da parte del suddetto personaggio per l'utilizzo del dispositivo medico”.
Atteso che, nel caso di specie, l’immagine del testimonial prescelto non costituirebbe manifestazione, sia pure implicita, per l’utilizzo del dispositivo medico, i giudici romani hanno ritenuto di accogliere il ricorso. MB
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Inserito in data 19/05/2016 TAR CAMPANIA - SALERNO, SEZ. II - 16 maggio 2016, n. 1229 Interventi abusivi in zone sottoposte a vincolo paesaggistico In questa importante pronuncia i giudici del Tar Salerno hanno preso posizione sulla dibattuta questione concernente la natura della norma di cui all’art. 146, comma 10 lett. c) d.lgs. 42/2004 che vieta l’autorizzazione in sanatoria dopo la realizzazione, anche parziale, di intervento edilizio abusivo in zona sottoposta a vincolo paesaggistico. In particolare, con un unico motivo di ricorso, il ricorrente deduceva la inapplicabilità, alla fattispecie in esame, del divieto di cui all’art. 146 comma 10 lett. c) atteso che l’art. 146 (nel testo originario prima delle modifiche introdotte nel 2006) costituirebbe norma a regime, non applicabile nel periodo transitorio. Il Tar afferma sul punto che non ignora l’esistenza di un orientamento giurisprudenziale secondo cui l’art. 159 dello stesso d.lgs. 42/2004 subordinerebbe l’entrata in vigore della disciplina dettata dall’art. 146 all’approvazione dei piani paesistici ai sensi dell’art. 156 e al conseguente adeguamento degli strumenti urbanistici, “prevedendo l'applicazione della più rigorosa disciplina soltanto a seguito della costruzione di un quadro certo”, tuttavia, ritiene preferibile una diversa interpretazione delle disposizioni normative indicate. Al riguardo, infatti, i giudici sostengono la tesi dell’immediata applicazione dell’art. 146 alla luce della natura meramente procedurale della disciplina transitoria non idonea a spiegare alcuna interferenza sui profili sostanziali e sulla connotazione dell’autorizzazione quale provvedimento necessariamente anteriore alla realizzazione dell’opera. Lo stesso art. 159, del resto – afferma conclusivamente il Collegio – nel ribadire la preclusione all’avvio dei lavori in difetto di autorizzazione paesaggistica, sostanzialmente finisce col confermare il divieto di autorizzazioni paesaggistiche in sanatoria, cosicché apparirebbe del tutto contraddittoria una opzione ermeneutica che, postergando l’operatività del divieto al termine della fase transitoria, finirebbe per tradire la ragione giustificatrice propria dell’introduzione del divieto. SS |
Inserito in data 18/05/2016 TAR SICILIA - PALERMO, SEZ. II - 17 maggio 2016, n. 1211 Commissione gara d’appalto e contraddittorio Il Tar Palermo, nella sentenza in esame, si è pronunciato sulla composizione della commissione di gara d’appalto in caso di riconvocazione della stessa per rinnovazione del procedimento a seguito dell’annullamento dell’esclusione di un raggruppamento temporaneo di imprese concorrente. In particolare, l’RTI ricorrente chiedeva l’annullamento del provvedimento con il quale era stata disposta la sua esclusione dalla gara in quanto esso era stato emesso in violazione dell’art. 84, comma 4 e 12 d.lgs. 163/2006 nella parte in cui dispone che “in caso di rinnovo del procedimento di gara a seguito di annullamento dell’aggiudicazione o annullamento dell’esclusione di taluno dei concorrenti, è riconvocata la medesima commissione” e che “i commissari diversi dal Presidente non devono aver svolto né possono svolgere alcun’altra funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente al contratto del cui affidamento si tratta”. Inoltre, ad avviso del ricorrente, il provvedimento era stato emesso in assenza di contraddittorio e, per tale motivo, in violazione dell’art. 88, comma 4 nella parte in cui impone alla stazione appaltante, prima di escludere l’offerta, di “convocare l’offerente con un anticipo non inferiore a tre giorni lavorativi e di invitarlo ad indicare ogni elemento che ritenga utile”. Afferma il Tar che il ricorso non è meritevole di accoglimento: in relazione al primo profilo, infatti, la regola dettata dall’art. 84, comma 12 d.lgs. 163/2006 trova un naturale limite nello scioglimento del rapporto di lavoro tra l’Amministrazione ed uno o più componenti della commissione, verificatosi il quale deve procedersi alla relativa sostituzione, ferma restando la determinazione dell’Amministrazione di continuare il rapporto con il medesimo soggetto ove eventualmente previsto e consentito dalla disciplina di settore e dalle norme di finanza pubblica. Così, nel caso di specie, lo scioglimento del rapporto di lavoro che intercorreva tra l’Amministrazione ed uno dei due componenti diversi dal Presidente imponeva la sostituzione dello stesso nella commissione di gara, considerato che lo svolgimento di tali funzioni costituiva esercizio degli obblighi contrattuali che lo legavano all’Amministrazione. Allo stesso modo, l’attribuzione al secondo componente (diverso dal Presidente) di funzioni in via esclusiva alle dipendenze dell’Assessore regionale non rendeva ammissibile la prosecuzione dell’incarico di commissario in quanto incompatibile. Sul piano dell’asserita assenza di contraddittorio – continuano i giudici del Tar Palermo – la condotta dell’Amministrazione va giudicata conforme allo schema legale di cui all’art. 88, comma 4 d.lgs. 163/2006: sul punto, infatti, deve essere ricordato che, nel caso di specie, la caducazione in sede giurisdizionale dell’esclusione già disposta dall’Amministrazione è originariamente avvenuta, con la sentenza di questo Tribunale, in accoglimento della censura per vizio di incompetenza, e che tale vizio è stato successivamente ritenuto insussistente dal Giudice d’appello il quale ha, tuttavia, ritenuto sussistente la violazione dell’art. 88, comma 4 nella parte in cui la disposizione prevede che «prima di escludere l’offerta, ritenuta eccessivamente bassa, la stazione appaltante convochi l'offerente e lo inviti a indicare ogni elemento che ritenga utile». Ciò precisato, ritiene il Tar che il provvedimento di esclusione così come rinnovato e qui impugnato si mostra in linea con lo schema procedimentale tracciato dal predetto art. 88, comma 4, considerato che l’Amministrazione ha consentito al RTI ricorrente di interloquire in relazione alle questioni prospettate, né possono trovare ingresso censure involgenti l’eventuale omissione dei passaggi procedimentali richiamati nei commi precedenti della stessa disposizione, considerato che la pronuncia del Giudice d’appello non ha rimosso le prodromiche (all’esclusione) precedenti valutazioni della commissione, pur originariamente caducate per vizio di incompetenza, e la commissione era obbligata a porre in essere unicamente il segmento procedimentale di cui al medesimo comma 4. SS
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Inserito in data 17/05/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 5 maggio 2016, n. 1808 Responsabilità della P.A. per culpa in eligendo ed in vigilando e giurisdizione del G.O.
Con la pronuncia in esame, i Giudici di Palazzo Spada affermano che nell’ipotesi della culpa in eligendo o in vigilando, “la responsabilità attribuita all’amministrazione non discende dalla illegittimità dell’atto adottato, ma attiene al più generale comportamento del funzionario (legato da rapporto di servizio o di ufficio), il cui comportamento illecito eventualmente causativo di danno a privati, pur svoltosi in cesura di rapporto organico (proprio perché penalmente illecito), avrebbe tuttavia potuto essere evitato attraverso un diligente esercizio del potere di scelta (recte: di preposizione organica), ovvero di vigilanza sull’operato del medesimo funzionario”.
Infatti, tali forme di responsabilità si riferiscono “entrambe ad un vizio afferente al corretto rapporto tra persona giuridica pubblica e soggetto che per essa agisce, stante il rapporto organico, e dell’agire del quale l’amministrazione è chiamata a rispondere non già perché responsabile delle conseguenze lesive dell’atto adottato, non essendo ad essa imputabili eventuali effetti derivanti dall’attività o comportamento penalmente illecito, stante l’intervenuta cesura del rapporto organico (il che, ove al contrario fosse, comporterebbe una responsabilità risarcitoria in solido con l’autore del fatto-reato), quanto una responsabilità distinta, fondata su elementi diversi: non già sull’azione o omissione illecita causativa di danno, quanto su un (distinto) comportamento cui si sarebbe stati tenuti e che, in difetto, determina una (distinta) responsabilità”. La responsabilità, dunque, “non discende dall’atto amministrativo adottato, ma da un suo più generale comportamento negligente, dal quale si afferma essere derivato un danno al privato”. In conclusione, deve ritenersi che “tale affermazione di responsabilità consegue alla individuazione di un danno che, lungi dal discendere come conseguenza diretta da un provvedimento amministrativo lesivo di interessi legittimi (o dalla mancata o ritardata adozione di tale atto), con ciò radicando la giurisdizione del giudice amministrativo (Cass., sez. un., 22 gennaio 2015 n. 1162), discende invece dall’accertamento di un generale comportamento negligente e/o omissivo della pubblica amministrazione in sede di controllo sugli organi, lesivo del principio del neminem ledere, e del tutto prescindente dall’esercizio di un potere amministrativo ovvero dal mancato esercizio di un potere amministrativo obbligatorio (ex art. 30, co. 2) concretizzantesi (o meno) in una adozione di provvedimento amministrativo illegittimo”. EF |
Inserito in data 16/05/2016 CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 10 maggio 2016, n. 9449 Responsabilità per danni da infiltrazioni provenienti da lastrico solare Con la pronuncia in epigrafe, le Sezioni Unite sono intervenute in tema di riparto della responsabilità dei danni provocati da infiltrazioni provenienti dal lastrico solare (avente funzione di copertura di un edificio), attribuito in uso esclusivo ad uno dei condomini. Sulla medesima questione si erano già pronunciate, con la sentenza n. 2672 del 1997, le stesse Sezioni Unite, affermando che “poiché il lastrico solare dell’edificio svolge la funzione di copertura del fabbricato, anche se appartiene in proprietà superficiaria o se è attribuito in uso esclusivo ad uno dei condomini, all’obbligo di provvedere alla sua riparazione sono tenuti tutti i condomini, in concorso con il proprietario superficiario o con il titolare del diritto d’uso esclusivo”. Gli Ermellini, nella citata sentenza, concludevano precisando che “dei danni cagionati all’appartamento sottostante, per le infiltrazioni provenienti dal lastrico, deteriorato per difetto di manutenzione, rispondono tutti gli obbligati inadempienti alla funzione di conservazione, secondo le proporzioni stabilite dall’art. 1126 c.c., vale a dire i condomini in proporzione dei due terzi ed il titolare della proprietà superficiaria o dell’uso esclusivo, nella misura del terzo residuo”. In particolare, nella richiamata pronuncia, le Sezioni Unite avevano ritenuto che la responsabilità per danni dovesse ricollegarsi, piuttosto che al precetto di cui all’art. 2051 c.c. – e quindi al generale principio del neminem laedere – direttamente alla titolarità del diritto reale e, sulla scorta di tale interpretazione, avevano scomodato il concetto di obbligazione propter rem. La giurisprudenza più recente – come opportunamente osservato dalla Corte rimettente – non si è conformata al principio espresso nella sentenza 2672/1997, diversamente riconducendo la questione all’ambito di applicazione dell’art. 2051 c.c. In particolare si è ritenuto che il condominio di un edificio, quale custode dei beni e servizi comuni, risponda, in base al disposto dell’art. 2051 c.c., dei danni cagionati alla porzione di proprietà esclusiva di uno dei condomini. Sul solco interpretativo tracciato dalla più recente giurisprudenza, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la pronuncia in epigrafe, hanno affermato che: “è innegabile che chi ha l’uso esclusivo del lastrico solare si trovi in rapporto alla copertura dell’edificio condominiale in una posizione del tutto specifica (..) con il conseguente insorgere a suo carico, di una responsabilità ex art. 2051 c.c. (..). Il che implica la chiara natura extracontrattuale della responsabilità da porre in capo al titolare dell’uso esclusivo del lastrico e, per la natura comune del bene, dello stesso condominio”. In tal senso – proseguono le S.U. – “deve escludersi la natura obbligatoria, sia pure della specifica qualificazione di obbligazione propter rem, del danno cagionato dalle infiltrazioni provenienti dal lastrico solare e deve affermarsi la riconducibilità della detta responsabilità nell’ambito dell’illecito aquiliano”. Risultano, pertanto, chiare le diverse posizioni del titolare dell’uso esclusivo – tenuto agli obblighi di custodia ex art. 2051 c.c., poiché in rapporto diretto con il bene potenzialmente dannoso non sottoposto alla necessaria manutenzione – e del condominio – tenuto, ex artt. 1130, 1° co., n. 4, e 1135, 1°co., n.4, c.c. a compiere gli atti conservativi e le opere di manutenzione straordinaria relativi alle parti comuni dell’edificio.
Quindi, le S.U., con un ripensamento rispetto all’orientamento in precedenza espresso, hanno affermato il seguente principio di diritto: “in tema di condominio negli edifici, allorquando l’uso esclusivo del lastrico solare non sia comune a tutti i condomini, dei danni che derivino da infiltrazioni nell’appartamento sottostante rispondono sia il proprietario o l’usuario esclusivo del lastrico solare, in quanto custode del bene ai sensi dell’art. 2051 c.c., sia il condominio, in quanto la funzione di copertura dell’intero edificio, o di parte di esso, ancorché di proprietà esclusiva o in uso esclusivo, impone all’amministratore l’adozione dei controlli necessari alla conservazione delle parti comuni e all’assemblea dei condomini di provvedere alle opere di manutenzione straordinaria. Il concorso di responsabilità, salva la rigorosa prova contraria della riferibilità del danno all’uno o all’altro, va di regola stabilito secondo il criterio di imputazione previsto dall’art. 1126 c.c., il quale pone le spese di riparazione per un terzo a carico del proprietario o dell’usuario esclusivo del lastrico e per i restanti due terzi a carico del condominio”. MB
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Inserito in data 16/05/2016 TAR CAMPANIA - SALERNO, SEZ. I, 13 maggio 2016, n. 1169 Lista elettorale: moduli spillati
La vicenda de qua trae origine dall’impugnazione del provvedimento con il quale la Sottocommissione Elettorale Circondariale aveva comunicato l’esclusione della lista dalla competizione elettorale.
In sostanza – secondo la prospettazione contenuta nell’impugnato provvedimento - i prospetti contenenti le firme dei sottoscrittori di lista risultavano formalmente distinti (“incoerenti”), sia rispetto all’atto principale, considerato privo di ogni valida sottoscrizione, sia rispetto agli atti separati, semplicemente “spillati” gli uni agli altri, senza l’apposizione di alcun timbro o di altra forma di congiunzione tra gli stessi. Ed invero, ai sensi dell’art. 28, co. 2, e dell’art. 32, co. 3, del T. U. 570/1960: “i sottoscrittori debbono essere elettori iscritti nelle liste del comune e la loro firma deve essere apposta su appositi moduli recanti il contrassegno della lista, il nome, cognome, data e luogo di nascita di tutti i candidati, nonché il nome, cognome, data e luogo di nascita dei sottoscrittori stessi; le firme devono essere autenticate da uno dei soggetti di cui all’art. 14 della legge 21 marzo 1990, n. 53”. Il Collegio campano evidenzia come la finalità cui è rivolta la richiamata disposizione legislativa consiste nel fatto che “non deve sussistere alcuna incertezza sul fatto che le sottoscrizioni dei presentatori di lista siano volte a sostenere proprio una determinata lista”. Quindi, secondo una prospettiva “sostanzialistica”, il Collegio ha ritenuto che vada seguito, nella specie, l’indirizzo giurisprudenziale efficacemente compendiato nella massima infra riportata: “le norme di cui agli artt. 28, 32 e 33, d. P. R. 16 maggio 1960 n. 570, che disciplinano la raccolta delle firme per la presentazione delle liste elettorali, non contengono prescrizioni dettagliate quanto alle modalità da seguire e, soprattutto, alle conseguenze sul piano sanzionatorio di eventuali irregolarità, non potendosi pertanto inquadrare i relativi adempimenti formali nella categoria giuridica delle c.d. “forme sostanziali” e dovendosi piuttosto fare applicazione del principio di “strumentalità delle forme” nel procedimento elettorale”. Quindi - ha osservato il Collegio - il principio è finalizzato ad assicurare che i sottoscrittori abbiano piena consapevolezza della lista che si accingono a presentare e della sua effettiva composizione; purtuttavia tale scopo deve ritenersi similmente raggiunto anche qualora, pur in assenza della materiale incorporazione del contrassegno, in modo stabile ed indissolubile, nel documento di presentazione, sia nondimeno acclarata la piena consapevolezza dei firmatari in merito alla riferibilità della sottoscrizione ad una determinata lista con una specifica composizione. Nel fattispecie, detta finalità risulta assicurata dalla convergenza di una serie di elementi che, unitamente letti, acclarano la piena consapevolezza dei firmatari circa la riferibilità delle loro sottoscrizioni a sostegno della lista prescelta. MB |
Inserito in data 13/05/2016 CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 6 maggio 2016, n. 9142 Legge Pinto e verifica del nesso tra cognizione ed esecuzione nella fattispecie concreta La questione posta al vaglio delle Sezioni Unite attiene alla “compatibilità tra la struttura del procedimento ”Pinto” (nella formulazione anteriore alla novella introdotto con il decreto legge n. 83/2012, convertito nella legge n. 134/2012) con i principi di derivazione convenzionale –CEDU- in merito alla qualificazione funzionale della nozione di “decisione definitiva”: in particolare costituisce oggetto di scrutinio il verificare se la disciplina statuale che prevede un termine di decadenza semestrale dalla definitività del giudizio debba in generale riferirsi all’esito del procedimento complesso (accertamento + esecuzione) o se, posto tale principio, possa però assumere rilievo anche la condotta non attiva della parte, tenuta dopo l’irretrattabilità della fase di cognizione e prima della fase di esecuzione; se, in altri termini, la dislocazione temporale del dies ad quem della definitività del giudizio come sopra indicato non trovi un limite nel maturarsi, tra una “fase” e l’altra, del termine semestrale previsto dall’art. 4 della originaria formulazione della legge 89 del 2001”. A tal uopo, il Supremo Consesso ha ritenuto che “a seconda della condotta delle parti, il procedimento presupposto può essere considerato unitariamente o separabile in “fasi”: se la parte lascia decorrere un termine rilevante – che va commisurato in quello di sei mesi, previsto dall’art. 4 della legge n. 89 del 2001- dal momento oltre il quale un procedimento diventa irrevocabile per il diritto interno, la stessa non può poi far valere la ingiustificata (durata) anche di quel procedimento; se invece detta parte si attiva prima dello spirare di quel termine, al fine di procedere all’esecuzione, allora non si forma la sopra indicata soluzione di continuità nel procedimento finalisticamente considerato come un unicum e dunque può procedersi alla valutazione unitaria dello stesso ai fini della delibazione della sua complessiva ingiustificata durata (per un’applicazione di tale approccio interpretativo, sia pure nella prospettiva di un rimedio straordinario di impugnazione, quale la revocazione nell’ambito del giudizio pensionistico innanzi alla Corte di Conti, vedi Cass., Sez. V-2 n. 25179/2015): in tale ipotesi dunque deve ritenersi che riprenda vigore la decadenza prevista dall’art. 4 della legge, con la conseguenza della perdita del diritto di far valere l’eventuale durata non ragionevole del procedimento di cognizione: detta preclusione, va aggiunto, non presuppone una presunzione di disinteresse a far valere l’indebita durata del processo di cognizione, atteso che il meccanismo sanzionatorio previsto dall’art. 4 della legge n. 89/2001 è posto a tutela dell’interesse allo stabilizzarsi delle situazioni giuridiche, le volte in cui esse possano essere in sé suscettibili di valutazione a fini indennitari”. Alla luce di quanto suddetto, deve ritenersi che “l’art. 4 della legge n. 89 del 2001, nella formulazione anteriore alla modifica del 2012, allorquando stabilisce la decadenza dal diritto all’indennizzo per inosservanza del termine ultrasemestrale, presuppone una valutazione normativa di come si articola il nesso tra cognizione ed esecuzione nella concreta fattispecie, esaminandolo nella prospettiva dell’azione e non già del diritto: prospettiva del tutto legittima, le volte in cui con essa non si creino degli irragionevoli ostacoli alla realizzazione del secondo; un diverso approccio interpretativo – che impedisse ogni valutazione della condotta delle parti tenuta tra la irrevocabilità del procedimento di cognizione e quello di esecuzione, oltre a portare le premesse di una irragionevole eliminazione dall’ordinamento nazionale di un meccanismo acceleratorio della definizione del contenzioso “Pinto” – meccanismo non sconosciuto alla CEDU, come dimostra la lettura dell’art. 41 della Convenzione- porrebbe le basi per un uso abusivo del diritto, … (omissis), le volte in cui il periodo tra la fase di cognizione e quella di esecuzione fosse maggiore di sei mesi, tenuto anche conto della possibilità di far valere la lesione del diritto ad una celere realizzazione della propria posizione soggettiva entro il termine decennale del giudicato”. EF
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Inserito in data 12/05/2016 CORTE COSTITUZIONALE - ORDINANZA 6 maggio 2016, n. 100 Ancora sull’acquisizione sanante: manifesta inammissibilità della q.l.c. sollevata La Corte Costituzionale, con l’ordinanza in questione, torna a pronunciarsi sull’art. 42-bis del D.P.R. 327/2001 in materia di cd. acquisizione sanante dichiarando questa volta la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tar Lazio. Il Tar rimettente, in particolare, censurava la disposizione impugnata per violazione degli artt. 3, 24, 42, 97 e 117 Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 della CEDU, in quanto, in primo luogo, essa riserverebbe un trattamento privilegiato alla p.a. che abbia commesso un fatto illecito, con l’attribuzione della facoltà di mutare il titolo e l’ambito della responsabilità, nonché il tipo di sanzione (da risarcimento in indennizzo) stabiliti in via generale dal precetto del neminem laedere; in secondo luogo, essa eluderebbe il fondamentale presupposto per procedere al trasferimento coattivo di un immobile mediante espropriazione, ossia la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera; in terzo luogo, essa sarebbe un’ipotesi di trasferimento della proprietà del bene dal privato alla pubblica amministrazione in virtù della constatazione della situazione di illegalità o illiceità commessa dalla stessa amministrazione, ipotesi più volte ritenuta dalla Corte EDU in contrasto con la CEDU. Afferma la Corte che identiche questioni a quella prospettata dal giudice a quo sono state oggetto di un’altra pronuncia della stessa Corte (sentenza n. 71 del 2015) in cui quest’ultima ne ha dichiarato l’infondatezza. Stavolta il giudizio si ferma prima in quanto i Giudici della Legge ritengono che l’ordinanza di rimessione esibisca un evidente difetto di rilevanza, non essendo stato emanato, nel giudizio a quo, alcun provvedimento di acquisizione ex art. 42-bis del T.U. sulle espropriazioni. Infatti – continua la Corte – il TAR rimettente ha affermato che dovrebbe limitarsi a ordinare alla resistente pubblica amministrazione di procedere alla restituzione alla parte ricorrente delle aree illegittimamente occupate, previa riduzione in pristino, e a risarcire il danno, e che, tuttavia, l’amministrazione potrebbe “paralizzare tale pronuncia mediante l’adozione del provvedimento con cui disporre l’acquisto ex nunc del bene al suo patrimonio indisponibile, con corresponsione al proprietario di un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale subito”. A ben vedere, dunque, dalla stessa descrizione della fattispecie concreta esposta dal giudice a quo, risulta che l’emanazione del provvedimento ex art. 42-bis del T.U. sulle espropriazioni costituisce circostanza solo eventuale, non realizzatasi al momento dell’emissione dell’ordinanza di rimessione, il che esclude la necessità di fare applicazione, nel caso in esame, della norma sospettata di incostituzionalità. Ne consegue conclusivamente, ad avviso dei giudici, che le sollevate questioni di costituzionalità in riferimento al citato art. 42-bis devono essere dichiarate manifestamente inammissibili per difetto di rilevanza. SS
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Inserito in data 11/05/2016 CORTE COSTITUZIONALE - SENTENZA 6 maggio 2016, n. 94 Arresto per inosservanza di misure di prevenzione nei confronti di tossicodipendenti: illegittimità
Nella sentenza in esame, la Corte Costituzionale si è pronunciata sulla legittimità dell’art. 4 quater del d.l. 272/2005 (recante disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi e modifiche al testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti), come convertito dall’art. 1, comma 1 l. 49/2006 nella parte in cui ha introdotto, esclusivamente in sede di conversione, l’art. 75 bis del D.P.R. 309/1990 che, al comma 6, ha previsto una contravvenzione per l’inosservanza di misure di prevenzione nei confronti di tossicodipendenti.
In particolare, secondo il Tribunale rimettente, la disposizione censurata difetterebbe del requisito di omogeneità rispetto alle norme contenute nell’originario d.l., così violando l’art. 77, comma 2 Cost., analogamente, peraltro, a quanto già ritenuto dalla Corte costituzionale in relazione agli artt. 4-bis e 4-vicies ter del medesimo d.l. n. 272/2005, che per questa ragione li ha dichiarati illegittimi con sentenza n. 32 del 2014. In via subordinata, il giudice a quo ha anche ritenuto che, ove non venisse accolta la censura principale, in ogni caso difetterebbero i presupposti della straordinaria necessità e urgenza di provvedere, stabiliti dal medesimo art. 77, comma 2 Cost. che, pertanto, dovrebbe ritenersi violato anche sotto questo ulteriore profilo. La Corte, dal canto suo, in punto di determinazione del thema decidendum, rileva che il contenuto normativo della disposizione impugnata è rappresentato dall’inestricabile collegamento tra la previsione di particolari misure di prevenzione nei confronti di persone tossicodipendenti e di una contravvenzione per il caso della loro inosservanza, da cui consegue che l’oggetto della questione di legittimità costituzionale sia costituito dal citato art. 4-quater nella sua integralità. Precisa la Corte che l’art. 4 dell’originario decreto legge (concernente il recupero dei tossicodipendenti detenuti) contiene norme di natura processuale, attinenti alle modalità di esecuzione della pena, il cui fine è quello di impedire l’interruzione dei programmi di recupero dalla tossicodipendenza; diversamente, la disposizione di cui all’art. 4-quater, oggetto del presente giudizio e introdotta dalla legge di conversione, prevede anche norme a carattere sostanziale, del tutto svincolate da finalità di recupero del tossicodipendente, ma piuttosto orientate a finalità di prevenzione di pericoli per la sicurezza pubblica. Pertanto, ad avviso della Corte, l’esame del contenuto della disposizione impugnata denota la palese estraneità delle disposizioni censurate, aggiunte in sede di conversione, rispetto ai contenuti e alle finalità del decreto-legge in cui sono state inserite, in modo da evidenziare, sotto questo profilo, una violazione dell’art. 77, comma 2 Cost. per difetto del necessario requisito dell’omogeneità, in assenza di qualsivoglia nesso funzionale tra le disposizioni del decreto-legge e quelle introdotte, con emendamento, in fase di conversione: ne consegue la necessità di dichiararne la illegittimità costituzionale. SS
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Inserito in data 11/05/2016 CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI - SENTENZA 6 maggio 2016, n. 9140 Sulla validità e meritevolezza della clausola claims made mista o impura Con la pronuncia indicata in epigrafe, il Supremo Consesso esprime i seguenti principi di diritto: “Nel contratto di assicurazione della responsabilità civile la clausola che subordina l’operatività della copertura assicurativa alla circostanza che tanto il fatto illecito quanto la richiesta risarcitoria intervengano entro il periodo di efficacia del contratto o, comunque, entro determinati periodi di tempo, preventivamente individuati (c.d. clausola claims made mista o impura) non è vessatoria; essa, in presenza di determinate condizioni, può tuttavia essere dichiarata nulla per difetto di meritevolezza ovvero, laddove sia applicabile la disciplina di cui al decreto legislativo n. 206 del 2005, per il fatto di determinare, a carico del consumatore, un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto; la relativa valutazione, da effettuarsi dal giudice di merito, è incensurabile in sede di legittimità, ove congruamente motivata”. EF
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Inserito in data 10/05/2016 CONSIGLIO DI STATO- SEZ. VI, 6 maggio 2016, n. 1835 Diritto di accesso ai verbali contenenti dichiarazioni rese in sede ispettiva Con la pronuncia in epigrafe, i giudici della VI Sezione hanno accolto il ricorso proposto per la riforma della sentenza resa dal T.A.R. Umbria – Perugia concernete il diniego di accesso ai documenti relativi alle dichiarazioni rese dai lavoratori in sede ispettiva. Nella fattispecie – ha precisato il Collegio – non troverebbe applicazione il principio di diritto espresso dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 863 del 2014, poiché risulta documentata l’interruzione del rapporto di lavoro tra i lavoratori che hanno reso le dichiarazioni raccolte in sede ispettiva e la società, odierna ricorrente, che ha chiesto l’accesso ai relativi verbali. Pertanto, non esistendo più, nel caso di specie, un rapporto di lavoro in atto, in siffatto contesto – hanno osservato i giudici di Palazzo Spada – non risulterebbe giustificato invocare la prevalenza delle esigenze di riservatezza del lavoratore rispetto al diritto di difesa di chi ha presentato la richiesta di accesso ai verbali. In particolare, detta prevalenza “non può fondarsi né sul d.m. 757/1994 (atteso che l’art. 3 del medesimo d.m. nel disciplinare la durata del divieto di accesso lo delimita finché perduri il rapporto di lavoro), né sull’art. 8 dello Statuto dei lavoratori, che pure si applica, come emerge dal suo tenore letterale, o in fase di assunzione o durante o svolgimento del rapporto di lavoro, ma non quando esso sia cessato”. L’assenza di un rapporto di lavoro attuale rende, quindi, “il bilanciamento tra accesso e riservatezza sottoposto alla regola generale desumibile dall’art. 24, comma 7, legge n. 241 del 1990 che segna la prevalenza dell’accesso strumentale all’esercizio del diritto di difesa”, tanto più che, nel caso de quo, non vengono neppure in rilievo dati sensibili o giudiziari, ma semplicemente dati personali. Sulla scorta delle esposte motivazioni, i giudici della VI Sezione del Consiglio di Stato hanno, pertanto, ritenuto fondato il ricorso e, per l’effetto, hanno disposto l’ostensione della richiesta documentazione senza oscuramenti. MB
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Inserito in data 09/05/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 5 maggio 2016, n. 1824 Indicazione dei costi esterni di sicurezza: provvede la Stazione Appaltante Il Collegio, con la pronuncia n. 1824 del 5 maggio 2016, ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto per la revocazione della sentenza del Consiglio di Stato, Sezione V, n. 5070/2015, con la quale il Consorzio ricorrente aveva, in particolare, eccepito che l’offerta della aggiudicataria avrebbe dovuto essere esclusa poiché – a suo avviso - incerta ed ambigua, attesa la mancata indicazione degli oneri di sicurezza c.d. esterni, non soggetti a ribasso. Preliminarmente, i Giudici della V Sezione hanno precisato, in punto di diritto, che l'errore di fatto idoneo a fondare la domanda di revocazione, ai sensi del combinato disposto degli artt. 106 c.p.a. e 395 n. 4, c.p.c., deve rispondere a tre requisiti: a) derivare da una pura e semplice errata od omessa percezione del contenuto meramente materiale degli atti del giudizio, la quale abbia indotto l'organo giudicante a decidere sulla base di un falso presupposto fattuale, ritenendo così un fatto documentale escluso, ovvero inesistente un fatto documentale provato; b) attenere ad un punto non controverso e sul quale la decisione non abbia espressamente motivato; c) essere stato un elemento decisivo della decisione da revocare, necessitando perciò un rapporto di causalità tra l'erronea presupposizione e la pronuncia stessa. Quindi – ha ulteriormente chiarito il Collegio – “mentre l'errore di fatto revocatorio è configurabile nell'attività preliminare del giudice di lettura e percezione degli atti acquisiti al processo, quanto alla loro esistenza ed al loro significato letterale (…) esso, invece, non ricorre nell'ipotesi di erroneo, inesatto o incompleto apprezzamento delle risultanze processuali o di anomalia del procedimento logico di interpretazione del materiale probatorio”. Sulla scorta degli illustrati principi di diritto, la V Sezione ha ritenuto non sussistenti, nel caso di specie, gli elementi tipici dell'errore di fatto che giustificano e legittimano la proposizione del ricorso per revocazione. Ciò premesso, con riguardo segnatamente all’eccepita esclusione dell’offerta dell’aggiudicataria a fronte della mancata indicazione degli oneri di sicurezza c.d. esterni, il Collegio ha ritenuto infondato il motivo di gravame, condividendo quanto già rilevato sul punto ed argomentato dalla stessa Sezione nella impugnata sentenza. Non vi è infatti alcuna norma - ha precisato il Collegio - né nella disciplina positiva, né nella specifica lex specialis, che imponga ai concorrenti (tantomeno, a pena di esclusione) di riprodurre nella loro offerta la quantificazione degli oneri di sicurezza c.d. esterni, già effettuata dall’Amministrazione. Ed invero, contrariamente a quanto vale per gli oneri c.d. interni o aziendali, la determinazione degli oneri di sicurezza c.d. esterni compete alla Stazione appaltante che vi procede impartendo un’indicazione di cui i concorrenti non possono far altro che tenere conto all’atto della formulazione delle loro offerte. “Le radicali differenze che investono la natura degli oneri di sicurezza dell’uno e dell’altro tipo (ben scolpite dalla stessa Adunanza Plenaria) – ha precisato il Collegio - escludono che la regola della necessaria indicazione da parte delle concorrenti degli oneri aziendali, i quali sono appunto loro individualmente propri, possa essere estesa anche agli oneri c.d. esterni, giacché la definizione di questi ultimi compete appunto, per converso, alla sola Amministrazione, chiamata a fissarli a monte della procedura, e su di essi le concorrenti non dispongono di alcun potere dispositivo, sicché anche una loro eventuale indicazione sul punto sarebbe solo pedissequamente riproduttiva di quella posta a base della procedura”. Lo stesso art. 86, comma 3-bis, d.lgs. n. 163/2006 – ha ulteriormente chiarito il Collegio - ove stabilisce che il “costo relativo alla sicurezza” debba essere “specificamente indicato”, si rivolge, al tempo stesso: “per gli oneri c.d. esterni, alla Stazione appaltante, che chiama appunto a provvedere a siffatta indicazione in occasione della predisposizione della gara d’appalto; per gli oneri c.d. interni, alle singole concorrenti in sede di offerta”.
In conclusione – si legge nella sentenza in epigrafe – “non può condividersi la tesi che l’omessa riproduzione dell’importo degli oneri di questo secondo tipo da parte degli offerenti possa generare di per sé un’indeterminatezza dell’offerta, o farne venir meno un elemento essenziale (..) dal momento che è la lex specialis a stabilire, quantificando gli oneri di sicurezza c.d. esterni, il valore economico rispetto al quale, di riflesso, i ribassi di gara verranno ammessi”. MB
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Inserito in data 07/05/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, 6 maggio 2016, n. 1827 Interpretazione della volontà dell’impresa e principio d’immodificabilità dell’offerta Punctum pruriens della controversia posta al vaglio del Consesso è l’individuazione del concreto contenuto di un’offerta e della reale volontà di un concorrente, al fine di stabilire se queste risultino conformi al bando di gara, il quale richiedeva l’indicazione di un unico prezzo (indifferenziato) per tutti i prodotti. A tal proposito, va osservato che “nella materia degli appalti pubblici vige il principio generale della immodificabilità dell’offerta, che è regola posta a tutela della imparzialità e della trasparenza dell’agire della stazione appaltante, nonché ad ineludibile tutela del principio della concorrenza e della parità di trattamento tra gli operatori economici che prendono parte alla procedura concorsuale”. La costante giurisprudenza di questo Consiglio (cfr., ex multis, sez. V, 1-8-2015 n. 3769; 27-4-2015, n. 2082; sez. III, 21-10-2014, n. 5196; 27-3-2014, n. 1487), infatti, afferma “che nelle gare pubbliche è ammissibile una attività interpretativa della volontà dell’impresa partecipante alla gara da parte della stazione appaltante, al fine di superare eventuali ambiguità nella formulazione dell’offerta, purchè si giunga ad esiti certi circa la portata dell’impegno negoziale con essi assunti; evidenziandosi, altresì, che le offerte, intese come atto negoziale, sono suscettibili di essere interpretate in modo tale da ricercare l’effettiva volontà del dichiarante, senza peraltro attingere a fonti di conoscenza estranee all’offerta medesima né a dichiarazioni integrative o rettificative dell’offerente”. Sulla base delle considerazioni sopra svolte, i Giudici di Palazzo Spada ritengono che l’indicazione di prezzi differenziati per ciascun prodotto sia indicativa del fatto che il concorrente non abbia inteso offrire un prezzo unico. EF
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Inserito in data 06/05/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 4 maggio 2016, n. 1757 Verificazione e presenza di un rappresentante della P.A. Con la pronuncia in esame, il Consesso ritiene che “per le caratteristiche proprie della verificazione, la presenza di un rappresentante dell’amministrazione non va intesa alla stregua della presenza del <<tecnico>> o del <<difensore di parte>> “. Infatti, “la verificazione è mezzo di prova che nel processo amministrativo consente al giudice di richiedere gli opportuni chiarimenti, oltre che ad una amministrazione “terza”, anche alla stessa amministrazione che ha emanato il provvedimento impugnato, senza che ciò implichi violazione del principio di terzietà, del diritto di difesa e del contraddittorio, in quanto l'onere istruttorio viene diretto all'amministrazione in quanto “Autorità pubblica” che, in tale specifica qualità, deve collaborare con il giudice al fine di accertare la verità dei fatti (Consiglio di Stato, sez. VI, 26/03/2013, n. 1671; sez. IV, 19/02/2007, n. 881)”.
Pertanto, “la presenza del rappresentante dell’Amministrazione, (omissis), non contrasta con le caratteristiche del mezzo di prova, come sopra delineate, ove non sia dimostrato un diverso ruolo “inquinante” nell’espletamento dell’istruttoria da parte del predetto rappresentante, di tale consistenza da potersi configurare il vizio di sviamento di potere nell’attività discrezionale valutativa della Commissione”. EF
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Inserito in data 05/05/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 4 maggio 2015, n. 1755 Deve assicurarsi il contraddittorio sulle questioni rilevate d’ufficio dal Giudice Con la pronuncia in epigrafe, i Giudici di Palazzo Spada affermano che: “costituisce violazione del diritto di difesa, rilevabile d'ufficio, per violazione dell’art. 73 comma 3, del c.p.a., l’essere stata posta a fondamento della sentenza di primo grado una questione rilevata d'ufficio, ma senza previa indicazione in udienza o assegnazione di un termine per controdedurre al riguardo, con conseguente obbligo per il giudice di appello di annullamento della sentenza stessa e rimessione della causa al giudice di primo grado ai sensi dell'art. 105 comma 1, c.p.a.” (Consiglio di Stato, sez. V, 27 agosto 2014, n. 4383; Consiglio di Stato, sez. V, 24 luglio 2013, n. 3957).
Invero, “l'indicazione alle parti in udienza, prevista dall'art. 73 del c.p.a., non deve precedere qualsivoglia valutazione che il giudice ritenga di compiere in autonomia rispetto agli argomenti di parte, ma solo la rilevazione d'ufficio di fatti sostanziali o processuali (modificativi, impeditivi o estintivi) ulteriori rispetto a quelli comunemente ritenuti costitutivi della pretesa azionata”. EF
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Inserito in data 04/05/2016 TAR LOMBARDIA - MILANO, SEZ. III, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALLA CORTE COSTITUZIONALE, 28 aprile 2016, n. 841 Elezioni delle Città metropolitane: rinvio alla Consulta Il TAR milanese, nell’ordinanza in esame, dopo averla ritenuta rilevante e non manifestamente infondata, ha rimesso alla Consulta la questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto gli artt. 126, 128, 129 e 130 c.p.a. nella parte in cui non prevedono l’applicabilità del trattamento processuale ivi stabilito (giurisdizione di merito e riti speciali) ai giudizi in materia elettorale relativi alle Città metropolitane. Al riguardo, le impugnazioni delle operazioni elettorali relative agli enti indicati dal c.p.a. prevedono una serie di regole speciali che consistono: nella previsione di una giurisdizione di merito del giudice amministrativo (art. 126 e 134); nella legittimazione popolare all’azione (art. 23); in un rito avverso gli atti del procedimento elettorale preparatorio, ma limitatamente all’esclusione delle liste e dei candidati e con legittimazione attiva limitata ai soli delegati delle liste e dei gruppi di candidati esclusi, (art. 129); nel dimezzamento, rispetto a quelli ordinari, di tutti i termini processuali, il deposito preventivo del ricorso e la successiva notificazione in entrambi i gradi di giudizio (art. 129 e 130); nel potere del giudice amministrativo di correggere il risultato delle elezioni e sostituire ai candidati illegittimamente proclamati coloro che hanno diritto di esserlo (art. 130 c. 9); nella gratuità degli atti processuali (art. 127). Rilevano i giudici, non solo che l’elencazione degli enti a cui si rivolge l’applicabilità del suddetto rito speciale elettorale ha natura tassativa come espressamente previsto dalla legge, ma anche che la giurisprudenza è granitica nel ritenere che la giurisdizione di merito costituisca un’eccezione non suscettibile di applicazione estensiva ed analogica e nell’affermare che la specialità dei riti esclude l’applicazione di essi a casi non espressamente previsti. Tuttavia, il TAR sottolinea che la disciplina del sistema elettorale per le elezioni del consiglio metropolitano è sostanzialmente identica a quella prevista per le elezioni del consiglio provinciale (per le cui impugnazioni, invece, si applica il trattamento processuale “speciale”), pertanto tale differenziazione potrebbe comportare, ad avviso dei giudici, in primo luogo, la violazione dell’art. 24 Cost. in relazione all’art. 3, in quanto prevede tutele giurisdizionali diverse nei confronti delle operazioni elettorali di enti che applicano lo stesso sistema elettorale ed hanno lo stesso rilievo costituzionale, in secondo luogo, la violazione dell’art. 114 Cost., nella parte in cui, prevedendo che la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato pone sullo stesso piano gli enti locali dotati di garanzia costituzionale, rendendo quindi irragionevole un trattamento processuale diverso dei ricorsi presentati nei confronti delle Città metropolitane e delle Province. Ne consegue – conclude il TAR – l’esigenza di trasmettere gli atti alla Corte Costituzionale. SS
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Inserito in data 03/05/2016 CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA DELLA COMMISSIONE SPECIALE, PARERE 3 maggio 2016, n. 1075 Parere sul T.U. in materia di servizi pubblici locali di interesse economico generale La Commissione Speciale del Consiglio di Stato ha emesso parere favorevole sullo schema di decreto legislativo in materia di servizi pubblici locali di interesse economico generale: la delega contenuta negli artt. 16 e 19 della legge 124 del 2015 mira, infatti, a riformare integralmente la disciplina dei servizi pubblici locali, quali “funzione fondamentale dei comuni e delle città metropolitane, che contribuiscono a definire il livello di benessere dei cittadini”. Dopo aver ricordato i principi innovativi su cui si fonda la delega, il Consiglio di Stato rileva che lo schema di decreto legislativo si presenta come una base di normazione organica e stabile, in grado di rendere immediatamente intellegibili, alle amministrazioni e agli operatori del settore, le regole applicabili in materia e di assicurare una gestione più efficiente dei servizi pubblici locali di interesse economico generale a vantaggio degli utenti del servizio, degli operatori economici e degli stessi enti locali. Ed è per questo che la Commissione Speciale raccomanda che il Governo vigili (anche nei suoi rapporti col Parlamento), affinché detta “codificazione” sia preservata da tentativi di tornare a norme introdotte disorganicamente in fonti diverse, evitando, quindi, nuove dispersioni attraverso strumenti normativi episodici e disordinati. Il Consiglio rileva che il testo si allinea al contesto europeo di riferimento e, in particolare, la scelta operata dal legislatore delegante, puntualmente ripresa dal legislatore delegato, di individuare l’oggetto della presente normazione nei «servizi pubblici locali di interesse economico generale», consente di superare il dualismo prima presente tra il livello comunitario e quello nazionale. Infatti, nella normativa previgente il legislatore nazionale utilizzava la locuzione: «servizi pubblici locali di rilevanza economica»; mentre il legislatore comunitario utilizza quella di «servizi pubblici locali di interesse economico generale (SIEG)». Tuttavia la Commissione rileva, nel parere in esame, che la definizione di servizio pubblico locale di interesse economico generale (SIEG) contenuta oggi nell’articolo 2 dello schema di decreto, pur essendo rispettosa di quella europea, è più “ristretta” rispetto a essa in quanto il legislatore ha preferito, nell’ambito di discrezionalità lasciato dall’Unione Europea al legislatore nazionale, l’opzione più favorevole alla concorrenza nel mercato. Infatti – limitando le ipotesi di SIEG alla circostanza oggettiva che il servizio non sarebbe stato svolto senza intervento pubblico o sarebbe stato svolto a condizioni differenti e alla circostanza soggettiva che il servizio sia considerato come necessario dagli enti locali per il soddisfacimento dei bisogni delle comunità locali – si limita anche la possibilità di deroga alle norme a tutela della concorrenza. Peraltro, rileva il Consiglio di Stato, che un’ulteriore e legittima differenza tra la disciplina europea e quella contenuta nell’art 7 dello schema di decreto si registra nell’individuazione delle eccezioni alla regola dell’affidamento a terzi con procedure ad evidenza pubblica: ossia di quelle ipotesi, nelle quali si consente la deroga alle regole della concorrenza nell’affidamento dei SIEG. Infatti, la disciplina contenuta nello schema di decreto in esame rende più rigido il divieto di gestione diretta dei SIEG da parte dell’Ente locale. La Commissione Speciale afferma, poi, che il cuore della riforma può essere individuato nel fatto che il legislatore prevede come regola generale che gli enti locali debbano affidare la gestione di servizi pubblici locali di rilevanza economica ad imprenditori o società, in qualunque forma costituite, individuati mediante procedure competitive ad evidenza pubblica: la possibilità di non ricorrere al mercato resta come ipotesi derogatoria in determinate situazioni, che, «a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento» non permettono un efficace e utile ricorso al mercato. Peraltro viene precisato che lo schema di decreto supera indenne una previsione di incostituzionalità nella parte in cui prevede la valutazione discrezionale degli enti locali nella scelta delle modalità di gestione del servizio: infatti, il margine discrezionale di manovra rimesso ai singoli enti locali è particolarmente stretto in relazione alla possibilità di utilizzare il modello dell’affidamento in house o della gestione diretta a fronte di una disciplina che mostra un chiaro disfavore per l’ipotesi di mancato ricorso al mercato. Inoltre, la Commissione Speciale tiene a sottolineare l’importanza della scelta legislativa di prevedere l’inserimento (a cura dell’ente affidante) dello schema di contratto nella documentazione di gara sin dalla fase dell’indizione della procedura di evidenza pubblica, a garanzia dei principi di trasparenza, di parità di trattamento e di non discriminazione, onde fissare ex ante in modo vincolante gli elementi e le condizioni essenziali del contratto da stipulare con il soggetto affidatario all’esito della procedura di evidenza pubblica. Per quel che concerne le norme sul trasporto pubblico locale, invece, il Consiglio raccomanda la loro espunzione dal decreto legislativo in quanto esse sono incompatibili con i principi che ispirano la legge delega e, soprattutto, con la finalità di riordino sistematico.
Infine, anche per quel che concerne il metodo di aggiornamento tariffario dei servizi, la Commissione Speciale raccomanda l’impiego del solo metodo del cd. price-cap e non anche del metodo alternativo indicato nel decreto in quanto quest’ultimo contrasta con la finalità di perseguire i recuperi di efficienza che consentano la riduzione dei costi a carico della collettività, poiché, con la fissazione di un tasso di rendimento ‘normale’ si riducono gli incentivi del soggetto affidante gestore del servizio all’innovazione del processo produttivo e alla minimizzazione dei costi di produzione. SS
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Inserito in data 02/05/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZIONE CONSULTIVA PER GLI ATTI NORMATIVI, PARERE 27 aprile 2016, n. 1010 Canone Rai in bolletta: parere favorevole del Consiglio di Stato
Il Consiglio di Stato, con il parere n° 1010/16, ha espresso giudizio favorevole allo schema di decreto ministeriale di attuazione dell’art. 1, co. 154 della L. 28 dicembre 2015, n. 208 (legge di stabilità 2016), con il quale è stata prevista l’esazione del canone di abbonamento alla televisione mediante addebito in bolletta.
A seguito delle criticità sollevate dai Giudici di Palazzo Spada in occasione dell’Adunanza di Sezione del 7 aprile 2016, il Ministero proponente ha trasmesso un nuovo testo dello schema di decreto, accompagnato da una relazione integrativa, nella quale sono state illustrate le modifiche introdotte ed esposte le ragioni per le quali alcune delle osservazioni formulate dal Collegio in seduta consultiva non hanno trovato puntuale riscontro.
Anzitutto, con riferimento alla mancanza nel regolamento di una precisa definizione di apparecchio televisivo la cui detenzione comporti il pagamento del canone, l’Amministrazione ha riferito di non averla potuta recepire poiché – a suo avviso - l’introduzione di tale definizione, a livello di normativa regolamentare, “porterebbe, da un lato, ad un eccesso di delega rispetto al disposto dell’art. 1, co. 154 della L. n°280 del 28 dicembre 2015 (…), dall’altro potrebbe ingessare eccessivamente tale definizione, con conseguente rischio di una sua rapida obsolescenza”, stante la continua evoluzione delle tecniche di trasmissione e ricezione del segnale televisivo. Il Collegio, pur non condividendo le esposte motivazioni, ha tuttavia ritenuto che la circostanza che il Ministero avesse in ogni caso proceduto a fornire, attraverso una nota esplicativa tecnica, una definizione di apparecchio aggiornata all’attuale stato della tecnologia, possa comunque considerarsi rispondente alle finalità di chiarezza informativa precedentemente evidenziate.
In ordine alla problematica relativa al difetto, in seno allo schema ministeriale, di un esplicito riferimento al rispetto della normativa in materia di privacy, l’Amministrazione ha precisato di aver recepito il rilievo, provvedendo, da una parte, “ad esplicitare che le intese fra gli organi (coinvolti) debbano essere predisposte sentito il Garante per la Protezione dei dati personali”, dall’altra “introducendo un nuovo articolo (art. 8), intitolato “Privacy e adempimenti delle imprese elettriche”, finalizzato proprio a specificare la necessità che gli scambi di informazioni avvengano nel rispetto del d. lgs. n. 196 del 2003”.
Infine, con riguardo all’osservazione che non tutte le norme previste nello schema ministeriale fossero risultate formulate in maniera adeguatamente chiara, in considerazione della variegata ed ampia platea di utenti non addetti al settore, il Collegio ha preso atto di quanto affermato dal Ministero nella relazione integrativa ove è stato precisato che “l’interpretazione delle norme primarie e la risoluzione dei casi controversi sarà affidata ad una circolare dell’Agenzia delle Entrate, alla quale sarà data ampia pubblicità”.
Quindi, sulla scorta delle esposte integrazioni, la Sezione consultiva ha ritenuto di esprimere parere positivo sullo schema di decreto proposto dal Ministero dello sviluppo economico. MB
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Inserito in data 02/05/2016 TAR LAZIO - ROMA, SEZ. III - 27 aprile 2016, n. 4786 Presenza di operatori presso ogni stazione autostradale: è obbligatoria? Nel caso in esame, la ricorrente, concessionaria della gestione di un tratto di rete autostradale, aveva proposto ricorso avverso il provvedimento con il quale la Struttura di Vigilanza sulle Concessionarie Autostradali aveva disposto che le predette società garantissero “in ogni caso e per l’intero arco delle 24 ore, la presenza fisica di personale di esazione in ogni stazione (barriera/casello)”, altresì prevedendo, nei casi in cui la presenza alle singole porte non fosse stata ritenuta necessaria, che venisse “garantita come presidio fisico nell’ambito della stazione” al fine di intervenire in caso di necessità per l’utenza. Il provvedimento era stato impugnato sotto due diversi profili. In primo luogo, la ricorrente aveva dedotto l’illegittima ed indebita intromissione della Struttura di Vigilanza nella potestà imprenditoriale ed organizzativa della concessionaria. In sostanza, secondo la prospettazione formulata dalla ricorrente, la Struttura avrebbe, con il provvedimento contestato, disciplinato, in modo unilaterale ed autoritativo, le modalità di esercizio dell’attività di esazione, invece di limitarsi ad un mero controllo della gestione delle autostrade, secondo quanto previsto dall’art. 2, co. I, lett. b) del D.M. delle Ministero delle Infrastrutture n. 341 dell’1 ottobre 2012. Con un secondo profilo di censure, la ricorrente aveva eccepito l’illegittimità della determinazione assunta dalla Struttura di Vigilanza, poiché viziata da difetto di istruttoria, stante la mancata esplicitazione delle ragioni a sostegno del provvedimento assunto. I Giudici capitolini, con la pronuncia in epigrafe, hanno disatteso il primo motivo di gravame, rilevando come erroneamente la ricorrente avesse fondato la propria censura sulla base di quanto previsto dalla lett. b) del richiamato articolo, tralasciando invece le più specifiche disposizioni di cui alla successiva lett. g) del medesimo articolo nonché quanto previsto dalla Convenzione Unica ANAS-Strada dei Parchi SpA, dal cui combinato disposto si evince la possibilità, per la Struttura di Vigilanza, di “adottare determinazioni, o meglio direttive, volte a salvaguardare i livelli generali di qualità delle prestazioni da garantire all’utente”, come quella impugnata nel caso di specie dalla ricorrente. Meritevole di accoglimento – ad avviso della III Sezione – è apparso invece il secondo motivo, atteso che “la nota in questione è stata adottata in assenza di una adeguata attività istruttoria che consentisse di individuare i motivi per cui il responsabile della struttura di vigilanza aveva ritenuto necessario imporre la presenza di un operatore presso ogni casello autostradale. Motivazione ancor più necessaria in presenza dell’attività di sperimentazione, condotta dalla società ricorrente, in ordine alla progressiva estensione dei controllo a distanza ad altre stazioni di competenza della deducente. La Struttura, in altri termini avrebbe dovuto indicare le specifiche ragioni per cui la completa automazione delle stazioni di esazione non era in grado di assicurare gli standard qualitativi necessari al corretto funzionamento della rete autostradale, tanto da rendere necessaria la presenza continuativa di personale presso ogni casello autostradale”. Proprio la “necessità – ha sottolineato il Collegio - che qualsiasi determinazione da parte della Struttura di Vigilanza fosse preceduta da una congrua attività istruttoria, condotta in contraddittorio con la società ricorrente”, rende il fondato il ricorso nei limiti esposti. MB |
Inserito in data 30/04/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, 27 aprile 2016, n. 1619 Sul concetto di “nuova costruzione” soggetta al rilascio del previo titolo abilitativo La questione posta al vaglio della VI Sezione attiene alla necessità o meno del previo titolo abilitativo e, in particolare, alla possibilità che essa sia risolta sulla base della pretesa precarietà delle nuove opere, fondata sull’amovibilità delle strutture. A tal uopo, i Giudici osservano che “dall’articolo 3, comma 1, lett. e.5 del Testo Unico dell’Edilizia è possibile trarre una nozione di “opera precaria”, la quale è fondata non sulle caratteristiche dei materiali utilizzati né sulle modalità di ancoraggio delle stesse al suolo quanto piuttosto sulle esigenze (di natura stabile o temporanea) che esse siano dirette a soddisfare”. Invero, la norma qualifica come “interventi di nuova costruzione” (come tali assoggettati al previo rilascio del titolo abilitativo), “l’installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes , campers, case mobili, imbarcazioni che siano utilizzati come abitazioni , ambienti di lavoro oppure depositi, magazzini e simili, e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee…”. Dunque, “la natura di opera “precaria” (non soggetta al titolo abilitativo) riposa non nelle caratteristiche costruttive ma piuttosto in un elemento di tipo funzionale, connesso al carattere dell’utilizzo della stessa”. Pertanto, deve ritenersi che le strutture destinate ad una migliore vivibilità dello spazio esterno dell’unità abitativa (terrazzo) siano installate “non in via occasionale, ma per soddisfare la suddetta esigenza, la quale non è certamente precaria”. Ciò posto, deve chiarirsi se le suddette strutture, “in relazione a consistenza, caratteristiche costruttive e funzione, costituiscano o meno un’opera edilizia soggetta al previo rilascio del titolo abilitativo”. Orbene, ai sensi del combinato disposto degli articoli 3 e 10 del D.P.R. n. 380/2001, sono in primo luogo soggetti al rilascio del permesso di costruire gli “interventi di nuova costruzione”, categoria nella quale rientrano quelli che realizzano una “trasformazione edilizia e urbanistica del territorio”. Ciò premesso, ritiene la Sezione “che la struttura in alluminio anodizzato destinata ad ospitare tende retrattili in materiale plastico non integri tali caratteristiche”. Va, invero, considerato che “l’opera principale non è la struttura in sé, ma la tenda, quale elemento di protezione dal sole e dagli agenti atmosferici, finalizzata ad una migliore fruizione dello spazio esterno dell’unità abitativa”. Considerata in tale contesto, “la struttura in alluminio anodizzato si qualifica in termini di mero elemento accessorio, necessario al sostegno e all’estensione della tenda”. Quest’ultima, poi, integrata alla struttura portante, “non vale a configurare una “nuova costruzione”, atteso che essa è in materiale plastico e retrattile, onde non presenta caratteristiche tali da costituire un organismo edilizio rilevante, comportante trasformazione del territorio”. Tanto è escluso anche “dalla circostanza che la copertura e la chiusura perimetrale che essa realizza non presentano elementi di fissità, stabilità e permanenza, in ragione del carattere retrattile della tenda (in proposito, cfr. anche la cit. circolare del Comune di Roma, 9.3.2012, n. 19137); onde, in ragione della inesistenza di uno spazio chiuso stabilmente configurato, non può parlarsi di organismo edilizio connotantesi per la creazione di nuovo volume o superficie”. Allo stesso modo, “deve ritenersi che non sia integrata la fattispecie della ristrutturazione edilizia”. Invero, ai sensi dell’articolo 3, lettera d), del D.P.R. n. 380/2001, tale tipologia di intervento edilizio richiede che trattasi di “interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere”, i quali “comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell’edificio, l’eliminazione, la modifica e l’inserimento di nuovi elementi e impianti”. Orbene, “la disposizione, così come declinata dal legislatore, richiede comunque che le opere realizzate abbiano consistenza e rilevanza edilizia, siano cioè tali da poter “trasformare l’organismo edilizio”, condividendo pertanto natura e consistenza degli elementi costitutivi di esso”. La “trasformazione” può, infatti, realizzarsi solo attraverso interventi che “abbiano una rilevanza edilizia (e, dunque, una suscettività di incidenza sul territorio) almeno pari o superiore agli elementi che costituiscono la preesistenza. Tali caratteristiche risultano all’evidenza non sussistenti nella fattispecie della struttura in alluminio anodizzato atta ad ospitare una tenda retrattile, avuto riguardo alla consistenza di tale intervento ed alla circostanza che l’immobile sul quale essa è collocata è un fabbricato in muratura, sulla cui originaria identità e conformazione l’opera nuova non può certamente incidere”. Alla luce di quanto suddetto, deve ritenersi che la struttura sopra descritta “non abbisognasse del previo rilascio del permesso di costruire: giacché la tenda retrattile che essa è unicamente destinata a servire si risolve, in ultima analisi, in un mero elemento di arredo del terrazzo su cui insiste”. All’opposto, i Giudici di Palazzo Spada ritengono che la struttura di alluminio anodizzato, per la natura e la consistenza del materiale utilizzato (il vetro viene comunemente usato per la realizzazione di pareti esterne delle costruzioni), si configuri, non come mero elemento di supporto di una tenda, “ma venga piuttosto a costituire la componente portante di un manufatto, che assume consistenza di vera e propria opera edilizia, connotandosi per la presenza di elementi di chiusura che, realizzati in vetro, costituiscono vere e proprie tamponature laterali”. Sicché, “il manufatto in questo caso costituisce “nuova costruzione”, risultando idoneo a determinare una trasformazione urbanistico ed edilizia del territorio”. Né, in senso contrario, “riveste rilievo la circostanza che le suddette lastre di vetro siano installate “a pacchetto” e, dunque, apribili, considerandosi che la possibilità di apertura attribuisce a tale sistema la stessa portata e consistenza di una finestra o di un balcone, ma non modifica la natura del manufatto che, una volta chiuso, è vera e propria opera edilizia, come tale soggetta al rilascio del previo titolo abilitativo”. EF
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Inserito in data 29/04/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 26 aprile 2016, n. 1614 Il sindacato non è organismo di diritto pubblico: non espleta finalità certificative Con la pronuncia in esame, il Consesso sostiene che ad un’associazione sindacale “non può essere riconosciuta la qualifica di “organismo pubblico”, che, alla stregua del disposto dell’art.5, comma 1, d.lgs. cit., legittima l’attestazione della presenza nel territorio dello Stato alla data del 31 dicembre 2011 dello straniero che intende ottenere l’emersione dal lavoro irregolare”. Ed, invero, nell’esigere che “la presenza in Italia dello straniero alla data suddetta debba essere “attestata da documentazione proveniente da organismi pubblici”, la suddetta disposizione ha evidentemente inteso evitare regolarizzazioni fraudolente ed affidare la prova di uno dei requisiti della procedura ad enti provvisti di potestà pubbliche e, quindi, certificative, di guisa da fondare l’emersione dal lavoro irregolare su una dimostrazione documentale affidabile e qualificata, quale quella proveniente da organismi pubblici”. Avuto, quindi, riguardo alla ratio della disposizione, “deve intendersi preclusa ogni interpretazione della nozione di “organismo pubblico” che la estenda fino a ricomprendervi anche associazioni private (quale il sindacato in questione) che non svolgono alcuna funzione pubblicistica sulla base di convenzioni, contratti o accordi con una pubblica amministrazione. Se, infatti, appare ammissibile una lettura della disposizione in esame che, in via eccezionalmente estensiva, ascriva entro il suo ambito applicativo anche soggetti privati incaricati, tuttavia, formalmente dell’espletamento di compiti pubblicistici di assistenza o di accoglienza di stranieri, che vale ad assegnare un’attendibilità qualificata alle attestazioni da esse rilasciate, non può, invece, reputarsi predicabile la classificazione come “organismo pubblico”, ai fini che qui rilevano, di un ente privato che si occupa del sostegno dei lavoratori immigrati, ma non nello svolgimento di funzioni delegate da soggetti pubblici istituzionalmente preordinati a quel compito (che, sole, si ripete possono fondare l’equiparazione, per quanto qui rileva, di un ente privato a un organismo pubblico). Solo in questa seconda ipotesi, infatti, può intendersi soddisfatta quell’esigenza di affidabilità della certificazione richiesta ai fini della regolarizzazione dello straniero, che è stata sopra individuata come la ratio della previsione, mentre nel primo caso l’interesse pubblico a una documentazione attendibile resterebbe irrimediabilmente vanificata, siccome affidata a soggetti del tutto estranei a qualsiasi controllo pubblicistico della loro attività”. EF
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Inserito in data 28/04/2016 TAR LAZIO - ROMA, SEZ. III QUATER, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALLA CORTE COSTITUZIONALE, 26 aprile 2016, n. 4776 Regime transitorio per le controversie in materia di pubblico impiego: solleva questione di legittimità costituzionale Nella ordinanza in esame, il TAR Roma, conformandosi a quanto considerato dalle Sezioni Unite della Cassazione, con la recente ordinanza n. 6891 dell’8 aprile 2016, ha anch’esso sollevato questione di legittimità costituzionale relativamente all’art. 69 comma 7 d.lgs. n. 165 del 2000, nella parte in cui prevede che le controversie concernenti questioni attinenti al periodo del rapporto di lavoro anteriore al 30 giugno 1998 restano attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo solo qualora siano state proposte, a pena di decadenza, entro il 15 settembre 2000. Il TAR rileva che la norma in questione è ormai costantemente interpretata, sia dalla Cassazione sia dal Consiglio di Stato, nel senso che la scadenza del termine del 15 settembre 2000 preclude definitivamente alla parte la possibilità di far valere il diritto dinanzi ad un giudice. Vero è che questo orientamento è stato già posto all’attenzione della Consulta che non l’ha ritenuto costituzionalmente illegittimo, ma ritengono i giudici del TAR che le conclusioni a cui sono pervenuti i Giudici delle Leggi si rivelano oggi in contrasto con il principio declinato dall’art. 6 della CEDU, secondo l’interpretazione datane dalla Corte EDU di Strasburgo, nel senso che la legge italiana, nel fissare la decadenza prevista dal richiamato art. 69, comma 7, pone un ostacolo procedurale che costituisce una sostanziale negazione del diritto invocato ed esclude un giusto equilibrio tra gli interessi pubblici e privati in gioco. Posto l’evidente contrasto tra norma nazionale e norma convenzionale insuperabile in sede interpretativa, questo Collegio è tenuto a risolvere il contrasto sollevando apposita questione di legittimità costituzionale della disposizione di legge, in ragione del noto principio più volte affermato dalla Corte costituzionale, secondo cui le norme della Convenzione, così come interpretate dalla Corte di Strasburgo, assumono rilevanza nell’ordinamento interno quali norme interposte, assumendo esse un’efficacia intermedia tra legge e Costituzione, idonea a dare corpo agli “obblighi internazionali” costituenti parametro normativo cui l’art. 117, primo comma, Cost. ricollega l’obbligo di conformazione. Ne deriva, conclusivamente, ad avviso del TAR, che è rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 69, comma 7, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 per contrasto con l’art. 117, primo comma, della Costituzione. SS
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Inserito in data 28/04/2016 TAR LAZIO - ROMA - SEZ. I, 26 aprile 2016, n. 4759 Offerte anomale e cd. taglio delle ali Nella sentenza in epigrafe, i giudici del TAR Roma hanno preso posizione sul punto di diritto, ad avviso della ricorrente controverso, relativo al fatto se le offerte recanti medesimo ribasso debbano o meno essere considerate in modo “unitario” ovvero computate singolarmente, in assenza di ragioni sostenibili o ispirate all’interesse pubblico. La ricorrente, infatti, da un lato, criticava il “fulcro” del ragionamento adottato dalla stazione appaltante e orientato a trattare uniformemente le due ipotesi di identico ribasso collocato all’interno o “a cavallo” delle ali mediante estensione alla prima della disciplina prevista per la seconda, dall’altro lato, evidenziava che tale modus procedendi avrebbe “snaturato” del tutto la funzione del c.d. “taglio delle ali”, in quanto, così facendo, si sarebbe dato luogo ad una indiscriminata (s)valutazione dei ribassi estremi non sempre disancorati dalla realtà, come nel caso di specie ove i valori presi in considerazione erano assai prossimi a quelli delle offerte collocatesi nella parte “centrale” della graduatoria, escludendo così in radice un intento collusivo, eventualmente fraudolento, delle imprese offerenti e che sarebbe il vero scopo a sostegno del principio del “taglio” in questione, tenuto anche conto che il tenore letterale dell’art. 121, comma 1, d.p.r. n. 207/2010 non chiarisce se tale “taglio” debba avvenire per le offerte presenti sia all’interno sia “a cavallo” delle ali. Rileva il TAR che, ormai, il Consiglio di Stato ha evidenziato che risulta preferibile l’orientamento fatto proprio dall’ANAC con il parere n. 87/2014. Infatti – continua il TAR – l’art. 121, comma 1, cit. specifica un primo aspetto a carattere generale, consistente nell’evidenziare che “le offerte aventi un uguale valore di ribasso sono prese distintamente nei loro singoli valori in considerazione sia per il calcolo della media aritmetica, sia per il calcolo dello scarto medio aritmetico” nonché un secondo – costituente eccezione al principio generale e relativo solo all’operazione del cd. “taglio delle ali” – consistente nel precisare che “qualora nell’effettuare il calcolo del 10% di cui all’articolo 86, comma 1, del codice dei contratti siano presenti una o più offerte di eguale valore rispetto alle offerte da accantonare, dette offerte sono altresì da accantonare ai fini del successivo calcolo della soglia di anomalia”. Tale ultima disposizione, ad avviso del TAR Roma, non può che essere interpretata se non nel senso che, ai fini della definizione del 10% delle offerte da escludere (di maggior ribasso e di minor ribasso), qualora entro detta fascia vi siano offerte di un determinato ribasso, tutte – sia presenti nella fascia/ala perché numericamente rientranti nel 10%, sia collocate fuori dalla fascia perché eccedenti il 10% calcolato sul numero complessivo delle offerte – devono essere accantonate e quindi rese ininfluenti ai fini del calcolo della soglia di anomalia, costituendo la disposizione regolamentare una esplicitazione della norma primaria, laddove vi sia presenza nelle “ali” di una o più offerte con il medesimo ribasso (sia collocate nell’ala ovvero, per alcune di esse, al di fuori), al fine di favorire la realizzazione delle effettive finalità che la norma persegue, pur in presenza di una particolare coincidenza, ed anzi al fine di evitarne l’ “aggiramento”, poiché basterebbe la presentazione di una pluralità di offerte con ribasso “non serio” (per difetto o per eccesso), per rendere inoperante (o difficoltoso) lo sbarramento del 10%, che il legislatore ha inteso prevedere. Peraltro, precisano i giudici che il 10% costituisce solo il limite numerico delle offerte il cui valore è giudicato inaffidabile, ma poiché, come si è detto, inaffidabili sono i valori e non le offerte, è del tutto evidente che, in presenza di più offerte con identico valore, queste non possono essere intese che come un’unica offerta, a prescindere dalla loro collocazione (all’interno o a cavallo dell’ala).
Traendo le fila, il TAR ritiene maggiormente condivisibile lo sviluppo interpretativo appena delineato in quanto più aderente alla “ratio” della normativa primaria e secondaria applicabile alla fattispecie, la quale deve essere orientata all’individuazione del metodo di selezione del contraente in termini generali più affidabile, dato che il principio interpretativo “cardine” riconducibile al sistema di cui agli art. 86, comma 1, e 121, comma 1 è quello per cui “inaffidabili sono i valori e non le offerte”. SS
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Inserito in data 27/04/2016 CORTE COSTITUZIONALE, ORDINANZA 22 aprile 2016, n. 92 Competenza territoriale, atto principale e atti consequenziali Il Collegio della Consulta dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 13, comma 4-bis, del Decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo), introdotto dall’articolo 1, comma 1, lettera a), numero 2), del Decreto legislativo 14 settembre 2012, n. 160 – più comunemente noto come Correttivo al Codice del processo amministrativo. La norma contestata, secondo l’interpretazione assunta dal diritto vivente, attrae alla competenza territoriale relativa al provvedimento da cui deriva l’interesse a ricorrere quella relativa agli atti presupposti dallo stesso provvedimento, anche nel caso di connessione fra atto principale e atti consequenziali, fatta solamente eccezione per l’impugnazione di atti normativi o generali. Ad avviso del TAR rimettente, una simile previsione, finirebbe con l’intralciare e quindi compromettere il regolare esercizio del diritto di difesa – ex articoli 24 – 1’ comma e 111 della Costituzione; finirebbe con l’incidere, altresì, sul giudice naturale precostituito per legge – ex articolo 25 – 1’ comma della Costituzione e rallentare, di conseguenza, l’evoluzione dell’intero meccanismo processuale. A fronte di simili doglianze emerge, frattanto, la richiesta di inammissibilità – per difetto di rilevanza – sollevata dalla Difesa erariale, in considerazione del fatto che, comunque, il Giudice a quo non sia tenuto a fare applicazione di tale norma sospettata di illegittimità costituzionale. Nel caso di specie, infatti, la questione di competenza era già stata assorbita dalla successiva decisione del Consiglio di Stato e, pertanto, non più suscettibile di essere devoluta al Giudice del rinvio. In considerazione di ciò, il Collegio costituzionale, avallando la posizione dell’Avvocatura resistente, dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale, come sollevata dal TAR ligure, per evidente difetto di rilevanza nel caso in questione. CC
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Inserito in data 26/04/2016 CORTE COSTITUZIONALE - SENTENZA 22 aprile 2016, n. 90 Indennità di espropriazione - Il «giusto prezzo» La questione de qua ha origine in un giudizio di opposizione alla stima dell’indennità espropriativa. La Corte d’Appello rimettente, rilevando che la Corte di Cassazione aveva, nell’ambito di altro giudizio, sollevato la questione di legittimità dell'art. 8, co. 3, della L. provinciale n. 10/1991, come sostituito dall'art. 38, co. 7, della L. provinciale n. 4/2008, in riferimento agli artt. 42, terzo comma, e 117, primo comma, Cost., e quest'ultimo in relazione all'art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU, rimetteva la questione alla Corte Costituzionale. Il Collegio rimettente osservava che secondo la stessa Corte «la determinazione dell'indennità espropriativa non può prescindere dal valore effettivo del bene espropriato» e che, «pur non avendo il legislatore il dovere di commisurare integralmente l'indennità al valore di mercato, quest'ultimo parametro rappresenta un importante termine di riferimento ai fini della individuazione di una congrua indennità in modo da garantire il giusto equilibrio tra l'interesse generale e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali degli individui». Nella fattispecie, il giudice a quo dubitava della conformità di tale norma ai richiamati parametri, ritenendo che essa contemplasse un criterio di determinazione dell'indennità di esproprio, per le aree non edificabili, «del tutto simile» a quello del valore agricolo medio utilizzato da due disposizioni legislative già censurate dalla Corte di legittimità, per questa via finendo con l’introdurre un criterio che prescinderebbe dal valore effettivo del bene espropriato e che non terrebbe conto delle sue caratteristiche specifiche, dunque «elusivo del legame che l'indennità deve avere con il valore di mercato del bene ablato». La Corte, con la sentenza in epigrafe, ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte d’Appello di Trento. In particolare ha osservato che il richiamato art. 8, comma 3, della L. provinciale n. 10/1991 (che stabilisce che “l’indennità di espropriazione per le aree non edificabili consiste nel giusto prezzo da attribuire all’area secondo il tipo di coltura in atto al momento dell’emanazione del decreto di cui all’art.5”) si differenzia dalle disposizioni legislative dichiarate costituzionalmente illegittime dalle citate sentenze (n. 181/2011 e n. 187/2014), nelle quali veniva invece censurato il carattere astratto del criterio di determinazione dell'indennità, corrispondente ad un «valore agricolo medio» definito in base alla zona agraria ed al tipo di coltura. Ed invero, ha precisato la Corte, “l'automaticità e l'astrattezza del meccanismo di quantificazione previsto da quelle norme conducevano a determinare un'indennità che non teneva conto delle caratteristiche specifiche del terreno e che, dunque, poteva essere priva di un ragionevole legame con il valore di mercato”. Diversamente, la disposizione normativa contestata dalla Corte d'Appello di Trento prevede un'indennità che consiste nel «giusto prezzo» da individuare «entro i valori minimi e massimi» stabiliti dalla commissione provinciale estimatrice. Detta espressione evoca l'idea di un corrispettivo commisurato alle caratteristiche effettive del bene espropriando. In un ulteriore passaggio della pronuncia, la Corte ha ricordato che «l'indennizzo assicurato all'espropriato dall'art. 42, terzo comma, Cost., se non deve costituire una integrale riparazione per la perdita subita - in quanto occorre coordinare il diritto del privato con l'interesse generale che l'espropriazione mira a realizzare - non può essere, tuttavia, fissato in una misura irrisoria o meramente simbolica, ma deve rappresentare un serio ristoro … sulla base del valore del bene in relazione alle sue caratteristiche essenziali, fatte palesi dalla potenziale utilizzazione economica di esso, secondo legge» ed ancora, «il punto di riferimento per determinare l'indennità di espropriazione deve essere il valore di mercato (o venale) del bene ablato, in modo da assicurare un ristoro economico che abbia un ragionevole legame con tale valore». Alla luce di questi rilievi – ha conclusivamente affermato la Corte – l’art. 8, comma 3, della L. provinciale n. 10/1991, in virtù del suo contenuto e del collegamento sistematico con gli artt. 7-bis e 11, co. 4, della medesima legge, non disattende i criteri fissati dalla Corte costituzionale e dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, poiché impone all’organo competente a determinare l'indennità di esproprio di tenere in adeguata considerazione, ai fini della stima dell’indennità, le caratteristiche effettive dell'area da espropriare e, dunque, l’effettivo valore di mercato. Pertanto, con la sentenza in epigrafe, la Corte ha negato la difformità tra il criterio di determinazione dell’indennità utilizzato dall’art. 8, co. 3, della L. provinciale n. 10/1991 ed i parametri costituzionali invocati dal Collegio rimettente, affermando che il citato articolo non si pone in contrasto con gli artt. 42, III co., e 117, I co., Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU. MB |
Inserito in data 22/04/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, 21 aprile 2016, n. 1573 Al G.A. la giurisdizione sugli atti regolamentari riguardanti l’accesso alle graduatorie La questione controversa posta al vaglio dei Giudici di Palazzo Spada attiene al riparto di giurisdizione in ordine agli atti regolamentari che definiscono le modalità generali di accesso alle graduatorie nazionali per l’attribuzione a tempo determinato di incarichi di insegnamento. Sul punto, un primo orientamento ritiene “che, in relazione a tali atti, sussiste la giurisdizione del giudice ordinario, in quanto gli stessi vengono in rilievo in via incidentale e pertanto possono essere disapplicati dallo stesso giudice ordinario (da ultimo, Cons. Stato, sez. VI, 8 luglio 2015, n. 3413)”. All’opposto, un secondo orientamento, cui la Sezione aderisce, ritiene, invece, che in questi casi la giurisdizione spetti al giudice amministrativo, venendo in rilievo «la stessa regola ordinatoria posta a presidio dell’ingresso in graduatoria» (Cons. Stato, sez. VI, 12 marzo 2012, n. 1406; Cons. Stato, 2 aprile 2012, n. 1953). Orbene, “la ragione della preferenza per questa seconda tesi risiede nel fatto che oggetto di contestazione sono atti di macro-organizzazione. La pubblica amministrazione, infatti, con l’adozione dei provvedimenti in esame, a prescindere dalla loro natura di atti normativi o amministrativi generali, definisce le linee fondamentali di organizzazione degli uffici, determinando anche le dotazione organiche complessive. La giurisdizione compete, pertanto, al giudice amministrativo. Né, in senso contrario, potrebbe rilevare la questione relativa all’incidenza “diretta” o “indiretta” di tali provvedimenti sui singoli rapporti di lavoro, trattandosi di un profilo che non ne muta la intrinseca natura e dunque le regole di riparto della giurisdizione. Questo aspetto può, al più, assumere rilevanza ai fini della individuazione dell’ambito del potere disapplicativo del giudice ordinario e se cioè esso può essere esercitato soltanto quando il provvedimento amministrativo di macro-organizzazione rilevi in via “indiretta” ai fini della risoluzione della controversia in linea con la regola generale posta dall’art. 5 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E, ovvero anche quando esso venga in rilievo quale fonte “diretta” della lesione della posizione soggettiva individuale fatta valere in giudizio (nel qual caso, peraltro, risolvendosi la disapplicazione in una cognizione diretta, e non incidentale, del provvedimento amministrativo)”. Alla luce di quanto suddetto, deve convenirsi, in coerenza con la giurisprudenza della Sezione, “che il decreto impugnato, avente carattere immediatamente lesivo, assolve a una funzione autoritativa di gestione della procedura concorsuale di natura pubblicistica. Ne deriva il radicamento della giurisdizione del giudice amministrativo”. EF
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Inserito in data 22/04/2016 CORTE DI CASSAZIONE - QUINTA SEZIONE PENALE, SENTENZA 14 aprile 2016, n. 15632 Il totale asservimento della vittima esclude il concorso tra gli artt. 600 e 572 c.p. Con la pronuncia indicata in epigrafe, i Giudici di Legittimità affermano quanto segue: “le condotte legalmente predeterminate che, alternativamente o congiuntamente, costituiscono la fattispecie criminosa di riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù hanno tutte in comune lo stato di sfruttamento del soggetto passivo, ed implicano per loro natura il maltrattamento del soggetto passivo, a prescindere dalla percezione che questi ne abbia, sicché non può ritenersi, in ragione del principio di consunzione, il concorso con il reato di maltrattamenti in famiglia (v. la citata, Cass. Sez. VI 12 dicembre 2006 n. 1090), che può, invece, ritenersi sussistente solo nel caso di assenza di una condizione di integrale asservimento ed esclusiva utilizzazione del minore ai fini di sfruttamento economico, quando la condotta illecita sia continuativa e cagioni al minore sofferenze morali e materiali (v. Cass. Sez. V 15 giugno 2012 n. 37638 e la citata Sez. V 8 aprile 2014 n. 44017)”. EF
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Inserito in data 21/04/2016 CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 18 aprile 2016, n. 7700 Appello incidentale condizionato o mera riproposizione ex art. 346 c.p.c. in caso di domanda di garanzia rimasta assorbita?
Nella sentenza in esame, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione si sono pronunciate sulla dibattuta questione concernente, da un lato, la necessità o meno per il convenuto vittorioso nel giudizio di primo grado, nel quale abbia proposto domanda di garanzia impropria nei confronti di un terzo (rimasta assorbita dal rigetto delle domande dell’attore nei confronti del convenuto medesimo), di proporre appello incidentale condizionato all’accoglimento dell’appello principale per riproporre la domanda di regresso nei confronti del garante per il caso in cui l’appello sia in tutto o in parte accolto; dall’altro lato, la possibilità o meno, invece, di riproporre la suddetta domanda ai sensi dell’art. 346 c.p.c.
Il contrasto di orientamenti, come già rilevato dall’ordinanza interlocutoria della Seconda Sezione, riguarda, dunque, le modalità con cui l’appellato totalmente vittorioso in primo grado deve investire il giudice d’appello della domanda di manleva da lui proposta nei confronti del terzo chiamato in garanzia, allorquando su tale domanda non vi sia stata alcuna decisione da parte del primo giudice, per avere egli rigettato la domanda principale dell’attore: l’anzidetto contrasto, ad avviso delle Sezioni Unite, vede contendersi due indirizzi. Il primo reputa che il convenuto-appellato, se intende devolvere al giudice d’appello la decisione sulla domanda di garanzia rimasta assorbita in primo grado, debba farlo con la proposizione di un appello incidentale condizionato all’accoglimento dell’appello principale dell’originario attore, non essendo invece sufficiente, ai fini di tale devoluzione, la mera riproposizione della domanda assorbita ex art. 346 c.p.c. Il secondo, ipotizzato nella sentenza come minoritario, reputa, invece, che, in quanto non soccombente, il convenuto-appellato non abbia alcun motivo di dolersi della decisione gravata con un’impugnazione incidentale, potendo limitarsi, se non vuole che si verifichi la presunzione di rinuncia di cui all’art. 346 c.p.c., a riproporre la domanda di garanzia non esaminata dal primo giudice e dunque rimasta assorbita. Le Sezioni Unite ritengono che il contrasto giurisprudenziale in decisione vada sciolto a favore dell’orientamento minoritario (secondo orientamento), che non reputa necessario l’appello incidentale. L’esposizione delle ragioni – affermano i giudici – che inducono a preferire l’orientamento minoritario necessita di una premessa che individui il discrimine fra gli ambiti di applicazione dell’istituto dell’appello incidentale di cui all’art. 343 c.p.c., da una parte, e dell’istituto della cd. riproposizione ai sensi dell’art. 346 c.p.c., dall’altra. L’appello incidentale, che si ascrive al concetto di impugnazione in generale, è un mezzo con cui si rivolgono critiche all’oggetto dell’impugnazione e, quindi, alla decisione. La critica ad una decisione impugnabile con l’appello – precisano le Sezioni Unite – principale o incidentale che sia, non può che riguardare, come per ogni mezzo di impugnazione, il suo contenuto finale e deve riguardarlo evidentemente in relazione a ciò che l’ha determinato e, dunque, all’attività processuale dei vari soggetti del processo: in tutte le ipotesi, comunque, assume rilievo essenziale il fatto che la critica e, quindi, l’impugnazione nei diversi possibili profili sia determinata da un interesse ad ottenere una decisione di diverso contenuto. Invece, all’istituto della cd. riproposizione – continua la Suprema Corte – deve ritenersi estraneo ogni profilo di deduzione di una critica alla decisione impugnata nei sensi sopra indicati e, quindi, di ciò che è connaturato al concetto di impugnazione. Con la riproposizione il legislatore ha inteso alludere alla prospettazione al giudice di appello di domande ed eccezioni che, in quanto soltanto “riproposte”, cioè proposte come lo erano state al primo giudice, possono esserlo sì perché sono state da quel giudice “non accolte”, ma senza che egli le abbia considerate espressamente o implicitamente nella sua motivazione e dunque senza che le valutazioni su di esse abbiano potuto determinare il contenuto della decisione e senza che l’omissione della decisione su di esse abbia giuocato un ruolo nella determinazione della decisione. Dunque, nel caso di specie, l’interesse dell’appellata a devolvere al giudice la decisione sulla domanda di garanzia e di rivalsa, per concretizzarsi, non abbisogna dell’esercizio di un’impugnazione in via incidentale per la ragione che, non essendovi stata alcuna decisione a riguardo della domanda medesima, nessuna critica vi è da svolgere alla sentenza di primo grado e, dunque, difetta il presupposto necessario di un appello incidentale. Ne consegue conclusivamente, ad avviso delle Sezioni Unite, il seguente principio di diritto: “nel caso di chiamata in garanzia, qualora il giudice di primo grado abbia rigettato la domanda principale e non abbia deciso sulla domanda di chiamata in garanzia e sulle sue implicazioni (rivalsa), in quanto la decisione su di essa era stata condizionata all’accoglimento della domanda principale e non era stata chiesta né dal convenuto preteso garantito né dal preteso garante indipendentemente dal tenore della decisione sulla domanda principale, ove l’attore appelli la decisione di rigetto della domanda principale (impugnazione da rivolgersi necessariamente contro il convenuto e il terzo), ai fini della devoluzione al giudice d’appello della cognizione della domanda di garanzia per il caso di accoglimento dell’appello e di riconoscimento della fondatezza della domanda principale, non è necessaria la proposizione da parte del convenuto appellato di un appello incidentale, ma è sufficiente la mera riproposizione della domanda di garanzia ai sensi dell’art. 346 c.p.c.”. 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Inserito in data 21/04/2016 TAR TOSCANA - FIRENZE, SEZ. III - 20 aprile 2016, n. 638 Quando cessa la permanenza dell’illecito paesaggistico? Il T.A.R. Firenze, nella pronuncia indicata in epigrafe, ha preso posizione sul tempo in cui, a suo avviso, cessa la permanenza dell’illecito paesaggistico. A fronte dell’eccezione di prescrizione fatta valere dai ricorrenti, i giudici del T.A.R. dapprima hanno precisato che gli illeciti in materia paesaggistica, urbanistica ed edilizia consistenti nella realizzazione di opere senza le dovute autorizzazioni hanno natura di illeciti permanenti, in relazione ai quali il termine di prescrizione inizia a decorrere solo dalla cessazione della permanenza, poi si sono chiesti quale sia il dies a quo della cessazione della permanenza. Al riguardo, il Collegio non ignora l’esistenza di un duplice orientamento giurisprudenziale: secondo un primo, il dies a quo si individuerebbe nel momento in cui viene irrogata la sanzione pecuniaria o conseguito il permesso postumo; secondo un altro orientamento, invece, si individuerebbe nel momento di rimessione in pristino o di pagamento della sanzione irrogata. Il T.A.R. Firenze afferma di adottare il primo orientamento ed, in particolare, quello secondo cui la permanenza cessa con il conseguimento del permesso postumo, peraltro, esso ha modo di precisare conclusivamente che, nonostante la disposizione sanzionatoria parli di “indennità”, non si tratta di una fattispecie risarcitoria per il danno ambientale prodotto, bensì di una sanzione amministrativa, essendo il danno non già oggetto della tutela ma criterio di commisurazione della sanzione, unitamente al criterio del profitto conseguito dalla violazione. SS
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Inserito in data 20/04/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 15 aprile 2016, n. 1521 Nuovo p.r.g. e valutazione dei contrapposti interessi privati Con la sentenza in epigrafe il Consiglio di Stato, preliminarmente, conferma l’orientamento ermeneutico secondo cui il termine per l’impugnazione delle delibere di adozione e di approvazione dei piani regolatori generali decorre dalla conoscenza di tali provvedimenti, e che questa si presume avvenuta mediante la pubblicazione di essi nelle forme prescritte dalla legge; “la mera adozione del piano, non ancora approvato, determina la facoltà, ma non anche l’onere di impugnazione”. Si afferma, nel merito, che: “La decadenza (del permesso per costruire) costituisce sì l’effetto automatico dell’inutile decorso del termine entro cui i lavori si sarebbero dovuti iniziare e concludere, ma essa va specificamente dichiarata con apposita statuizione. Così facendo, però, (nella fattispecie) il Comune non ha considerato né l’evidente affidamento ingenerato dagli atti d’assenso di tale opera, che son corsi in parallelo con la procedura di formazione del nuovo p.r.g.. Inoltre, l’imposizione di un vincolo preordinato all’esproprio, qual è quello subito nella specie dall’appellato, è già in sé un evento lesivo tutelabile in via d’azione, al di là del coinvolgimento, o meno, di titoli edilizî già eventualmente rilasciati sullo stesso bene così assoggettato”. I giudici di Palazzo Spada, conformemente alla pronuncia del collegio di prime cure, osservano come la potestà decisionale del Comune, in ordine alla volontà di realizzare una strada il cui tracciato, in sede attuativa, la p.a. stessa intende rivedere, sia certamente discrezionale, ma non di meno la scelta di pianificazione deve essere congruente con il fine cui l’amministrazione tende, e deve essere, altresì, proporzionata agli strumenti adoperati, nonché all’eventuale sacrificio così imposto al privato. Viene, nello specifico, stigmatizzata la non razionalità della decisione compiuta dall’ente, sotto il profilo della sua, già manifesta, non definitività, essendo esistenti e note alcune situazioni astrattamente idonee a modificare l’opera, se non addirittura a impedirne la realizzazione: nel rispondere alle osservazioni dell’appellato, infatti, il Comune, subordinava a priori il futuro modus operandi ad un probabile riadattamento in sede attuativa, invitando il privato a sollevare in quel momento le proprie ragioni, utilizzando lo strumento del programma integrato di intervento, posto a garanzia delle istanze partecipative. Il vincolo apposto sul bene dell’appellato, non può, pertanto, non essere viziato per illogicità derivata dal difetto d’istruttoria: non avendo considerato, il Comune, né lo stato di fatto né, soprattutto, la coeva esistenza di titoli edilizî incompatibili con il progetto del nuovo p.r.g.. FM
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Inserito in data 19/04/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 13 aprile 2016, n. 1465 Acquisizione sanante: giurisdizione e obbligo ex art. 7 l. n. 241/1990
La sentenza in epigrafe, nella consapevolezza degli attuali orientamenti espressi dalla Corte regolatrice della giurisdizione (s.u. ord. 29 Ottobre 2015, n. 22096) e dal Consiglio di Stato stesso (sez. IV, 19 Ottobre 2015, n. 4777) – a mente dei quali il ristoro previsto dall’art. 42 bis del t.u. delle espropriazioni configura un indennizzo da atto lecito, sicché le controversie inerenti alla sua quantificazione devono essere devolute alla giurisdizione ordinaria ai sensi dell’art. 133, lett. g), c.p.a. – nondimeno ritiene sussistente la giurisdizione amministrativa in materia, avendo il giudice di prime cure espressamente affermato la propria giurisdizione sul punto (richiamando la sentenza del Consiglio di Stato, sez. IV, 3 Settembre 2014, n. 4501), e non essendo stato tale capo di decisione impugnato da alcuna delle parti.
Affermano, in proposito, i giudici di Palazzo Spada che: “È ius receptum in materia, quello per cui (…) nei giudizî d’impugnazione la carenza di giurisdizione è rilevabile solo se dedotta con specifico motivo dalle parti: è ben vero, che la sentenza è stata depositata il 04/09/2015, mentre il revirement della Corte regolatrice della giurisdizione risale all’Ottobre 2015; ma ritiene il collegio che tale circostanza non possa condurre ad un rilievo ex officio della carenza di giurisdizione di questo plesso, in quanto ciò contrasterebbe con la chiara prescrizione di cui all’art. 9 del c.p.a. siccome costantemente interpretata dalla giurisprudenza nei termini appena chiariti”. Nel merito della questione, con riferimento alla lamentata violazione dell’art. 7 della l. n. 241/1990, il collegio pur avendo ben presente che “qualificata giurisprudenza di primo grado ha in passato ritenuto che l’atto ex art. 42 bis del d.P.R. n. 327 del 2001 vada in ogni caso necessariamente preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento, al fine di consentire al privato di interloquire attivamente con l’autorità pubblica per l’esercizio dei proprî diritti partecipativi”, nondimeno giunge alla conclusione che, “tale presidio partecipativo non sia necessario allorché la possibilità di un provvedimento di acquisizione ex art. 42 bis del d.P.R. n. 327 del 2001 sia già stata prefigurata in sede giudiziale, in quanto in simile ipotesi (…) il privato è reso edotto dell’eventuale avvio del relativo iter, con conseguente possibilità di attivarsi facendo constare all’amministrazione gli elementi che – a suo dire – condizionerebbero negativamente l’esercizio di tale facoltà, ovvero i parametri cui l’amministrazione (sempre ad avviso del privato) dovrebbe conformarsi”. FM |
Inserito in data 18/04/2016 CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE PENALI, SENTENZA 6 aprile 2016, n. 13681 Causa di non punibilità ex art. 131bis cp. compatibile con la guida in stato di ebbrezza Le Sezioni Unite Penali della Corte di cassazione, con la pronuncia in epigrafe, hanno enunciato numerosi principi di diritto, in particolare dando risposta positiva al quesito ad esse devoluto dalla IV Sezione, circa la compatibilità o meno della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131-bis c.p. con i reati previsti dall’art. 186, comma 2, lett. b) e c) cod. strada e, più in generale, con gli illeciti caratterizzati dalla presenza di soglie di punibilità. La IV Sezione, nell’evocare nell’ordinanza di rimessione la pronunzia di legittimità n° 44132/2015 (sentenza Longoni) che aveva ritenuto la compatibilità tra il nuovo istituto di cui all’art. 131-bis c.p. e la fattispecie di cui al II comma dell’art. 186 cod. strada, ha proposto una serie di rilievi critici, anzitutto considerando come – con riferimento alle diverse fattispecie di cui al II comma del citato art. 186 cod. strada – “il legislatore ha già compiuto a monte una valutazione di maggiore o minore pericolosità, rapportata ad un preciso dato tecnico costituito dal tasso alcoolemico. Pertanto il giudice, applicando la nuova normativa, si sostituirebbe al legislatore, non disponendo di altri parametri cui ancorare il giudizio di tenuità”. In secondo luogo - ha osservato il Collegio rimettente - “si tratta di reati di pericolo intesi a proteggere i beni della regolarità della circolazione e della sicurezza stradale”, da questo assunto traendo la conclusione che “nessun rilievo possono avere, ai fini della punibilità, le modalità di condotta di guida”, non essendo possibile in relazione ai richiamati beni protetti, “ipotizzare una gradualità dell’offesa”. Infine, ha evidenziato il risultato “paradossale” cui conduce l’applicazione della normativa di cui si discute, atteso che “l’autore di un illecito di minore gravità andrebbe incontro ad una sanzione amministrativa pecuniaria ed alla sospensione della patente guida, mentre l’autore dell’illecito penale potrebbe evitare le relative sanzioni”. La Suprema Corte, nella sua massima composizione, prima di affrontare la questione di diritto ad essa devoluta, ha effettuato una considerazione di carattere preliminare, chiarendo anzitutto il contenuto del giudizio di legittimità. Ha quindi osservato che “l’art. 131-bis c.p. è stato introdotto con l’art. 1, comma 2, d.lgs. 16/03/2015, n. 28, in epoca successiva alla pronuncia d’appello”, sicché “se non è stato possibile proporlo in grado di appello, il tema afferente all’applicazione del nuovo istituto può essere dedotto davanti alla Corte di Cassazione”. Si è in presenza – ha precisato la Corte – di “innovazione di diritto penale sostanziale che disciplina l’esclusione della punibilità e che reca senza dubbio una disciplina più favorevole. Il novum trova quindi applicazione retroattiva ai sensi dell’art. 2, IV comma, c.p.”. Appurata, quindi, la rilevanza della nuova disciplina, le Sezioni Unite hanno chiarito il ruolo della Corte di Cassazione, enunciando il seguente principio di diritto: “quando la sentenza impugnata sia anteriore alla novella, l’applicazione dell’istituto nel giudizio di legittimità va ritenuta o esclusa senza che si debba rinviare il processo nella sede di merito. Ove sussistano le condizioni di legge, l’epilogo decisorio è costituito, alla stregua degli artt. 620, I co., lett. f) e 129 c.p.p., da pronuncia di annullamento senza rinvio”. Ciò premesso, le Sezioni Unite hanno quindi affrontato il quesito di diritto afferente la compatibilità o meno della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto con i reati di cui all’art. 186, co. 2, lett. b) e c) cod. strada, criticando i rilievi formulati dalla sezione rimettente. In particolare, la Corte ha affermato che l’approccio evidenziato nella richiamata sentenza Longoni non presenta aspetti critici, anzi le obiezioni esposte nell’ordinanza di rimessione non coglierebbero nel segno e peccherebbero di astrattezza laddove tentino di legare il nuovo istituto - figura di diritto penale sostanziale - al principio di offensività. “Il fatto particolarmente tenue – hanno precisato le Sezioni Unite - va individuato alla stregua dei caratteri riconducibili a tre categorie di indicatori: le modalità della condotta, l’esiguità del danno o del pericolo, il grado della colpevolezza”. Ed ancora, “occorre compiere una valutazione relativa al fatto concreto”. Se ciò che rileva è quindi la caratterizzazione del fatto storico nella sua interezza e che “non si dà tipologia di reato per la quale non sia possibile la considerazione della modalità della condotta”, è evidente che l’applicazione dell’art. 131 bis c.p. non possa essere in alcun modo “inibita ontologicamente” a talune fattispecie di reato. La fattispecie in esame, ha osservato la Corte, “si inscrive nella categoria degli illeciti che presentano una soglia quantitativa che segna l’ambito di rilevanza penale del fatto o che regola la gravità dell’offesa (..). Il giudice che ritiene tenue una condotta collocata attorno all’entità minima del fatto conforme al tipo, non si sostituisce al legislatore, ma ne recepisce fedelmente la valutazione. Naturalmente, la valutazione riguarda la fattispecie concreta nel suo complesso – e quindi tutti gli indici afferenti alla condotta, alle conseguenze del reato ed alla colpevolezza. Nessuna conclusione può essere tratta in astratto, senza considerare la peculiarità del caso concreto. Insomma nessuna presunzione è consentita”. Certamente l’ambito applicativo del nuovo istituto è definito non solo dalla gravità del reato desunta dalla pena edittale ma anche da “un profilo soggettivo afferente alla non abitualità del comportamento”. Con la pronuncia de qua, le Sezioni Unite hanno quindi definitivamente chiarito che la nuova disposizione sulla non punibilità per particolare tenuità del fatto è applicabile indistintamente a tutte le fattispecie di reato, ivi comprese quelle caratterizzate dalla presenza, tra gli elementi costitutivi del fatto tipico, di soglie di punibilità. MB
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Inserito in data 18/04/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZIONE CONSULTIVA PER GLI ATTI NORMATIVI, PARERE 13 aprile 2016, n. 915 Canone RAI in bolletta: l’ALT del Consiglio di Stato Numerose le criticità rilevate dalla Sezione consultiva del Consiglio di Stato con riferimento allo schema di decreto ministeriale di attuazione dell’art. 1, comma 154 della L. 28 dicembre 2015, n. 208 (legge di stabilità 2016), con il quale è stato previsto che il pagamento del canone di abbonamento alla televisione per uso privato avvenga, con distinta voce, mediante addebito sulle fatture emesse dalle imprese elettriche ai titolari delle relative utenze ubicate nei luoghi ove i medesimi risiedono. Alcuna osservazione, da parte della Sezione, in ordine al profilo della potestà normativa, atteso che “l'emanazione del presente decreto rientra nella competenza tecnico-discrezionale del Ministero proponente e che le disposizioni in esso contenute non presentano profili d’incompatibilità con l’ordinamento comunitario e con quello nazionale”. Tuttavia, da un punto di vista procedurale, i Giudici di Palazzo Spada hanno osservato come l’adozione del decreto non sia avvenuta nel rispetto dei termini previsti dalla norma di riferimento e non sia stato espresso il concerto del Ministro dell’economia e delle finanze, risultando allegata agli atti la sola nota di assenso del predetto Ministero ai fini del prosieguo dell’iter procedurale. In particolare – ha chiarito la Sezione – “ il concerto del Ministro è qualcosa di sostanzialmente diverso da quanto si afferma nella nota citata in quanto, con il concerto, il Ministro partecipa dell’iniziativa politica, concorrendo ad assumerne la responsabilità”. Pertanto – ha aggiunto la Sezione – “al fine di evitare che la suddetta omissione si rifletta sulla regolarità formale del provvedimento normativo in esame, l’Amministrazione proponente dovrà provvedere ad acquisire il concerto del Ministro dell’economia e delle finanze”. Quanto al merito, la Sezione ha evidenziato numerosi profili di criticità del provvedimento che hanno reso necessaria la sospensione, da parte del Consiglio, dell’espressione del richiesto parere in attesa che l’Amministrazione proponente provveda ad integrare il testo. Anzitutto, è stato rilevata nel regolamento la mancanza di “un qualsiasi richiamo ad una definizione di cosa debba intendersi per apparecchio televisivo, la cui detenzione comporta il pagamento del relativo canone di abbonamento e al fatto che il succitato canone deve essere corrisposto per un unico apparecchio, prescindendo dall’effettivo numero di apparecchi posseduto dal singolo l’utente. Ciò – ha evidenziato il Consiglio di Stato - assume un particolare rilievo atteso che lo sviluppo tecnologico dei dispositivi di comunicazione ha reso disponibili sul mercato molteplici “device” che consentono funzioni di ricezione di programmi televisivi, pur essendo destinati a finalità ed usi strutturalmente differenti”. Sotto un secondo profilo, la Sezione ha osservato come “il procedimento di addebito e riscossione del canone di abbonamento alla televisione presuppone (..) uno scambio di dati e d’informazioni fra gli enti coinvolti nella succitata attività (..), che necessariamente implica profili di rispetto e tutela della privacy”. Ebbene, “nelle norme in esame, non si rinviene alcun riferimento alla succitata problematica che, viceversa, potrebbe trovare soluzione quantomeno con la previsione di una disposizione regolamentare che espliciti che le procedure ivi previste avvengano nel rispetto della normativa sulla privacy, sentito il Garante per la protezione dei dati personali”. Infine, un ulteriore profilo di criticità del regolamento “concerne il fatto che non tutte le norme ivi previste risultano formulate in maniera adeguatamente chiara, tenendo conto dell’ampia platea di utenti cui le medesime si rivolgono”. Ne è un esempio – ha precisato la Sezione - l'art. 3 del regolamento che, «nell'individuare, ai fini dell'addebito del canone, le categorie di utenti, utilizza formule tecniche di non facile comprensione per i non addetti al settore». Sulla scorta degli evidenziati rilievi, la Sezione consultiva del Consiglio di Stato ha quindi sospeso l’espressione del parere in attesa che l’Amministrazione provveda all’integrazione del testo “anche al fine di non condizionare il grado di efficacia di tale strumento normativo”. MB
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Inserito in data 16/04/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 13 aprile 2016, n. 1446 Modus procedendi per la correzione delle prove scritte dei concorsi pubblici Con la pronuncia in esame, il Consiglio di Stato è tornato a pronunciarsi in materia di modus procedendi per la correzione degli elaborati scritti dei concorsi pubblici, da un lato, ribadendo la necessità del rispetto del principio del collegio perfetto, dall’altro, interrogandosi sulla possibilità di applicare, nel caso di specie, il principio di conservazione delle operazioni di correzioni antecedenti all’emersione del vizio di legittimità. In particolare, il Collegio ha affermato che laddove un consistente numero di candidati sia stato giudicato non idoneo sulla base della lettura di uno solo o di entrambi gli elaborati fatta da un singolo commissario, cui è seguita l’assegnazione di un punteggio di grave insufficienza nel migliore dei casi all’esito di una sorta di “relazione” sintetica svolta dal commissario delegato all’organo collegiale e, nel peggiore, avendo la Commissione recepito acriticamente le conclusioni del singolo suo componente, in entrambi i casi, il modus procedendi seguito non risulta compatibile col rispetto del principio del collegio perfetto che deve permeare in primo luogo e soprattutto le attività della Commissione di concorso nella fase di esame e valutazione delle prove da correggere. Per quel che concerne, poi, l’annullamento giurisdizionale delle operazioni di correzione, i giudici della Quarta Sezione del Consiglio di Stato non nascondono la difficoltà dell’applicazione, nella specie, del principio di conservazione, il quale è di regola declinato in senso “diacronico”, e quindi in modo da considerare viziate le fasi successive all’insorgere del vizio di legittimità e lasciare invece integre quelle anteriori, mentre, nel caso di specie, si tratterebbe di differenziare, all’interno di una medesima fase della procedura, le posizioni degli interessati, in modo da reputare il vizio inficiante per taluni di essi, e non per altri. Inoltre, è evidente che i divisati principi di conservazione ed economicità – e, quindi, anche il connesso principio che impone di evitare un inutile “aggravamento” del procedimento amministrativo, anche in sede di sua rinnovazione all’esito di giudizio di annullamento – non operano in modo meccanico e automatico, ma piuttosto postulano un’attenta comparazione degli interessi implicati nell’azione della p.a., dovendo in ogni caso prediligersi la soluzione che meglio realizzi l’interesse pubblico da questa perseguito. Peraltro, osserva la Quarta Sezione che che la necessità che la rinnovazione delle correzioni medesime sia compiuta da una Commissione “fisicamente” diversa da quella che ha in precedenza operato non costituisce un portato indefettibile della decisione di annullamento, ma piuttosto un effetto conformativo rimesso alle determinazioni del giudice in ragione della più efficace ottemperanza delle statuizioni giudiziali, con particolare riferimento all’esigenza di assicurare pure in tale fase la par condicio fra i candidati e il rispetto dei principi di segretezza e anonimità delle prove d’esame. Infatti, si ritiene che l’interesse pubblico possa ricevere una miglior tutela con una pronuncia che non si limiti a circoscrivere l’annullamento alle sole correzioni che siano state effettivamente compiute in violazione della regola del collegio perfetto, ma statuisca anche nel senso che la rinnovazione delle operazioni di correzione de quibus sia compiuta dalla medesima Commissione esaminatrice che ha finora operato, e non da una nuova Commissione. SS |
Inserito in data 15/04/2016 TAR LAZIO - ROMA, SEZ. II TER, 12 aprile 2016, n. 4340 La comunicazione ex art. 10 bis L. 241/90 ha funzione partecipativa e non novativa Con la pronuncia in commento, il Collegio romano conferma che “la comunicazione dei motivi ostativi al rilascio del provvedimento richiesto, di cui all’art. 10 bis della legge n. 241 del 1990, ha la funzione, in un rapporto collaborativo e dialettico con l’Amministrazione, di consentire al soggetto destinatario del provvedimento negativo di presentare delle controdeduzioni avverso i motivi di diniego per evidenziare eventuali profili di illegittimità dell’atto finale in via di formazione (profili valutati dall’Amministrazione ed esternati con la motivazione del provvedimento conclusivo del procedimento), così fornendo all’Amministrazione ulteriori elementi per una più approfondita valutazione in vista dell’adozione della determinazione finale. Tale funzione partecipativa e dialettica del preavviso di diniego può ritenersi frustrata quando il provvedimento definitivo si fondi su ragioni del tutto nuove e diverse, non enucleabili dalla motivazione dell’atto endoprocedimentale, non ravvisabile nel caso in esame (cfr. Tar Puglia, Bari, sez. I, 16 luglio 2014, n. 925; Tar Lazio, Roma, sez. II, 1° luglio 2013, n. 6501; Tar Sicilia, Catania, sez. I, 21 marzo 2013, n. 861; Tar Toscana, sez. II, 7 febbraio 2013, n. 220)”.
Del resto, “l’obbligo di corrispondenza tra i motivi ostativi e le ragioni del diniego del provvedimento finale, se può in tesi valere a precludere l’introduzione di motivi di esclusione del tutto nuovi e affatto diversi, non può certo impedire l’affinamento e l’arricchimento delle originarie motivazioni impeditive con ulteriori rilievi e argomentazioni convergenti a sorreggere il medesimo assunto già enunciato in sede di preavviso di rigetto, ossia nella specie, elementi forniti anche in risposta alle osservazioni proposte dalla ricorrente (cfr. in tal senso anche Tar Campania, Napoli, sez. III, 9 febbraio 2013, n. 840)”. EF
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Inserito in data 15/04/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 11 aprile 2016, n. 1412 Non si applica il soccorso istruttorio a fronte di dichiarazione falsa La questione posta al vaglio del Consesso riguarda “la corretta interpretazione degli articoli 38 e 46 del d. lgs. n. 163 del 2006 alla luce della novella introdotta dal d.l. n. 90 del 24 giugno 2014, convertito nella l. 11 agosto 2014, n. 114/2014, in particolare se sia possibile ricorrere al soccorso istruttorio, nel caso di violazione della disposizione di cui al comma 1, lettera f) dell’articolo 38 del citato d. lgs. n. 163 del 2006”. A tal proposito, i Giudici di Palazzo Spada osservano che “la esclusione per le ipotesi del grave errore nell’esercizio dell’attività professionale di cui alla lettera f) del comma 1 dell’articolo 38, d. lgs. n. 163/2006 non assume carattere sanzionatorio, inserendosi in un giudizio prognostico della corretta esecuzione dell’appalto”. Invero, dal contesto normativo, si deduce che, “la mancanza di tipizzazione da parte dell’ordinamento delle fattispecie rilevanti, non attribuisce alcun filtro sugli episodi di “errore grave” all’impresa partecipante, la quale è tenuta a portare a conoscenza della stazione appaltante ogni episodio di risoluzione o rescissione contrattuale anche non giudiziale, quand’anche transatto, essendo rimessa alla stazione appaltante la valutazione in relazione al nuovo appalto da affidare”. La Sezione, quindi, “in conformità ai moltissimi precedenti giurisprudenziali (cfr., tra le tante, Cons. Stato, V, 25 febbraio 2015, n. 943; 14 maggio 2013, n. 2610; IV, 4 settembre 2013, n. 4455; III, 5 maggio 2014, n. 2289) ribadisce l’obbligo del partecipante ad una pubblica gara di mettere a conoscenza la stazione appaltante delle vicende pregresse (negligenze ed errori) o fatti risolutivi occorsi in precedenti rapporti contrattuali con le pubbliche amministrazioni”. Sul punto, va ribadito “che non sussiste per l’impresa partecipante ad una gara la facoltà di scegliere i fatti da dichiarare, sussistendo al contrario l’obbligo della onnicomprensività della dichiarazione, spettando alla stazione appaltante il momento valutativo. Ne consegue che non sussiste alcuna discrezionalità o filtro valutativo del dichiarante il quale è tenuto a portare a conoscenza della stazione appaltante di tutti gli episodi relativi a risoluzioni o rescissioni intervenute nei rapporti contrattuali con pubbliche amministrazioni”. Né si può sostenere che “l’omissione della dichiarazione non avrebbe potuto comportare l’esclusione dalla gara, dovendosi fare applicazione del soccorso istruttorio”. Come è noto, infatti, “il d.l. n. 90/2014 ha aggiunto all’articolo 38 del codice dei contratti pubblici il comma 2 bis, stabilendo, nel caso di mancanza, incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale degli elementi e delle dichiarazioni sostitutive, la possibilità di integrare o regolarizzare le dichiarazioni necessarie, previo invito della stazione appaltante e dietro pagamento di una sanzione pecuniaria stabilita nel bando di gara e all’articolo 46 il comma 1 ter estendendo l’applicazione delle disposizioni di cui all'articolo 38, comma 2 bis, a ogni ipotesi di mancanza, incompletezza o irregolarità degli elementi e delle dichiarazioni, anche di soggetti terzi, che devono essere prodotte dai concorrenti in base alla legge, al bando o al disciplinare di gara”. Non si ritiene, pertanto, “in base ad una interpretazione letterale delle nuove disposizioni, che il soccorso istruttorio possa essere utilizzato laddove non è contestata la mancanza o l’incompletezza della dichiarazione, ma l’aver reso dichiarazione “non veritiera” “. La fattispecie della dichiarazione “non veritiera”, infatti, “in quanto priva della doverosa menzione di eventi la cui valenza ostativa alla instaurazione di un rapporto contrattuale è riservata alla stazione appaltante, rimane fuori dalla sanatoria introdotta dall’articolo 38, comma 1 ter del d. lgs. n. 163/2006, in quanto non v’è la mancanza o la carenza, bensì la diversa fattispecie di dichiarazione non veritiera, con le conseguenze previste dal codice dei contratti pubblici per l’ipotesi di falsa dichiarazione che resta confermata anche in vigenza della novella introdotta dal d.l. n. 90/2014 (anche l’ANAC, con la determinazione 8 gennaio 2015 n. 1, nell’interpretare le novità introdotte dal d.l. n. 90/2014 ha affermato che il soccorso istruttorio non può, in ogni caso, essere strumentalmente utilizzato per l’acquisizione, in gara, di un requisito o di una condizione di partecipazione, mancante alla scadenza del termine di presentazione dell’offerta)”. EF
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Inserito in data 14/04/2016 CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 12 aprile 2016, n. 7 Sulla giurisdizione in materia di ore di sostegno per alunni disabili
Nella sentenza de qua, l’Adunanza Plenaria ha fissato i criteri identificativi dell’ambito della giurisdizione esclusiva amministrativa sulle controversie relative all’erogazione di servizi pubblici e all’estensione o meno della giurisdizione esclusiva amministrativa anche alla fase di esecuzione del piano educativo individualizzato (PEI) riguardante un alunno disabile.
In primo luogo, ha affermato che, anche se la cognizione delle controversie afferenti alla fase successiva all’adozione del PEI adottato dalle istituzioni scolastiche va ascritta al G.O. (come affermato dalle SS.UU. nella sentenza n. 25011/2014), le controversie concernenti la fase antecedente alla determinazione, da parte dei dirigenti scolastici, del suddetto piano rientrano nella giurisdizione esclusiva amministrativa in materia di servizio pubblico scolastico ex art.133, comma 1, lett. c, c.p.a. Infatti, prima della definizione del piano che stabilisce il numero di ore di sostegno necessario a garantire una corretta formazione all’alunno disabile, l’Amministrazione scolastica resta pienamente investita delle potestà relative alla formazione del PEI e, soprattutto, nella fase che precede la definizione dello stesso, risulta inconfigurabile qualsivoglia profilo discriminatorio, ravvisabile solo nell’omessa, parziale o incompleta attuazione del piano e che concreta, a ben vedere, l’identificazione della giurisdizione ordinaria, come provvista di capacità cognitoria, ai sensi dell’art. 28 d.lgs. n.150 del 2011. Peraltro – continua l’Adunanza Plenaria – l’ampiezza della latitudine della giurisdizione esclusiva amministrativa in materia di servizi pubblici, segnalata dal carattere generale delle espressioni lessicali utilizzate all’art.133, comma 1, lett. c), c.p.a., preclude qualsiasi esegesi riduttiva del perimetro della cognizione piena affidata al giudice amministrativo in materia di pubblici servizi; né, ovviamente, la pacifica natura di diritto soggettivo della posizione soggettiva azionata, quand’anche qualificato come “fondamentale”, esclude la sussistenza della giurisdizione amministrativa, che, nella materia dei servizi pubblici, comprende senz’altro anche la tutela dei diritti soggettivi, in ragione della natura esclusiva della giurisdizione codificata all’art. 133 c.p.a. In secondo luogo, sottolineano i giudici che la cognizione e la tutela dei diritti fondamentali, intendendosi per tali quelli costituzionalmente garantiti, non appare affatto estranea all’ambito della potestà giurisdizionale amministrativa, nella misura in cui il loro concreto esercizio implica l’espletamento di poteri pubblicistici, preordinati non solo alla garanzia della loro integrità, ma anche alla conformazione della loro latitudine, in ragione delle contestuali ed equilibrate esigenze di tutela di equivalenti interessi costituzionali. Non solo, ma l’affermazione dell’estensione della giurisdizione esclusiva amministrativa anche alla cognizione dei diritti fondamentali non vale in alcun modo a sminuire l’ampiezza della tutela giudiziaria agli stessi assicurata, nella misura in cui al giudice amministrativo è stata chiaramente riconosciuta la capacità di assicurare anche ai diritti costituzionalmente protetti una tutela piena e conforme ai precetti costituzionali di riferimento, che nessuna regola o principio generale riserva in via esclusiva alla cognizione del giudice ordinario. Infine – conclude l’Adunanza Plenaria – l’attribuzione al giudice amministrativo della giurisdizione esclusiva in determinate materie implica, evidentemente, una cognizione piena, e non limitata ai soli profili di esercizio discrezionale del potere: ne consegue che, laddove il diritto azionato postuli, per la sua completa realizzazione, l’espletamento di una potestà pubblica che si risolve nella verifica, sulla base di canoni medici o scientifici, dei presupposti per la sua attuazione, la potestà cognitoria del giudice amministrativo deve intendersi estesa anche allo scrutinio della correttezza del predetto apprezzamento, in quanto implicato dalla disamina della fondatezza della pretesa azionata in giudizio, seppur nei limiti del sindacato relativo alla discrezionalità tecnica. Diversamente opinando, e, cioè, negando la giurisdizione amministrativa anche per le controversie relative alla contestazione di provvedimenti che precedono la formazione del PEI, si finirebbe per accedere ad una interpretazione abrogans dell’ambito operativo dell’art.133, comma 1, lett. c), c.p.a., che, come tale, dev’essere rifiutata, in quanto impedirebbe alla disposizione attributiva della giurisdizione esclusiva in materia di servizi pubblici di produrre qualsivoglia, apprezzabile effetto. SS |
Inserito in data 13/04/2016 TAR CAMPANIA - NAPOLI, SEZ. VIII, 7 aprile 2016, n. 1769 Ristrutturazioni edilizie: presupposti per la debenza degli oneri concessorî Il Tribunale amministrativo partenopeo riconosce, al proprietario di un bene immobile, il diritto alla restituzione degli importi versati al Comune a titolo di contributo di costruzione, in ordine ad alcuni interventi edilizî funzionali al nuovo allestimento delle unità. Rileva nel merito il collegio, come l’art. 16 del d.P.R. n. 380/2001 stabilisca al primo comma che “il rilascio del permesso di costruire comporta la corresponsione di un contributo commisurato all’incidenza degli oneri di urbanizzazione, nonché al costo di costruzione”, precisando che “presupposto per la debenza del costo di costruzione è che l’intervento rientri nell’ambito di quelli per i quali l’art. 10 del medesimo d.P.R. n. 380/2001 prevede il titolo abilitativo del permesso di costruire”. A mente del comma 10 del citato art. 16: “nel caso di interventi su edificî esistenti il costo di costruzione è determinato in relazione al costo degli interventi stessi, così come individuati dal Comune in base ai progetti presentati per ottenere il permesso di costruire”. Dal tenore letterale dell’ultima disposizione richiamata appare manifesto come l’onere contributivo in esame pertenga comunque alle sole ristrutturazioni edilizie per le quali è richiesto il titolo abilitativo del permesso di costruire. Ci si riferisce, pertanto, ai sensi dell’art. 10, comma 1, let. c) del testo unico dell’edilizia, a “quelle opere di ristrutturazione che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino modifiche della volumetria complessiva degli edificî o dei prospetti, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d’uso (…)”; laddove, invece, “il costo di costruzione non deve essere corrisposto per gli interventi di ristrutturazione realizzabili con d.i.a.”, salvo che, ex art. 22 comma 5, decreto citato, “questa sia sostitutiva del permesso di costruire nelle ipotesi previste nel comma 3”. Secondo la precedente giurisprudenza, inoltre, “per le opere di ristrutturazione edilizia (soggette al regime del permesso di costruire), il pagamento degli (oneri) concessorî è dovuto solo nel caso in cui l’intervento abbia determinato un aumento del carico urbanistico”. “Il fondamento del contributo di urbanizzazione, invero, non consiste nel titolo edilizio in sé, ma nella necessità di ridistribuire i costi sociali delle opere di urbanizzazione, facendoli gravare su quanti beneficiano delle utilità derivanti dalla presenza delle medesime, secondo modalità eque per la comunità”. “Anche nel caso di modificazione della destinazione d’uso, cui si correli un maggiore carico urbanistico, è integrato il presupposto che giustifica l’imposizione”. Esulano dall’ambito entro il quale i costi in parola sono legittimamente imposti: “le modifiche della disposizione interna degli ambienti, il rifacimento di pavimenti e controsoffitti, così come l’adeguamento o la realizzazione di impianti igienico sanitarî privati, idraulici o elettrici”. FM
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Inserito in data 13/04/2016 TAR LIGURIA - GENOVA, SEZ. II, 4 aprile 2016, n. 334 Recesso di un ente pubblico da una società mista Il collegio ligure dichiara l’inammissibilità del ricorso proposto da una società partecipata, avverso la deliberazione del Consiglio comunale con la quale l’ente pubblico, in esecuzione del piano di riordino e razionalizzazione delle partecipazioni azionarie ex art. 1, commi 611 e 612, della l. n. 190/2014 (legge di stabilità 2015), esercitava il proprio diritto di recesso ex lege dalla compagine sociale, ai sensi dell’art. 1, comma 569, della l. n. 147/2013 (legge di stabilità 2014). Viene di seguito richiamato il quadro normativo di riferimento. Secondo le prescrizioni dell’art. 3, commi 27 e 29, della l. n. 244/2007 (legge finanziaria 2008): “Al fine di tutelare la concorrenza e il mercato, le amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 Marzo 2001, n. 165, non possono costituire società aventi per oggetto attività di produzione di beni e di servizî non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, né assumere o mantenere direttamente partecipazioni, anche di minoranza, in tali società. È sempre ammessa la costituzione di società che producono servizî di interesse generale e che forniscono servizî di committenza o di centrali di committenza a livello regionale a supporto di enti senza scopo di lucro e di amministrazioni aggiudicatrici di cui all’articolo 3, comma 25, del codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizî e forniture, di cui al decreto legislativo 12 Aprile 2006, n. 163, e l’assunzione di partecipazioni in tali società (…)”; “Entro trentasei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge le amministrazioni (…), nel rispetto delle procedure ad evidenza pubblica, cedono a terzi le società e le partecipazioni vietate ai sensi del comma 27 (…)”. A mente del già richiamato art. 1, comma 569, della legge di stabilità 2014: “Il termine di trentasei mesi fissato dal comma 29 dell’articolo 3 della legge 24 Dicembre 2007, n. 244, è prorogato di dodici mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, decorsi i quali la partecipazione non alienata mediante procedura di evidenza pubblica cessa ad ogni effetto; entro dodici mesi successivi alla cessazione la società liquida in denaro il valore della quota del socio cessato in base ai criteri stabiliti all'articolo 2437-ter, secondo comma, del codice civile”. L’art. 1, commi 611 e 612, della legge di stabilità 2015, stabilisce che: “Fermo restando quanto previsto dall’articolo 3, commi da 27 a 29, della legge 24 Dicembre 2007, n. 244, e successive modificazioni, e dall’articolo 1, comma 569, della legge 27 Dicembre 2013, n. 147, e successive modificazioni, al fine di assicurare il coordinamento della finanza pubblica, il contenimento della spesa, il buon andamento dell’azione amministrativa e la tutela della concorrenza e del mercato, le regioni, le province autonome di Trento e di Bolzano, gli enti locali, le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, le università e gli istituti di istruzione universitaria pubblici e le autorità portuali, a decorrere dal 1° Gennaio 2015, avviano un processo di razionalizzazione delle società e delle partecipazioni societarie direttamente o indirettamente possedute, in modo da conseguire la riduzione delle stesse entro il 31 Dicembre 2015”; “I presidenti delle regioni e delle province autonome di Trento e di Bolzano, i presidenti delle province, i sindaci e gli altri organi di vertice delle amministrazioni di cui al comma 611, in relazione ai rispettivi ambiti di competenza, definiscono e approvano, entro il 31 Marzo 2015, un piano operativo di razionalizzazione delle società e delle partecipazioni societarie direttamente o indirettamente possedute, le modalità e i tempi di attuazione, nonché l’esposizione in dettaglio dei risparmî da conseguire”. Il ricorrente sosteneva che “l’automatica cessazione della partecipazione del Comune (…) in forza della disposizione di cui all’art. 1 comma 569 della legge 27.12.2013, n. 147 non potrebbe trovare applicazione al caso di specie (…) perché non si tratta – in virtù del carattere di interesse generale dei servizî prodotti dalla società – di una partecipazione vietata ex art. 3 comma 27 della legge 24.12.2007, n. 244”. Osservano preliminarmente i giudici come il piano di riordino ex art. 1, commi 611 e 612, abbia ad oggetto attività indispensabili al perseguimento delle finalità istituzionali dell’ente (come tali, non vietate), e venga redatto secondo “una serie di criterî generali e di obiettivi di risparmio, con definizione delle modalità e dei tempi di attuazione (…), sulla base di valutazioni tipicamente discrezionali circa il quid, il quando ed il quomodo della razionalizzazione richiesta dal legislatore”; viene pertanto in rilievo una “norma di azione”, e i conseguenti provvedimenti, le scelte operate, sono senz’altro sindacabili dal giudice amministrativo, “involgendo posizioni di interesse legittimo, secondo quanto accade generalmente per i provvedimenti generali e/o di pianificazione”. Nel caso di specie il collegio approda a un giudizio di inammissibilità del ricorso, per difetto di interesse della ricorrente, attenendo la controversia ad un “atto meramente confermativo (ricognitivo) di scelte già definitivamente operative, concernenti una partecipazione vietata”. La clausola di riserva in apertura del citato art. 1, comma 611, infatti, fa espressamente salvo quanto disposto dall’art. 1, comma 569, della legge finanziaria 2014, in ordine alle partecipazioni azionarie relative ad attività non strettamente necessarie al perseguimento delle finalità istituzionali dell’ente pubblico, qual è da ritenere quella svolta nello specifico dalla società ricorrente. Il Comune del cui atto si controverteva, aveva già in precedenza ottemperato agli obblighi di legge, deliberando la dismissione della partecipazione mediante ricorso a una procedura di evidenza pubblica, essendo andata tuttavia deserta l’asta per la vendita. Allo spirare del termine emarginato dal più volte menzionato art. 1 comma 569, l’ente pubblico riteneva dunque cessata la partecipazione ex lege, chiedendo di procedere legittimamente alla liquidazione del controvalore delle azioni. FM
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Inserito in data 12/04/2016 TAR LOMBARDIA - MILANO, SEZ. III, 6 aprile 2016, n. 650 Caso Englaro: riconosciuto il diritto al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale nei confronti del genitore Con questa importante sentenza, il T.A.R. milanese ha chiuso il cerchio della nota vicenda Englaro accogliendo l’azione di risarcimento del danno proposta dal padre a titolo di danno iure hereditatis per lesione di diritti fondamentali nonché a titolo di danno non patrimoniale iure proprio da lesione del rapporto parentale. La sentenza, nel riprendere una serie di approfondimenti già svolti nei precedenti gradi di giudizio esperiti con l’azione di annullamento del diniego, opposto dalla Regione Lombardia, di interrompere l’alimentazione forzata di un soggetto che versava in stato vegetativo, ha affrontato problematiche dell’azione risarcitoria, in specie in relazione alla peculiarità e rilevanza dei diritti coinvolti. In particolare, si è occupata di scrutinare la natura e i presupposti della responsabilità della p.a. affermando che “la responsabilità della pubblica amministrazione da provvedimento illegittimo risponde ad un modello speciale non riconducibile ai modelli di responsabilità che operano nel settore del diritto civile”. Ad avviso dei giudici del T.A.R.“la peculiarità dell’attività amministrativa – che deve svolgersi nel rispetto di regole procedimentali e sostanziali a tutela dell’interesse pubblico – rende speciale anche il sistema della responsabilità da attività illegittima”. Una volta individuati gli elementi costitutivi della responsabilità della p.a. – rappresentati dall’elemento oggettivo, dall’elemento soggettivo (colpevolezza o rimproverabilità), dal nesso di causalità materiale o strutturale e dal danno ingiusto, inteso come lesione alla posizione di interesse legittimo – il T.A.R. afferma che tutti gli elementi anzidetti “sono sussistenti nel caso in cui un Ente pubblico non abbia deliberatamente e scientemente eseguito l’autorizzazione rilasciata dalla Corte di Appello di Milano (con provvedimento passato in giudicato) ad interrompere l’alimentazione artificiale ad un malato terminale in stato vegetativo (distacco del sondino naso-gastrico che alimentava e idratava artificialmente il predetto malato). In particolare, sussiste la responsabilità quando il detto Ente pubblico ha proceduto non con la semplice inerzia o con un mero comportamento materiale, agendo “nel fatto”, o adducendo a motivo di tale mancato adempimento l’impossibilità tecnica della prestazione richiesta o un impedimento di ordine fattuale, bensì con l’emanazione di un espresso provvedimento”. Infatti, continua il T.A.R., gli organi e gli enti dello Stato (quale è la Regione Lombardia) non possono ignorare le leggi statali e l’autorità dei Tribunali, dopo che siano esauriti tutti i rimedi previsti dall’ordinamento, altrimenti ne deriverebbe una rottura dell’ordinamento costituzionale insanabile e inaccettabile. Peraltro, dicono i giudici che non è possibile invocare, a giustificazione di tale comportamento, “motivi di coscienza”, in quanto solo gli individui hanno una “coscienza”, mentre la “coscienza” delle istituzioni è costituita dalle leggi che le regolano. Dunque, alla luce della predetta ricostruzione, ne consegue, ad avviso del T.A.R., che il genitore della persona cui è stata illegittimamente rifiutata l’interruzione del trattamento di alimentazione e idratazione, ha diritto al risarcimento sia del danno a titolo di erede, sia di quello iure proprio per lesione del rapporto parentale. In particolare per ciò che concerne il danno di natura non patrimoniale a titolo ereditario, il comportamento della P.A. ha determinato la lesione del diritto fondamentale di autodeterminazione in ordine alla libertà di scelta di non ricevere cure, oltre che della salute, così come ricostruito nelle sentenze che li hanno riconosciuti (c.d. diritto di staccare la spina) e la lesione del diritto all’effettività della tutela giurisdizionale, quest’ultima derivante dal fatto che, nemmeno dopo il passaggio in giudicato delle diverse pronunce, la Regione ha messo a disposizione una struttura per eseguire quanto statuito nelle diverse sedi giurisdizionali. Per quel che riguarda, poi, il danno iure proprio da lesione del rapporto parentale, afferma il T.A.R. che si tratta di un pregiudizio a diritti fondamentali che trovano la loro fonte diretta nella Costituzione, atteso che nell’art. 2059 c.c. trova adeguata collocazione anche la tutela riconosciuta ai soggetti che abbiano visto lesi i diritti inviolabili della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.): tale figura di danno, da collocare nell’ambito del danno-conseguenza non patrimoniale, risulta quindi pienamente risarcibile, anche laddove la lesione del legame familiare non dipenda da una condotta penalmente illecita. Diversamente per il danno morale soggettivo, vantato dal ricorrente iure proprio, che, invece, non gli può essere riconosciuto atteso che lo stesso non ha ancorato la richiesta di danno morale alla sussistenza di una, seppure ipotetica, illiceità penale direttamente collegata all’adozione del provvedimento impugnato, ma ha individuato la genesi di tale categoria di danno non patrimoniale nelle attività e nei comportamenti di alcuni organi regionali o di altri soggetti, anche estranei all’apparato regionale che avrebbero posto in essere una vera a propria campagna diffamatoria e calunniatoria nei suoi confronti. SS
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Inserito in data 11/04/2016 TAR LAZIO - ROMA, SEZ. I, 6 aprile 2016, n. 4169 Immodificabilità dell’offerta in itinere Con la pronuncia de qua, la Sezione prima del T.A.R. Lazio – Roma ha affermato l’illegittimità dell’aggiudicazione della gara qualora l’Ente appaltante abbia consentito all’impresa vincitrice, in corso di gara, la modifica dell’offerta tecnica ed economica. Nella fattispecie, la ricorrente, Fiera di Roma Srl, aveva impugnato il provvedimento di aggiudicazione definitiva della procedura di scelta dell’operatore economico con il quale stipulare il contratto di locazione dei locali idonei all’espletamento delle prove scritte per l’abilitazione all’esercizio della professione di avvocato, sul presupposto che la stazione appaltante, la Corte d’Appello di Roma, dopo un’indagine dalla stessa definita “esplorativa di mercato”, avesse permesso all’aggiudicatario di apportare sostanziali rimodulazioni all’offerta precedentemente avanzata. La ricorrente, preliminarmente, aveva rilevato la necessità di procedere ad un corretto inquadramento della procedura attivata dalla Corte d’Appello che, seppur definita come “indagine di mercato” – astrattamente non impegnativa e vincolante per l’Amministrazione ai fini della scelta dell’operatore economico – di fatto si era conclusa con l’individuazione dell’aggiudicatario, finendo per costituire una vera e propria gara. In secondo luogo, la ricorrente aveva evidenziato l’opportunità di indagare la vera natura del contratto stipulato dalla P.A., a suo avviso non qualificabile come semplice contratto di locazione, ma come appalto di servizi e/o forniture, soggetto, pertanto, alla disciplina del Codice dei Contratti. Con riferimento a tale ultimo rilievo, il Collegio ha ritenuto – come già affermato dalla stessa Sezione, di recente intervenuta su un caso affine - che la fattispecie fosse da ricondurre alla normativa dettata dall’art. 38 del Codice degli appalti. Ed infatti, nel caso di specie, “la procedura aveva ad oggetto la locazione di locali appositamente e inscindibilmente attrezzati di servizi, e quindi sia la locazione che la prestazione di forniture e di servizi. In tale contesto appare insostenibile che un appalto siffatto, caratterizzato da un nesso funzionale inscindibile tra locazione di spazi idonei, fornitura di materiali e suppellettili, prestazione di servizi, che solo nel loro complesso organizzato rispondono alle finalità perseguite dall'Amministrazione e consentono lo svolgimento delle prove scritte di un concorso, possa essere qualificato come semplice e pura locazione”. Con riguardo poi all’eccepita violazione delle norme del codice dei contratti pubblici e del principio dell’immodificabilità dell’offerta, il Collegio ha osservato come “la procedura adottata dalla Corte di appello di Roma non può farsi rientrare in quella disciplinata dall’art. 125 del Codice appalti, trattandosi – al di là del nomen juris attribuito alla procedura (indagine di mercato) che non vincola il giudice in ordine alla sua qualificazione né ha ingenerato errori nella presentazione delle offerte – di una vera e propria procedura ad evidenza pubblica”. L’Amministrazione intimata – ha ulteriormente rilevato la prima Sezione – ha violato il principio dell’immodificabilità dell’offerta, proprio delle procedure ad evidenza pubblica, consentendo, per questa via, all’aggiudicataria, nel corso della gara, la modifica dell’offerta tecnica ed economica. Ed infatti, “come chiarito dalla giurisprudenza, l'integrazione documentale non è ammessa, in quanto contraria alla fondamentale regola della par condicio competitorum, laddove essa sopravvenga a colmare una iniziale e sostanziale inadeguatezza dell'offerta presentata dalla concorrente – come nel caso di specie - di tal che nelle gare pubbliche l'integrazione documentale è ammissibile solo per la documentazione attestante il possesso dei requisiti di partecipazione”, non anche, quindi, quando essa sia orientata a consentire alla concorrente di apportare sostanziali modifiche in itinere in danno delle altre concorrenti. MB
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Inserito in data 11/04/2016 TAR CAMPANIA-NAPOLI, SEZ. II, 6 aprile 2016, n. 1682 La mancata allegazione del passoe non è causa di esclusione dalla gara I giudici campani, con la sentenza in epigrafe, hanno accolto il ricorso proposto avverso l’esclusione da una gara di una concorrente che, alla scadenza del termine per la presentazione delle offerte, aveva omesso di produrre il PassOE - del quale non era in possesso - allegato solo successivamente, a seguito del soccorso istruttorio dell’Amministrazione. Il Collegio ha condiviso le istanze formulate dalla ricorrente, affermando che né il codice dei contratti, né il bando disciplinare di gara accreditano il possesso del documento PassOE quale requisito di partecipazione previsto a pena di esclusione dalla procedura concorsuale, né esso, d’altra parte, “si configura come elemento essenziale incidente sulla par condicio dei concorrenti”. Il PassOE – ha puntualizzato la II Sezione del T.A.R. Campania – Napoli - rappresenta un “semplice strumento attraverso cui l’operatore economico può essere verificato per mezzo del sistema ACVPASS (Autority Virtual Company Passport) con il quale la stazione appaltante assolve, a norma dell’art. 6-bis, I comma del DLgs n. 163/2006, all’obbligo di provvedere direttamente, presso gli Enti certificanti convenzionati con l’ANAC , all’acquisizione dei documenti necessari alla verifica dei requisiti autodichiarati dai concorrenti in sede di gara”. La mancata produzione di detto documento in sede di gara – ha ulteriormente precisato il Collegio – integra “una semplice carenza documentale e non anche un’ipotesi di irregolarità essenziale”, con la conseguenza che il PassOE non solo non costituisce causa di esclusione del concorrente dalla procedura, ma può essere prodotto - regolarizzando dunque la documentazione incompleta - successivamente, senza che per questo sia dovuta alcuna sanzione pecuniaria. Questo orientamento è altresì condiviso e confermato – hanno specificato i giudici napoletani nella sentenza de qua - dall’ANAC che, nella nota illustrativa al “Bando-tipo per l’affidamento di contratti pubblici di servizi e forniture” ha chiarito che “la mancata inclusione del PassOE non costituisce causa di esclusione dell’operatore economico in sede di presentazione dell’offerta. Tuttavia, le stazioni appaltanti saranno tenute a verificare, nella prima seduta di gara, l’inserimento del PassOE nella busta contenente la documentazione amministrativa e, laddove ne riscontrino la carenza, dovranno richiedere all’operatore economico interessato di acquisirlo e trasmetterlo in tempo utile a consentire la verifica dei requisiti, avvertendolo espressamente che in mancanza si procederà all’esclusione dalla gara e alla conseguente segnalazione all’Autorità ai fini dell’applicazione delle sanzioni di cui all’art. 6, comma 11, del Codice, essendo il PASSOE l’unico strumento utilizzabile dalla stazione appaltante per procedere alle prescritte verifiche”. MB
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Inserito in data 09/04/2016 TAR LAZIO - ROMA, SEZ. I, 1 aprile 2016, n. 3983 I Giudici romani ancora sulle intese orizzontali restrittive della concorrenza In questa importante sentenza, i giudici romani hanno avuto modo di pronunciarsi sui parametri di legittimità e sugli oneri probatori circa i presupposti del provvedimento con il quale l’AGCM ha, da un lato, accertato la sussistenza di un’intesa orizzontale che restringe la concorrenza in violazione dell’art. 101 del TFUE, dall’altro, irrogato le relative sanzioni. In primo luogo, il TAR Roma ha ripercorso il procedimento istruttorio e motivazionale compiuto dall’AGCM laddove ha individuato nei confronti di una società operante nel settore della ristorazione autostradale un’intesa restrittiva della concorrenza concernente il coordinamento con altra società in occasione di un insieme specifico di gare. In secondo luogo, ha sancito l’illegittimità del provvedimento nella parte in cui l’Autorità, ritenendo sussistente il condizionamento di gare ad evidenza pubblica, con effetti sulle condizioni di aggiudicazione delle stesse, ha contestato alla società ricorrente di aver posto in essere un’intesa orizzontale nonostante l’assenza, nel caso di specie, della piena prova, diretta o indiretta, della stipula o conclusione di una effettiva intesa anticoncorrenziale, ovvero dei “contatti qualificati” tra i soggetti sanzionati che avrebbero concordato il disegno collusivo. Infatti, sottolinea il Collegio laziale che, per quanto attiene alle intese restrittive della concorrenza, l’unico presupposto affinché l’intesa possa essere considerata anticoncorrenziale e debba essere vietata, è costituito “dall’avere per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in maniera consistente l’andamento della concorrenza all’interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante”. Peraltro, così come affermato da costante giurisprudenza, ai fini della verifica della condotta anticoncorrenziale, non è sempre indispensabile distinguere tra accordi e pratiche concordate, essendo ben più importante individuare, rispetto ai semplici comportamenti paralleli privi di concertazione, le forme di collusione che ricadono nei divieti antitrust. In terzo luogo, il TAR romano ha affermato che, sul piano probatorio, costituisce un principio fondamentale quello in base al quale spetta all’Autorità produrre elementi probatori precisi e concordanti che corroborino la ferma convinzione che l’infrazione sia stata commessa: gli elementi di prova posti a base di una decisione antitrust devono dunque essere ragionevoli, affidabili e non contraddittori. In particolare, spetta all’Autorità dimostrare il collegamento e la coerenza tra i vari eventi che ritiene alla base di una intesa vietata e, conseguentemente, provare che tali elementi non siano razionalmente giustificabili in maniera alternativa. Infatti, nell’ambito di procedimenti antitrust, il criterio guida per prestare il consenso all’ipotesi ricostruttiva formulata dall’Autorità è quello della c.d. congruenza narrativa, in virtù del quale l’ipotesi sorretta da plurimi indizi concordanti può essere fatta propria nella decisione giudiziale quando sia l’unica a dare un senso accettabile alla “storia” che si propone per la ricostruzione della intesa illecita. In tale quadro – conclude il Collegio – i vari “indizi” costituiscono elementi del modello globale di ricostruzione del fatto, coerenti rispetto all’ipotesi esplicativa coincidente con la tesi accusatoria; unitamente, poi, all’acquisizione di informazioni coerenti con le contestazioni mosse, deve essere esclusa l’esistenza di valide ipotesi alternative alla tesi seguita dall’Autorità. SS
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Inserito in data 08/04/2016 CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA - GRANDE SEZIONE, SENTENZA 5 aprile 2016, C‑689/13 Sul rapporto tra ricorso incidentale e ricorso principale La prima questione posta al vaglio della Corte di Giustizia dell’Unione europea riguarda il contrasto interpretativo tra la sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 4 del 2011 e la sentenza Fastweb (C‑100/12, EU:C:2013:448), pronunciata successivamente. Orbene, secondo il Supremo Consesso “in caso di ricorso incidentale volto a contestare l’ammissibilità del ricorso principale, il ricorso incidentale deve essere valutato prioritariamente, prima del ricorso principale”. Nell’ordinamento giuridico nazionale, infatti, “un siffatto ricorso incidentale è qualificato come «escludente» o «paralizzante» poiché, qualora ne constati la fondatezza, il giudice adito deve dichiarare inammissibile il ricorso principale senza esaminarlo nel merito”. Viceversa, la Corte di Giustizia, con la sentenza Fastweb, ritiene che l’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 89/665 vada interpretato in senso difforme da quanto stabilito dalla Plenaria. Preliminarmente, deve rammentarsi che la causa all’origine della sentenza Fastweb riguardava due offerenti che erano stati selezionati e invitati dall’amministrazione aggiudicatrice a presentare delle offerte. Accadeva, pertanto, che, a seguito del ricorso proposto dall’offerente la cui offerta non era stata prescelta, l’aggiudicatario presentava “un ricorso incidentale, con il quale faceva valere che l’offerta che non era stata prescelta avrebbe dovuto essere esclusa in quanto non rispettava uno dei requisiti minimi previsti dal piano di fabbisogni”. Si tratta, dunque, di capire “se l’interpretazione dell’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 89/665 data dalla Corte nella sentenza Fastweb (C‑100/12, EU:C:2013:448) si applichi nell’ipotesi in cui le imprese partecipanti alla procedura di gara controversa, sebbene ammesse inizialmente in numero maggiore di due, siano state tutte escluse dall’amministrazione aggiudicatrice senza che un ricorso sia stato proposto dalle imprese diverse da quelle – nel numero di due ‑ coinvolte nel procedimento principale”. Al tal riguardo, “è d’uopo ricordare che, secondo le disposizioni dell’articolo 1, paragrafi 1, terzo comma, e 3, della menzionata direttiva, affinché i ricorsi contro le decisioni adottate da un’amministrazione aggiudicatrice possano essere considerati efficaci, devono essere accessibili per lo meno a chiunque abbia o abbia avuto interesse a ottenere l’aggiudicazione di un determinato appalto e sia stato o rischi di essere leso a causa di una presunta violazione”. Ed, invero, al punto 33 della sentenza Fastweb (C‑100/12, EU:C:2013:448), “la Corte ha considerato che il ricorso incidentale dell’aggiudicatario non può comportare il rigetto del ricorso di un offerente escluso nell’ipotesi in cui la legittimità dell’offerta di entrambi gli operatori venga contestata nell’ambito del medesimo procedimento, in quanto in una situazione del genere ciascuno dei concorrenti può far valere un analogo interesse legittimo all’esclusione dell’offerta degli altri, che può indurre l’amministrazione aggiudicatrice a constatare l’impossibilità di procedere alla scelta di un’offerta regolare”. Pertanto, al punto 34 della succitata sentenza, la Corte ha interpretato l’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 89/665 “nel senso che tale disposizione osta a che il ricorso di un offerente la cui offerta non è stata prescelta sia dichiarato inammissibile in conseguenza dell’esame preliminare dell’eccezione di inammissibilità sollevata nell’ambito del ricorso incidentale dell’aggiudicatario, senza che ci si pronunci sulla conformità delle due offerte in discussione con le specifiche tecniche indicate nel piano di fabbisogni”. In sostanza, “ciascuno dei due offerenti ha interesse a ottenere l’aggiudicazione di un determinato appalto”. Da un lato, infatti, “l’esclusione di un offerente può far sì che l’altro ottenga l’appalto direttamente nell’ambito della stessa procedura”. D’altro lato, “nell’ipotesi di un’esclusione di entrambi gli offerenti e dell’indizione di una nuova procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico, ciascuno degli offerenti potrebbe parteciparvi e, quindi, ottenere indirettamente l’appalto”. E, ancora, la Corte ha precisato che “il numero di partecipanti alla procedura di aggiudicazione dell’appalto pubblico di cui trattasi, così come il numero di partecipanti che hanno presentato ricorsi e la divergenza dei motivi dai medesimi dedotti, sono privi di rilevanza ai fini dell’applicazione del principio giurisprudenziale che risulta dalla sentenza Fastweb (C‑100/12, EU:C:2013:448)”. Alla luce di quanto suddetto, deve sostenersi che l’articolo 1, paragrafi 1, terzo comma, e 3, della direttiva 89/665 vada interpretato “nel senso che osta a che un ricorso principale proposto da un offerente, il quale abbia interesse a ottenere l’aggiudicazione di un determinato appalto e che sia stato o rischi di essere leso a causa di una presunta violazione del diritto dell’Unione in materia di appalti pubblici o delle norme che traspongono tale diritto, e diretto a ottenere l’esclusione di un altro offerente, sia dichiarato irricevibile in applicazione di norme processuali nazionali che prevedono l’esame prioritario del ricorso incidentale presentato da detto altro offerente”. Con la seconda questione, invece, “il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 267 TFUE debba essere interpretato nel senso che osta ad una disposizione di diritto nazionale nei limiti in cui quest’ultima sia interpretata nel senso che, relativamente a una questione vertente sull’interpretazione o della validità del diritto dell’Unione, una sezione di un organo giurisdizionale di ultima istanza, qualora non condivida l’orientamento definito da una decisione dell’adunanza plenaria di tale organo, è tenuta a rinviare la questione all’adunanza plenaria e non può pertanto adire la Corte ai fini di una pronuncia in via pregiudiziale”. Sul punto, la Corte di Giustizia afferma che “i giudici nazionali hanno la più ampia facoltà di sottoporre alla Corte una questione di interpretazione delle disposizioni pertinenti del diritto dell’Unione (v., in tal senso, sentenza Rheinmühlen-Düsseldorf, 166/73, EU:C:1974:3, punto 3), laddove tale facoltà si trasforma in obbligo per i giudici che decidono in ultima istanza, fatte salve le eccezioni riconosciute dalla giurisprudenza della Corte (v., in tal senso, sentenza Cilfit e a., 283/81, EU:C:1982:335, punto 21 e dispositivo). Una norma di diritto nazionale non può impedire a un organo giurisdizionale nazionale, a seconda del caso, di avvalersi della facoltà di cui trattasi (v., in tal senso, sentenze Rheinmühlen-Düsseldorf, 166/73, EU:C:1974:3, punto 4; Melki e Abdeli, C‑188/10 e C‑189/10, EU:C:2010:363, punto 42, nonché Elchinov, C‑173/09, EU:C:2010:581, punto 27) o di conformarsi a suddetto obbligo”. Tanto detta facoltà quanto detto obbligo sono, difatti, “inerenti al sistema di cooperazione fra gli organi giurisdizionali nazionali e la Corte, instaurato dall’articolo 267 TFUE, e alle funzioni di giudice incaricato dell’applicazione del diritto dell’Unione affidate dalla citata disposizione agli organi giurisdizionali nazionali”. Di conseguenza, “qualora un organo giurisdizionale nazionale investito di una controversia ritenga che, nell’ambito della medesima, sia sollevata una questione vertente sull’interpretazione o sulla validità del diritto dell’Unione, ha la facoltà o l’obbligo, a seconda del caso, di adire la Corte in via pregiudiziale, senza che detta facoltà o detto obbligo possano essere ostacolati da norme nazionali di natura legislativa o giurisprudenziale”. Ne discende che l’articolo 267 TFUE debba essere interpretato “nel senso che osta a una disposizione di diritto nazionale nei limiti in cui quest’ultima sia interpretata nel senso che, relativamente a una questione vertente sull’interpretazione o sulla validità del diritto dell’Unione, una sezione di un organo giurisdizionale di ultima istanza, qualora non condivida l’orientamento definito da una decisione dell’adunanza plenaria di tale organo giurisdizionale, è tenuta a rinviare la questione all’adunanza plenaria e non può pertanto adire la Corte ai fini di una pronuncia in via pregiudiziale”. Infine, i Giudici precisano che l’articolo 267 TFUE debba essere interpretato nel senso che, “dopo aver ricevuto la risposta della Corte di giustizia dell’Unione europea ad una questione vertente sull’interpretazione del diritto dell’Unione da essa sottopostale, o allorché la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea ha già fornito una risposta chiara alla suddetta questione, una sezione di un organo giurisdizionale di ultima istanza deve essa stessa fare tutto il necessario affinché sia applicata tale interpretazione del diritto dell’Unione”. EF
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Inserito in data 07/04/2016 CORTE COSTITUZIONALE - ORDINANZA 5 aprile 2016, n. 70 E’ manifestamente infondata la q.l.c. dell’art. 545, co. 4, c.p.c. Con la pronuncia in epigrafe, la Corte Costituzionale dichiara infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 545, quarto comma, del codice di procedura civile, per violazione degli artt. 1, 2, 3, 4 e 36 della Costituzione, “nella parte in cui non prevede l’impignorabilità assoluta di quella parte della retribuzione necessaria a garantire al lavoratore i mezzi indispensabili alle sue esigenze di vita, e, in via subordinata, nella parte in cui non prevede le medesime limitazioni in materia di pignoramento di crediti tributari disposte dall’art. 72-ter (Limiti di pignorabilità) del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito), come introdotto dall’art. 3, comma 5, lettera b), del decreto-legge 2 marzo 2012, n. 16 (Disposizioni urgenti in materia di semplificazioni tributarie, di efficientamento e potenziamento delle procedure di accertamento), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 26 aprile 2012, n. 44”. In particolare, il Giudice delle Leggi osserva che “le questioni sollevate risultano analoghe a quelle di cui è stata dichiarata la non fondatezza in riferimento agli artt. 3 e 36 della Costituzione, con sentenza di questa Corte n. 248 del 2015”. Infatti, “tale sentenza precisava, tra l’altro che «la tutela della certezza dei rapporti giuridici, in quanto collegata agli strumenti di protezione del credito personale, non consente di negare in radice la pignorabilità degli emolumenti ma di attenuarla per particolari situazioni la cui individuazione è riservata alla discrezionalità del legislatore», mentre, con riguardo alla questione sollevata in riferimento all’art. 3 Cost., sia in relazione al regime di impignorabilità delle pensioni, sia – in via subordinata – all’art. 72-ter del d.P.R. n. 602 del 1973, le argomentazioni del giudice rimettente non sono state condivise in ragione della eterogeneità dei tertia comparationis rispetto alla disposizione impugnata, tanto più verificata alla luce di «un esame obiettivo del contesto normativo complessivo e dalla sua evoluzione differenziata»”. Invece, “relativamente alla norma impugnata con riferimento agli artt. 1, 2 e 4 Cost., la predetta decisione ha ritenuto l’inammissibilità delle censure per la loro apoditticità in quanto prive di un’argomentazione esaustiva sulle ragioni del preteso contrasto con le norme invocate”. Pertanto, stante l’identità di contenuto tra l’ordinanza di rimessione oggetto della richiamata pronuncia del 2015 e quelle che hanno occasionato il presente giudizio, “la questione da queste ultime reiterata va, conseguentemente, a sua volta, dichiarata manifestamente infondata con riferimento agli artt. 3 e 36 Cost., e manifestamente inammissibile con riguardo agli artt. artt. 1, 2 e 4 Cost., per le stesse ragioni”. EF
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Inserito in data 06/04/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 1 aprile 2016, n. 1301 Contraddittorio necessario ai fini dell’ordinanza di bonifica di un sito inquinato Il Consiglio di Stato accoglie il ricorso intentato dal proprietario di un’area avverso l’ordinanza, emessa dal sindaco, di rimozione e smaltimento dei rifiuti abbandonati sul terreno e conseguente bonifica, per l’omessa comunicazione di avvio del procedimento. Il collegio giudicante ritiene fondato il primo motivo di impugnazione della sentenza di prime cure, secondo il quale la garanzia partecipativa di cui all’art. 7 della l. n. 241/1990 “non sarebbe meramente formale, considerato il chiaro disposto dell’art. 192, comma 3, del decreto legislativo 3 Aprile 2006, n. 152”, a mente del quale, la responsabilità del proprietario dei luoghi interessati deve essere imputabile, a titolo di dolo o colpa, e in base agli accertamenti effettuati in contraddittorio tra le parti. I giudici di Palazzo Spada continuano, pertanto, a muoversi nel solco tracciato dal consolidato orientamento ermeneutico secondo cui: “In materia, il legislatore delegato ha inteso rafforzare e promuovere le esigenze di un’effettiva partecipazione allo specifico procedimento dei potenziali destinatarî del provvedimento conclusivo. Di conseguenza, la preventiva, formale comunicazione dell’avvio del procedimento costituisce un adempimento indispensabile al fine dell’effettiva instaurazione di un contraddittorio procedimentale con gli interessati e (…) non si può applicare il temperamento che l’art. 21 octies della legge n. 241 del 1990 apporta alla regola generale dell’art. 7 della stessa legge”. FM
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Inserito in data 06/04/2016 TAR LAZIO - ROMA, SEZ. I - 5 aprile 2016, n. 4099 Intese orizzontali restrittive della concorrenza mediante pratica concordata Il Tribunale amministrativo laziale ritiene infondata l’impugnazione di un provvedimento, emesso dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato, con il quale veniva sanzionata un’intesa restrittiva del mercato, in violazione degli artt. 101 T.f.U.e. e 2 l. n. 287/1990. La fattispecie concreta concerneva la convocazione, normalmente settimanale, di riunioni, alle quali prendevano parte le principali imprese di un settore produttivo, finalizzate allo scambio di informazioni confidenziali di natura commerciale, e al coordinamento delle attività. Si sottolinea, in particolare, la ripartizione delle commesse sulla base di quote di mercato, l’indicazione del prezzo di vendita e delle altre condizioni contrattuali da praticare, il monitoraggio sul rispetto del principio di non reciproca aggressione, e la predisposizione di una sistema sanzionatorio in caso di violazioni. Gli operatori economici ricorrenti non contestavano la sussistenza di una pratica anticoncorrenziale, ma sollecitavano una corretta valutazione dell’effettiva gravità della condotta, tenendo conto del contesto di crisi economica presente. Richiamando giurisprudenza precedente, il collegio afferma che: “La fattispecie dell’accordo ricorre qualora le imprese abbiano espresso la loro comune volontà di comportarsi sul mercato in un determinato modo e la pratica concordata corrisponde ad una forma di coordinamento fra imprese che, senza essere spinta fino all’attuazione di un vero e proprio accordo, sostituisce, in modo consapevole, un’espressa collaborazione fra le stesse per sottrarsi ai rischî della concorrenza. I criterî del coordinamento e della collaborazione, che consentono di definire tali nozioni, vanno intesi alla luce dei principî in materia di concorrenza, secondo cui ogni operatore economico deve autonomamente determinare la condotta che intende seguire sul mercato. Pur non escludendo la suddetta esigenza di autonomia il diritto degli operatori economici di reagire intelligentemente al comportamento noto o presunto dei concorrenti, essa vieta però rigorosamente che fra gli operatori abbiano luogo contatti diretti o indiretti aventi per oggetto o per effetto di creare condizioni di concorrenza non rispondenti alle condizioni normali del mercato. In particolare l’intesa restrittiva della concorrenza mediante pratica concordata richiede comportamenti di più imprese, uniformi e paralleli, che costituiscano frutto di concertazione e non di iniziative unilaterali, sicché nella pratica concordata manca, o comunque non è rintracciabile da parte dell’investigatore, un accordo espresso, il che è agevolmente comprensibile, ove si consideri che gli operatori del mercato (…), tenteranno con ogni mezzo di celarla (…), ricorrendo, invece, a reciproci segnali volti ad addivenire ad una concertazione di fatto. La giurisprudenza, consapevole della rarità dell’acquisizione di una prova piena, ritiene che la prova della pratica concordata, oltre che documentale, possa anche essere indiziaria, purché gli indizî siano gravi, precisi e concordanti. Nella pratica concordata l’esistenza dell’elemento soggettivo della concertazione deve perciò desumersi in via indiziaria da elementi oggettivi, quali la durata, l’uniformità e il parallelismo dei comportamenti; l’esistenza di incontri tra le imprese; gli impegni, ancorché generici e apparentemente non univoci, di strategie e politiche comuni; i segnali e le informative reciproche; il successo pratico dei comportamenti, che non potrebbe derivare da iniziative unilaterali, ma solo da condotte concertate, ed al riguardo, la giurisprudenza comunitaria e nazionale distingue tra parallelismo naturale e parallelismo artificiosamente indotto da intese anticoncorrenziali, di cui la prima fattispecie da dimostrare sulla base di elementi di prova endogeni, ossia collegati alla stranezza intrinseca delle condotte accertate e alla mancanza di spiegazioni alternative (…), e la seconda sulla base di elementi di prova esogeni, ossia di riscontri esterni circa l’intervento di un’intesa illecita al di là della fisiologica stranezza della condotta in quanto tale. La differenza tra le due fattispecie (…) si riflette sul soggetto, sul quale ricade l’onere della prova: nel primo caso, la prova dell’irrazionalità delle condotte grava sull’Autorità, mentre, nel secondo caso, l’onere probatorio contrario viene spostato in capo all’impresa. In particolare, qualora, a fronte della semplice constatazione di un parallelismo di comportamenti sul mercato, il ragionamento dell’Autorità sia fondato sulla supposizione che le condotte poste a base dell’ipotesi accusatoria oggetto di contestazione non possano essere spiegate altrimenti se non con una concertazione tra le imprese, a queste ultime basta dimostrare circostanze plausibili che pongano sotto una luce diversa i fatti accertati dall’Autorità e che consentano, così, di dare una diversa spiegazione dei fatti rispetto a quella accolta nell’impugnato provvedimento. Qualora, invece, la prova della concertazione non sia basata sulla semplice constatazione di un parallelismo di comportamenti, ma dall’istruttoria emerga che le pratiche possano essere stati frutto di una concertazione e di uno scambio di informazioni in concreto tra le imprese, in relazione alle quali vi siano ragionevoli indizî di una pratica concordata anticoncorrenziale, grava sulle imprese l’onere di fornire una diversa spiegazione lecita delle loro condotte e dei loro contatti”. Ai fini della lesività della condotta posta in essere, la Commissione europea e la Corte di giustizia hanno più volte ribadito “l’intrinseca e per così dire ontologica gravità delle intese orizzontali fra operatori economici volte alla spartizione del mercato, in relazione al conseguente forte pregiudizio per il rapporto di libera concorrenza indipendentemente dalla quantificazione dei relativi effetti rapportabili alle singole imprese facenti parte dell’intesa”. Nel caso di specie, inoltre, le pratiche compiute “configurano le più gravi restrizioni della concorrenza già per il loro oggetto, senza bisogno che ne sia provato l’effetto”. In ordine, poi, alle argomentazioni riferite alla crisi e alle dimensioni dei mercati coinvolti, secondo i giudici romani: “La peculiarità della situazione economica del settore non può comunque consentire pratiche, come quella in esame, di concertazione delle politiche di prezzo e di spartizione della clientela (…), e l’eventuale situazione di crisi di un settore economico non è contemplata tra i criterî rilevanti nell’ambito del giudizio di gravità dell’infrazione”. Inoltre “la mera presenza di marginali deviazioni, da parte delle imprese, rispetto (a) quanto concordato non vale a contraddire che l’intesa sia stata attuata”. Il consolidato orientamento comunitario e nazionale circa l’intrinseca gravità delle intese orizzontali è stato esplicitato anche nel p. 12 delle Linee guida sulle modalità di applicazione dei criteri di quantificazione delle sanzioni amministrative pecuniarie. FM
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Inserito in data 05/04/2016 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III - 25 marzo 2016, n. 1240 Questione rilevata d’ufficio: obbligatorietà del contraddittorio Nel caso di questioni rilevate d’ufficio, le parti, nel corso del giudizio, devono essere poste nelle condizioni di controdedurre rispetto all’eccepita questione – questo il principio affermato dalla III Sez. del Consiglio di Stato nella sentenza de qua. Nella fattispecie, alla base dell’impugnata decisione resa dal giudice di prime cure era stata posta una questione rilevata d’ufficio (nel caso concreto, un vizio di notificazione del ricorso) rispetto alla quale non era stato previamente instaurato alcun contraddittorio tra le parti. In particolare, il Collegio, nel giudizio de quo, ha verificato che il giudice di primo grado non aveva proceduto a norma dell’art. 73, comma 3, c.p.a., ovvero provvedendo a comunicare alla parte in udienza la questione rilevata d’ufficio, rilevante ai fini della definizione della causa, né aveva provveduto ad emanare un’ordinanza con assegnazione alle parti di un termine per il deposito di memorie in ordine alla rilevata questione. Pertanto, accogliendo il ricorso proposto, i Giudici di Palazzo Spada, ai sensi dell’art.105 c.p.a., hanno rimesso la causa avanti al giudice di prime cure, essendo per l’appunto mancato, in primo grado, il contraddittorio sulla questione sollevata d’ufficio. MB
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Inserito in data 04/04/2016 TAR CAMPANIA - NAPOLI, SEZ. VIII - 24 marzo 2016, n. 1560 Sorteggio o esperimento migliorativo in caso di parità delle offerte? Con la pronuncia in epigrafe, la Sez. ottava del T.A.R. Campania – Napoli ha affrontato la questione relativa alla legittimità o meno dell’aggiudicazione di un appalto di servizi, disposta mediante sorteggio tra le due offerte risultate pari merito, ove la stazione appaltante non abbia preventivamente consentito alle imprese partecipanti alla gara l’esperimento migliorativo della propria offerta. Ai sensi del 1° comma dell’art.77 del R.D. n.827 del 23.05.24, quando nelle aste a ribasso due o più concorrenti presenti all’asta facciano la medesima offerta ed essa sia accettabile, la Commissione, accertata la definitiva identità di punteggio delle offerte, procede ad una licitazione esclusivamente fra i concorrenti risultati pari merito, dovendo dichiarare aggiudicatario colui che abbia migliorato i termini della propria offerta. Solo nell’ipotesi in cui nessuno di coloro che hanno presentato le medesime offerte sia presente alle operazioni di gara ovvero nel caso in cui i presenti non vogliano migliorare le condizioni dell’offerta sarà ammesso il ricorso al sorteggio ai sensi del richiamato art. 77. La stessa giurisprudenza formatasi in materia – hanno ricordato i Giudici campani - ha affermato che “l’esperimento del tentativo di miglioria delle offerte, di cui al primo comma del cit. art. 77 del R.D. n. 827/24, va in ogni caso ammesso da parte del seggio di gara, prima che possa procedersi al sorteggio tra le offerte eguali; e ciò quand’anche la lex specialis di gara (come nel caso di specie) indicasse nel sorteggio l’unica modalità di scioglimento della parità tra più offerte”. Quindi, la parità delle offerte deve ritenersi raggiunta quando non siano state apportate migliorie alle condizioni dell’offerta stessa ovvero le offerte siano risultate di importo pari. La finalità della disposizione – ha sottolineato il Collegio - è quella di “assicurare all’Amministrazione, a fronte della parità tra i concorrenti, la possibilità di ottenere un vantaggio ulteriore, in luogo di rimettere meramente alla sorte la scelta tra i due partecipanti classificati con pari punteggio”.
Peraltro - hanno ulteriormente precisato i giudici della Sez. ottava - la norma in questione, contenuta nel regolamento di contabilità generale dello Stato, presenta un’applicazione generalizzata - poiché mai abrogata, né implicitamente né esplicitamente, dagli interventi legislativi susseguitisi in materia di appalti - ed è, pertanto, suscettibile di applicazione in tutte le procedure di gara. MB
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Inserito in data 01/04/2016 TAR MOLISE - CAMPOBASSO, SEZ. I - ORDINANZA DI RIMESSIONE ALLA CORTE COSTITUZIONALE, 25 marzo 2016, n. 161 E’ rilevante e non manifestamente infondata la q.l.c. dell’art. 9 del D.L. n. 90/14 La controversia posta al vaglio del Tar Molise ha ad oggetto “le sensibili riduzioni che il citato art. 9 del d.l. 24 giugno 2014, n. 90 convertito nella legge 11 agosto 2014, n. 114 dei compensi professionali da riconoscere agli Avvocati (e Procuratori) dello Stato”. Al fine di una migliore comprensione del giudizio, è utile riportare il contenuto dell’art. art. 9 del d.l. n. 90/2014: <<(Riforma degli onorari dell'Avvocatura generale dello Stato e delle avvocature degli enti pubblici). 1. I compensi professionali corrisposti dalle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, agli avvocati dipendenti delle amministrazioni stesse, ivi incluso il personale dell'Avvocatura dello Stato, sono computati ai fini del raggiungimento del limite retributivo di cui all'articolo 23-ter del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, e successive modificazioni. 2. Sono abrogati il comma 457 dell'articolo 1 della legge 27 dicembre 2013, n. 147, e il terzo comma dell'articolo 21 del testo unico di cui al regio decreto 30 ottobre 1933, n. 1611. L'abrogazione del citato terzo comma ha efficacia relativamente alle sentenze depositate successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto. 3. Nelle ipotesi di sentenza favorevole con recupero delle spese legali a carico delle controparti, le somme recuperate sono ripartite tra gli avvocati dipendenti delle amministrazioni di cui al comma 1, esclusi gli avvocati e i procuratori dello Stato, nella misura e con le modalità stabilite dai rispettivi regolamenti e dalla contrattazione collettiva ai sensi del comma 5 e comunque nel rispetto dei limiti di cui al comma 7. La parte rimanente delle suddette somme è riversata nel bilancio dell'amministrazione. 4. Nelle ipotesi di sentenza favorevole con recupero delle spese legali a carico delle controparti, il 50 per cento delle somme recuperate è ripartito tra gli avvocati e procuratori dello Stato secondo le previsioni regolamentari dell'Avvocatura dello Stato, adottate ai sensi del comma 5. Un ulteriore 25 per cento delle suddette somme è destinato a borse di studio per lo svolgimento della pratica forense presso l'Avvocatura dello Stato, da attribuire previa procedura di valutazione comparativa. Il rimanente 25 per cento è destinato al Fondo per la riduzione della pressione fiscale, di cui all'articolo 1, comma 431, della legge 27 dicembre 2013, n. 147, e successive modificazioni. 5. I regolamenti dell'Avvocatura dello Stato e degli altri enti pubblici e i contratti collettivi prevedono criteri di riparto delle somme di cui al primo periodo del comma 3 e al primo periodo del comma 4 in base al rendimento individuale, secondo criteri oggettivamente misurabili che tengano conto tra l'altro della puntualità negli adempimenti processuali. I suddetti regolamenti e contratti collettivi definiscono altresì i criteri di assegnazione degli affari consultivi e contenziosi, da operare ove possibile attraverso sistemi informatici, secondo princìpi di parità di trattamento e di specializzazione professionale. 6. In tutti i casi di pronunciata compensazione integrale delle spese, ivi compresi quelli di transazione dopo sentenza favorevole alle amministrazioni pubbliche di cui al comma 1, ai dipendenti, ad esclusione del personale dell'Avvocatura dello Stato, sono corrisposti compensi professionali in base alle norme regolamentari o contrattuali vigenti e nei limiti dello stanziamento previsto, il quale non può superare il corrispondente stanziamento relativo all'anno 2013. Nei giudizi di cui all'articolo 152 delle disposizioni per l'attuazione del codice di procedura civile e disposizioni transitorie, di cui al regio decreto 18 dicembre 1941, n. 1368, possono essere corrisposti compensi professionali in base alle norme regolamentari o contrattuali delle relative amministrazioni e nei limiti dello stanziamento previsto. Il suddetto stanziamento non può superare il corrispondente stanziamento relativo all'anno 2013. 7. I compensi professionali di cui al comma 3 e al primo periodo del comma 6 possono essere corrisposti in modo da attribuire a ciascun avvocato una somma non superiore al suo trattamento economico complessivo. 8. Il primo periodo del comma 6 si applica alle sentenze depositate successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto. I commi 3, 4 e 5 e il secondo e il terzo periodo del comma 6 nonché il comma 7 si applicano a decorrere dall'adeguamento dei regolamenti e dei contratti collettivi di cui al comma 5, da operare entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto. In assenza del suddetto adeguamento, a decorrere dal 1ºgennaio 2015, le amministrazioni pubbliche di cui al comma 1 non possono corrispondere compensi professionali agli avvocati dipendenti delle amministrazioni stesse, ivi incluso il personale dell'Avvocatura dello Stato. 9. Dall'attuazione del presente articolo non devono derivare minori risparmi rispetto a quelli già previsti a legislazione vigente e considerati nei saldi tendenziali di finanza pubblica>>. Ciò considerato, “il Tribunale osserva che le disposizioni in esame, per il loro contenuto univoco e (su alcuni profili) di immediata applicazione, non si prestano in alcun modo a una interpretazione costituzionalmente orientata, imponendo la rimessione della questioni alla Corte costituzionale in relazione agli aspetti che ad avviso del Collegio non sono manifestamente infondati e che di seguito si illustrano”. Invero, “la prima di tali questioni concerne la possibilità, ai sensi dell’art. 77 Cost., di introdurre una vera e propria riforma strutturale del trattamento economico spettante agli Avvocati dello Stato, con lo strumento del decreto legge (peraltro a contenuto plurimo)”. La questione menzionata riveste, peraltro, “carattere pregiudiziale rispetto a quelle di merito in quanto riguarda la stessa ammissibilità dello strumento del decreto legge ed è stata già scrutinata in giudizio identico dal Tribunale Regionale di Giustizia Amministrativa di Trento, che l’ha rimessa alla Corte Costituzionale, ritenendola non manifestamente infondata, con argomenti che il Collegio ritiene condivisibili (cfr. ordinanza 10 marzo 2016, n. 138)”. Secondo il Tribunale di Giustizia Amministrativa, infatti, <<l’art. 77, commi secondo e terzo, della Costituzione prevede la possibilità per il Governo di adottare, sotto la propria responsabilità, atti con forza di legge (nella forma del decreto legge) come ipotesi eccezionale, subordinata al rispetto di condizioni precise. Tali atti, qualificati dalla stessa Costituzione come “provvisori”, devono risultare fondati sulla presenza di presupposti “straordinari” di necessità ed urgenza e devono essere presentati, il giorno stesso della loro adozione, alle Camere, ai fini della conversione in legge, conversione che va operata nel termine di sessanta giorni dalla loro pubblicazione. Ove la conversione non avvenga entro tale termine, i decreti-legge perdono la loro efficacia fin dall'inizio, salva la possibilità per le Camere di regolare con legge i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti-legge non convertiti. Al riguardo la Corte costituzionale (che, inizialmente, aveva reputato la legge di conversione quale atto di novazione della fonte, il che rendeva impossibile lo scrutinio sui presupposti del decreto legge una volta intervenuta la conversione, cfr. sentenza n. 108 del 1986), a partire dalla metà degli anni novanta del secolo scorso ha affermato che “la preesistenza di una situazione di fatto comportante la necessità e l'urgenza di provvedere tramite l'utilizzazione di uno strumento eccezionale, quale il decreto-legge, costituisce un requisito di validità costituzionale dell'adozione del predetto atto, di modo che l'eventuale evidente mancanza di quel presupposto configura in primo luogo un vizio di illegittimità costituzionale del decreto-legge che risulti adottato al di fuori dell'ambito applicativo costituzionalmente previsto”. La Corte ha altresì precisato che lo scrutinio di costituzionalità “deve svolgersi su un piano diverso” rispetto all'esercizio del potere legislativo, in cui “le valutazioni politiche potrebbero essere prevalenti”. Ha specificato al riguardo che “il difetto dei presupposti di legittimità della decretazione d'urgenza, in sede di scrutinio di costituzionalità”, deve “risultare evidente”, e che tale difetto di presupposti, “una volta intervenuta la conversione, si traduce in un vizio in procedendo della relativa legge”. Ha perciò escluso, con ciò, l'eventuale efficacia sanante di quest'ultima, dal momento che “affermare che tale legge di conversione sana in ogni caso i vizi del decreto, significherebbe attribuire in concreto al legislatore ordinario il potere di alterare il riparto costituzionale delle competenze del Parlamento e del Governo quanto alla produzione delle fonti primarie” (sentenze n. 128 del 2008; n. 171 del 2007; n. 29 del 1995). La Corte ha poi precisato che il riconoscimento dell’esistenza dei presupposti fattuali di cui all’art. 77, secondo comma, si ricollega “ad una intrinseca coerenza delle norme contenute in un decreto-legge, o dal punto di vista oggettivo e materiale, o dal punto di vista funzionale e finalistico”, e che l’urgente necessità del provvedere “può riguardare una pluralità di norme accomunate dalla natura unitaria delle fattispecie disciplinate, ovvero anche dall’intento di fronteggiare situazioni straordinarie complesse e variegate, che richiedono interventi oggettivamente eterogenei, afferenti quindi a materie diverse, ma indirizzati all’unico scopo di approntare rimedi urgenti a situazioni straordinarie venutesi a determinare”. In tale ottica, la Corte ha conferito rilievo anche all'art. 15, comma 3, della l. 23.8.1988, n. 400, che “pur non avendo, in sé e per sé rango costituzionale, e non potendo quindi assurgere a parametro di legittimità … costituisce esplicitazione della ratio implicita nel secondo comma dell'art. 77 Cost., il quale impone il collegamento dell'intero decreto legge al caso straordinario di necessità e urgenza, che ha indotto il Governo ad avvalersi dell'eccezionale potere di esercitare la funzione legislativa senza previa delegazione da parte del Parlamento” (sentenza n. 22 del 2012 sul cosiddetto “decreto milleproroghe”). Ora, applicando gli insegnamenti della Corte costituzionale, occorre verificare se la “evidente” carenza del requisito della straordinarietà, del caso di necessità e di urgenza di provvedere, renda la prospettata questione non manifestamente infondata. Al riguardo si osserva che l'epigrafe del decreto reca l'intestazione “Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l'efficienza degli uffici giudiziari”. Il preambolo del decreto così recita: “Ritenuta la straordinaria necessità e urgenza di emanare disposizioni volte a favorire la più razionale utilizzazione dei dipendenti pubblici, a realizzare interventi di semplificazione dell'organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici e ad introdurre ulteriori misure di semplificazione per l'accesso dei cittadini e delle imprese ai servizi della pubblica amministrazione; Ritenuta la straordinaria necessità ed urgenza di introdurre disposizioni volte a garantire un miglior livello di certezza giuridica, correttezza e trasparenza delle procedure nei lavori pubblici, anche con riferimento al completamento dei lavori e delle opere necessarie a garantire lo svolgimento dell'evento Expo 2015; Ritenuta la straordinaria necessità ed urgenza di emanare disposizioni per l'efficiente informatizzazione del processo civile, amministrativo, contabile e tributario, nonché misure per l'organizzazione degli uffici giudiziari, al fine di assicurare la ragionevole durata del processo attraverso l'innovazione dei modelli organizzativi e il più efficace impiego delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione”. A sua volta, l’art. 9 all’esame è parte del Titolo I rubricato “Misure urgenti per l'efficienza della p.a. e per il sostegno dell'occupazione” e del Capo I denominato “Misure urgenti in materia di lavoro pubblico”. Gli articoli del Capo dispongono, principalmente, in materia di ricambio generazionale nelle pubbliche amministrazioni, di semplificazione e flessibilità nel turn-over, di mobilità obbligatoria e volontaria, di assegnazione di nuove mansioni, di divieto di incarichi dirigenziali a soggetti in quiescenza, di prerogative sindacali, di incarichi negli uffici di diretta collaborazione. Occorre ora ricordare che, ai sensi dell'art. 15, comma 1, della l. n. 400 del 1988, i decreti legge sono presentati per l'emanazione “con l'indicazione, nel preambolo, delle circostanze straordinarie di necessità e di urgenza che ne giustificano l'adozione”, mentre il comma 3 sancisce che “i decreti devono contenere misure di immediata applicazione e il loro contenuto deve essere specifico, omogeneo e corrispondente al titolo”. Ebbene, il dubbio di costituzionalità dell'art. 9 del decreto legge n. 90 del 2014 insorge in relazione alla circostanza che nessun collegamento pare ravvisabile tra le riportate premesse e le previsioni normative di cui si prospetta l'illegittimità costituzionale. Difatti, il primo paragrafo del preambolo fa riferimento a interventi organizzativi e semplificatori nella e della Pubblica amministrazione, il secondo alle procedure dei lavori pubblici, il terzo all’informatizzazione processuale. Ambiti, dunque, che con la disposizioni di cui si discute - volta a riformare la struttura degli onorari degli avvocati dello Stato e degli altri enti pubblici nell’ottica del contenimento della spesa pubblica - non sembrano aver nulla a che vedere. Appare dunque carente il rapporto tra la norma censurata e l’elemento funzionale - finalistico proclamato nel preambolo, come espressamente richiesto dalla Corte costituzionale. Per converso, in nessun punto del preambolo è stato dato conto delle ragioni di necessità e di urgenza che imponevano l'adozione - a mezzo di decreto legge - delle disposizioni di riforma strutturale degli onorari all’Avvocatura dello Stato di cui all'art. 9. L’infrazione dell’art. 77, secondo comma, della Costituzione appare, quindi, questione non manifestamente infondata. A tale stregua occorre ancora rammentare che la Corte costituzionale ha specificato come “l'inserimento di norme eterogenee all’oggetto o alla finalità del decreto spezza il legame logico-giuridico tra la valutazione fatta dal Governo dell’urgenza del provvedere ed «i provvedimenti provvisori con forza di legge»”, di cui all’art. 77, e che “il presupposto del «caso» straordinario di necessità e urgenza inerisce sempre e soltanto al provvedimento inteso come un tutto unitario, atto normativo fornito di intrinseca coerenza, anche se articolato e differenziato al suo interno”, per cui “la scomposizione atomistica della condizione di validità prescritta dalla Costituzione si pone in contrasto con il necessario legame tra il provvedimento legislativo urgente ed il «caso» che lo ha reso necessario, trasformando il decreto-legge in una congerie di norme assemblate soltanto da mera casualità temporale” (sentenza n. 22 del 2012). Ne discende che l’immissione delle disposizioni all’esame (come si è detto, di riforma strutturale degli onorari) nel corpo di un decreto legge volto, dichiaratamente, alla “più razionale utilizzazione dei dipendenti pubblici, a realizzare interventi di semplificazione dell'organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici e a introdurre ulteriori misure di semplificazione per l'accesso dei cittadini e delle imprese ai servizi della pubblica amministrazione”, non vale a trasmettere alle stesse - che appaiono quindi dissonanti - il carattere di urgenza proprio delle altre disposizioni, legate invece tra loro dalla comunanza di oggetto o di finalità. Per altro, ma correlato, profilo, occorre osservare che l’art. 9 contiene anche alcune misure che non sono “auto-applicative”, ossia “di immediata applicazione” come sancito dall'art. 15, comma 3, della l. n. 400 del 1988. Sul punto si rileva che, nonostante sia previsto che la nuova disciplina si applichi alle sentenze pubblicate dopo l’entrata in vigore del d.l. n. 90 del 2014, il comma 8 stabilisce però che il nuovo regime dei compensi (nella parte che riconosce il 50 per cento delle somme recuperate - commi 3, 4 e 5, secondo e terzo periodo del comma 6) può trovare applicazione solo a decorrere dall’introduzione, nei regolamenti dell'Avvocatura dello Stato, di regole che prevedano criteri di riparto delle somme “in base al rendimento individuale, secondo criteri oggettivamente misurabili che tengano conto tra l'altro della puntualità negli adempimenti processuali”. Sicché, trova ulteriore conferma il dubbio circa la concreta sussistenza del caso straordinario di necessità e di urgenza, il solo che può legittimare il Governo ad avvalersi dell’eccezionale potere di esercitare la funzione legislativa senza previa delegazione da parte del Parlamento>>. Sulla base di tali considerazioni, “il Tribunale della Giustizia Amministrativa di Trento ha sospeso il giudizio e rimesso gli atti alla Corte costituzionale, limitatamente alla questione appena illustrata e il Collegio ritiene che analoga rimessione debba essere disposta anche nell’ambito del presente giudizio”. Unitamente alla questione testé illustrata, “il Collegio nutre perplessità su altra questione di legittimità costituzionale della disciplina in esame, con cui i ricorrenti lamentano la violazione del principio di uguaglianza (art. 3 della Costituzione) tra Avvocati dello Stato ed Avvocati di altre Amministrazioni pubbliche, avendo i commi 3 e 6 dell’art. 9 del d.l. n. 90/2014 introdotto la decurtazione degli onorari solo per i primi (corresponsione nei limiti del 50% delle somme liquidate nei provvedimenti giurisdizionali in favore dell’Amministrazione in caso di vittoria della causa ed azzeramento dei compensi stessi in caso di transazione e compensazione delle spese)”. A tal uopo, la Corte Costituzionale ha avuto modo di chiarire che il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, attraverso cui può attuarsi una politica di riequilibrio del bilancio, implicano sacrifici gravosi “che trovano giustificazione nella situazione di crisi economica”, si giustificano sotto il profilo della ragionevolezza “in quanto mirate ad un risparmio di spesa che opera riguardo a tutto il comparto del pubblico impiego, in una dimensione solidaristica − sia pure con le differenziazioni rese necessarie dai diversi statuti professionali delle categorie che vi appartengono − e per un periodo di tempo limitato, che comprende più anni in considerazione della programmazione pluriennale delle politiche di bilancio” (Corte Cost. n. 310/2013). Si tratta, quindi, di provvedimenti che, pur diversamente modulati, “devono applicarsi all’intero comparto pubblico e impongono limiti e restrizioni generali”, in una dimensione che la Corte ha connotato in senso solidaristico (sentenza n. 310 del 2013, punto 13.5. del Considerato in diritto, già citato e sentenza n. 178 del 2015). Alla luce delle riportate coordinate, “destano perplessità le specifiche deroghe specificamente riferite all’Avvocatura di Stato nei commi 3 e 6 del contestato articolo 9 del d.l. 90/2014, atteso che mentre agli avvocati delle Amministrazioni pubbliche non statali è accordata la possibilità di acquisire le somme liquidate in favore dell’Amministrazione patrocinata, anche in misura integrale secondo quanto previsto nei regolamenti dei rispettivi enti, per gli Avvocati dello Stato una tale possibilità è limitata ex ante al 50%, mentre è del tutto esclusa con riguardo ai casi di sentenza favorevole con compensazione delle spese ove invece gli avvocati delle altre Amministrazioni incontrano il solo limite dello stanziamento di bilancio per l’anno 2013”. Per il Collegio, infatti, deve escludersi che tale divaricazione della disciplina trovi giustificazione nel livello della “componente fissa” della retribuzione degli Avvocati dello Stato, “non potendo addursi a pretesa giustificazione la circostanza per cui siffatta componente fissa sarebbe superiore in media a quella degli avvocati delle Amministrazioni pubbliche, poiché, come noto, i difensori, soprattutto quelli posti in posizione apicale, di altre pubbliche amministrazioni, con particolare riferimento alle Autorità di regolazione, godono di un trattamento economico che, nella parte fissa, è superiore a quello degli Avvocati dello Stato”. Peraltro, “gli avvocati delle Amministrazioni pubbliche diverse dallo Stato hanno statuti e inquadramenti che mutano da un ente all’altro senza possibilità di individuare una disciplina giuridico/economica unitaria, di modo che l’assegnazione ai soli Avvocati dello Stato di un trattamento economico variabile peggiorativo rispetto agli altri, potrebbe assumere il carattere di una penalizzazione discriminante, soprattutto se il trattamento deteriore consegue alla semplice appartenenza alle fila dell’Avvocatura e non sia agganciata ad una soglia stipendiale specifica”. Ne consegue, quindi, che “i dubbi di costituzionalità non si sarebbero posti qualora il provvedimento contestato, anziché identificare specificamente negli Avvocati dello Stato i destinatari della deroga, avesse stabilito la limitazione del riconoscimento delle competenze nei confronti di tutti gli avvocati di enti pubblici che superassero nella quota fissa una determinata retribuzione; ciò in linea con la richiamata giurisprudenza costituzionale secondo cui la prioritaria azione di risanamento delle finanze, pur legittimando l’adozione di misure che comportano sacrifici per le categorie di volta in volta incise, non può non essere condotta nel rispetto del fondamentale principio di ragionevolezza e deve avere riguardo a tutto il comparto del pubblico impiego sia pure valorizzando le distinzioni statutarie esistenti” (cfr.: Corte Costituzionale sentenza 310 del 2013, cit.). Nella fattispecie, “l’art. 9 del d.l. n. 90/2014 è rivolto alla riforma della retribuzione della parte variabile dei compensi non solo dell’Avvocatura dello Stato ma di tutte le avvocature pubbliche, di modo che la coerenza e ragionevolezza dell’intervento normativo deve essere letta nel contesto più generale in cui l’intervento è posto in essere, con la conseguenza che ogni differenziazione del trattamento, quale è quello deteriore riservato all’Avvocatura dello Stato nel riconoscimento delle “spese legali”, dovrebbe fondarsi su circostanze obiettive che nella specie non paiono ravvisabili”. Con ciò non si vuole trascurare di considerare “il particolare statuto che regola l’attività degli Avvocati dello Stato i quali, a differenza degli avvocati delle altre Amministrazioni pubbliche, appartengono ad un plesso organizzativo distinto rispetto a quello dell’ente (lo Stato) che essi sono chiamati difendere in sede giudiziale; sennonché, il Collegio ritiene che tale circostanza rilevi al fine di garantire una posizione di maggiore indipendenza ai primi, ma non può valere a giustificarne la sottoposizione ad un trattamento economico deteriore rispetto a quello goduto dalle altre avvocature pubbliche, soprattutto nei casi in cui queste godano del medesimo trattamento economico di parte fissa”. In conclusione, le considerazioni esposte fondano “il giudizio di rilevanza, ai fini della compiuta decisione nel merito della controversia, e di non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 9 del d.l. n. 90 del 2014, di “Riforma degli onorari dell'Avvocatura generale dello Stato e delle avvocature degli enti pubblici”, per contrasto con gli artt. 77, secondo comma, e 3 della Costituzione”. EF
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Inserito in data 31/03/2016 TAR MARCHE - ANCONA, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA, 22 marzo 2016, n. 185 Rimessa alla Corte di Giustizia UE l’esperibilità della VIA per impianto già realizzato Con l’ordinanza in esame, il Collegio sospende il giudizio “al fine di richiedere alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea una decisione in ordine alla compatibilità comunitaria dell’esperibilità della verifica di assoggettabilità a valutazione di impatto ambientale (art. 4 c.2 direttiva 2011/92/UE) e, conseguentemente, alla VIA, relativamente ad un impianto già realizzato. Nella fattispecie, “ciò è avvenuto a seguito di annullamento giurisdizionale dell’autorizzazione concessa in assenza di verifica di assoggettabilità a VIA”, in quanto tale verifica era stata esclusa in base a normativa interna in contrasto con il diritto comunitario. A tal proposito, il Collegio ritiene che “nell’ordinamento interno italiano non è attualmente presente alcuna norma che disciplini la valutazione di impatto ambientale cosiddetta postuma, ad impianto realizzato”. Invero, “per gli impianti già autorizzati, l’art. 29, comma 1, del d.lgs. n. 152/2006 stabilisce semplicemente che i provvedimenti di autorizzazione o approvazione adottati senza la previa valutazione di impatto ambientale sono annullabili per violazione di legge, come avvenuto nel caso in esame. In caso di realizzazione degli impianti senza la previa sottoposizione alle fasi di verifica di assoggettabilità o di valutazione, il medesimo art. 29 del d.lgs. n.152/2006 dispone, al comma 4, che l’autorità competente, valutata l'entità del pregiudizio ambientale arrecato e quello conseguente alla applicazione della sanzione, dispone la sospensione dei lavori e può disporre la demolizione ed il ripristino dello stato dei luoghi e della situazione ambientale a cura e spese del responsabile, o, in caso di inottemperanza, d'ufficio”. Il successivo comma 5 prevede che “in caso di annullamento in sede giurisdizionale o di autotutela di autorizzazioni o concessioni rilasciate previa valutazione di impatto ambientale o di annullamento del giudizio di compatibilità ambientale, i poteri di cui al comma 4 sono esercitati previa nuova valutazione di impatto ambientale”. Sul punto, in recenti pronunce, il Giudice interno ha affermato “la compatibilità comunitaria, della VIA successiva alla realizzazione dell’impianto”. Essa, infatti, “non sarebbe in contrasto con le indicazioni provenienti dalla giurisprudenza comunitaria, la quale si preoccupa di chiarire quali conseguenze derivino dalla mancata previa effettuazione della VIA o della verifica di assoggettabilità alla VIA”. Si è argomentato che “l’omissione comporta, in generale, la sospensione o l'annullamento dell'autorizzazione, salvo casi eccezionali in cui risulti preferibile per l'interesse pubblico che gli effetti del provvedimento siano conservati, ma il vero vincolo per le autorità e i giudici nazionali è che le conseguenze della violazione del diritto comunitario siano cancellate (Corte Giust.28.2.2012 C-41/11, Inter-Environnement Wallonie, punto 63). La sospensione o l'annullamento sono, quindi, “soluzioni giuridiche strumentali, il cui scopo è consentire l'applicazione del diritto comunitario, anche attraverso l'effettuazione della valutazione non eseguita in precedenza, o in alternativa attraverso il risarcimento chiesto dai soggetti che abbiano subito pregiudizi a causa dell'omissione” (Corte Giust. 14.3.2013 C-420/11, Leth, punto 37; Corte Giust. 7.1.2004 C-201/02, Wells, punto 65). Si è, pertanto, ritenuta, sulla base delle predette argomentazioni, “la possibilità di effettuare in un secondo momento l'esame necessario per escludere la verifica di assoggettabilità alla VIA (Tar Brescia 4.6.2015 n. 795: in questo caso la verifica di assoggettabilità è stata successiva ma ha avuto esito negativo, per cui l’impianto non è stato sottoposto a VIA)”. Al contrario, “il giudice di appello, in casi analoghi al presente, sembra avere escluso possibilità di una VIA postuma, seppure con riferimento alla possibilità di mantenere in esercizio gli impianti (in particolare, in sede cautelare Cons. Stato Sez. IV 19.2.2014 n. 798, che, in un caso simile a quello in esame, ordinava l’astensione <<da qualsiasi attività comportante l’ulteriore prosieguo della realizzazione e/o dell’esercizio dell’impianto per cui è causa (fermo e impregiudicato, come è ovvio, l’iter procedimentale della VIA nel frattempo chiesta dalla società odierna appellante, che non è però sufficiente a legittimare ad oggi l’operatività dell’impianto, in considerazione della nota e consolidata giurisprudenza – anche europea – che non ammette una VIA ex post)>>”. Anche nella sentenza Cons. Stato, sez. III, 5.3.2013, n.1324 si è affermato “il necessario carattere preventivo della VIA, in una decisione che però non riguardava un caso di VIA cosiddetta postuma, ma l’annullamento di un’autorizzazione per l’omesso svolgimento della procedura di VIA”. Tuttavia, deve rammentarsi che, in un’altra pronuncia, la Corte di Giustizia si è espressa “per la contrarietà al diritto comunitario di una norma generale che permettesse la realizzazione della VIA a posteriori (Corte giust. 3.7.2008, causa C-215/06 Commissione contro Irlanda), ribadendo la natura preventiva della procedura di VIA”. Ciò posto, con riguardo alla posizione del Collegio, si tratta di valutare se “ci si trovi di fronte a circostanze eccezionali che permettano l’esperimento a posteriori della procedura di VIA, (in presenza, si ripete, di autorizzazioni annullate a causa della mancata sottoposizione a verifica di assoggettabilità alla valutazione di impatto ambientale in ragione di norme contrarie al diritto comunitario)”. Invero, “la posizione del Tribunale è che tale possibilità non appare in contrasto con il diritto comunitario, dovendo essere valutato in particolare quanto contenuto nella sentenza 7.1.2004 C-201/02, Wells”. Ne consegue che, “dopo l'annullamento dell’autorizzazione, deve essere consentita l’applicazione del diritto comunitario, anche attraverso l'effettuazione della valutazione non eseguita in precedenza. Va altresì valutato che la fattispecie all’esame del Tribunale è assimilabile all’annullamento dell’autorizzazione per illegittimità, per la quale anche la normativa interna (art. 29 c.5 d.lgs 152/2006) prevede la possibilità di ripetere la VIA annullata”. Ciò appare coerente con quanto stabilito dalla già citata sentenza Corte giust., 3.7.2008, causa C-215/06 Wells, che nella parte finale (69) afferma “A tale proposito spetta al giudice nazionale accertare se il diritto interno preveda la possibilità di revocare o di sospendere un'autorizzazione già rilasciata al fine di sottoporre il detto progetto ad una valutazione dell'impatto ambientale, conformemente a quanto richiesto dalla direttiva 85/337”. Del resto, anche la già citata sentenza Corte giust., 3.7.2008, causa C-215/06 (secondo cui tale possibilità dovrebbe essere subordinata alla condizione che essa non offra agli interessati l’occasione di aggirare le norme comunitarie o di disapplicarle, e che rimanga eccezionale, nella parte in cui richiama la già citata sentenza Wells), afferma che “la valutazione dell’impatto ambientale può essere effettuata, ad esempio revocando o sospendendo un’autorizzazione già rilasciata al fine di effettuare una tale valutazione, nel rispetto dei limiti dell’autonomia procedurale degli Stati membri”. Tale posizione sembra assimilabile al caso in esame, “dove le autorizzazioni contrarie al diritto comunitario sono state annullate dal giudice nazionale, portando alla riedizione dell’intero procedura, partendo dalla verifica di assoggettabilità alla VIA, l’esperimento di quest’ultima e, infine, eventuale adozione della successiva autorizzazione (che deve essere ancora rilasciata)”. Alla luce di quanto suddetto, il Collegio ritiene necessaria la rimessione alla Corte di Giustizia UE della questione interpretativa alla base dell’odierno ricorso: “Se, in riferimento alle previsioni di cui all’art. 191 del TFUE e all’art. 2 della direttiva 2011/92/UE, sia compatibile con il diritto comunitario l’esperimento di un procedimento di verifica di assoggettabilità a valutazione di impatto ambientale (ed eventualmente a VIA) successivamente alla realizzazione dell’opera, qualora l’autorizzazione sia stata annullata dal giudice nazionale per mancata sottoposizione a verifica di assoggettabilità a valutazione di impatto ambientale, in quanto tale verifica era stata esclusa in base a normativa interna in contrasto con il diritto comunitario”. EF
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Inserito in data 30/03/2016 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V - 25 marzo 2016, n. 1242 Interesse qualificato al ricorso e partecipazione alla gara Il Consiglio di Stato respinge il ricorso intentato da un operatore economico avverso l’aggiudicazione definitiva di una gara alla quale il medesimo non aveva partecipato, non essendo stato impugnato alcun atto presupposto e immediatamente lesivo della sua situazione giuridica. Nel dettaglio, una stazione appaltante, a seguito dell’adozione, da parte del prefetto competente, di un’Informazione interdittiva antimafia ex artt. 84, comma 4, e 91, comma 6, d.lgs. n. 159/2011, incidente nella sfera dell’originario soggetto affidatario dei lavori per cui è causa, e odierno appellante, provvedeva a risolvere il relativo contratto d’appalto. Veniva per l’effetto indetta una nuova procedura di gara ad evidenza pubblica. Alla luce di sopravvenute circostanze, si riteneva “non più sussistente il pericolo di condizionamento da parte della criminalità organizzata nei confronti della (ricorrente)”; il prefetto, pertanto, revocava la misura interdittiva, e provvedeva alla riabilitazione della società in questione. L’appellante, com’è noto, impugnava l’aggiudicazione definitiva della nuova gara. Il collegio evidenzia come l’impresa interessata si sia “limitata ad impugnare l’aggiudicazione definitiva della gara (…), non impugnando alcun atto presupposto e immediatamente lesivo della sua posizione giuridica, segnatamente la scelta dell’amministrazione di indire una nuova gara (…), e limitandosi a riportare, nell’oggetto della domanda, una mera clausola di stile ʻnonché, occorrendo, degli atti presupposti e/o precedenti non ancora cogniti, essendone negato l’accesso’”. “La giurisprudenza ha da tempo affermato che l’utilizzo di formule di stile come quelle utilizzate, nonché di formule analoghe, non sono utili ad estendere l’impugnazione nei confronti di atti non specificamente indicati in epigrafe (gli atti presupposti)”. Richiamando il previgente art. 6, r.d. n. 642/1907, l’attuale art. 40 c.p.a., e l’interpretazione costante della disposizione, osservano i giudici che “nel processo amministrativo l’individuazione degli atti impugnati deve essere operata non con riferimento alla sola epigrafe, bensì in relazione all’effettiva volontà del ricorrente, quale è desumibile dal tenore complessivo del gravame e dal contenuto delle censure dedotte sicché è possibile ritenere che sono oggetto di impugnativa tutti gli atti che, seppure non espressamente indicati tra quelli impugnati ed indipendentemente dalla loro menzione in epigrafe, costituiscono senz’altro oggetto delle doglianze di parte ricorrente in base ai contenuti dell’atto di ricorso; il generico richiamo, nell’epigrafe del ricorso, alla richiesta di annullamento degli atti presupposti, connessi e conseguenti, o la mera citazione di un atto nel corpo del ricorso stesso non sono sufficienti a radicarne l’impugnazione, in quanto i provvedimenti impugnati devono essere puntualmente inseriti nell’oggetto della domanda ed a questi devono essere direttamente collegate le specifiche censure; ciò perché solo l’inequivoca indicazione del petitum dell’azione di annullamento consente alle controparti la piena esplicazione del loro diritto di difesa”. “Nel caso in esame, dal ricorso non si evince in alcun modo, chiaramente ed inequivocabilmente, che parte appellante abbia inteso contestare la decisione di indire la nuova gara con la conseguenza che, mancando l’impugnativa del relativo provvedimento (…), il ricorso di primo grado non può che dichiararsi inammissibile”. “Infatti, nel processo amministrativo, ove sussista un rapporto di presupposizione tra atti, l’omessa o tardiva impugnazione dell’atto presupposto rende inammissibile il ricorso giurisdizionale proposto contro l’atto conseguenziale, ove non emerga la deduzione di vizî proprî che possano connotare un’autonoma illegittimità della singola fase procedimentale di attuazione”. “Condizione essenziale per poter contestare in sede giudiziaria la determinazione negativa della stazione appaltante (…), è l’avvenuta presentazione nei termini fissati dal bando o dalla lettera d’invito della domanda di partecipazione”. “Nel caso di specie, l’appellante (…) non ha partecipato alla gara e, quindi, non ha alcun interesse giuridicamente rilevante a censurarne l’esito al fine di ottenerne la ripetizione, in quanto titolare di un mero interesse di fatto (cfr. Consiglio di Stato, ad. pl., 7 Aprile 2011, n. 4)”. “Il principio sopra esposto, in coerenza con i principî affermati anche in sede comunitaria, può essere derogato riconoscendo la legittimazione a ricorrere anche al non partecipante alla gara, ma solo in tre specifiche ipotesi: - quando, a prescindere, dalla partecipazione alla stessa, il ricorrente abbia specificatamente impugnato la scelta dell’amministrazione di indire la gara; - quando il ricorrente non abbia potuto partecipare alla gara per mancanza della stessa in quanto l’amministrazione ha proceduto ad affidamento diretto; - infine, quando il bando di gara contenga clausole escludenti per il ricorrente”. “Parte appellante pare dolersi (…) esclusivamente dell’eventuale mancato pagamento, da parte della stazione appaltante, delle lavorazioni eseguite e del rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione, nei limiti delle utilità conseguite dall’amministrazione, petitum che attenendo all’esecuzione del contratto, non rientra nella, giurisdizione del giudice adito”.
Inoltre “l’appellante afferma la natura non vincolata, ma discrezionale del potere di risoluzione/recesso esercitato (…), affermazione del tutto confutata da un ormai consolidato orientamento giurisprudenziale di questo Consiglio (…), atteso in particolare che la stazione appaltante non ha facoltà di sindacare il contenuto dell’Informativa prefettizia, poiché è al prefetto che la legge demanda in via esclusiva la raccolta degli elementi e la valutazione circa la sussistenza del tentativo di infiltrazione mafiosa”. FM
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Inserito in data 29/03/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 25 marzo 2016, n. 1239 Danno da ritardo nell’emissione di un provvedimento amministrativo favorevole Con la sentenza in epigrafe il Consiglio di Stato si pronuncia in merito alla natura dei termini di cui all’art. 20, comma 4, d.lgs. n. 152/2006 – dettati in ordine alla Valutazione d’impatto ambientale (V.i.a.) – nonché ai presupposti del risarcimento del danno da ritardo della pubblica amministrazione. Il collegio, segnatamente, rileva come ai termini in questione debba attribuirsi carattere non perentorio, bensì ordinatorio. La relativa inosservanza, infatti, non comporta “alcuna causa inficiante la validità della procedura con conseguente illegittimità degli (…) atti; né implica alcuna decadenza per l’amministrazione dal potere di provvedere, benché tardivamente”. Alla violazione dei termini sono tuttavia connesse “responsabilità disciplinari, penali, contabili e (…) risarcitorie per danni da ritardo, in presenza dei relativi presupposti”. I giudici della quinta sezione, richiamando la propria giurisprudenza, affermano che: “Il solo ritardo nell’emanazione di un atto è elemento sufficiente per configurare un danno ingiusto, con conseguente obbligo di risarcimento, nel caso di procedimento amministrativo lesivo di un interesse pretensivo dell’amministrato, quando tale procedimento sia da concludere con un provvedimento favorevole per il destinatario o se sussistano fondate ragioni per ritenere che l’interessato avrebbe dovuto ottenerlo”. Viene, invero, anche dato atto di un consistente indirizzo giurisprudenziale il quale connette l’accertamento del danno da ritardo, da un lato, alla lesione di interessi legittimi pretensivi, e dall’altro, alla fattispecie dell’art. 2043 c.c.. Secondo tale ricostruzione, la sussistenza del danno e la sua ingiustizia non possono, in linea di principio, presumersi iuris tantum, “in meccanica ed esclusiva relazione al ritardo”, ma necessitano di essere provate, ex art. 2697 c.c., alla luce dei presupposti tanto oggettivi, quanto soggettivi dell’illecito: “Il mero superamento del termine fissato ex lege o per via regolamentare alla conclusione del procedimento costituisce indice oggettivo, ma non integra piena prova del danno”. Nella fattispecie concreta, tuttavia, “a fronte della dimostrazione di un esito favorevole del provvedimento finale, che ha consentito al privato l’ottenimento del bene della vita (…), e a fronte di una palese ed oggettiva inosservanza dei termini procedimentali non giustificata da rilievi da parte dell’amministrazione, in sede procedimentale, ovvero in sede giudiziale, di difficoltà oggettive di tipo tecnico o organizzativo rispetto al concreto affare trattato, deve considerarsi raggiunta la prova dell’elemento soggettivo della fattispecie risarcitoria”. FM
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Inserito in data 26/03/2016 CORTE COSTITUZIONALE - SENTENZA 10 marzo 2016, n. 52 Confessioni religiose, diniego trattative e sindacabilità atto I Giudici della Consulta chiariscono, con la pronuncia in esame, la natura dell’atto con cui il Consiglio dei Ministri ha negato, ad un’associazione nascente, l’apertura delle trattative per la stipulazione dell’intesa di cui all’articolo 8, terzo comma, della Costituzione. Tale norma, nel richiamare l’organizzazione propria delle confessioni religiose diverse dalla cattolica, statuisce come i relativi rapporti con lo Stato italiano siano regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze. L’arresto è degno di rilievo per la particolarità dei profili da esso evidenziati. In primo luogo, infatti, il Collegio costituzionale sottolinea come spetti unicamente al Consiglio dei ministri valutare l’opportunità di avviare trattative con una determinata associazione, al fine di addivenire, in esito ad esse, alla elaborazione bilaterale di una speciale disciplina dei reciproci rapporti. I Giudici ricordano come la previsione di cui al 3’ comma dell’articolo 8 della Costituzione non sia una disposizione procedurale, meramente servente rispetto agli altri due commi della medesima disposizione e, come tale, eventualmente destinata a dare attuazione ai principi di eguaglianza e di pluralismo religioso in essi sancita. Si tratta, piuttosto, di una norma tesa ad estendere il metodo bilaterale ad associazioni in fieri, aventi un’indole differente dalla cattolica, ma solo a seguito di una previa valutazione propria del Consiglio dei Ministri. Di ciò tale Organo risponde dinanzi al Parlamento – ex articolo 2, comma 3, lettera l), della legge n. 400 del 1988 – nel pieno rispetto di una responsabilità politica attivabile in seno ad un Governo parlamentare. La riserva di competenza a favore del Consiglio dei ministri, in ordine alla decisione di avviare o meno le trattative, sottolineano i Giudici, ha l’effetto di rendere possibile, secondo i principi propri del governo parlamentare, l’effettività del controllo del Parlamento fin dalla fase preliminare all’apertura vera e propria delle trattative, controllo ben giustificato alla luce dei delicati interessi protetti dal terzo comma dell’articolo 8 della Costituzione. In quanto tale, prosegue il Collegio della Consulta, non si può ravvedere nel nostro Ordinamento alcun obbligo in capo al Governo a fronte di una “paventata pretesa” vantata da parte delle nascenti associazioni; non configurandosi simili situazioni giuridiche soggettive, ne discende l’insindacabilità in sede giudiziaria. Non spettava, pertanto, alla Corte di cassazione - Sezioni Unite civili - affermare la sindacabilità di una decisione di diniego, prospettata dal Consiglio dei Ministri ed erroneamente sottoposta – nel caso di specie - al vaglio dei Giudici comuni. La valutazione del Governo circa l’avvio delle trattative ex articolo 8, terzo comma, della Costituzione, nel cui ambito ricade anche l’individuazione, in concreto, dell’interlocutore, involge anche apprezzamenti di opportunità – come tali implicanti una discrezionalità politica – rimessa – ex articolo 95 della Costituzione alla responsabilità del Governo e come tale non suscettibile di sindacato giurisdizionale. I Giudici della Consulta, pertanto, ricostruito il quadro delle situazioni giuridiche nascenti e circoscritto il tutto nel novero della discrezionalità politica, escludono la sovrapponibilità di un sindacato del Giudice – quale quello verificatosi e censurato nella fattispecie in esame. CC
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Inserito in data 25/03/2016 CORTE DI CASSAZIONE - PRIMA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 21 marzo 2016, n. 5511 Sulla notifica collettiva ed impersonale agli eredi II codice di rito non contiene una disciplina specifica per la notificazione agli eredi nel caso “in cui la morte della parte intervenga prima della notificazione della sentenza (perché l'evento si è verificato o nel corso del processo, senza essere dichiarato dal procuratore ai fini dell'interruzione, o dopo la chiusura della discussione od, ancora, nella pendenza dei termine lungo di cui all'art. 327 c.p.c.). In tali ipotesi soccorrono le previsioni degli artt. 286 e 328, 2° comma, c.p.c., per un'evidente esigenza di parità di trattamento fra chi vuole provocare il decorso del termine breve di impugnazione attraverso la notificazione della sentenza e chi deve esercitare l'impugnazione: se infatti è giustificata la grave conseguenza del decorso del termine breve, e quindi del possibile passaggio in giudicato della sentenza, per effetto di una notifica impersonale e collettiva, purché effettuata presso l'ultimo domicilio del defunto, altrettanto giustificato è che, proprio per evitare questa conseguenza, il diritto di impugnazione possa essere esercitato verso gli eredi collettivamente e impersonalmente mediante la notifica dell'atto presso il medesimo domicilio” (cfr., in termini, Cass. n. 15123/07). Ne discende la nullità della notifica dell'atto di appello eseguita impersonalmente e collettivamente nei confronti degli eredi non già presso l'ultimo domicilio del defunto, ma al domicilio da questi eletto, nello studio del suo procuratore, nel giudizio di primo grado. Non può, pertanto, invocarsi “il recente revirement delle SS.UU. che, con la sentenza 152951014, hanno ritenuto che quando la morte o la perdita di capacità della parte costituita a mezzo di procuratore non vengano dichiarate in udienza o notificate alle altre parti, è ammissibile, giusta la regola dell'ultrattività del mandato alla lite, la notificazione dell'impugnazione eseguita nei confronti di tale parte presso il predetto procuratore, ai sensi dell'art. 330, 1 ° comma, c.p.c.”. In conclusione, la tardiva costituzione in appello degli eredi, se, da un lato, comporta la sanatoria della nullità della notificazione (con effetto ex nunc), dall’altro, non impedisce il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado. EF
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Inserito in data 25/03/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 24 marzo 2016, n. 1216 La giurisdizione esclusiva del G.A. “abbraccia” qualunque uso e governo del territorio La questione posta al vaglio del Consiglio di Stato riguarda il “cattivo uso di una potestà amministrativa, in relazione al rilascio e al mantenimento - considerati l’uno e l’altro illegittimi - di titoli (autorizzazioni; rifiuto di annullamento in autotutela) che consentirebbero il concreto accesso ad autorimesse in luoghi diversi da quelli per cui i titoli sarebbero stati assentiti e permetterebbero il passaggio su una strada non pubblica”. In sostanza, “la controversia in sé investe atti e provvedimenti concernenti un aspetto di quell’<<uso del territorio>> che - a norma dell’art. 133, lett. f), c.p.a. - appartiene alla giurisdizione esclusiva del G.A.”. A tal proposito, pertanto, “non vi è ragione per discostarsi dai precedenti della Sezione la quale, in adesione agli orientamenti della Corte di Cassazione, ha ritenuto che la giurisdizione esclusiva amministrativa in materia urbanistica abbracci la totalità degli aspetti dell'uso del territorio, per cui, oltre le attribuzioni normative, deve essere ricondotte a tale ambito anche qualunque attività di gestione, nell'accezione onnicomprensiva di governo e uso del territorio” (cfr. sez. IV, 16 febbraio 2011, n. 1014). In conclusione, “la circostanza che - come nel caso di specie - la controversia afferisca a un particolare aspetto dell'uso del territorio comunale è presupposto necessario e sufficiente a fondare la giurisdizione esclusiva del G.A.” (cfr. da ultimo Cass. civ., ss.uu., 9 luglio 2015, n. 1435). EF
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Inserito in data 24/03/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA - 21 marzo 2016, n. 1160 Requisito di moralità professionale e dimostrazione della dissociazione: rinvio alla CgUe Con l’ordinanza in esame, i giudici del Consiglio di Stato rimettono alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea una questione pregiudiziale riguardante la disciplina di cui all’art. 38, comma 1, lett. c), d.lgs. n. 163 del 2006 sul requisito della moralità professionale degli ex amministratori, con particolare riferimento alla dimostrazione da parte dell’impresa concorrente della dissociazione nel caso di condanna penale. In particolare, in base al tenore letterale dell’art. 38, comma 1, lett. c), la portata escludente del requisito di moralità professionale riguarderebbe l’impresa il cui ex amministratore delegato – cessato dalla carica nell’anno antecedente la data di pubblicazione del bando di gara – sia stato condannato con sentenza di condanna passata in giudicato, o con decreto penale di condanna divenuto irrevocabile, oppure con sentenza di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’art. 444 c.p.p., per i reati contemplati nella citata disposizione legislativa, «qualora l’impresa stessa non dimostri che vi sia stata completa ed effettiva dissociazione della condotta penalmente sanzionata». Tuttavia, in base all’interpretazione seguita dal giudice di prime cure nel caso di specie, la portata escludente del requisito in esame è stata ampliata a tal punto che, ad avviso del Consiglio di Stato, la normativa nazionale non sarebbe più compatibile con il diritto dell’Unione Europea. In particolare, essa non sarebbe compatibile nella parte in cui configura una causa di esclusione dalla gara, qualora l’impresa non dimostri che vi sia stata completa ed effettiva dissociazione dalla condotta penalmente sanzionata, rimettendo alla discrezionalità della stazione appaltante la valutazione sull’integrazione della condotta dissociativa, valutazione che – anche alla luce di un parere dell’Autorità di Vigilanza e della prevalente giurisprudenza nazionale – consente a alla stazione appaltante stessa di introdurre, su un piano effettuale, a pena di esclusione dalla gara: (i) oneri informativi e dichiarativi relativi a vicende penali non ancora definite con sentenza irrevocabile (e, quindi, per definizione di esito incerto), non previsti dalla legge neppure in ordine ai soggetti in carica; (ii) oneri di dissociazione spontanea, indeterminati quanto alla tipologia delle condotte scriminanti, al relativo riferimento temporale (anche anticipato rispetto al momento di irrevocabilità della sentenza penale) e alla fase della procedura in cui devono essere assolti; (iii) oneri di leale collaborazione dal contorno indefinito, se non con richiamo alla clausola generale della buona fede. Il Consiglio di Stato, nel rinviare la sopraindicata questione alla Corte di Giustizia dell’Ue, individua come parametri per il giudizio di compatibilità con il diritto europeo l’art. 45, paragrafi 2, lettere c) e g), e 3, lett. a) della Direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 31 marzo 2004 nonché i principi di tutela del legittimo affidamento e di certezza del diritto, di parità di trattamento, di proporzionalità e di trasparenza, di divieto di aggravio del procedimento e di massima apertura alla concorrenza del mercato degli appalti pubblici, nonché di tassatività e determinatezza delle fattispecie sanzionatorie. Infine, il Consiglio ritiene di precisare che la decisione di adire la Corte in via pregiudiziale spetta unicamente al giudice nazionale, a prescindere dal fatto che le parti del procedimento principale ne abbiano o meno formulato l’intenzione, con la conseguente ammissibilità della formulazione di questioni anche d’ufficio, senza attenersi ai quesiti proposti dalle parti. SS |
Inserito in data 24/03/2016 CORTE COSTITUZIONALE - SENTENZA 23 marzo 2016, n. 56 Limiti alla discrezionalità del legislatore in materia di sanzioni penali Il Tribunale ordinario di Verona ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 181, comma 1-bis, lettera a), del d.lgs. 42/2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio), nella parte in cui, anche quando non risultino superati i limiti quantitativi previsti dalla successiva lettera b), punisce con la sanzione della reclusione da uno a quattro anni, anziché con le pene più lievi previste dal precedente comma 1 − che rinvia all’art. 44, comma 1, lettera c), del D.P.R. 380/2001 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia – Testo A) – colui che, senza la prescritta autorizzazione o in difformità di essa, esegua lavori di qualsiasi genere su immobili o aree che, per le loro caratteristiche paesaggistiche, siano stati dichiarati di notevole interesse pubblico con apposito provvedimento emanato in epoca antecedente alla realizzazione dei lavori. Secondo il Tribunale remittente, la disposizione censurata violerebbe l’art. 3 Cost., per l’irragionevolezza del «deteriore» trattamento sanzionatorio riservato all’autore del reato da essa previsto, sia rispetto alle condotte identiche poste in essere su beni paesaggistici sottoposti a vincolo legale previste dal comma 1, sia rispetto alla fattispecie disciplinata dalla lettera b) della medesima disposizione, riguardante condotte poste in essere sugli stessi beni paesaggistici di significativo impatto ambientale, sia, infine, rispetto all’art. 734 c.p. L’irragionevole trattamento sanzionatorio apprestato dalla disposizione censurata violerebbe, ad avviso del giudice a quo, anche l’art. 27 Cost., rendendo la pena ingiusta e quindi priva della sua finalità rieducativa. Peraltro, in via subordinata, il giudice rimettente ha sollevato, sempre in riferimento agli artt. 3 e 27 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 181, commi 1-ter, 1-quater e 1-quinquies, del Codice dei beni culturali e del paesaggio, nella parte in cui esclude dal proprio ambito applicativo le condotte previste dall’art. 181, comma 1-bis, lettera a): sarebbe, difatti, parimenti irragionevole escludere le cause di non punibilità e di estinzione del reato laddove si tratti di condotte identiche, quali quelle previste dai commi 1 e 1-bis del medesimo articolo. La Corte, nel ripercorre la ratio sottesa all’introduzione di un così severo trattamento sanzionatorio – ratio che risiede nel fatto che l’integrità ambientale è un bene unitario che può risultare compromesso anche da interventi minori e che va, pertanto, salvaguardato nella sua interezza – ha affermato che la discrezionalità di cui gode il legislatore nel delineare il sistema sanzionatorio penale trova il limite della manifesta irragionevolezza e dell’arbitrio, come avviene a fronte di sperequazioni tra fattispecie omogenee non sorrette da alcuna ragionevole giustificazione. In particolare, la Corte Costituzionale ritiene priva di ragionevolezza la disparità, sia per ciò che concerne la configurazione del reato (in un caso delitto, nell’altro contravvenzione) sia per ciò che concerne il trattamento sanzionatorio, dei reati incidenti su beni paesaggistici vincolati per provvedimento amministrativo rispetto ai reati incidenti su beni paesaggistici vincolati per legge. Ne consegue – afferma la Corte – che l’art. 181, comma 1-bis, debba essere dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui prevede «: a) ricadano su immobili od aree che, per le loro caratteristiche paesaggistiche siano stati dichiarati di notevole interesse pubblico con apposito provvedimento emanato in epoca antecedente alla realizzazione dei lavori; b) ricadano su immobili od aree tutelati per legge ai sensi dell’articolo 142 ed». SS
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Inserito in data 23/03/2016 TAR TOSCANA - FIRENZE, SEZ. II, 18 marzo 2016, n. 488 Natura del provvedimento di revisione della patente di guida Il Tribunale toscano respinge il ricorso intentato da un automobilista avverso un provvedimento del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, Ufficio della motorizzazione civile di Firenze, con il quale era stata disposta la revisione della patente di guida dell’interessato, a seguito della provocazione di un grave incidente stradale. Secondo le motivazioni espresse dal collegio, in conformità con la precedente giurisprudenza, “La revisione della patente di guida, disciplinata dall’art. 128 del codice della strada, (costituisce) provvedimento privo di valenza sanzionatoria e con natura preminentemente cautelare, di presidio della sicurezza della circolazione. In quanto tale, esso non deve essere basato su comprovati elementi di fatto, risultando sufficiente per la sua adozione l’esistenza di circostanze in grado di mettere in dubbio l’idoneità fisico-psichica, ovvero tecnica alla guida”.
Nella fattispecie concreta, peraltro, il provvedimento impugnato risultava motivato per relationem ex art. 3, comma 3, della l. n. 241/1990, mediante richiamo della comunicazione della Prefettura competente, il cui contenuto atteneva alla gravità della violazione commessa (invasione della corsia opposta di marcia, senza apparente ragione giustificativa) e all’età avanzata dell’interessato, quali ragioni fondanti l’urgente necessità di svolgere l’attività amministrativa censurata. FM
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Inserito in data 22/03/2016 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V - SENTENZA NON DEFINITIVA CON ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL’ADUNANZA PLENARIA DEL CONSIGLIO DI STATO - 17 marzo 2016, n. 1090 Sull’interpretazione dell’art. 99, comma 3, c.p.a. Con la sentenza in oggetto il Consiglio di Stato accoglie parzialmente il ricorso intentato da un operatore economico, aggiudicatario definitivo in una gara d’appalto, e soccombente in primo grado, e rimette all’adunanza plenaria tre questioni di diritto. In prime cure era stata pronunciata l’esclusione dall’appellante per l’inammissibilità della sua offerta economica. La decisione veniva censurata sulla base delle seguenti considerazioni. Riteneva l’appellante che il collegio avesse aderito a un “orientamento giurisprudenziale sviluppatosi per il diverso caso nel quale l’offerta economica fosse da intendersi pari a zero, mentre nella fattispecie il prezzo pari a zero sarebbe stato solo quello relativo alla progettazione esecutiva”. “Il disciplinare stabiliva l’applicazione della formula di cui all’allegato G del d.P.R. n. 207/2010, secondo un metodo aggregativo compensatore”. La sottrazione di punteggio non avrebbe in ogni caso consentito all’appellato di “scavalcare” l’appellante. Il meccanismo di cui all’art. 86, comma 3, d.lgs. n. 163/2006, aveva condotto ad accertare la complessiva serietà dell’offerta dell’appellante. L’incidenza del valore percentuale in questione appariva comunque marginale. Il Tribunale non avrebbe chiarito “in che termini il ribasso praticato (…) avrebbe alterato la par condicio tra i concorrenti”. Si osservava, infine, come “il costo per la progettazione esecutiva (…) sarebbe stato recuperato dai professionisti incaricati (…) attraverso un loro coinvolgimento in attività di direzione di cantiere e di gestione dei rapporti tecnico-operativi con la stazione appaltante”. I giudici di Palazzo Spada, preliminarmente, disattendono l’eccezione d’inammissibilità del gravame, fondata sulla “mancata impugnazione da parte dell’appellante del provvedimento di annullamento dell’aggiudicazione e di esclusione dalla gara”; Gli atti in questione sono stati infatti adottati in applicazione di una sentenza esecutiva (e il medesimo effetto avrebbe prodotto un’ordinanza cautelare di tipo propulsivo); tale attività amministrativa non costituisce, dunque, estrinsecazione di un potere di autotutela, e “non può comportare il venir meno della res litigiosa”, atteso che i provvedimenti in dibattito “non sono frutto di autonome valutazioni discrezionali dell’amministrazione (…) e si consolidano solo in caso di conferma della (…) pronuncia”. Nel merito, rammenta il supremo consesso come “nelle gare d’appalto non può essere fissata una quota rigida di utile al di sotto della quale l’offerta debba considerarsi per presunzione incongrua, dovendosi invece avere riguardo alla serietà della proposta contrattuale e risultando in sé ingiustificabile solo un utile pari a zero, atteso che anche un utile apparentemente modesto può comportare un vantaggio importante, come nel caso di ricadute positive che possono discendere per l’impresa in termini di qualificazione, pubblicità, curriculum, dall’essersi aggiudicata e dall’avere poi portato a termine un prestigioso appalto”. “La stazione appaltante deve, da un lato, accertarsi che l’indicazione di un valore zero di un componente dell’offerta non impedisca la valutazione dell’offerta stessa o delle altre offerte presentate dai concorrenti (…). Dall’altro, sulla scorta dell’importanza della voce dell’offerta per la quale è stato indicato un valore zero, accertare che ciò non sia sintomatico della scarsa serietà dell’offerta nel suo complesso”. “Nella fattispecie l’indicazione di un valore pari a zero per la progettazione esecutiva non ha impedito di attribuire un punteggio all’offerta dell’appellante, né a quelle delle concorrenti”. In ordine ai motivi di cui al ricorso introduttivo assorbiti dal T.a.r., e riproposti dall’originario ricorrente, il collegio ritiene infondata la questione della mancata esclusione dell’appellante, per l’omessa “indicazione del nominativo del subappaltatore per le categorie scorporabili a qualificazione obbligatoria”, stante il principio formulato dall’adunanza plenaria, con la sentenza n. 9/2015, secondo cui: “Nelle gare d’appalto l’indicazione del nominativo del subappaltatore già in sede di presentazione dell’offerta non è obbligatoria, neanche nell’ipotesi in cui il concorrente non possieda la qualificazione nelle categorie scorporabili previste all’art. 107 comma 2 d.P.R. 5 Ottobre 2010 n. 207 (c.d. subappalto necessario)”. Parimenti infondata è l’illegittimità della mancata esclusione dell’appellante per non essere state esplicitamente indicate, nella dichiarazione di impegno a costituire il r.t.i., le quote di partecipazione e di esecuzione dei lavori, comunque evincibili dalle compilazioni documentali predisposte secondo le istruzioni, pur non precise, della stazione appaltante. Per quanto concerne, infine, la mancata indicazione dei costi per la sicurezza, viene richiamata la recente giurisprudenza dell’adunanza plenaria, la quale, con la sentenza n. 3/2015, ha concluso nel senso dell’obbligatorietà dell’indicazione in esame; e con la sentenza n. 9/2015 ha enunciato il seguente principio di diritto: “Nelle gare d’appalto non sono legittimamente esercitabili i poteri attinenti al soccorso istruttorio, nel caso di omessa indicazione degli oneri di sicurezza aziendali, anche per le procedure nelle quali la fase della presentazione delle offerte si è conclusa prima della pubblicazione della decisione dell’adunanza plenaria n. 3 del 2015”. L’appellante dubita della compatibilità comunitaria della soluzione da ultimo emarginata, e suscita la questione di un intervento pregiudiziale della Corte di giustizia, ai sensi dell’art. 267 T.f.U.e.. Il Consiglio di Stato, relativamente a tale ultima richiesta, ritiene tuttavia di dovere preliminarmente risolvere un ulteriore punto controverso, già al vaglio della Corte di Lussemburgo, che per ragioni di opportunità viene rimesso all’adunanza plenaria. Segnatamente, il quesito attiene al “rapporto tra il ruolo nomofilattico assegnato dall’art. 99 c.p.a. all’adunanza plenaria del Consiglio di Stato e l’obbligo per le singole sezioni del Consiglio, in qualità di giudice di ultima istanza di sollevare, anche d’ufficio, una questione pregiudiziale dinanzi alla Corte di giustizia”. Rimettendo la questione alla Corte europea, il Consiglio di giustizia amministrativa della Regione siciliana aveva dubitato della compatibilità comunitaria dell’art. 99, comma 3, c.p.a., e messo in luce come “un obbligo di rinvio accentrato in capo all’adunanza plenaria: a) limiterebbe la potestà, riconosciuta dal diritto dell’Unione europea a ogni giudice di ultima istanza degli ordinamenti degli Stati membri, di sottoporre in via diretta alla Corte di giustizia domande di pronunce pregiudiziali; b) incrinerebbe la riserva della Corte stessa sull’interpretazione del diritto dell’Unione; c) inciderebbe anche negativamente sulla durata ragionevole del processo”. Il Consiglio di Stato formula i seguenti tre quesiti di diritto. “Se in costanza di un principio di diritto enunciato dall’adunanza plenaria, in presenza di una verifica espressa della rispondenza anche alla disciplina dell’Unione europea, che venga sospettato di contrasto con la normativa dell’Unione europea, la singola sezione deve rimettere la questione ai sensi dell’art. 99, comma 3, c.p.a., oppure può sollevare autonomamente, quale giudice comune del diritto dell’Unione europea, una questione pregiudiziale alla Corte di giustizia”. “Se in costanza di un principio di diritto enunciato dall’adunanza plenaria, in assenza di una verifica espressa della rispondenza anche alla disciplina dell’Unione europea, che venga sospettato di contrasto con la normativa dell’Unione europea, la singola sezione deve rimettere la questione ai sensi dell’art. 99, comma 3, c.p.a., oppure può sollevare autonomamente, quale giudice comune del diritto dell’Unione europea, una questione pregiudiziale alla Corte di giustizia”. “Se il principio di diritto enunciato dall’adunanza plenaria n. 9/2015, è rispettoso dei principî euro-unitari, di matrice giurisprudenziale, della tutela del legittimo affidamento e di certezza del diritto, dei principî di libera circolazione delle merci, di libertà di stabilimento e di libera prestazione di servizî, di cui al Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, nonché dei principî che ne derivano, come la parità di trattamento, la non discriminazione, il mutuo riconoscimento, la proporzionalità e la trasparenza”. 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Inserito in data 21/03/2016 TAR ABRUZZO - L'AQUILA, SEZ. I, 16 marzo 2016, n. 147 Illegittimo il provvedimento di chiusura di un ufficio postale periferico con motivazione generica Con la pronuncia in epigrafe, i giudici abruzzesi si sono espressi sull’illegittimità di un provvedimento di chiusura di un ufficio postale periferico, disposta per consentire l’attuazione del “piano di efficientamento”, poiché basato su motivazioni assolutamente generiche, di carattere meramente economico-aziendale. Preliminarmente, la I Sezione ha disatteso l’eccezione relativa al difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, sollevata da Poste Italiane e fondata sulla considerazione che l’atto impugnato fosse riconducibile all’autonomia organizzatoria di un soggetto privato, affermando come la peculiare rilevanza attribuita all’attività svolta da Poste Italiane quale gestore di pubblico servizio - direttamente incidente, quindi, sulla gestione ed erogazione di un pubblico servizio - rientri certamente nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ex art. 133, co.1, lett. c), c.p.a. Ciò premesso, nell’affrontare il merito della questione, il Collegio, condividendo consolidata giurisprudenza formatasi in materia, ha osservato che “è da considerarsi illegittimo, per difetto di motivazione, il provvedimento con il quale la società Poste Italiane ha disposto la chiusura permanente di uffici postali facendo generico riferimento ad un piano di efficientamento volto all’adeguamento dell’offerta all’effettiva domanda dei servizi postali in tutti i Comuni del territorio nazionale in ragione del comprovato disequilibrio economico di cui alla erogazione del servizio postale universale, atteso che tale motivazione risulta disancorata da qualunque esplicitazione di fatti riferibili al caso di specie, tanto da ridursi ad una mera clausola di stile, replicabile per la sua genericità e astrattezza, e di fatto replicata in maniera pedissequa, in qualunque situazione “ addirittura su tutto il territorio nazionale. Ed invero – ha proseguito la I Sezione, richiamando recente giurisprudenza del Consiglio di Stato in tema – “l’Amministrazione ha il dovere di motivare adeguatamente ogni scelta compiuta, anche in ordine al contemperamento degli interessi coinvolti. La discrezionalità del potere, infatti, non esonera l’Amministrazione, chiamata ad agire, dall’onere di specificare con cura i criteri alla cui stregua le scelte sono compiute”. Pertanto, la chiusura di un ufficio postale periferico non può essere disposta solo per ragioni di carattere economico, senza previamente aver ponderato e bilanciato, nello specifico, le contrapposte esigenze degli utenti. Nella fattispecie, i giudici abruzzesi hanno accolto il ricorso proposto contro Poste Italiane, ritenendo illegittimo l’impugnato provvedimento per difetto di motivazione ed istruttoria, atteso che la chiusura dell’ufficio venne disposta per motivi meramente economici, senza una previa comparazione dei vari interessi coinvolti, senza una preliminare analisi delle concrete e specifiche esigenze di natura pubblica nel territorio. MB
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Inserito in data 21/03/2016 CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 15 marzo 2016, n. 5078 Rimborso credito chiesto in dichiarazione e non esaminato nei termini dell’accertamento Alle Sezioni Unite è stata rimessa la questione relativa alla “perentorietà o meno del termine entro il quale l’Amministrazione Finanziaria deve procedere alla liquidazione ed agli effetti connessi all’inutile decorso di detto termine, con riferimento ai crediti di imposta, esposti in dichiarazione”. In particolare, la V Sezione Civile-Tributaria, con l’ordinanza interlocutoria n° 23529/2014, poneva in discussione la tesi - ampiamente condivisa dalla giurisprudenza più recente - secondo cui “anche nel caso in cui il contribuente esponga nella denuncia dei redditi un credito fiscale, l’Amministrazione deve attivarsi a contestare i dati della denuncia entro i termini previsti dalla legge per l’esercizio del potere di accertamento; ed ove ciò non faccia, il credito stesso si consolida e non può più essere disatteso”. Con la pronuncia in epigrafe, il Collegio ha affermato di non condividere la richiamata interpretazione, pure recepita nella sentenza n° 9339/2012 della V Sezione, secondo la quale l’Amministrazione Finanziaria, per evitare che il diritto al rimborso esposto nella dichiarazione si cristallizzi nell’an e nel quantum, sarebbe tenuta a provvedere sulla richiesta di rimborso “nei medesimi termini di decadenza stabiliti per procedere all’accertamento in rettifica”. Invece, la Corte ha ritenuto preferibile l’interpretazione proposta dalla più risalente giurisprudenza, secondo la quale il termine decadenziale sarebbe riferibile alle sole attività di accertamento dell’Amministrazione e non già a quelle con cui la stessa provveda alla contestazione di un suo debito. In sostanza – hanno precisato le SS.UU. – decorso il termine per l’accertamento, all’Amministrazione è consentita la contestazione del contenuto di un atto del contribuente solo nella misura in cui questa sia finalizzata ad evitare un esborso da parte dell’ente finanziario, non già a permettergli di affermare un proprio credito. Oltretutto – ha puntualizzato il Collegio - questa soluzione avrebbe il merito di non lascerebbe il contribuente privo di difese, potendo questi sempre impugnare il silenzio dell’Amministrazione che abbia omesso di provvedere in ordine all’istanza di rimborso del credito fiscale. Ciò precisato, venendo alla questione concreta, la Corte ha fissato alcuni importanti passaggi, precisando che: - in tema di IRPEG, grava sulla Fondazione che invochi il mancato riconoscimento dell’agevolazione prevista dall’art. 10-bis della legge n° 1745/1962 (esenzione della ritenuta di acconti sui dividendi da partecipazioni azionarie), l’onere di allegare la sussistenza dei presupposti soggettivi ed oggettivi previsti al fine di poter fruire del beneficio, attraverso la dimostrazione “dell’effettivo perseguimento, in via esclusiva, di scopi di beneficenza, educazione, studio e ricerca scientifica, rispetto ai quali la gestione di partecipazioni nelle imprese bancarie assuma un ruolo non prevalente e comunque strumentale alla provvista delle necessarie risorse economiche”; - sempre in materia di IRPEG, è altresì necessario, ai fini del riconoscimento in favore delle fondazioni bancarie del beneficio di cui all’art. 6 del d.P.R. n° 601/1973 (riduzione a metà dell’aliquota), che detta agevolazione non assuma, in concreto, la valenza di un aiuto di Stato e che l’attività svolta dalla fondazione non presenti i caratteri propri dell’azione imprenditoriale; - infine, le Fondazioni bancarie, a causa del vincolo genetico con le aziende scorporate, non possono essere assimilate né alle persone giuridiche di cui all’art. 10-bis della legge n° 1745/1962, né agli enti ed istituti di interesse generale di cui all’art. 6 del dPR n° 601/1973, con la conseguenza che alle stesse non sarà applicabile la richiamata disciplina agevolativa - atteso il carattere eccezionale e speciale della normativa - con la sola eccezione che esse dimostrino di aver svolto, nell’anno di imposta di riferimento, un’attività di esclusiva o prevalente promozione sociale o culturale. Orbene, in difetto di tali presupposti – ovvero quando essi, come nel caso di specie, non siano stati dimostrati - non sussistono le condizioni per ritenere che sulla domanda di rimborso del credito d’imposta si sia formato il silenzio rifiuto da parte dell’Amministrazione e, quindi, per affermare che qualora “il credito d’imposta sia stato chiesto a rimborso, con la dichiarazione annuale, l’Amministrazione, onde evitarne la cristallizzazione nell’an e nel quantum, debba provvedere nei medesimi termini di decadenza stabiliti per procedere all’accertamento in rettifica”, essendo preciso onere del richiedente “allegare e provare – nel corso del giudizio - i presupposti fondanti la pretesa”. MB
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Inserito in data 19/03/2016 CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 4 marzo 2016, n. 4252 Professione forense, libertà stabilimento ed abuso del diritto Le Sezioni Unite civili intervengono, con la pronuncia in esame, in tema di libertà di stabilimento riguardo all’esercizio della professione forense. In particolare, il massimo Collegio di piazza Cavour, ricordando un proprio precedente - cfr. S.U., n. 28340 del 2011, ribadisce il principio, attuativo della c.d. libertà di stabilimento, in base al quale l’iscrizione nella sezione speciale dell’Albo degli avvocati comunitari stabiliti è, ai sensi dell’art. 3, comma 2, della direttiva 98/5/Ce e dell’art. 6, comma 2, d.lgs. n. 96 del 2001, subordinata alla sola condizione della documentazione dell’iscrizione presso la corrispondente Autorità di altro Stato membro. Di conseguenza, chiariscono i Giudici, non è possibile negare la suddetta iscrizione sulla base di una ritenuta carenza del presupposto di condotta “specchiatissima ed illibata” – di cui all’art. 17, r.d.l. n. 1578 del 1933, ovvero, oggi, della condotta irreprensibile – ex art.17, della legge n. 247 del 2012 – prescritti dal nostro Ordinamento forense. Un simile vaglio, infatti, ricordano i Giudici, può essere effettuato dai nostri Consigli dell’Ordine solo nelle ipotesi in cui l’intento di stabilirsi nel nostro Paese venga perseguito in modo fraudolento – eludendo i controlli e costituendo, quindi, un abuso del diritto. I Giudici delimitano, quindi, la portata di una simile condotta abusiva – richiamando all’uopo i precedenti della Corte di Giustizia – a mente della quale “L'articolo 3 della direttiva 98/5/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 febbraio 1998, volta a facilitare l'esercizio permanente della professione di avvocato in uno Stato membro diverso da quello in cui è stata acquistata la qualifica, dev'essere interpretato nel senso che non può costituire una pratica abusiva il fatto che il cittadino di uno Stato membro si rechi in un altro Stato membro al fine di acquisirvi la qualifica professionale di avvocato a seguito del superamento di esami universitari e faccia ritorno nello Stato membro di cui è cittadino per esercitarvi la professione di avvocato con il titolo professionale ottenuto nello Stato membro in cui tale qualifica professionale è stata acquisita”. L’arresto si inserisce, quindi, in un filone di grande apertura – in linea, del resto, con la ratio ispiratrice della Direttiva comunitaria del 1998 e ricordando come solo nel momento in cui il richiedente intenda abbandonare la qualifica acquisita in altro Stato membro per conseguire il titolo professionale previsto dalla legislazione italiana sorge, dunque, l’obbligo, per il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di verificare la sussistenza di tutti gli altri requisiti di iscrizione, ivi compresi quelli di onorabilità. E’ evidente, quindi, lo spirito - proprio dei Giudici di piazza Cavour - di contemperare opposte posizioni: l’intento di incentivare l’attività forense nel proprio avvio iniziale trova, infatti, come contraltare, l’individuazione di un’abusività non sempre facilmente percepibile e l’instaurazione di controlli più attenti nel caso di uno stabilimento definitivo in seno al nostro Paese. CC
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Inserito in data 19/03/2016 TAR VALLE D'AOSTA - SEZ. UNICA, 15 marzo 2016, n. 12 Istanza di permesso di costruire in sanatoria e indicazioni servitù di uso pubblico Il Collegio aostano accoglie le censure mosse da parte ricorrente avverso il rigetto – da parte dell’Amministrazione comunale - di un’istanza di permesso di costruire in sanatoria. Più nel dettaglio, i Giudici sottolineano – in primo luogo – la carente motivazione in seno al provvedimento di rigetto. L’Ente, infatti, si limita ad affermare che l’intervento oggetto della domanda di sanatoria non rispetti le distanze e le altezze previste dalle norme tecniche di attuazione del vigente piano regolatore comunale, senza tuttavia specificare quali siano, nel concreto, le disposizioni prese in considerazione. E’ evidente, ad avviso del Collegio, la violazione dell’articolo 3 della L. 241/90 il cui dettato, secondo il parere di giurisprudenza conforme, deve essere esteso anche al provvedimento di rigetto simile a quello oggi in esame. Questo deve, quindi, indicare i presupposti di fatto e di diritto che giustificano il proprio contenuto dispositivo; ed in particolare, ove l’istanza sia respinta, deve mettere in luce i contrasti fra l’opera realizzata e la normativa urbanistico-edilizia vigente al momento della realizzazione della stessa opera ovvero al momento di presentazione dell’istanza (Cfr. T.A.R. Campania Napoli, sez. VI, 12 settembre 2013, n. 4253; T.A.R. Liguria, sez. I, 6 giugno 2013, n. 866). Invece, dal provvedimento in questa sede impugnato non sono affatto evincibili le ragioni fondanti il rigetto. Non si condivide, altresì, il secondo aspetto evidenziato dalla Difesa dell’Ente – secondo la quale l’edificio oggetto dell’istanza di sanatoria rigettata non rispetterebbe le giuste distanze rispetto al confine stradale – individuato come strada pubblica e non privata. Ritiene il Collegio, uniformandosi alla posizione del ricorrente, che non vi sia motivo alcuno per avallare quanto affermato dall’Amministrazione. Si ricorda, infatti, che l’ascrivibilità di una strada quale pubblica o destinata ad uso pubblico – in mancanza di adeguato riscontro probatorio – come nel caso in esame, dipenda dalla sussistenza di interventi - quali l'illuminazione pubblica, la realizzazione di asfaltatura con segnaletica orizzontale, la precisa delimitazione della carreggiata, l'installazione di segnaletica verticale, la predisposizione della linea fognante ecc. - volti ad assoggettare il tratto stradale all’uso pubblico (Cfr. T.A.R. Calabria Catanzaro, sez. II, 10 giugno 2008, n. 643). Tutti elementi che, nel caso di specie, non ricorrono e, pertanto, non può ritenersi dimostrata la sussistenza di una servitù ad uso pubblico – quale paventata dall’Ente resistente a sostegno del proprio rigetto. Concludono i Giudici, infine, che il Comune non possa neppure avvalersi del valore presuntivo che la giurisprudenza riconosce agli appositi elenchi delle strade comunali (Cfr. T.A.R. Campania Napoli, sez. VI, 3 marzo 2015, n. 1356). In considerazione di tutte tali ragioni si statuisce la fondatezza delle posizioni di parte ricorrente. CC
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Inserito in data 18/03/2016 CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 15 marzo 2016, n. 5068 E’ nulla per difetto di causa la donazione di bene altrui anche se disposta dal coerede Con la pronuncia in esame, le Sezioni Unite dirimono la seguente questione: “Se la donazione dispositiva di un bene altrui debba ritenersi nulla alla luce della disciplina complessiva della donazione e, in particolare, dell’art. 771 cod. civ., poiché il divieto di donazione dei beni futuri ricomprende tutti gli atti perfezionati prima che il loro oggetto entri a comporre il patrimonio del donante e quindi anche quelli aventi ad oggetto i beni altrui, oppure sia valida ancorché inefficace, e se tale disciplina trovi applicazione, o no, nel caso di donazione di quota di proprietà pro indiviso”. Invero, sulla questione se la donazione di cosa altrui sia nulla o no, la Suprema Corte si è reiteratamente espressa nel senso della nullità. Secondo Cass. n. 3315 del 1979, infatti, “la convenzione che contenga una promessa di attribuzione dei propri beni a titolo gratuito configura un contratto preliminare di donazione che è nullo, in quanto con esso si viene a costituire a carico del promittente un vincolo giuridico a donare, il quale si pone in contrasto con il principio secondo cui nella donazione l’arricchimento del beneficiario deve avvenire per spirito di liberalità, in virtù cioè di un atto di autodeterminazione del donante, assolutamente libero nella sua formazione”. E ancora Cass. 6544 del 1985 ha affermato che “ai fini dell’usucapione abbreviata a norma dell’art. 1159 cod. civ. non costituisce titolo astrattamente idoneo al trasferimento la donazione di un bene altrui, attesa l’invalidità a norma dell’art. 771 cod. civ. di tale negozio”. E’, altresì, riconducibile alla nullità Cass. n. 11311 del 1996, così massimata: “l’atto con il quale una pubblica amministrazione, a mezzo di contratto stipulato da un pubblico funzionario, si obbliga a cedere gratuitamente al demanio dello Stato un’area di sua proprietà, nonché un’altra area che si impegni ad espropriare, costituisce una donazione nulla, sia perché, pur avendo la pubblica amministrazione la capacità di donare, non è ammissibile la figura del contratto preliminare di donazione, sia perché un atto non può essere stipulato da un funzionario della pubblica amministrazione (possibilità limitata dall’art. 16 del R.D. n. 2440 del 1923 ai soli contratti a titolo oneroso), sia perché l’art. 771 cod. civ. vieta la donazione di beni futuri, ossia dell’area che non rientra nel patrimonio dell’amministrazione donante ma che la stessa si impegna ad espropriare”. Particolarmente significativa è poi Cass. n. 10356 del 2009, secondo cui “la donazione dispositiva di un bene altrui, benché non espressamente disciplinata, deve ritenersi nulla alla luce della disciplina complessiva della donazione e, in particolare, dell’art. 771 cod. civ., poiché il divieto di donazione dei beni futuri ricomprende tutti gli atti perfezionati prima che il loro oggetto entri a comporre il patrimonio del donante; tale donazione, tuttavia, è idonea ai fini dell’usucapione decennale prevista dall’art. 1159 cod. civ., poiché il requisito, richiesto da questa norma, dell’esistenza di un titolo che legittimi l’acquisto della proprietà o di altro diritto reale di godimento, che sia stato debitamente trascritto, deve essere inteso nel senso che il titolo, tenuto conto della sostanza e della forma del negozio, deve essere suscettibile in astratto, e non in concreto, di determinare il trasferimento del diritto reale, ossia tale che l’acquisto del diritto si sarebbe senz’altro verificato se l’alienante ne fosse stato titolare”. In tal senso, si è espressa, da ultimo, Cass. n. 12782 del 2013. Per altro orientamento, invece, “la donazione di beni altrui non può essere ricompresa nella donazione di beni futuri, nulla ex art. 771 cod. civ., ma è semplicemente inefficace e, tuttavia, idonea ai fini dell’usucapione abbreviata ex art. 1159 cod. civ., in quanto il requisito, richiesto dalla predetta disposizione codicistica, della esistenza di un titolo che sia idoneo a far acquistare la proprietà o altro diritto reale di godimento, che sia stato debitamente trascritto, va inteso nel senso che il titolo, tenuto conto della sostanza e della forma del negozio, deve essere idoneo in astratto, e non in concreto, a determinare il trasferimento del diritto reale, ossia tale che l’acquisto di tale diritto si sarebbe senz’altro verificato se l’alienante ne fosse stato titolare”. Alla luce di quanto suddetto, si evince che il “contrasto tra i due orientamenti giurisprudenziali non coinvolge il profilo della efficacia dell’atto a costituire titolo idoneo per l’usucapione abbreviata, ma, appunto, la ascrivibilità della donazione di cosa altrui nell’area dell’invalidità, e segnatamente della nullità, ovvero in quella della inefficacia”. Ciò posto, “il Collegio ritiene che alla questione debba essere data risposta nel senso che la donazione di cosa altrui o anche solo parzialmente altrui è nulla, non per applicazione in via analogica della nullità prevista dall’art. 771 cod. civ. per la donazione di beni futuri, ma per mancanza della causa del negozio di donazione”. Deve, in primis, rilevarsi che “la sentenza n. 1596 del 2001 evoca la categoria della inefficacia, che presuppone la validità dell’atto, e si limita ad affermare la non operatività della nullità in applicazione analogica dell’art. 771, primo comma, cod. civ., in considerazione di una pretesa natura eccezionale della causa di nullità derivante dall’avere la donazione ad oggetto beni futuri, ma non verifica la compatibilità della donazione di cosa altrui con la funzione e con la causa del contratto di donazione. La soluzione prospettata appare, quindi, non condivisibile, vuoi perché attribuisce al divieto di cui alla citata disposizione la natura di disposizione eccezionale, insuscettibile di interpretazione analogica; vuoi e soprattutto perché non considera la causa del contratto di donazione”. Per contro, “una piana lettura dell’art. 769 cod. civ. dovrebbe indurre a ritenere che l’appartenenza del bene oggetto di donazione al donante costituisca elemento essenziale del contratto di donazione, in mancanza del quale la causa tipica del contratto stesso non può realizzarsi. (omissis) Elementi costitutivi della donazione sono, quindi, l’arricchimento del terzo con correlativo depauperamento del donante e lo spirito di liberalità, il c.d. animus donandi, che connota il depauperamento del donante e l’arricchimento del donatario”. Appare, dunque, evidente che “l’esistenza nel patrimonio del donante del bene che questi intende donare rappresenti elemento costitutivo del contratto; e la consustanzialità di tale appartenenza alla donazione è delineata in modo chiaro ed efficace dall’art. 769 cod. civ.”. Ed invero, sostiene il Supremo Consesso, “la non ricorrenza di tale situazione – certamente nel caso in cui né il donante né il donatario ne siano consapevoli, nel qual caso potrebbe aversi un’efficacia obbligatoria della donazione – comporta la non riconducibilità della donazione di cosa altrui allo schema negoziale della donazione, di cui all’art. 769 cod. civ.. In altri termini, prima ancora che per la possibile riconducibilità del bene altrui nella categoria dei beni futuri, di cui all’art. 771, primo comma, cod. civ., la altruità del bene incide sulla possibilità stessa di ricondurre il trasferimento di un bene non appartenente al donante nello schema della donazione dispositiva e quindi sulla possibilità di realizzare la causa del contratto (incremento del patrimonio altrui, con depauperamento del proprio)”. In particolare, “il fatto che il legislatore del codice civile abbia autonomamente disciplinato sia la compravendita di cosa futura che quella di cosa altrui, mentre nulla abbia stabilito per la donazione a non domino, dovrebbe suggerire all’interprete di collegare il divieto di liberalità aventi ad oggetto cose d’altri alla struttura e funzione del contratto di donazione, piuttosto che ad un esplicito divieto di legge. Pertanto, posto che l’art. 1325 cod. civ. individua tra i requisiti del contratto “la causa”; che, ai sensi dell’art. 1418, secondo comma, cod. civ., la mancanza di uno dei requisiti indicati dall’art. 1325 cod. civ. produce la nullità del contratto; e che l’altruità del bene non consente di ritenere integrata la causa del contratto di donazione, deve concludersi che la donazione di un bene altrui è nulla”. In sostanza, la donazione di cosa altrui vale come “donazione obbligatoria di dare, purché l’altruità sia conosciuta dal donante, e tale consapevolezza risulti da un’apposita espressa affermazione nell’atto pubblico (art. 782 cod. civ.). Se, invece, l’altruità del bene donato non risulti dal titolo e non sia nota alle parti, il contratto non potrà produrre effetti obbligatori, né potrà applicarsi la disciplina della vendita di cosa altrui”. Alle medesime conclusioni deve pervenirsi per il caso in cui “oggetto della donazione sia un bene solo in parte altrui, perché appartenente pro indiviso a più comproprietari per quote differenti e donato per la sua quota da uno dei coeredi. Non è, infatti, dato comprendere quale effettiva differenza corra tra i “beni altrui” e “quelli eventualmente altrui”, trattandosi, nell’uno e nell’altro caso, di beni non presenti, nella loro oggettività, nel patrimonio del donante al momento dell’atto, l’unico rilevante al fine di valutarne la conformità all’ordinamento”. Del resto, l’art. 757 cod. civ. “impedisce di consentire che il coerede possa disporre, non della sua quota di partecipazione alla comunione ereditaria, ma di una quota del singolo bene compreso nella massa destinata ad essere divisa, prima che la divisione venga operata e il bene entri a far parte del suo patrimonio”. In conclusione, deve affermarsi il seguente principio di diritto: “La donazione di un bene altrui, benché non espressamente vietata, deve ritenersi nulla per difetto di causa, a meno che nell’atto si affermi espressamente che il donante sia consapevole dell’attuale non appartenenza del bene al suo patrimonio. Ne consegue che la donazione, da parte del coerede, della quota di un bene indiviso compreso in una massa ereditaria è nulla, non potendosi, prima della divisione, ritenere che il singolo bene faccia parte del patrimonio del coerede donante”. EF
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Inserito in data 18/03/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, 17 marzo 2016, n. 1091 Non c’è affidamento ex novo del servizio in mancanza di rinegoziazione del rapporto La questione posta al vaglio dei Giudici di Palazzo Spada attiene alla qualificazione del servizio di vigilanza espletato da una società quale “proroga” – “il che, per giurisprudenza pacifica, rende applicabile la clausola di revisione prezzi prevista dall’art. 6 della l. n. 537 del 1993 (ora, dall’art. 115 del codice dei contratti pubblici)- o quale affidamento ex novo del servizio in via diretta, provvisoria e transitoria, con una rinegoziazione del rapporto, il che esclude l’applicazione della clausola revisionale anzidetta”. In particolare, “la linea di demarcazione tra l’applicazione, o meno, della clausola revisionale prevista dall’art. 6 della l. n. 537 del 1993 passa attraverso la qualificazione del servizio espletato nel periodo anzidetto quale proroga o nuovo affidamento del servizio stesso”. A proposito, “precisato in via preliminare che l’art. 6 della legge 24 dicembre 1993, n. 537 (come sostituito dall'art. 44 della legge 23 dicembre 1994, n. 724 e il cui comma 2 è stato modificato dall’art. 23 della legge 18 aprile 2005, n. 62, poi abrogato dall'art. 256 del d.lgs. n. 163 del 2006), nel vietare il rinnovo tacito dei contratti delle pubbliche amministrazioni per la fornitura di beni e servizi, comminandone la nullità, e nel consentirne (fino alla modificazione introdotta dalla cit. l. n. 62 del 2005) la rinnovazione espressa in presenza di ragioni di pubblico interesse (v. comma 2), stabiliva che tutti i contratti ad esecuzione periodica o continuativa debbono recare una clausola di revisione periodica del prezzo. La revisione viene operata sulla base di una istruttoria condotta dai dirigenti responsabili della acquisizione di beni e servizi sulla base dei dati di cui al comma 6 (v. comma 4); va rammentato in termini generali che la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha chiarito al riguardo: a) che (la norma di cui all’art. 6 della l. n. 537 del 1993) ha natura imperativa, per cui si inserisce automaticamente e prevale addirittura sulla regolamentazione pattizia, cosicché “nessuna preclusione è configurabile in ordine al diritto che trova titolo e disciplina nella legge” (Sez. III, 9 maggio 2012, n. 2682; cfr. anche Sez. III, 1 febbraio 2012, n. 504, Sez. V, 22 dicembre 2014, n. 6275); b) che il presupposto per la sua applicazione è che vi sia stata mera proroga e non un rinnovo del rapporto contrattuale, consistendo la prima “nel solo effetto del differimento del termine finale del rapporto, il quale rimane per il resto regolato dall’atto originario” mentre il secondo scaturisce da “una nuova negoziazione con il medesimo soggetto, che può concludersi con l’integrale conferma delle precedenti condizioni o con la modifica di alcune di esse se non più attuali” (Sez. III, n. 2682 del 2012, cit.), essendo in questo caso intervenuti tra le parti “atti successivi al contratto originario con cui, attraverso specifiche manifestazioni di volontà, sia stato dato corso tra le parti a distinti, nuovi ed autonomi rapporti giuridici, ancorché di contenuto identico a quello originario, senza avanzare alcuna proposta di modifica del corrispettivo.”(Sez. III, 11 luglio 2014, n. 3585)… (così, ex multis, Cons. Stato, sez. VI, n. 2295 del 2015)”. Il Collegio ritiene, pertanto, confermando la pronuncia del Giudice di prime cure, che, nella fattispecie sottoposta al suo esame, “sia venuta in questione, sostanzialmente, una mera protrazione dell’efficacia, per una durata temporalmente delimitata, del rapporto contrattuale originario, assimilabile in quanto tale a una proroga”, con la conseguente necessità di riconoscere la revisione prezzi. EF
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Inserito in data 17/03/2016 CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI - SENTENZA 15 marzo 2016, n. 5072 Conseguenze del ricorso abusivo ai contratti a tempo determinato da parte della P.A. La Sezione Lavoro della Corte di Cassazione, con ordinanza, ha trasmesso gli atti al Presidente affinché rinviasse alle Sezioni Unite la questione avente ad oggetto, in primo luogo, la vigenza o meno del divieto di trasformazione del contratto di lavoro a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato in caso di abuso della P.A. nell’utilizzo del lavoro flessibile, in secondo luogo, la portata applicativa e la parametrazione del danno risarcibile ai sensi dell’art. 36 d.lgs. n. 165 del 2001 ed, in terzo luogo, la risoluzione del contrasto giurisprudenziale registratosi in materia di criteri di liquidazione da adottare. Per ciò che attiene il divieto di trasformazione in contratto a tempo indeterminato, evidenziano le Sezioni Unite che sull’astratta compatibilità del divieto rispetto alla normativa comunitaria si è pronunciata la stessa Corte di Giustizia dell’UE in una sentenza emessa a seguito di rinvio pregiudiziale disposto in primo grado, proprio nell’ambito del giudizio in esame, compatibilità sussistente purché sia assicurata altra misura sanzionatoria effettiva, proporzionata, dissuasiva ed equivalente a quelle previste nell’ordinamento interno per situazioni analoghe. Fermo restando, dunque, che l’abusivo ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato da parte di una P.A. fa sorgere unicamente il diritto del dipendente al risarcimento del danno per l’illegittima precarizzazione, l’ordinanza interlocutoria della Cassazione sottolinea come sia controversa l’individuazione del parametro di riferimento più idoneo a garantire una tutela effettiva e dissuasiva. Non a caso, infatti, la Corte d’Appello nel giudizio in esame ha rinvenuto tale parametro nella disciplina di cui all’art. 18, commi quarto e quinto, l. 300/1970 (nella formulazione anteriore alle modifiche apportate dalla legge n. 92/2012); la stessa Corte di Cassazione, invece, in altre occasioni, aveva ancorato la determinazione del risarcimento, in un caso, all’art. 32, commi 5 e 7, legge 183/2010, a prescindere dalla prova concreta di un danno, trattandosi di indennità forfetizzata e omnicomprensiva per i danni causati dalla nullità del termine, in un altro caso, all’art. 8 della l. n. 604/1966, sempre a prescindere dalla prova concreta del danno, ma in virtù dell’elaborazione di un’autonoma figura di danno (“danno comunitario”), da intendere come una sorta di sanzione ex lege a carico del datore di lavoro. Le Sezioni Unite, risolvendo la questione – dopo un’analitica ricostruzione del quadro normativo interno ed eurounitario nonché della correlata esegesi giurisprudenziale – hanno, conclusivamente, affermato che nel regime del lavoro pubblico contrattualizzato in caso di abuso del ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato da parte di una pubblica amministrazione il dipendente, che abbia subito la illegittima precarizzazione del rapporto di impiego, ha diritto, fermo restando il divieto di trasformazione del contratto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato posto dall’art. 36, comma 5, d.lgs. 165/2001, al risarcimento del danno previsto dalla medesima disposizione con esonero dall’onere probatorio nella misura e nei limiti di cui all’art. 32, comma 5, legge 183/2010, e quindi nella misura pari ad un’indennità omnicomprensiva tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’art. 8 legge 604/1966. SS
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Inserito in data 17/03/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 15 marzo 2016, n. 1032 Avvalimento cd. di garanzia e controlli sul possesso dei requisiti Con la sentenza in epigrafe, il Consiglio di Stato si è pronunciato in ordine all’oggetto del contratto di avvalimento quando, con esso, un’impresa si avvalga dei requisiti finanziari di un’altra (cd. avvalimento di garanzia), nonché in ordine al termine per la produzione di documenti nel caso di controlli sul possesso dei requisiti ex art. 48 d.lgs. 163/2006 e alla possibilità di ricorrere al soccorso istruttorio nel caso di mancata allegazione all’offerta di alcuni documenti. In ordine alla prima questione, i giudici di Palazzo Spada hanno precisato che, nel caso di contratto di avvalimento cd. di garanzia, la prestazione oggetto specifico dell’obbligazione è costituita dalla messa a disposizione da parte dell’impresa ausiliaria del suo valore aggiunto in termini di solidità finanziaria e di acclarata esperienza di settore, dei quali il fatturato costituisce indice significativo, consentendo in tal modo all’impresa ausiliata di accedere alla gara nel rispetto delle condizioni poste dal bando. Ne consegue, ad avviso del Consiglio, che non occorre che la dichiarazione negoziale costitutiva dell’impegno contrattuale si riferisca a specifici beni patrimoniali o ad indici materiali atti ad esprimere una determinata consistenza patrimoniale e, dunque, alla messa a disposizione di beni da descrivere ed individuare con precisione, essendo sufficiente che dalla dichiarazione emerga l’impegno contrattuale della società ausiliaria a prestare ed a mettere a disposizione della c.d. società ausiliata la sua complessiva solidità finanziaria ed il suo patrimonio esperienziale, garantendo con essi una determinata affidabilità ed un concreto supplemento di responsabilità. In ordine alla seconda questione, il Consiglio di Stato afferma che il termine di dieci giorni previsto dall’art. 48, comma 1 del Codice dei contratti per comprovare il possesso dei requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico-organizzativa, eventualmente richiesti nel bando di gara, presentando la documentazione indicata in detto bando o nella lettera di invito, ha natura perentoria in ragione dell’esigenza di celerità insita nella fase specifica del procedimento e dell’automaticità della comminatoria prevista per la sua inosservanza, salva l’oggettiva impossibilità di produzione della documentazione la cui prova grava sull’impresa. Tuttavia, il Consiglio precisa subito dopo che, se da tale disposizione si evince che non può ammettersi la produzione tardiva di documentazione mancante specificamente indicata, su un piano diverso deve essere posta l’ipotesi di integrazione di atti già trasmessi, relativamente alla quale va ammessa la possibilità per l’Amministrazione di approfondimenti istruttori, soprattutto nelle ipotesi in cui la richiesta era genericamente riferita alla comprova dei requisiti indicati e non indicava specifici e tassativi documenti. SS
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Inserito in data 16/03/2016 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III - 11 marzo 2016, n. 965 Sulla portata generale dell’art. 2, comma 7, del d.P.R. n. 487/1994 Il Consiglio di Stato, modificando il proprio orientamento, accoglie il ricorso intentato avverso un bando relativo all’ammissione ad una scuola di specializzazione per iscritti all’albo nazionale dei segretarî comunali e provinciali, con riferimento alla parte in cui prevedeva un’anzianità di servizio, nella fascia di appartenenza, pari a due anni, maturata in una data antecedente a quella stabilita per la presentazione delle domande. Il precedente arresto giurisprudenziale, segnatamente, riteneva che la disposizione di cui all’art. 2, comma 7, del d.P.R. n. 487/1994 (Regolamento recante norme sull’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e le modalità di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di assunzione nei pubblici impieghi) – a mente della quale “i requisiti prescritti devono essere posseduti alla data di scadenza del termine stabilito nel bando di concorso per la presentazione della domanda di ammissione” – non fosse applicabile alle selezioni del tipo in questione. Rileva il collegio come la normativa richiamata letteralmente concerna l’“accesso” agli impieghi civili presso le pubbliche amministrazioni, e non anche le selezioni indette dal Ministero dell’interno per un corso di formazione (il cui superamento costituisce un requisito di idoneità per l’inserimento nella fascia professionale superiore). Tuttavia, nondimeno, deve giungersi alla conclusione che la disposizione citata sia “espressione di un principio generale, strettamente connesso ai principî di imparzialità dell’amministrazione e di parità di trattamento dei candidati”, oltre che di trasparenza: “La determinazione di una data diversa – non coincidente con quella di scadenza del termine per la presentazione delle domande – implica di per sé il concreto rischio che possano esservi vantaggi solo per alcuni degli appartenenti della categoria, con esclusione degli altri e, dunque, ingiustificate disparità di trattamento”. Il collegio ulteriormente osserva che: “Il principio della maturazione dei requisiti alla data di scadenza della presentazione della domanda – a parte i casi espressamente previsti da una disposizione normativa – può essere derogato solo ove vi siano specifiche e comprovate ragioni di interesse pubblico, ad esempio quando si tratti di dare una ragionata esecuzione a statuizioni dei giudici ovvero qualora vi sia l’esigenza di rispettare una successione cronologica tra procedimenti collegati, o di salvaguardare posizioni legittimamente acquisite dai soggetti interessati a concorsi interni”. Simili comprovate ragioni non sono riscontrabili, o non sono comunque state esternate, secondo i giudici di Palazzo Spada, nel caso di specie. FM
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Inserito in data 16/03/2016 TAR CAMPANIA - NAPOLI, SEZ. VI, 9 marzo 2016, n. 1343 Impossibilità di produrre copie conformi di cartelle esattoriali Il Tribunale partenopeo, a valle di un’istanza di accesso agli atti, dichiara l’improcedibilità di un ricorso avverso la comunicazione dell’ente preposto alla riscossione tributaria, concernente la “impossibilità di produrre copia conforme delle cartelle di pagamento, del cui originale esiste un unico esemplare già notificato al contribuente”, laddove, segnatamente, l’ente stesso abbia “provveduto alla elaborazione di una riproduzione delle stesse (…), uguale nei contenuti, (e) tuttavia soggetta alle variazioni di forma e struttura dovute alle modifiche normative e societarie succedutesi nel tempo”. Il collegio ritiene non condivisibile la tesi di parte ricorrente in ordine all’affermata non satisfattività del deposito documentale da ultimo richiamato. Viene al riguardo esaminato il contenuto dell’art. 26 del d.P.R. n. 602/1973, in materia di notificazione della cartella di pagamento, dalla cui lettura emerge chiaramente che l’originale della cartella, essendo stato notificato, “non è più nella disponibilità del concessionario, al quale rimane la matrice o la copia della cartella con la relata di notifica della stessa. Per legge, quindi, ciò che il contribuente/ricorrente può ottenere dall’ente in sede di accesso è la copia della cartella rinvenibile presso gli archivî del concessionario, che non potrà recare il visto di conformità all’originale per inesistenza dell’originale stesso”. Riprendendo l’orientamento ermeneutico del Consiglio di Stato, i giudici evidenziano come la documentazione vada senz’altro ricercata ed esibita dall’amministrazione richiesta, ove gli atti effettivamente esistano presso l’ente stesso; ove, invece, detta documentazione non sia più esistente, l’ente, assumendosi formalmente la responsabilità di quanto dichiarato, dovrà attestare la circostanza concretamente verificatasi, e chiarire dove la documentazione possa essere reperita, e/o in quale occasione sia andata distrutta, nell’ipotesi che questa sia già stata trasmessa ad altra amministrazione, l’ente dovrà “girare” la richiesta di accesso ex art. 6, comma 2, del d.P.R. n. 184/2006. Nella fattispecie, pertanto, il concessionario della riscossione, non essendo più nella sua disponibilità l’originale delle cartelle in questione, ha correttamente agito provvedendo a consegnare all’istante la documentazione di cui disponeva. Conclusivamente, osserva peraltro il collegio: “Da un punto di vista sostanziale deve rilevarsi che ciò che serve alla ricorrente al fine di tutelare i proprî interessi giuridici è che la copia della cartella provenga dall’agente della riscossione (…) e che il contenuto della copia rilasciata corrisponda quanto a tipologia di tributo, ammontare del dovuto e caratteristiche essenziali all’originale a suo tempo notificato, la cui custodia sarebbe comunque onere del destinatario della cartella”. “Se la cartella nel tempo ha cambiato forma o intestazione per le modifiche societarie che hanno interessato l’ente ciò non ha alcuna rilevanza a meno che la ricorrente non riscontri errori, illegittimità o incongruenze rispetto ai contenuti delle cartelle medesime che fanno pensare ad atti alterati o manomessi”. FM
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Inserito in data 15/03/2016 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III - 10 marzo 2016, n. 962 Divieto di radicale modificazione della composizione dell’offerta Con la sentenza in epigrafe, i giudici di Palazzo Spada hanno confermato la decisione resa in primo grado dal T.A.R. per il Veneto con la quale era stata dichiarata legittima l’esclusione dalla gara della ricorrente, disposta in esito alla fase procedurale di verifica dell’anomalia dell’offerta, sulla base della dirimente considerazione che la differente e successiva quantificazione degli oneri di sicurezza aziendali operata dalla concorrente avesse comportato un inammissibile stravolgimento della consistenza e della composizione dell’offerta economica, pur nell’invarianza dell’importo complessivo. La III Sezione del Consiglio di Stato, pur ammettendo la possibilità, in sede di verifica delle offerte anomale, di operare compensazioni tra sottostime e sovrastime di talune voci dell’offerta economica, ha ammonito circa la sussistenza del divieto di una radicale modificazione della composizione dell’offerta. In particolare, il Collegio ha affermato che se si ritenesse che “il giudizio sull’anomalia postula un apprezzamento globale e sintetico sull’affidabilità dell’offerta nel suo complesso e che, nel contraddittorio procedimentale afferente al relativo segmento procedurale, sono consentite compensazioni tra sottostime e sovrastime di talune voci dell’offerta economica, ferma restando la sua strutturale immodificabilità”- come argomentato dall’appellante - è pur sempre vero “che l’applicazione di tali principi incontra il duplice limite, in generale, di una radicale modificazione della composizione dell’offerta (da intendersi preclusa) che ne alteri l’equilibrio economico (allocando diversamente rilevanti voci di costo nella sola fase delle giustificazioni), e, in particolare, di una revisione della voce degli oneri di sicurezza aziendale, che, quale elemento costitutivo dell’ offerta, esige una separata identificabilità ed una rigida inalterabilità, a presidio degli interessi pubblici sottesi alla relativa disciplina legislativa, per come interpretata e valorizzata dalle decisioni dell’Adunanza Plenaria nn. 3 e 9 del 2015”. Seguendo tale interpretazione – ha rilevato il Collegio con la pronuncia de qua – deriva che, per un verso, “il giudizio di inattendibilità dell’offerta può legittimamente investire specifiche voci di costo, quando le stesse assumano una rilevanza tale da inficiare, di per sé, la serietà dell’offerta”, per un altro, che “la valutazione di quest’ultima possa legittimamente appuntarsi sulla congruità dei soli oneri di sicurezza aziendale, quale segmento dell’offerta che ha ricevuto dal legislatore una peculiare e specifica regolazione (art.87, comma 4, d.lgs. n. 163 del 2006), che implica, a sua volta, una autonoma rilevanza della relativa voce, a protezione delle incomprimibili esigenze pubblicistiche soddisfatte dal regime normativo di riferimento”. Orbene, se si aderisse alla prospettazione formulata dall’appellante - hanno osservato i giudici della III Sezione - si finirebbe con il consentire, nella fase del controllo dell’anomalia, “un’indiscriminata ed arbitraria modifica postuma della composizione dell’offerta economica, con il solo limite del rispetto del saldo complessivo”. Ciò – ha precisato conclusivamente il Collegio - si porrebbe in contrasto con le esigenze conoscitive, da parte della stazione appaltante, della sua struttura di costi, e determinerebbe altresì un’inammissibile deformazione della funzione e dei caratteri del subprocedimento di anomalia, trasformando le giustificazioni che, nella disciplina legislativa di riferimento, servono a chiarire le ragioni della serietà e della congruità dell’offerta economica, in “occasione per una sua libera rimodulazione, per mezzo di una scomposizione e di una diversa ricomposizione delle sue voci di costo (per come dettagliate nella domanda di partecipazione originaria), che implicherebbe, peraltro (oltre ad una evidente lesione delle esigenze di stabilità ed affidabilità dell’ offerta), anche una violazione della par condicio tra i concorrenti”. MB
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Inserito in data 14/03/2016 TAR CAMPANIA - SALERNO, SEZ. I, 8 marzo 2016, n. 520 La dialettica infraprocedimentale non può essere meramente “burocratica” La vicenda in questione concerne un’ipotesi di “malgoverno”, da parte dell’Amministrazione, della disposizione di cui all’art. 7 della l. 241/90. Nello specifico, l’ente, nonostante la regolare comunicazione di avvio del procedimento, non aveva considerato le osservazioni difensive formulate dal privato in chiave partecipativa, omettendo di esplicitare le concrete ragioni poste a base della loro confutazione. Il Collegio, con la pronuncia in epigrafe, rilevava come, nella fattispecie, l’Amministrazione avesse, sbagliando, fornito della disciplina in tema di comunicazione d’avvio del procedimento “una lettura assolutamente riduttiva, oltre che burocratica”, inidonea, in definitiva, ad assolvere alla specifica funzione cui l’istituto è preordinato. In particolare, i Giudici Salernitani, conformando il proprio orientamento alla giurisprudenza prevalente in materia, richiamavano le seguenti ed esemplificative massime: “le norme di cui all’art. 7, l. n. 241 del 1990 non vanno applicate in modo meccanico e formalistico ma devono essere intese nel senso che le memorie ed osservazioni prodotte dal privato nel corso del procedimento amministrativo siano effettivamente valutate dall’Amministrazione ed è necessario che di tale valutazione resti traccia nella motivazione del provvedimento finale” (T.A.R. Napoli - Campania, Sez. III, 4/11/2008, n. 19267) – ed ancora “nell’ambito del procedimento amministrativo, l’onere di motivazione che incombe sulla p.a. in ordine alle “memorie scritte e documenti” presentati dai soggetti di cui agli artt. 7 e 9, l. 7 agosto 1990 n. 241, non è tale da ricomprendere in sé la confutazione punto per punto e analiticamente di tutte le osservazioni e i rilievi ivi formulati dai soggetti interessati, richiedendosi piuttosto che la p. a. dia conto della ragione sostanziale della decisione maturata tenuto conto dell’apporto collaborativo dei soggetti coinvolti nel procedimento e che della relativa valutazione resti traccia nella motivazione del provvedimento finale” (T. A. R. L’Aquila - Abruzzo, Sez. I, 6/06/2007, n. 285). Infine, il Collegio notava come, nel caso in esame, l’Amministrazione, neppure avesse tentato, per superare la violazione legislativa, di replicare alla dirimente censura invocando, ad esempio, la cd. sanatoria dei vizi formali, ex art. 21 octies, comma 2, della legge generale sul procedimento amministrativo, a tenore del quale “il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”. Pertanto, il T.A.R. Salerno, sulla scorta degli esposti rilievi, ravvisando una violazione, da parte dell’ente, della disciplina legislativa in materia di comunicazione di avvio del procedimento, accoglieva il ricorso, per l’effetto dichiarando l’illegittimità del provvedimento finale della pubblica amministrazione. MB
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Inserito in data 12/03/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, 9 marzo 2016, n. 953 Contestazione della graduatoria e giurisdizione del G.A. Con la pronuncia in epigrafe, il Consesso conferma la giurisdizione del Giudice amministrativo in materia di criteri generali ed astratti predisposti dall’amministrazione per la formazione e l’aggiornamento delle graduatorie (decreto ministeriale n. 235/2014). Evidenzia, inoltre, che “al fine della individuazione della giurisdizione, la graduatoria non rileva come atto di gestione in sé, ma come proiezione applicativa di un non corretto esercizio del potere di organizzazione, il quale rimane pur sempre l’oggetto del giudizio e della contestazione del privato”. Pertanto, “la posizione giuridico-soggettiva fatta valere è sempre quella di interesse legittimo e non anche di diritto soggettivo, atteso che la contestazione è sempre diretta alla legittima determinazione dei criteri generali”. Sicché, “l’oggetto del giudizio, unitariamente considerato, e, dunque, la natura delle posizioni giuridico-soggettive coinvolte non mutano per effetto della mera qualificazione e denominazione dell’atto oggetto di impugnativa (graduatoria)”. Alla luce di quanto suddetto, deve confermarsi l’orientamento già espresso dalla Sezione in materia, laddove si è ritenuto che “la stretta correlazione tra le domande azionate non consente una ripartizione della potestas iudicandi tra giudice ordinario e giudice amministrativo, essendo concentrata dinanzi a quest’ultimo la tutela invocata da parte ricorrente” (sent. n. 4485/2015 del 24-9-2015) ed affermandosi, altresì, che nella specie sono comunque rilevabili “contestazioni che investano direttamente il potere governativo o ministeriale, ovvero la potestà di emanare atti amministrativi generali di natura non regolamentare”, atteso che “nella situazione in esame si censurano infatti non le modalità di valutazione delle singole posizioni soggettive, ma in via principale le determinazioni espresse dal MIUR nel decreto n. 235 in data 1 aprile 2014 (aggiornamento delle graduatorie ad esaurimento per il triennio 2014-2017), per profili organizzativi di carattere generale, inerenti a titoli che, ad avviso degli appellanti, consentirebbero una parziale riapertura delle graduatorie stesse” (ordinanza n. 364/2016 del 29-1-2016). EF
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Inserito in data 11/03/2016 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI - 7 marzo 2016, n. 917 Regolarizzazione del DURC a richiesta della stazione appaltante e par condicio competitorum La questione posta al vaglio dei Giudici di Palazzo Spada attiene “alla sanabilità delle irregolarità contributive emerse subito dopo la stipula del contratto d’appalto e riscontrate dalla stazione appaltante a seguito della espressa richiesta agli istituti previdenziali delle condizioni di esistenza della regolarità contributiva dell’impresa aggiudicataria”. A tal proposito, l’art. 31, comma 8, del d.l. 21 giugno 2013 n. 69, convertito nella legge n. 98 del 2013, recante semplificazioni in materia di DURC, dispone che “ai fini della verifica per il rilascio del documento unico di regolarità contributiva (DURC), in caso di mancanza dei requisiti per il rilascio di tale documento gli Enti preposti al rilascio, prima dell'emissione del DURC o dell'annullamento del documento già rilasciato, invitano l'interessato, mediante posta elettronica certificata o con lo stesso mezzo per il tramite del consulente del lavoro ovvero degli altri soggetti di cui all'articolo 1 della legge 11 gennaio 1979, n. 12, a regolarizzare la propria posizione entro un termine non superiore a quindici giorni, indicando analiticamente le cause della irregolarità”. Tuttavia, già dalla portata letterale della disposizione si evince che la norma trova applicazione nei casi di richiesta del DURC da parte dell’impresa interessata (sia in sede di prima emissione del documento, sia in sede di rinnovo) nell’ambito delle attività di normale gestione dell’impresa; “ma non certo nei casi … in cui la richiesta del DURC provenga da una stazione appaltante e sia funzionale ad acclarare se il concorrente … abbia in concreto i requisiti dichiarati per restare aggiudicatario di un appalto pubblico”. In tali casi, infatti, “ammettere la regolarizzazione postuma del requisito contributivo mancante sarebbe evidentemente violativo della par condicio competitorum” ; di guisa che appare incensurabile “la determinazione con la quale è stato disposto il ritiro dell’aggiudicazione e la risoluzione del contratto già stipulato, essendo l’impresa venuta meno all’obbligo di mantenere il requisito contributivo fino alla stipula del contratto”. La conclusione è, peraltro, coerente con quanto statuito dall’Adunanza Plenaria, sentenza 4 maggio 2012 n. 8, nella quale è stato affermato che “la valutazione della gravità delle violazioni alle norme in materia previdenziale ed assistenziale non è rimessa alla valutazione caso per caso della stazione appaltante, posto che ai sensi e per gli effetti dell’art. 38, comma 1, lett. i), d.lgs. n. 163 del 2006, secondo cui costituiscono causa di esclusione dalle gare di appalto le gravi violazioni alle norme in materia previdenziale e assistenziale, la nozione di “violazione grave” si deve desumere dalla disciplina previdenziale, e in particolare dalla disciplina del documento unico di regolarità contributiva; con la conseguenza che la verifica della regolarità contributiva delle imprese partecipanti a procedure di gara per l’aggiudicazione di appalti con la pubblica amministrazione è demandata agli istituti di previdenza, le cui certificazioni (DURC) si impongono alle stazioni appaltanti, che non possono sindacarne il contenuto”. EF
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Inserito in data 10/03/2016 CORTE COSTITUZIONALE - SENTENZA 9 marzo 2016, n. 49 Potestà legislativa concorrente in materia di DIA e SCIA La Corte Costituzionale, nella sentenza in esame, si è pronunciata sui limiti che incontra la potestà legislativa concorrente delle Regioni in materia di governo del territorio rispetto alla disciplina statale in materia di DIA e SCIA ed, in particolare, si è interrogata della legittimità o meno di una legge regionale che ammetteva l’adozione di provvedimenti inibitori e sanzionatori anche oltre il termine di trenta giorni dopo la presentazione della SCIA previsto dalla disciplina statale. Il presente giudizio aveva, dunque, ad oggetto la questione di legittimità costituzionale dell’art. 84-bis, comma 2, lettera b), della legge della Regione Toscana n. 1 del 2005, in riferimento all’art. 117, comma 3 e comma 2, lettera m), della Costituzione, nella parte in cui prevede che “nei casi di SCIA […], decorso il termine di trenta giorni di cui all’articolo 84, comma 6, possono essere adottati provvedimenti inibitori e sanzionatori qualora ricorra uno dei seguenti casi: […] b) in caso di difformità dell’intervento dalle norme urbanistiche o dalle prescrizioni degli strumenti urbanistici generali, degli atti di governo del territorio o dei regolamenti edilizi”. Secondo il remittente, la disposizione impugnata sarebbe affetta da illegittimità costituzionale in quanto consentirebbe all’Amministrazione di esercitare poteri sanzionatori per la repressione degli abusi edilizi, anche oltre il termine di trenta giorni dalla presentazione della SCIA, in un numero di ipotesi più ampio rispetto a quello previsto dai commi 3 e 4 dell’art. 19 della legge n. 241 del 1990; più radicalmente, poi, il rimettente osserva che nella disposizione in questione il potere attribuito all’Amministrazione sarebbe quello generale di controllo e non di autotutela, come previsto dalla normativa statale. Il remittente, inoltre, deduce l’ulteriore profilo di illegittimità costituzionale per il mancato rispetto dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali stabiliti con legge dello Stato, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost. Ritiene la Corte Costituzionale che, secondo giurisprudenza pacifica, nell’ambito della materia concorrente “governo del territorio”, i titoli abilitativi agli interventi edilizi costituiscono oggetto di una disciplina che assurge a principio fondamentale, e tale valutazione deve ritenersi valida anche per la denuncia di inizio attività (DIA) e per la SCIA che, seppure con la loro indubbia specificità, si inseriscono in una fattispecie il cui effetto è pur sempre quello di legittimare il privato ad effettuare gli interventi edilizi. Tale fattispecie, peraltro, ha una struttura complessa e non si esaurisce, rispettivamente, con la dichiarazione o la segnalazione, ma si sviluppa in fasi ulteriori: una prima, di ordinaria attività di controllo dell’Amministrazione (rispettivamente nei termini di sessanta e trenta giorni); una seconda, in cui può esercitarsi l’autotutela amministrativa. La disciplina di questa fase ulteriore, dunque, è parte integrante di quella del titolo abilitativo e costituisce con essa un tutt’uno inscindibile: ne discende che anche per questa parte la disciplina in questione costituisce espressione di un principio fondamentale della materia “governo del territorio” che soggiace alle regole di ripartizione della competenza fra Stato e Regioni nelle materia si potestà concorrente. Al riguardo, precisa la Corte, “il rapporto tra normativa di principio e normativa di dettaglio […] deve essere inteso nel senso che l’una è volta a prescrivere criteri ed obiettivi, mentre all’altra spetta l’individuazione degli strumenti concreti da utilizzare per raggiungere quegli obiettivi”: ebbene, la normativa regionale in esame, nell’attribuire all’Amministrazione un potere di intervento, lungi dall’adottare una disciplina di dettaglio, ha introdotto una normativa sostitutiva dei principi fondamentali dettati dal legislatore statale che invade la riserva di competenza statale alla formulazione di principi fondamentali, con tutti i rischi per la certezza e per l’unitarietà della disciplina che tale invasione comporta. Ne consegue, concludono i Giudici della Legge, la fondatezza della questione di costituzionalità con riferimento all’art. 117, comma 3, Cost., il che comporta, peraltro, l’assorbimento dell’ulteriore censura di violazione dell’art. 117, comma 2, lettera m), Cost. SS
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Inserito in data 09/03/2016 TAR LAZIO - LATINA, SEZ. I, 2 marzo 2016, n. 124 Sulla portata del diniego di autotutela ex art. 243 bis d.lgs. n. 163/2006 Con la sentenza in epigrafe viene accolto il ricorso intentato da un operatore economico il quale lamentava, nell’ambito di una procedura di gara, la violazione dell’art. 46, comma 1 bis del d.lgs. n. 163/2006, per non avere la stazione appaltante provveduto all’esclusione degli altri concorrenti, i quali avevano omesso di indicare, nella propria offerta economica, gli oneri relativi alla sicurezza c.d. specifici. Costituitosi in giudizio, l’ente comunale resistente eccepiva l’inammissibilità del gravame, per la mancata impugnazione, da parte del ricorrente, dell’emarginato diniego di autotutela, formatosi a seguito dell’inerzia dell’amministrazione, previamente informata dell’intenzione dell’interessato di proporre un ricorso giurisdizionale. Detta eccezione preliminare viene ritenuta dal collegio giudicante del tutto destituita di fondamento. Si osserva in proposito come la giurisprudenza abbia precisato che il citato art. 243 bis “non prevede un obbligo della stazione appaltante di riscontrare l’atto di informativa ivi previsto; l’istituto in discorso rappresenta, infatti, un mero strumento offerto alla p.a. per valutare l’opportunità di un riesame della fattispecie in via di autotutela, tanto che il silenzio su tale informativa non è qualificato in termini di ʻrigetto’ o di ʻrifiuto’, ma solo di ʻdiniego di (procedere in) autotutela’, la cui mancata impugnazione non comporta una possibile causa di inammissibilità e/o improcedibilità del ricorso già proposto avverso l’aggiudicazione”. La norma in questione (ai sensi della quale “il diniego totale o parziale di autotutela, espresso o tacito, della procedura ad evidenza pubblica è impugnabile solo con l’atto a cui si riferisce, ovvero, se quest’ultimo è già stato impugnato, con motivi aggiunti”) “lungi dall’imporre l’impugnazione del diniego di autotutela, ha un mero rilievo processuale, volto a consentire che la necessaria impugnazione del provvedimento lesivo e quella solamente eventuale, secondo i principî generali, del diniego di autotutela vengano trattate nell’ambito di un simultaneus processus”. “È del pari infondata l’eccezione di inammissibilità del ricorso per omessa impugnazione del bando e del disciplinare di gara, in base al fatto che la predetta impugnazione sarebbe stata necessaria, per non avere né il bando né il disciplinare previsto la quantificazione già nell’offerta dei c.d. oneri di sicurezza specifici. In contrario, infatti, si osserva come l’obbligo di indicare gli oneri di sicurezza aziendali integri dall’esterno la lex specialis di gara” (cfr., da ultimo, C.S. 5873/2015).
Nel merito, il ricorso viene accolto in consonanza con le pronunce dell’adunanza plenaria nn. 3 e 9/2015, a mente delle quali: “nelle procedure di affidamento di lavori i concorrenti devono indicare nell’offerta economica i costi interni per la sicurezza del lavoro, pena l’esclusione dell’offerta dalla procedura anche se non prevista nel bando di gara, come si evince da un’interpretazione sistematica delle norme regolatrici della materia date dall’art. 26 comma 6, del d.lgs. n. 81/2008 e dagli artt. 86, comma 3 bis, e 87, comma 4, del d.lgs. n. 163/2006”. FM
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Inserito in data 09/03/2016 TAR EMILIA ROMAGNA - PARMA, SEZ. I - 29 febbraio 2016, n. 66 Necessarietà della sanzione ex art. 38, comma 2 bis d.lgs. n. 163/2006 Il Tribunale amministrativo, riconosce la legittimità di una determinazione comunale di escussione parziale della cauzione provvisoria prodotta da una ditta partecipante a una gara, in un caso di disposta integrazione documentale, della quale la ricorrente aveva rappresentato di non volersi avvalere. In sede cautelare, era stata ritenuta “condivisibile l’interpretazione del comma 2 bis dell’art. 38 del codice dei contratti data dall’A.n.a.c. e invocata dalla ricorrente, in quanto più in linea con la ratio deflattiva sottesa alla novella normativa in discorso”. Sarebbe, infatti “illogica e ingiustamente afflittiva la sanzione pecuniaria per il concorrente che, reso edotto dell’incompletezza o di altra irregolarità essenziale degli elementi e delle dichiarazioni sostitutive, scelga di ritirarsi dalla competizione (non avvalendosi del soccorso istruttorio) consentendo alla stazione appaltante di procedere celermente con le operazioni di gara senza strascichi giudiziarî”. Osservava l’amministrazione resistente come la sanzione in narrativa non costituisca una “misura alternativa all’esclusione”, bensì uno strumento mirato a colpire “l’irregolarità essenziale della documentazione” ex se. Si riportava, in proposito, l’orientamento espresso dalla più recente giurisprudenza. Il collegio evidenzia la procedimentalizzazione dell’istituto del soccorso istruttorio, per effetto della l. n. 114/2014, non mancando di enuclearne la logica fondamentale: “prevenire esclusioni determinate da mere omissioni documentali sanabili in corso di gara senza eccessivi aggravî, contemperando (…) i principî di massima partecipazione e di par condicio che, in ragione dell’altalenante prevalere dell’uno sull’altro, avevano determinato una posizione ondivaga della giurisprudenza”. Presupposto legittimante l’adozione della misura sanzionatoria, il ricorrente individuava “nell’effettivo sfruttamento della riconosciuta possibilità di rimanere in gara nonostante l’irregolarità commessa”. Diversamente opinando, l’amministrazione costruiva la propria tesi sulla considerazione che già la sola incompletezza documentale, fosse sufficiente ai fini dell’irrogazione della sanzione.
Il Tribunale motiva la propria scelta muovendo dal dato testuale normativo. Nella direzione già richiamata in apertura, i giudici emiliani riscontrano come appaia chiara “la volontà del legislatore di ricollegare l’effetto sanzionatorio alla sola incompletezza documentale senza subordinarlo a successive valutazioni della concorrente in ordine alla persistenza di un proprio eventuale interesse a permanere in gara”. Ove così non fosse “risulterebbe svilita la funzione della norma che (…) persegue, altresì, l’obiettivo di indurre i concorrenti alla presentazione di offerte serie e ponderate evitando inutili aggravî procedimentali”. FM
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Inserito in data 08/03/2016 CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL'UOMO - ricorsi nn. 17708, 17717, 17729, 22994/12 - SEZ. I, SENTENZA 25 febbraio 2016 Indennizzo Legge Pinto ed istanza di prelievo La Corte di Strasburgo interviene, con la pronuncia in esame, in materia di indennizzo della violazione del termine di ragionevole durata dei processi – in specie riguardo a quelli amministrativi, facendo cadere il principio della necessaria presentazione dell’istanza di prelievo come condizione di ammissibilità dell’istanza di indennizzo ex lege Pinto. L’intervento è degno di nota, poiché con esso è ravvisata una violazione – da parte dell’Ordinamento italiano – nell’adozione di rimedi preventivi – volti a deflazionare la violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, tra i quali parrebbe rientrare, per l’appunto, l’istanza di prelievo – di cui all’art. 71 cpv. c.p.a., e in precedenza dall’art. 51 R.D. 642/07. Ad avviso dei Giudici francesi, in sostanza, la previa, necessaria presentazione di tale istanza costituirebbe una mera formalità, destinata ad ostacolare l’accesso ai “procedimenti Pinto”. Infatti, sottolinea sempre la Corte, il Presidente del Tar ha una semplice facoltà di anticipare la trattazione dell’udienza, a seguito della presentazione dell’istanza di prelievo e, nella prassi giudiziaria, il periodo di tempo che intercorre tra la presentazione dell’istanza di prelievo e la fissazione delle cause per le quali è chiesta l’istanza sembra dipendere in maniera aleatoria dalle politiche di priorità di ciascun TAR. E’ evidente come, in tal guisa, la necessità di anticipare e snellire l’accesso ai giudizi ex lege Pinto – originariamente riscontrabile nella richiesta di una previa presentazione di un’istanza di prelievo, ha finito con il costituirne un ostacolo – rallentando il relativo iter processuale e gravando di ulteriori oneri i ricorrenti, già appesantiti da vicende giudiziarie annose. Proprio ciò considerando, i Giudici di Strasburgo sanciscono la violazione degli articoli 6 e 13 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, posto che la suddetta istanza non riesce a delimitare l’irragionevole durata dei processi; né, altresì, a consentirne una maggiore accelerazione. Di conseguenza, la Corte condanna lo Stato italiano a rifondere ai ricorrenti le spese per i danni morali patiti a seguito dell’ulteriore dilatazione dei tempi processuali e statuisce, frattanto, il tramonto di una norma che, invero, tradiva lo spirito di maggiore snellezza per cui era stata originariamente pensata dal nostro Legislatore. CC
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Inserito in data 08/03/2016 CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA - GRANDE CAMERA, SENTENZA 1 marzo 2016 - C-443/14 e C-444/14 Beneficiari protezione sussidiaria ed obbligo di residenza La Corte di giustizia dell’Unione europea chiarisce la portata dell’articolo 33 della direttiva 2011/95/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, recante norme sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione internazionale. Essa sottolinea, più nel dettaglio, che gli Stati membri devono permettere alle persone alle quali hanno concesso lo status di beneficiario della protezione sussidiaria di circolare liberamente nel loro territorio secondo condizioni identiche a quelle riservate alle altre persone non aventi la cittadinanza dell’UE che ivi risiedono legalmente. In tal modo, infatti, facendo specifico riferimento alla normativa tedesca – oggetto dell’odierna pronuncia, la Corte stabilisce che, quando i beneficiari della protezione sussidiaria percepiscono prestazioni sociali, il loro permesso di soggiorno deve essere accompagnato da un obbligo di residenza in un luogo determinato. Tale misura mira a garantire un’adeguata ripartizione degli oneri di tali prestazioni tra i diversi enti competenti in materia. Essa inoltre può avere l’effetto di facilitare l’integrazione nella società tedesca delle persone non aventi la cittadinanza dell’UE. Tale applicazione – ad avviso dei Giudici del Lussemburgo, è in linea con la ratio della suddetta Direttiva, volta a perseguire ragioni di carattere umanitario. Si ritiene possibile ed anzi perseguibile, infatti, imporre un obbligo di residenza ai rifugiati qualora essi siano più esposti a difficoltà di integrazione rispetto ad altre persone non aventi la cittadinanza dell'Ue e residenti legalmente nel medesimo Stato membro. CC |
Inserito in data 07/03/2016 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV - 3 marzo 2016, n. 880 L’avvalimento c.d. infragruppo L’appello controverte della legittimità dell’aggiudicazione di un appalto di servizi ad una ditta che, in sede di presentazione dell’offerta, aveva dichiarato di concorrere per la sua consorziata ed aveva allegato alla propria offerta un contratto di avvalimento infragruppo in relazione al fatturato specifico, legittimità contestata dal ricorrente proprio con riferimento alla valutazione del contratto di avvalimento, a suo avviso “generico” e come tale non idoneo a dimostrare all’Amministrazione la serietà dell’offerta e la concreta possibilità di far fronte agli impegni contrattuali. Il T.A.R. capitolino, nella pronuncia impugnata, aveva rilevato che ricorrendo, nella fattispecie, un’ipotesi di avvalimento infragruppo, non sarebbe stato necessario, per dimostrare il possesso dei requisiti, il relativo contratto ex art.49, co. 2 g del D.Lgs. n.163/2006, tanto più che la questione riguardava imprese di un consorzio “stabile”. Ma considerato che l’aggiudicataria si era ugualmente avvalsa del contratto di avvalimento, il Collegio aveva dovuto verificarne la determinatezza del contenuto ai sensi dell’art.49 del D.Lgs. n.163/2006 e dell’art.88 del D.P.R. n.207/2010, ritenendolo conclusivamente sufficientemente determinato. I giudici di Palazzo Spada, con la pronuncia in epigrafe, hanno confermato la decisione resa in primo grado, ribadendo come “in tema di avvalimento, la giurisprudenza di questo Consesso ha ripetutamente affermato l’esigenza, ricavata dalle disposizioni dell’art. 49, che il contratto in parola rechi una esplicita ed esauriente indicazione del relativo oggetto (..) e che le risorse ed i mezzi da prestare all’ausiliata siano indicati in modo determinato e specifico”. Ma l’intensità del dovere di specificazione – hanno ulteriormente precisato i giudici della IV Sezione - può essere “diversamente determinata”, poiché il citato art. 49 “richiama in più punti la possibilità che la lex specialis concursus rechi una disciplina del contenuto del contratto di avvalimento “ in relazione ad una specifica gara” (comma 1 dell’art. 49) o con specifico riguardo alle “risorse necessarie” (comma 2 lett. f del medesimo articolo) per l’appalto”. Applicando il citato criterio alla fattispecie de qua, il Collegio ha evidenziato come il bando di gara, nel caso in esame, non disponesse nulla di particolarmente specifico sul punto, sicché la valutazione di idoneità del contratto di avvalimento compiuta dal T.A.R. Roma, secondo i criteri dell’art. 49, doveva ritenersi immune dai vizi ipotizzati dal ricorrente. MB
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Inserito in data 07/03/2016 TAR LOMBARDIA - BRESCIA, SEZ. II, 1 marzo 2016, n. 313 DURC: sindacabilità innanzi al G.A. Con la pronuncia in epigrafe, la II Sezione del T.A.R. Brescia si è occupata della giurisdizione amministrativa in tema di documento unico di regolarità contributiva, c.d. DURC. Nella fattispecie, la stazione appaltante aveva indetto una procedura di cottimo fiduciario con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, invitando l’impresa - odierna ricorrente - a presentare la propria offerta. Dopo la comunicazione dell’aggiudicazione in via provvisoria dell’appalto, l’Azienda appaltante aveva comunicato (con note del luglio 2015) di avere riscontrato, in base ad un DURC negativo, una irregolarità contributiva e di aver proceduto alla revoca dell’aggiudicazione e all’esclusione della ricorrente dalla procedura di gara. Il Collegio, nell’affrontare la questione preliminare della sindacabilità del DURC da parte del giudice amministrativo, ha sinteticamente ripercorso la normativa di riferimento in materia, precisando che il DURC trova origine nell’art. 2 del d.l. n°210/2002, conv. nella l. n°266/2002, a tenore del quale “le imprese che risultano affidatarie di un appalto pubblico sono tenute a presentare alla stazione appaltante la certificazione relativa alla regolarità contributiva a pena di revoca dell'affidamento”, disposizione – questa - con la quale si è voluto scongiurare il rischio che le commesse pubbliche, tradizionalmente considerate generatrici di occupazione, si traducessero nell’arricchimento di soggetti non rispettosi dei diritti dei lavoratori. A tale norma, ha fatto seguito – hanno ricordato i giudici bresciani – l’art. 38 del d.lgs. 163/2006, per cui costituiscono causa di esclusione dalle pubbliche gare le "violazioni gravi, definitivamente accertate, alle norme in materia di contributi previdenziali e assistenziali". La normativa – ha ulteriormente precisato il TAR Brescia - è stata coordinata dalla pronuncia n°4/2012 resa dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato che, in estrema sintesi, ha chiarito che “la verifica di tale requisito è demandata all’ente previdenziale: se esso rilascia un DURC positivo, l’impresa è in regola e può partecipare; se invece esso rilascia un DURC negativo”. Ciò premesso, si pone un problema di tutela nel caso di errori del DURC, con particolare riguardo all’individuazione del giudice al quale rivolgersi nell’ipotesi in cui l’Istituto previdenziale abbia sbagliato nel rilasciare il DURC. Con la pronuncia in esame, il Collegio ha mostrato di condividere l’orientamento espresso dalla sez. VI del C.d.S. n°2219/2015, per cui “il certificato in questione costituisce un atto interno al procedimento, che va impugnato unitamente all’atto finale e che è sottoposto, quanto alla sua regolarità, alla giurisdizione del giudice amministrativo come oggetto di una questione preliminare”. Ed infatti, ad avviso dei giudici bresciani, il difforme orientamento per cui ogni questione relativa al DURC sarebbe devoluta alla giurisdizione ordinaria (da adire in via principale per ricostruire il rapporto previdenziale) non appare condivisibile poiché - considerati i tempi del giudizio civile – questa soluzione lascerebbe la parte senza effettiva tutela e finirebbe, inoltre, con il porsi in contrasto con l’art. 8 c.p.a. che, in via generale, consente al G.A. di conoscere con efficacia limitata al processo di tutte le questioni preliminari. Sulla scorta di queste considerazioni, il TAR ha ritenuto di poter esercitare sul punto una mera cognizione incidentale. Venendo al merito del ricorso, i giudici della II Sezione hanno precisato che il sistema originariamente previsto dal D.M. 24 ottobre 2007 - fondato su una alternativa secca fra il rilascio di un DURC positivo ed uno negativo - è stato sostituito da altro delineato dall’art. 4 del d.l. n°34/2014, conv. nella l. n°78/2014, che in sintesi “sostituisce il documento propriamente detto con il risultato di una interrogazione telematica, che attesta o denega la regolarità nei termini previsti da un regolamento attuativo”: il D.M. 30 gennaio 2015 (in vigore dal 16 giugno successivo), il quale prevede - allo scopo di soccorrere l’imprenditore in buona fede - che se l’interessato ottempera nel termine prescritto, l’Istituto rilascia un DURC positivo, diversamente, a fronte della mancata regolarizzazione, verrà emesso il documento negativo. “Il regolamento, con effetto dalla sua entrata in vigore, ha ridefinito il concetto di grave violazione contributiva, non più costituito dalla violazione ostativa al rilascio, ma dalla violazione ostativa non sanata a fronte dell’invito”. A fronte di ciò – ha rilevato il TAR Brescia - la giurisprudenza si è chiesta “se tale nuovo regime sia innovativo o ricognitivo, ovvero valga anche per il passato” – questione, questa, rimessa alla Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con le ordinanze sez. IV 29 settembre 2015 n°4540 e sez. V 20 ottobre 2015 n°4799. Nella fattispecie in esame – ha poi precisato il Collegio - il sub procedimento di verifica della regolarità contributiva si è svolto dopo il 16 giugno 2015, ovvero a nuova disciplina già in vigore, sicché, nel silenzio della legge, non vi sarebbe ragione alcuna di assoggettare alla disciplina abrogata, più severa, una procedura svoltasi per intero nella vigenza di una normativa nuova, poiché “in tal senso, depongono sia il principio generale, che favorisce la partecipazione alle gara, sia l’interesse alla salvaguardia dei contributi previdenziali”. Quindi, il Collegio, con la pronuncia de qua, ha annullato la determinazione con la quale la stazione appaltante aveva disposto la revoca dell’aggiudicazione, in via provvisoria, della ricorrente e la sua esclusione dalla gara. MB
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Inserito in data 05/03/2016 TAR CAMPANIA - SALERNO, SEZ. I, 2 marzo 2016, n. 488 Pretermissione del contraddittorio in materia di bonifica di siti inquinati Il Tar Salerno, nella sentenza in esame, si è pronunciato sulla legittimità o meno di un’ordinanza di recupero e smaltimento dei rifiuti abbandonati in un terreno non preceduta dall’instaurazione del previo contraddittorio con la parte interessata. In particolare, parte ricorrente deduce la violazione dell’art. 192, comma 3 del d.lgs. 152/2006 nella parte in cui prevede che “[…] chiunque viola i divieti di cui ai commi 1 e 2 è tenuto a procedere alla rimozione, all’avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento sull’area, ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa, in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo”. Afferma il Collegio che l’inequivoca previsione normativa depone sufficientemente nel senso della fondatezza del rilievo di parte ricorrente, non risultando l’atto impugnato preceduto da alcun contraddittorio con la ditta ricorrente, tuttavia, stante la natura prettamente formale del rilievo stesso, occorre verificare se la sua carica potenzialmente inficiante la legittimità dell’atto gravato sia superabile mercé l’applicazione dell’art. 21 octies della l. 241/1990, che sancisce il principio della dequotazione dei vizi formali. Al riguardo, il Tar ritiene di dover risolvere la questione facendo applicazione del consolidato orientamento del Consiglio di Stato in base al quale: “poiché al disposto di cui all'art. 192 del D.Lgs. n. 152/2006 si attaglia il principio secondo cui vi deve essere necessaria imputabilità a titolo di dolo o colpa del proprietario dell’area per configurare un suo obbligo a provvedere allo smaltimento dei rifiuti ivi abbandonati, […] si deve ritenere che la preventiva, formale comunicazione dell’avvio del procedimento si configuri come un adempimento indispensabile al fine dell’effettiva instaurazione di un contraddittorio procedimentale con gli interessati, apparendo recessive, dunque, in tale specifica materia, le regole stabilite in via generale dagli artt. 7 e 21 octies della L. n. 241/1990”. Ne consegue, pertanto, il necessario annullamento dell’ordinanza censurata. SS |
Inserito in data 04/03/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 29 febbraio 2016, n. 853 Sulla giurisdizione del giudice tributario
Il Consiglio di Stato, nella sentenza in epigrafe, ha individuato i casi in cui, rispetto ad atti amministrativi, sussista la giurisdizione del giudice tributario.
Il Collegio, nel premettere di non discostarsi dall’orientamento consolidato della Corte Costituzionale e della Corte Suprema di Cassazione in materia, ha affermato che la giurisdizione del giudice tributario è ravvisabile nelle sole ipotesi in cui la controversia abbia ad oggetto immediato e diretto la contestazione dei presupposti di fatto e di diritto della pretesa avanzata dall’amministrazione finanziaria o dei relativi accessori normativamente individuati, ossia l’an o il quantum di un particolare tributo, di modo che la stessa sia imprescindibilmente collegata alla natura tributaria del rapporto controverso.
Infatti, l’attribuzione alla giurisdizione tributaria di controversie non aventi natura tributaria - sia che derivi direttamente da un’espressa disposizione legislativa ovvero, indirettamente, dall’erronea qualificazione di “tributaria” data dal legislatore (o dall’interprete) ad una particolare materia - comporterebbe la violazione del divieto costituzionale di istituire giudici speciali ex art. 102, comma 2 Cost. Di contro, continua il Consiglio, l’impugnazione di un “atto generale, di natura organizzativa, e solo indirettamente produttivo di conseguenze di natura tributaria” dovrebbe rientrare pienamente nell’alveo della giurisdizione amministrativa senza che su tale profilo possa incidere il tasso di discrezionalità ad esso sotteso. Poiché nel caso di specie, tuttavia, ci si trova al cospetto di atti direttamente determinativi di un aspetto fondamentale della obbligazione tributaria (aumento della tassa portuale e determinazione dell’aliquota), occorre interrogarsi in ordine alla circostanza se la controversia abbia o non abbia ad oggetto la concreta disciplina di un rapporto tributario. Ed in ipotesi positiva, laddove cioè risulti chiara la stretta inerenza dell’atto al rapporto tributario – precisa il Collegio – è necessario affermare la spettanza della giurisdizione al Giudice tributario, essendo inutile discutere, ai fini del riparto della giurisdizione, della consistenza di tale posizione rispetto all’atto in questione (se, cioè, si configuri un interesse legittimo o un diritto soggettivo) giacché, una volta stabilita la natura tributaria dell’atto medesimo e, di conseguenza, della controversia cui dà luogo la sua impugnazione, deve essere tout court affermata la giurisdizione esclusiva del giudice tributario. La controversia in esame, conclude il Consiglio, ha proprio per oggetto la contestazione, sotto il profilo dell’an o del quantum, di un atto impositivo dell’amministrazione finanziaria: non si colloca “a valle” di un rapporto tributario non contestato che ha esaurito i propri effetti e, pertanto, ricorre la giurisdizione del Giudice tributario. SS |
Inserito in data 03/03/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 25 febbraio 2016, n. 754 Il requisito d’iscrizione camerale non è surrogabile dalla prova di aver presentato la domanda La questione affrontata dalla quinta sezione del Consiglio di Stato scaturisce dall’impugnazione proposta dal titolare di un’impresa individuale avverso la sentenza con la quale il giudice di prime cure aveva confermato il provvedimento della stazione appaltante di escludere l’odierna ricorrente dalla gara per carenza dei requisiti prescritti dal capitolato d’oneri, segnatamente per non aver la concorrente documentato il possesso del requisito relativo alla sua iscrizione alla camera di commercio mediante certificazione o autocertificazione ed essersi, invece, limitata ad allegare la ricevuta di avvenuta presentazione telematica della richiesta di iscrizione al registro delle imprese. Preliminarmente, il Collegio, condividendo l’eccezione sollevata dall’ente resistente, dichiarava l’improcedibilità dell’appello, in quanto la ricorrente non aveva impugnato l’atto di aggiudicazione definitiva della gara – pur tempestivamente comunicato – e al riguardo osservava che “è principio acquisito quello secondo cui, nel processo amministrativo, il ricorso avverso la esclusione da una gara pubblica è improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse allorché non sia impugnata, nonostante la tempestiva comunicazione, l’aggiudicazione definitiva dell’appalto, che costituisce l’atto che rende definitiva la lesione dell’interesse azionato dal soggetto escluso. Infatti l’eventuale annullamento della esclusione, che ha effetto viziante e non caducante, lasciando sopravvivere l’aggiudicazione non impugnata, non è idoneo ad attribuire al ricorrente alcun effetto utile”. Dichiarata, quindi, l’improcedibilità dell’appello, il Collegio, per completezza, ugualmente affrontava il merito della questione, rilevando che “nella materia delle gare pubbliche il requisito della iscrizione camerale non è surrogabile dalla prova di aver presentato la domanda di iscrizione, in quanto il certificato non è richiesto solamente ai fini dell’esercizio dell’attività da parte dell’aggiudicataria, ma quale prova del possesso delle condizioni soggettive e oggettive cui è subordinata la iscrizione, il cui accertamento demandato all’ente camerale è implicito nella iscrizione. In tale ottica la iscrizione assume valenza costitutiva e non può che decorrere dal momento in cui è disposta la iscrizione”. In particolare, la quinta sezione puntualizzava che il termine per la presentazione delle domande di partecipazione alla gara costituisce il “discrimen temporale” entro il quale il concorrente, a pena di esclusione, deve possedere i requisiti richiesti dalla lex specialis. Nel caso di specie, la ricorrente non aveva dato prova del possesso del prescritto requisito di iscrizione alla camera di commercio e, non potendosi - ad avviso del Collegio - condividere il principio di retrodatazione dell’iscrizione alla data di presentazione online della domanda, la stazione appaltante del tutto legittimamente aveva quindi disposto l’esclusione della partecipante dalla gara pubblica. MB
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Inserito in data 02/03/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 29 febbraio 2016, n. 842 Reddito disponibile: illegittimità del regolamento sulla revisione dell’i.s.e.e. Il Consiglio di Stato conferma la pronuncia di primo grado e dichiara l’illegittimità del regolamento sulla revisione delle modalità di determinazione e sui campi di applicazione dell’indicatore della situazione economica equivalente (d.P.C.m. 5 Dicembre 2013, n. 159), nella parte in cui prevede una nozione di reddito disponibile eccessivamente allargata. L’indicatore (introdotto dal d.l.gs. n. 109/1998), tendente allo scopo di “fissare criterî uniformi per la valutazione della situazione economica di coloro che richiedono prestazioni o servizî sociali o assistenziali non destinati alla generalità dei soggetti o, ad ogni modo, collegati nella misura o nel costo a determinate situazioni economiche”, è costituito da una componente reddituale (i.s.r.) e da una componente patrimoniale (i.s.p.), ed è utilizzabile per confrontare famiglie, con composizione e caratteristiche differenti, grazie ad una scala di equivalenza (s.e.). Il citato decreto n. 159, risponde all’esigenza di assicurare una maggiore equità nell’individuazione dei beneficiarî: la precedente normativa, infatti, non aveva “ben considerato tutte le diverse fonti di reddito disponibile e di ricchezza patrimoniale delle famiglie”. Ai sensi del d.l. n. 201/2011 si sarebbe dovuta “adottare una definizione di reddito disponibile che includa la percezione di somme, anche se esenti da imposizione fiscale, e che tenga conto delle quote di patrimonio e di reddito dei diversi componenti della famiglia nonché dei pesi dei carichi familiari, in particolare dei figlî successivi al secondo e di persone disabili a carico; migliorare la capacità selettiva dell’indicatore, valorizzando in misura maggiore la componente patrimoniale sita sia in Italia sia all’estero…; permettere una differenziazione dell’indicatore per le diverse tipologie di prestazioni…”. Rientrano nell’ambito dell’i.s.e.e. anche le “prestazioni agevolate di natura sociosanitaria… (rivolte)… a persone con disabilità e limitazioni dell’autonomia”: categoria di appartenenza dei ricorrenti, i quali lamentavano eccessive limitazioni all’accessibilità alle prestazioni de quibus. Preliminarmente, il collegio ritiene l’atto impugnato sindacabile; infatti, nonostante la natura regolamentare, esso non appare munito, in tutti i suoi aspetti, dalle caratteristiche della generalità e dell’astrattezza; il decreto n. 159 è già in sé lesivo degli interessi dei ricorrenti e non meramente programmatico, e non è dunque “ascrivibile al novero dei regolamenti c.d. di volizione preliminare”. In prime cure i privati avevano emarginato tra i motivi del ricorso “l’illegittima ed irrazionale attuazione del criterio direttivo che, nel disporre l’adozione di ʻuna definizione di reddito disponibile che includa la percezione di somme, anche se esenti da imposizione fiscale’, si sarebbe dovuto interpretare nel senso dell’eliminazione delle lacune della precedente regolamentazione (facendo, cioè, emergere cespiti anche cospicui ma esenti da tributo o diversamente tassati), non certo nel senso d’includere nella definizione di reddito disponibile pure i trattamenti indennitarî o risarcitorî percepiti dai disabili a causa della loro accertata invalidità e volti ad attenuare tal oggettiva situazione di svantaggio”. La sentenza del Tribunale amministrativo accoglie la doglianza, stigmatizzando come l’art. 4, comma 1, lettera f, del decreto n. 159, individui quale reddito disponibile proventi “che l’ordinamento pone a compensazione della oggettiva situazione di svantaggio, anche economico, che ricade sui disabili e sulle loro famiglie”, “peraltro senza darne adeguata e seria contezza, poiché non si tratta né di reddito, né tampoco di reddito disponibile”. Il Consiglio di Stato, a tal proposito, ribadisce che le somme in questione: “Sono erogate al fine di attenuare una situazione di svantaggio (e) tendono a dar effettività al principio di uguaglianza, di talché è palese la loro non equiparabilità ai redditi già di per sé, ossia indipendentemente dalla loro inserzione nel calcolo dell’i.s.e.e.”. “Non v’è dubbio che l’i.s.e.e. possa, anzi debba, ai fini di un’equa e seria ripartizione dei carichi (…), tener conto di tutti i redditi che sono esenti ai fini i.r.p.e.f., purché redditi. Ed è conscio il collegio che, ai fini dell’i.s.e.e., prevalgano considerazioni di natura assicurativa ex art. 38, commi II e IV, Cost., che integrano il diritto alla salute di cui al precedente art. 32, comma I. Ciò si nota soprattutto quando (…) le prestazioni assistenziali siano strettamente intrecciate a quelle sociosanitarie e, dunque, serva un indicatore più complesso del solo reddito personale imponibile, per meglio giungere ad equità, ossia ad una più realistica definizione di capacità contributiva”; “tuttavia, nulla quaestio fintanto che si resta nel perimetro concettuale del (…) reddito-entrata (…), ma quando si vuol sussumere alla nozione di reddito un quid di economicamente diverso ed irriducibile, non può il legislatore (…) dimenticare che ogni forma impositiva va comunque ricondotta al principio ex art. 53 Cost., e che le esenzioni e le esclusioni non sono eccezioni alla disciplina del predetto obbligo e/o del presupposto imponibile. Esse sono piuttosto vicende presidiate da valori costituzionali aventi pari dignità dell’obbligo contributivo, l’effettiva realizzazione dei quali rende taluni cespiti inadatti alla contribuzione fiscale. Ebbene, se di indennità o di risarcimento veri e proprî si tratta (… – si pensi all’indennità di accompagnamento o alle misure risarcitorie per inabilità che prescindono dal reddito), né l’una, né l’altro rientrano in una qualunque definizione di reddito assunto dal diritto positivo, né come reddito-entrata, né come reddito-prodotto (…). In entrambi i casi, per vero, difetta un valore aggiunto, ossia la remunerazione d’uno o più fattori produttivi (lavoro, terra, capitale, ecc.) in un dato periodo di tempo”. Si ritiene, pertanto, di essere al cospetto di somme accordate al fine di “ristabilire una parità morale e competitiva”, che non determina “una migliore situazione economica del disabile rispetto al non disabile, al più mirando a colmare tal situazione di svantaggio subita da chi richiede la prestazione assistenziale”. “Pertanto, la capacità selettiva dell’i.s.e.e., se deve scriminare correttamente le posizioni diverse e trattare egualmente quelle uguali, allora non può compiere l’artificio di definire reddito un’indennità o un risarcimento, ma deve considerali per ciò che essi sono, perché posti a fronte di una condizione di disabilità grave e in sé non altrimenti rimediabile”. FM
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Inserito in data 02/03/2016 TAR CAMPANIA - NAPOLI, SEZ. V - 27 febbraio 2016, n. 1088 Concorsi: legittima la valutazione numerica se i criterî sono predeterminati Con la pronuncia in esame il Tribunale partenopeo accoglie le istanze del ricorrente, il quale lamentava la violazione dell’art. 12 del d.P.R. n. 487/1994 (Regolamento recante norme sull’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e le modalità di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di assunzione nei pubblici impieghi), per la mancata predeterminazione, da parte di una commissione esaminatrice, dei criterî e delle modalità di valutazione delle prove concorsuali. Secondo le motivazioni espresse, veniva a mancare “una griglia di valutazione a cui ancorare la scelta discrezionale del singolo commissario nell’attribuzione del punteggio a sua disposizione”, risultando il metodo seguito “estremamente generico e, dunque, in contrasto con l’esigenza di tutela della par condicio, (nonché) coi principî costituzionali di cui agli artt. 3 e 97 Cost., e con la normativa nazionale di riferimento (art. 35, comma 3, d.lgs. n. 165/2001)”, oltre che con la l. n. 241/1990, sotto il profilo dell’eccesso di potere per difetto di motivazione, con conseguente grave violazione delle regole di trasparenza e di imparzialità. Osserva il collegio come anche le sezioni unite della Corte di cassazione (sentenza n. 14896/2010) abbiano affermato che: “La commissione esaminatrice è tenuta per legge a far precedere la correzione, e le singole valutazioni, da una sintesi delle proprie ipotesi valutative”, avendo il legislatore imposto “la preventiva, generale ed astratta posizione delle (…) regole di giudizio, al fine di assicurare che le singole, numerose, anche remote valutazioni degli elaborati siano tutte segnate dai caratteri dell’omogeneità e permanenza. Solo attraverso la fissazione di tale preventiva cornice è possibile assicurare l’auspicabile risultato di una procedura concorsuale trasparente ed equa”. La funzione tendenziale appare evidentemente quella di autolimitare la discrezionalità tecnica della commissione d’esame, inquadrando ab initio il livello generale e astratto delle valutazioni da compiere in concreto. Inoltre, riportando un precedente giurisprudenziale formulato dal Consiglio di Stato, i giudici riscontrano che: “La discrezionalità riconosciuta dalla legge alle commissioni giudicatrici se non consente di costringere il giudizio entro parametri rigidamente predeterminati, non tollera neppure l’omissione di qualsiasi criterio, anche solo orientativo volto ad indirizzare le valutazioni dei candidati in modo omogeneo”. Anche in ordine all’insufficienza del solo punteggio numerico, in assenza di predeterminazione dei criterî di valutazione, il Tribunale ritiene la censura fondata. Ed infatti, la mancata esternazione di un giudizio potrebbe considerarsi legittima, solo a condizione che vengano rigidamente prestabiliti i parametri di riferimento, laddove nel caso di specie “una compiuta motivazione sarebbe stata (invece) necessaria”, posto l’accento sul carattere aperto delle domande d’esame. “Inoltre, per la legittimità della votazione numerica data ad una prova scritta, è necessaria almeno l’apposizione di note a margine dell’elaborato o l’uso di segni grafici, che consentano di individuare gli aspetti della prova valutati positivamente”. Secondo il Tribunale: “È imposto alle commissioni esaminatrici di rendere percepibile l’iter logico seguito nell’attribuzione del punteggio, se non attraverso diffuse esternazioni verbali relative al contenuto delle prove, quantomeno, mediante taluni elementi che concorrono ad integrare e chiarire la valenza del punteggio esternando le ragioni dell’apprezzamento sinteticamente espresso con l’indicazione numerica. Il rispetto dei principî suddetti impone che al punteggio numerico si accompagnino ulteriori elementi sulla scorta dei quali sia consentito ricostruire ab externo le motivazioni del giudizio valutativo, tra questi, particolare significato assume la predeterminazione dettagliata e puntuale dei criterî di valutazione”. Conclusivamente, il Tribunale campano opta, pertanto, per una posizione intermedia tra le due opposte tesi, allo stato, seguite dalla giurisprudenza amministrativa. La sufficienza del voto numerico può essere predicata solamente a condizione che questo sia “leggibile alla stregua di una congrua e articolata predeterminazione dei criterî stabiliti per la sua attribuzione, predeterminazione che può essere contenuta direttamente nel bando e/o essere aggiunta (o integrata) dalla commissione giudicatrice (…) prima dell’esame”. FM
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Inserito in data 01/03/2016 CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, SENTENZE 29 febbraio 2016, nn. 5 e 6 In sede di verifica la stazione appaltante non ha l’obbligo di preavviso di DURC negativo L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato è stata chiamata a stabilire ex art. 99 C.P.A. “se l’obbligo degli Istituti previdenziali di invitare l’interessato alla regolarizzazione del DURC (c.d. preavviso di DURC negativo), previsto dall’art. 7, comma 3 D.M. 24 ottobre 2007 e ribadito dall’art. 31, comma 8, del decreto legge n. 69 del 2013, sussista anche nel caso in cui la richiesta provenga dalla stazione appaltante in sede di verifica della dichiarazione resa dall’impresa ai sensi dell’art. 38, comma 1, lettera i) del d.lgs. n. 163 del 2006. Se, in altri termini, la mancanza dell’invito alla regolarizzazione impedisca di considerare come “definitivamente accertata” la situazione di irregolarità contributiva". Aderendo all’orientamento prevalente, con le sentenze gemelle nn. 5 e 6, l’Adunanza Plenaria ha affermato che l’invito alla regolarizzazione non è necessario in caso di DURC richiesto dalla stazione appaltante in sede di verifica. A sostegno della propria tesi, il Supremo Consesso amministrativo ha addotto, innanzitutto, argomenti fondati sul dato letterale dell’art. 31 c. 8 d.l. n. 69/13: infatti, quest’ultima disposizione non contiene alcun riferimento alla disciplina dell’evidenza pubblica o dei contratti pubblici, mentre, ai sensi dell’art. 255 d.lgs. n. 163/06, le modifiche e abrogazioni al codice degli appalti vanno operate in modo esplicito. Sotto altro profilo, è stato evidenziato che l’art. 38 c. 2 d.lgs. n. 163/06 rinvia alle norme dell’ordinamento previdenziale solo per stabilire quando l’irregolarità contributiva debba considerarsi grave, mentre un analogo rinvio non è previsto al fine di determinare quando l’irregolarità possa dirsi definitiva: da ciò si deduce che l’autonomia della nozione di “definitività” della violazione nell’ambito della materia degli appalti rispetto all’ordinamento previdenziale. Dal punto di vista sistematico, il Collegio ha notato che il preavviso di DURC negativo ricorda l’istituto previsto in via generale dall’art. 10-bis L. 241/90 (comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza), fattispecie che non trova applicazione nei procedimenti amministrativi che iniziano d’ufficio e nelle procedure concorsuali; ciò rafforza l’idea secondo cui l’invito alla regolarizzazione non sia necessario nel caso di richiesta della stazione appaltante (trattandosi di procedimento concorsuale e iniziato d’ufficio). Inoltre, il Supremo Consesso ha osservato che, ammettendo la regolarizzazione postuma, risulterebbero vulnerati i principi di parità di trattamento e di autoresponsabilità (che, secondo la decisione dell’Ad. Plen. n. 9/14, impongono ai concorrenti di sopportare le conseguenze di errori, omissione e falsità commesse nella formulazione dell’offerta e nella presentazione delle dichiarazioni) e il principio di continuità nel possesso dei requisiti di partecipazione alla gara (interpretato dall’Adunanza Plenaria, nella decisione n. 8/14, nel senso che i requisiti non possono essere persi dal concorrente neppure temporaneamente nel corso della procedura). D’altro canto, alla luce del generale principio di gerarchia delle fonti normative, il D.M. 30 gennaio 2015 non può aver introdotto l’obbligo della stazione appaltante di preavviso di DURC negativo, modificando la disciplina legislativa che non prevede siffatto obbligo. Da ultimo, l’Adunanza Plenaria ha chiarito che questa tesi non contrasta coi principi dell’ordinamento comunitario, e, segnatamente, col principio di tutela del legittimo affidamento, atteso che tale principio deve essere bilanciato col principio di autoresponsabilità. Operando tale bilanciamento, infatti, non può dirsi legittimo l’affidamento sulle risultanze del precedente DURC nutrito da parte dell’ impresa che, volontariamente o colposamente, si trovi in una situazione di irregolarità contributiva. TM
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Inserito in data 29/02/2016 TAR SICILIA - CATANIA, SEZ. IV - 15 febbraio 2016, n. 510 Abilitazione alla professione di avvocato: predeterminazione delle domande d’esame Con la sentenza in epigrafe il Tribunale amministrativo etneo accoglie il ricorso presentato da una candidata all’esame di abilitazione all’esercizio della professione di avvocato, la quale, ammessa a sostenere le prove orali, aveva ricevuto una valutazione insufficiente, e veniva pertanto dichiarata non idonea. L’interessata segnatamente lamentava la violazione dell’art. 12 del d.P.R. 9 Maggio 1994 n. 487 (Regolamento recante norme sull’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e le modalità di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di assunzione nei pubblici impieghi), in quanto le domande poste nello svolgimento delle prove non erano state “formulate sulla base di quesiti predeterminati dalla commissione ed estratti a sorte dal candidato”. Il collegio, ritenendo la censura fondata, e richiamando propria precedente giurisprudenza (cfr. sentenza n. 2331/2015), osserva come la disposizione citata (ai sensi della quale “Le commissioni esaminatrici (…) immediatamente prima dell’inizio di ciascuna prova orale, determinano i quesiti da porre ai singoli candidati per ciascuna delle materie di esame”, e “Tali quesiti sono proposti a ciascun candidato previa estrazione a sorte”), debba trovare applicazione anche con riferimento alle procedure d’esame le quali, in senso stretto, non potrebbero essere definite concorsuali. Ciò in quanto la norma è “volta a garantire, in applicazione del principio di imparzialità, che un candidato non venga preferito (o penalizzato) rispetto ad altri”. I giudici, per quanto precede, conclusivamente annullano il verbale impugnato, e ordinano alla commissione d’esame, in diversa composizione, di ripetere, entro quaranta giorni dalla comunicazione o notificazione della sentenza, la prova d’esame orale, in osservanza della normativa esaminata. FM
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Inserito in data 29/02/2016 CORTE DI CASSAZIONE - TERZA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 19 febbraio 2016, n. 3260 Danno morale: niente automatismi ma valutazione caso per caso Con la pronuncia in epigrafe, la terza sezione della Corte di Cassazione è tronata ad occuparsi del tema della liquidazione del danno non patrimoniale, affermando il seguente principio di diritto: “ai fini della quantificazione equitativa del danno morale, l'utilizzo del metodo del rapporto percentuale rispetto alla quantificazione del danno biologico, individuato nelle tabelle in uso non implica che, accertato il primo (danno biologico), il secondo non abbia bisogno di alcun accertamento, perché se così fosse si duplicherebbe il risarcimento degli stessi pregiudizi, invece, il metodo suddetto va utilizzato solo come parametro equitativo, fermo restando l'accertamento con metodo presuntivo, attenendo la sofferenza morale ad un bene immateriale, dell'esistenza del pregiudizio subito, attraverso l'individuazione delle ripercussioni negative sul valore uomo sulla base della necessaria allegazione del tipo di pregiudizio e dei fatti dai quali lo stesso emerge da parte di chi ne chiede il ristoro”. Nella fattispecie in esame, il ricorrente contestava la quantificazione che il giudice di prime cure aveva fatto del danno non patrimoniale, sotto il profilo del danno morale soggettivo, chiedendone la riconsiderazione in aumento. Nell’esaminare l’appello incidentale, la Corte d'Appello, richiamando l'arresto delle Sezioni Unite (n. 26972/2008) secondo cui “il danno morale soggettivo non può configurarsi come conseguenza immediata e diretta della durata e dell'intensità della lesione psicofisica, con la conseguenza che esso postula una dimostrazione e motivazione specifica”, aveva rilevato che, nella pronuncia resa in primo grado il danno non patrimoniale era stato quantificato secondo una certa “proporzione aritmetica” rispetto a quello biologico, con un sistema escluso quindi dalla richiamata giurisprudenza. Tuttavia – rileva la Corte di legittimità nella sentenza de qua – la Corte di merito avrebbe del tutto omesso di decidere in ordine all’appello incidentale, trascurando ogni indagine circa la sussistenza delle condizioni per la valutazione della congruità del danno morale liquidato. Ad avviso degli Ermellini, la Corte d’Appello sarebbe giunta a tali conclusioni sull’erroneo presupposto che la liquidazione del danno morale da parte del giudice di primo grado, “attraverso l’individuazione di una proporzione percentuale del danno da lesione all’integrità fisica (c.d. danno biologico)”, integrasse la violazione del principio affermato dalle citate Sezioni Unite, “secondo il quale il danno morale soggettivo non può configurarsi come conseguenza immediata e diretta dell’intensità della lesione psicofisica”. Ha poi ulteriormente rilevato la terza sezione che ciò che nella richiamata sentenza delle Sezioni Unite rappresentava “una mera esemplificazione, è divenuto, nell’errata interpretazione estrapolativa del giudice di merito, un principio generale consistente nel divieto dell’utilizzo di quel metodo di quantificazione in senso stretto”. In definitiva, la liquidazione del danno morale, come percentuale di quello biologico, non deve tradursi in un “automatismo” – poiché, per questa via, si rischierebbe di incorrere in una inammissibile duplicazione del risarcimento delle voci di danno per il medesimo pregiudizio - ma è sempre necessario un accertamento caso per caso della sofferenza psicologica patita, mentre il metodo percentuale “va utilizzato solo come parametro equitativo, fermo restando l'accertamento con metodo presuntivo". MB
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Inserito in data 26/02/2016 TAR CAMPANIA - NAPOLI, SEZ. V, 22 febbraio 2016, n. 961 Decadenza dall’assegnazione dell’alloggio popolare: giurisdizione La sentenza in esame accoglie preliminarmente l’eccezione di difetto di giurisdizione in capo all’autorità giudiziaria amministrativa, nel caso di un ricorso presentato avverso una comunicazione di occupazione abusiva dell’immobile di edilizia residenziale pubblica, emesso dall’Istituto autonomo per le case popolari territorialmente competente, e un verbale di rigetto della richiesta di regolarizzazione locativa, emesso dalla Commissione assegnazione alloggî. Il ricorrente lamentava, in ordine a tale ultimo provvedimento, la determinazione assunta dall’amministrazione, la quale aveva inferito le proprie motivazioni dalla circostanza che il coniuge dell’interessato fosse titolare di un diritto di proprietà su un immobile ad uso abitativo, sito in territorio appartenente al medesimo distretto provinciale. Veniva di conseguenza emessa la comunicazione di occupazione abusiva, nonostante le contestazioni del privato. Ad avviso del collegio: “Spetta al giudice ordinario, in applicazione delle regole generali sul riparto di giurisdizione, la definizione dell’azione proposta contro l’ordine di rilascio dell’immobile per occupazione senza valido titolo, reso ai sensi dell’art. 18, d.P.R. 30 Dicembre 1972, n. 1035 (Norme per l’assegnazione e la revoca nonché per la determinazione e la revisione dei canoni di locazione degli alloggî di edilizia residenziale pubblica), ove l’occupante, contestando il diritto al rilascio azionato, faccia valere un proprio diritto soggettivo a mantenere il godimento dell’alloggio”. FM
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Inserito in data 25/02/2016 TAR PIEMONTE - TORINO, SEZ. I, 18 febbraio 2016, n. 207 Diritto di accesso funzionalmente alla tutela in sede giurisdizionale I Giudici torinesi intervengono in materia di accesso, in particolare delimitandone le condizioni di esercizio nel caso in cui esso sia strumentale ad un’eventuale azione giudiziaria. Nel caso di specie, infatti, parte ricorrente – destinataria di una raccomandata, impugna il silenzio serbato dall’Ente postale a seguito dell’istanza di accesso riguardo agli estremi di tale comunicazione – di cui aveva smarrito ogni traccia ed il cui ritrovamento, invero, sarebbe stato certamente utile al fine di interrompere i termini prescrizionali in vista dell’introduzione di un giudizio. A fronte dell’istanza di correzione del petitum – erroneamente avanzata dall’Amministrazione resistente, il Collegio piemontese condivide le doglianze del privato istante, riconoscendolo, in primo luogo, quale soggetto portatore di una posizione qualificata. Prosegue, poi, ricordando come il diritto di accesso presupponga, inevitabilmente, un’attività di ricerca che, in specie, l’Amministrazione si sarebbe rifiutata di compiere. Non si tratta, infatti, come avanzato ex adverso – di un’attività di rielaborazione che avrebbe compromesso il normale facere dell’Ente. Questo, infatti, - evidenziano i Giudici - avrebbe dovuto provvedere solamente a consultare il registro, estrarre il dato richiesto, anche effettuando semplicemente la fotocopia della pagine in cui sono stati trascritti i dati. In tal senso, insiste il Collegio, la domanda di accesso poteva essere soddisfatta. Esso approda, pertanto, alla declaratoria di illegittimità del diniego all’accesso serbato dall’Amministrazione, sancendone l’illegittimità perché, invero, l’interesse sottostante è giuridicamente rilevante e diretto ad ottenere un atto, il cui rinvenimento non implica una attività elaborativa. CC
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Inserito in data 24/02/2016 CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 19 febbraio 2016, n. 36 Illegittimità costituzionale della Legge Pinto Con la sentenza in epigrafe, la Corte Costituzionale si è pronunciata su ben sei ordinanze provenienti dalla Corte d’Appello di Firenze ed aventi ad oggetto tutte la censura di illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-bis e 2-ter della legge n. 89/2001 (cd. Legge Pinto). La Corte remittente sostiene che l’art. 2 della suindicata legge – nell’assicurare un’equa riparazione a chi abbia subito un danno conseguente dall’irragionevole durata del processo – abbia introdotto, ai commi censurati, una disciplina legale dei termini entro i quali il giudizio deve reputarsi rispettoso del principio di ragionevole durata del processo che viola gli artt. 3, primo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU. In particolare, i giudici remittenti si dolgono del fatto di dover applicare la stessa disciplina legale dei termini prevista dai commi 2-bis e 2-ter per i processi ordinari di cognizione (3 anni per il primo grado, 2 anni per il secondo grado e 1 anno per il giudizio di legittimità, nonché 6 anni complessivi per definire in modo irrevocabile il giudizio) anche ai processi regolati proprio dalla l. n. 89/2001. La Corte EDU avrebbe, infatti, reiteratamente affermato che grava un peculiare onere di diligenza sullo Stato già inadempiente all’obbligo di assicurare la ragionevole durata di un processo: per questa ragione, il diritto all’equa riparazione dovuta a causa dell’eccessiva protrazione di un procedimento disciplinato dalla l. 89/2001 andrebbe soddisfatto con particolare celerità, mentre non sarebbero a tal fine adeguati i termini previsti in via generale, con riferimento alla durata dell’ordinario processo di cognizione. Al riguardo, le SS.UU. (sent. n. 6312/2014) avevano ritenuto congruo il termine di durata di un anno, per l’unico grado di merito del procedimento regolato dalla legge Pinto, e quello di un ulteriore anno, relativamente al giudizio di legittimità previsto da tale legge, per complessivi 2 anni. Così individuati i contorni della questione, la Corte Costituzionale ha in primo luogo precisato, facendo propria l’osservazione formulata dall’Avvocatura dello Stato, che per ciò che concerne l’art. 2, comma 2-ter, esso non sarebbe applicabile ai procedimenti previsti dalla legge Pinto, perché essi sono articolati su due gradi di giudizio, mentre il termine di sei anni previsto da tale norma, e che si considera “comunque” ragionevole, esigerebbe che il processo si sia svolto in tre gradi. Ne consegue che la relativa questione deve considerarsi inammissibile.
In secondo luogo, invece, la Corte Costituzionale dichiara fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-bis, nella parte in cui determina in tre anni la ragionevole durata del procedimento regolato dalla legge n. 89 del 2001 nel primo e unico grado di merito. La Corte afferma, in motivazione, che dalla giurisprudenza europea consolidata si evince il principio di diritto, secondo cui lo Stato è tenuto a concludere il procedimento volto all’equa riparazione del danno da ritardo maturato in altro processo in termini più celeri di quelli consentiti nelle procedure ordinarie, che nella maggior parte dei casi sono più complesse, e che, comunque, non sono costruite per rimediare ad una precedente inerzia nell’amministrazione della giustizia. Ne consegue che l’art. 6 della CEDU […] preclude al legislatore nazionale, che abbia deciso di disciplinare legalmente i termini di ragionevole durata dei processi ai fini dell’equa riparazione, di consentire una durata complessiva del procedimento regolato dalla legge n. 89 del 2001 pari a quella tollerata con riguardo agli altri procedimenti civili di cognizione, anziché modellarla sul calco dei più brevi termini indicati dalla stessa Corte di Strasburgo e recepiti dalla giurisprudenza nazionale. SS |
Inserito in data 24/02/2016 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI - 23 febbraio 2016, n. 736 Ricorso contra silentium: limiti al potere del giudice di valutare la fondatezza della pretesa Con la sentenza in esame, il Consiglio di Stato è tornato a occuparsi dei limiti che incontra il giudice amministrativo nell’accertare la fondatezza della pretesa del richiedente quando sia stato esperito il ricorso contra silentium ex art. 31 c.p.a. In particolare, il Collegio – nel confermare la sentenza di primo grado che non ha ritenuto formato il silenzio-accoglimento ex art. 35 della l. n. 47/1985 su una domanda di concessione edilizia in sanatoria – ha rammentato preliminarmente che, nei giudizi sul silenzio, in base a quanto dispone l’art. 31 del c.p.a., il giudice amministrativo, almeno di regola, non può andare oltre la declaratoria d’illegittimità dell’inerzia e l’ordine di provvedere in modo esplicito e formale, restandogli precluso, almeno in linea di principio, il potere di accertare in via diretta la fondatezza della pretesa fatta valere dal richiedente, sostituendosi così all’Amministrazione rimasta inerte. Il giudice potrà conoscere, sul piano sostanziale, dell’accoglibilità dell’istanza solo nelle ipotesi individuate dal comma 3 dell’art. 31 c.p.a., non ricorrendo le quali si andrebbe incontro a un utilizzo inappropriato e, per così dire, “esorbitante”, del rimedio peculiare di cui al citato articolo, incompatibile tra l’altro con la natura semplificata del giudizio sul silenzio e della decisione che deve definire il giudizio medesimo. SS
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Inserito in data 23/02/2016 CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA PER LA REGIONE SICILIANA - ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL'ADUNANZA PLENARIA, 19 febbraio 2016, n. 52 Questioni giuridiche controverse in tema di contratto di avvalimento: rinvio all'Adunanza Plenaria Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana ha rimesso all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato le seguenti questioni di diritto in merito al contratto di avvalimento, di massima importanza e passibili di dar luogo a contrasti giurisprudenziali: “1) se l’articolo 88 d.P.R. 207/2010 – nel richiedere che il contratto deve riportare in modo compiuto, esplicito ed esauriente, l’oggetto indicando le risorse e i mezzi prestati in modo determinato e specifico – riguarda unicamente la determinazione dell’oggetto del contratto (così legittimando anche interpretazioni di tipo estensivo) oppure, oltre all’oggetto, anche il c.d. requisito della forma-contenuto; 2) se nell’ipotesi di categorie che richiedono particolari requisiti – come nel caso di specie risulta per la categoria OS18A – tali particolari requisiti debbano essere indicati in modo esplicito nel contratto di avvalimento oppure possano essere desunti dall’interpretazione complessiva del contratto; 3) se l’istituto del soccorso istruttorio, come disciplinato dopo le novità introdotte dal d.l. 90/2014, possa essere utilizzato anche con riferimento ad incompletezze del contratto di avvalimento che, sotto un profilo civilistico, portano ad affermare la nullità del negozio per mancanza di determinatezza del suo oggetto”. TM
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Inserito in data 23/02/2016 CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 16 febbraio 2016, n. 2951 La negazione della titolarità del diritto sostanziale allegato integra una mera difesa Le Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione sono state chiamate a stabilire se la contestazione della reale titolarità attiva o passiva del diritto sostanziale dedotto in giudizio integri una mera difesa (la cui dimostrazione graverebbe sulla parte che se ne proclama titolare) o un’eccezione in senso tecnico (il cui onere della prova, nel rispetto della disciplina sulle decadenza e preclusioni processuali, graverebbe sulla parte che contesta tale titolarità). Secondo le Sezioni Unite, la parte che agisce in giudizio deve allegare e dimostrare ex art. 2697 c.c. una serie di fatti (cd. fatti costitutivi), che si distinguono in meri fatti e fatti diritto (es. in caso di domanda di risarcimento del danno ex art. 2043 c.c., la parte deve provare il mero fatto del danno ma anche il fatto diritto della titolarità del diritto di proprietà sul bene danneggiato); di conseguenza, qualora il convenuto contesti uno dei fatti costitutivi affermati dall’attore e, in particolare, la titolarità del diritto sostanziale dedotto in giudizio, egli pone in essere una mera difesa, non soggetta alla decadenza ex art. 167 c. 2 c.p.c., rilevabile d’ufficio e proponibile come motivo di appello. Infine, è stato precisato che, a fronte del principio del libero apprezzamento (art. 116 c.p.c.), il principio di non contestazione (art. 115 c.p.c) opera in misura attenuata rispetto ai fatti costitutivi ascrivibili alla categoria dei fatti-diritto, nel senso che la mancata contestazione specifica della titolarità del diritto non obbliga il giudice a considerare lo stesso esistente, laddove dagli atti di causa e dal materiale probatorio raccolto emerga la sua inesistenza. TM
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Inserito in data 22/02/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA, 17 febbraio 2016, n. 636 Avvalimento dei progettisti: rimessione alla Corte europea La fattispecie in esame trae origine dal ricorso in appello proposto da una società, classificatasi al secondo posto nell’ambito di una gara (concernente l’affidamento della progettazione ed esecuzione dei lavori di costruzione di alcuni alloggi) vinta da un’impresa che aveva partecipato come A.T.I. ma che, non essendo in possesso dei requisiti per lo svolgimento dei servizi di progettazione, aveva comunicato, in occasione dell’offerta, che avrebbe affidato la progettazione ad un professionista, capogruppo di un costituendo raggruppamento (R.T.P.), il quale, ovviava ad una propria carenza di requisiti di partecipazione, ricorrendo, a sua volta, all’avvalimento di un ulteriore soggetto, in possesso dei requisiti richiesti dal disciplinare di gara. Il giudice di prime cure, disattendendo le eccezioni proposte dall’odierna ricorrente, aveva ritenuto legittimo l’ulteriore avvalimento, “istituto applicabile non soltanto ai concorrenti, ma a tutti gli operatori economici”. Il T.A.R. per la Sardegna, interpretando la normativa italiana (artt. 49 e 53, co. III, d.lgs. 163/2006) in coerenza con quella europea (artt. 47 e 48 della direttiva n. 18/2004), aveva infatti concluso affermando che “anche il progettista semplicemente “indicato” ai sensi dell’art. 53, comma 3, del d.lgs. n. 163/2006 (…), essendo pur sempre un operatore economico, potrebbe beneficiare dell'istituto, giovandosi dei requisiti di un altro soggetto progettista”. Il ricorrente, in sede di impugnazione del provvedimento, escludeva invece che il progettista “indicato” ai sensi dell’art. 53, comma 3, del d.lgs. n. 163/2006 - dovendosi ritenere nient’altro che un “collaboratore esterno” del concorrente - potesse beneficiare dell’avvalimento, applicabile – a suo avviso - solo ai concorrenti. In particolare, rilevava che detta impostazione emergeva dalla normativa nazionale dell’istituto, confermata anche dalla disciplina europea, ove il termine “operatore economico” (di cui alla direttiva n. 18/2004), corrisponderebbe nella sostanza a quello di “concorrente/candidato”. A questo punto, il Collegio rilevava che già la stessa Sezione aveva, con l’ordinanza n. 2737/2015, sollevato una questione pregiudiziale di diritto comunitario afferente proprio la compatibilità dell’art. 53, co. 3, d.lgs. n. 163/2006 con l’art. 48 della direttiva n. 18/2004 e, ritenendo che la richiamata questione fosse rilevante rispetto alla definizione del presente giudizio, reiterava, quindi, le argomentazioni già svolte in occasione del proprio precedente provvedimento. Rilevava anzitutto come, punto centrale della questione consistesse nello stabilire se il professionista “indicato” ai sensi dell’art. 53, comma 3, d.lgs. n. 163-2006, potesse o meno fare ricorso ad un progettista terzo, utilizzando a sua volta l’istituto dell’avvalimento, considerato che, da una parte, il citato articolo stabilisce che: “quando il contratto ha per oggetto anche la progettazione, ai sensi del comma 2, gli operatori economici devono possedere i requisiti prescritti per i progettisti, ovvero avvalersi di progettisti qualificati, da indicare nell’offerta, o partecipare in raggruppamento con soggetti qualificati per la progettazione (..)”, dall’altra, che il Consiglio di Stato “ha respinto la possibilità che il progettista “indicato” possa a sua volta qualificarsi mediante l’istituto dell’avvalimento, sulla base di fondamentali criteri esegetici: a) il criterio letterale posto dall’art. 49, per il quale solo “il concorrente” singolo, consorziato o raggruppato, può ricorrere all’avvalimento trattandosi di un istituto di soccorso al concorrente in sede di gara, per cui va escluso chi si avvale di soggetto ausiliario a sua volta privo del requisito richiesto dal bando; b) il fatto che se il progettista indicato non è legato da un vincolo negoziale con la stazione appaltante, a maggior ragione non è legato il suo ausiliario che è soggetto terzo che non può offrire alcuna garanzia all’Amministrazione”. Inoltre, il Collegio osservava che, “pur essendo pacifico in giurisprudenza il carattere generalizzato dell’istituto dell’avvalimento, finalizzato a favorire la massima partecipazione nelle gare di appalto, tale istituto deve essere pur sempre contemperato con la esigenza di assicurare idonee garanzie alla stazione appaltante per la corretta esecuzione degli appalti”. La stessa giurisprudenza amministrativa nazionale ha più volte statuito – rilevava inoltre la V Sezione - che “nel caso in cui sia lo stesso progettista indicato a ricorrere ai requisiti posseduti da terzi, ciò comporterebbe potenzialmente una «catena di avvalimenti di ausiliari dell’ausiliario», non consentendo un controllo agevole da parte della stazione appaltante in sede di gara” dei requisiti stabiliti dalla lex specialis e che “l’avvalimento rappresenta, già di per sé, una deroga al principio di personalità dei requisiti di partecipazione alla gara, e deve pertanto essere consentito solo in ipotesi delineate in maniera rigorosa onde garantire l’affidabilità, in executivis, del soggetto concorrente”. Alla luce di queste considerazioni, la V Sezione, con l’ordinanza de qua, sospendeva il presente giudizio e rimetteva la questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, riponendo il seguente quesito interpretativo: “se sia compatibile con l’art. 48 direttiva CE 31 marzo 2004, n. 18 una norma come quella di cui all’art. 53, comma 3, d.lgs. 16 aprile 2006, n. 163, che ammette alla partecipazione un’impresa con un progettista “indicato”, il quale, secondo la giurisprudenza nazionale, non essendo concorrente, non potrebbe ricorrere all’istituto dell’avvalimento”. MB |
Inserito in data 22/02/2016 TAR LOMBARDIA - BRESCIA, SEZ. I, 17 febbraio 2016, n. 253 La segretezza del voto è principio generale delle operazioni elettorali Nella fattispecie in esame, il ricorrente aveva impugnato, avanti il T.A.R. - Lombardia, sezione di Brescia, la deliberazione assembleare del Collegio Regionale dei maestri di sci relativa all’elezione e proclamazione dei membri del Consiglio direttivo, evidenziando una pluralità di condizioni sintomatiche della violazione dei principi fondamentali sottesi all’esercizio di ogni tipo di voto, con conseguente illegittimità dei risultati conseguiti. In particolare, il ricorrente aveva rilevato le seguenti irregolarità: la circostanza che l’assemblea si fosse svolta in una sala avente una capacità inferiore rispetto al ben più cospicuo numero dei partecipanti, presieduta per di più dal Presidente uscente, benché candidato, e che le operazioni di voto fossero avvenute in spregio di ogni forma di segretezza e riservatezza. Tutto ciò, nella prospettazione formulata dal ricorrente, avrebbe determinato la violazione del diritto di ogni componente dell’associazione di partecipare attivamente alla votazione, l’inosservanza del principio di par condicio tra i candidati e la contrazione di ogni garanzia di voto. Il Collegio, condividendo i rilievi formulati dal ricorrente, ha osservato che, nel caso di specie, “si può prescindere dall’indagare l’esistenza, nell’ordinamento, di un principio generale, riconducibile a quello valido per le elezioni politiche o amministrative, essendo assai più agevole (…) ravvisare la violazione di un, ancor più chiaramente affermabile, principio generale quale quello della segretezza del voto”. “Il diritto di voto – ha affermato la prima Sezione - appare agli occhi dell’operatore del diritto come la cartina di tornasole per verificare la democraticità del sistema di volta in volta indagato. Esso può ritenersi pieno e garantito solo se segreto, così come garantito dalla Costituzione (art. 48). Quello della segretezza può, dunque, essere considerato come un principio generale, applicabile, al pari di quello del favor voti, anche al di fuori delle operazioni elettorali di tipo più strettamente «politico»”. Solo la segretezza – ha ammonito il Collegio - può rappresentare, anche nell’ambito di organizzazioni sociali come quella ricorrente nel caso de quo, l'unico strumento in grado di contribuire al ricambio delle cariche sociali.
Dunque, sulla scorta dei precisati rilievi, ritenendo fondata la doglianza relativa ad una situazione di totale assenza di ordine e riservatezza nelle operazioni di svolgimento dell’assemblea e di esercizio del voto, i giudici bresciani hanno, con la pronuncia in epigrafe, accolto le istanze formulate dal ricorrente, dichiarando l’annullamento delle operazioni elettorali e la caducazione dei conseguenti atti. MB
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Inserito in data 19/02/2016 CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 17 febbraio 2016, n. 30 Trasporto pubblico locale: competenze delle Regioni La Corte Costituzionale si è pronunciata sulla questione di legittimità costituzionale, sollevata con ordinanza dal Tar Piemonte, dell’art. 12, comma 3 della legge della Regione Piemonte n. 22/2006 recante norme in materia di trasporto di viaggiatori effettuato mediante noleggio di autobus con conducente nella parte in cui prevede il divieto per le imprese che svolgono suddetta attività di incrementare il parco autobus con automezzi usati. In particolare, il Tar remittente censura l’art. 12 della normativa regionale in riferimento agli artt. 3, 41 e 117, primo e secondo comma, Cost. in quanto esso: a) avrebbe introdotto un requisito di esercizio non previsto dal diritto europeo, con effetto discriminatorio nei confronti delle imprese stabilite nella Regione Piemonte; b) si porrebbe in diretto contrasto con la natura ”trasversale” e prevalente della tutela della libera concorrenza e introdurrebbe una gravosa restrizione all’utilizzo di autobus usati nei confronti dei soli operatori economici iscritti nel registro della Regione Piemonte, al di fuori dei principi stabiliti dalla legge statale e delle competenze riservate alla legislazione regionale; c) ove il divieto di acquisire autobus usati trovasse la propria giustificazione nell’obiettivo di salvaguardare la sicurezza […] e di tutelare l’ambiente […], si porrebbe in contrasto con la riserva di potestà esclusiva statale nelle materie della sicurezza e della tutela dell’ambiente (rispettivamente art. 117, comma 2 lett. h ed s). La Corte Costituzionale dà conto del fatto che, dopo l’adozione dell’ordinanza di rimessione, la disposizione in esame è stata sostituita dalla legge della Regione Piemonte n. 20/2015, tuttavia afferma anche che tale ius superveniens non fa venir meno la rilevanza della questione sollevata, in quanto il giudice a quo è sempre tenuto al rispetto del principio del tempus regit actum. Ne consegue che il nucleo della questione, ad avviso della Corte, è capire se la Regione, che è titolare di competenza legislativa residuale in materia di trasporto pubblico locale, possa prevedere o meno – nell’esercizio di tale competenza – un limite all’iniziativa economica privata, in presenza della legge statale n. 218 del 2003. Con tale legge, il legislatore statale ha, infatti, inteso definire il punto di equilibrio fra il libero esercizio dell’attività di trasporto e gli interessi pubblici interferenti con tale libertà: il bilanciamento così operato (fra la libertà di iniziativa economica e gli altri interessi costituzionali), costituendo espressione della potestà legislativa statale nella materia della tutela della concorrenza, definisce un assetto degli interessi che il legislatore regionale non è legittimato ad alterare. Pertanto, le Regioni sono abilitate a regolare gli oggetti indicati dalla stessa legge statale e, in generale, la gestione del servizio, ma non possono introdurre, a carico delle imprese di trasporto aventi sede nel territorio regionale, limiti che, lungi dal rispettare i criteri di tutela della libertà di concorrenza fissati nella legge statale, penalizzerebbero gli operatori “interni”, data l’assenza di delimitazioni territoriali delle autorizzazioni rilasciate nelle altre regioni. Conclude, dunque, la Corte che l’art. 12, comma 3 della legge Regione Piemonte n. 22/2006, non solo comporta maggiori oneri in capo alle imprese di trasporto aventi sede in Piemonte rispetto a quelle situate in altre Regioni, ma è altresì idoneo a produrre l’effetto (nel caso in cui l’impresa non abbia le maggiori risorse necessarie per comprare un autobus nuovo) di impedire irragionevolmente l’espansione dell’attività delle imprese stesse e, dunque, di limitare la concorrenza e con essa le possibilità di scelta da parte dei committenti: ne va, pertanto, dichiarata l’illegittimità costituzionale. SS |
Inserito in data 18/02/2016 TAR VENETO - VENEZIA, SEZ. II, 16 febbraio 2016, n. 170 Acquisizione sanante e servitù pubblica di passaggio Il Tar Veneto, con la sentenza in epigrafe, si è pronunciato sulla possibilità o meno che una delibera del Consiglio comunale costituisca una servitù pubblica di passaggio su un tratto di strada privata impiegando l’istituto dell’acquisizione sanante ex art. 42 bis D.P.R. 327/2001. In particolare, i ricorrenti si dolevano del fatto che fossero in radice carenti i presupposti per l’esercizio del potere previsto dal sopracitato art. 42 bis in quanto l’istituto dell’acquisizione sanante è utilizzabile per acquisire solo servitù al patrimonio di soggetti privati e pubblici titolari di concessioni, autorizzazioni e licenze o che svolgono servizi di interesse pubblico nei settori dei trasporti, telecomunicazioni, acqua o energia, ma non in favore del Comune e della collettività, nonché in quanto difetta l’ulteriore presupposto necessario all’applicazione della norma, ossia il previo esperimento di una non valida procedura di esproprio. Ne conseguenza che, ad avviso dei ricorrenti, l’istituto dell’acquisizione sanante non viene applicato in questo caso per rimediare ad un pregresso cattivo utilizzo del potere espropriativo, ma per costituire ex novo un diritto di servitù di pubblico passaggio. Il Tar adito, nell’accogliere le censure mosse dai ricorrenti, sottolinea che l’istituto dell’acquisizione sanante, per giustificarsi anche dal punto di vista costituzionale, richiede l’esercizio di un potere di carattere necessariamente “rimediale”, che presuppone la necessità di ovviare ad una situazione di fatto che contrasta con quella di diritto a causa del pregresso difettoso esercizio del potere ablatorio. Solo in quest’ottica può ritenersi giustificato il ricorso all’acquisizione del bene mediante tale istituto, […] ferma restando la necessaria ricorrenza degli stringenti ulteriori requisiti previsti dalla norma, quali le “attuali ed eccezionali” ragioni di interesse pubblico che giustificano l’emanazione dell’atto, “valutate comparativamente con i contrapposti interessi privati”, e “l’assenza di ragionevoli alternative alla sua adozione”. Peraltro, conclude il Collegio, è da escludere la possibilità di applicare l’istituto di cui all’art. 42 bis del D.P.R. 327/2001, ad una servitù di passaggio pubblico, motivando l’acquisizione prevista da tale norma sulla base di quegli stessi requisiti che, ove sussistenti (e nel caso in esame, precisa il Tar, che sono insussistenti), avrebbero comportato anche in via di fatto la costituzione della servitù di pubblico passaggio pur in assenza di un apposito titolo. SS |
Inserito in data 17/02/2016 CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 9 febbraio 2016, n. 4 Pratiche commerciali aggressive: competenza a irrogare sanzioni Relativamente al tema affrontato dalle due sentenze gemelle dell’adunanza plenaria dello scorso 9 Febbraio, nn. 3 e 4, già oggetto di commento pubblicato in data 13 Febbraio, il presente scritto pone l’accento sul secondo profilo ermeneutico suscitato. Rilevata la competenza esclusiva dell’A.g.c.m. per l’irrogazione di sanzioni amministrative pecuniarie in relazione a pratiche commerciali ritenute scorrette ai sensi degli artt. 20, 24, 25 e 26, lett. f, d.lgs. n. 206/2005 (Codice del consumo), il collegio, seguendo comunque un unico criterio motivazionale, si sofferma sull’analisi della seguente questione: “se la circostanza che lo ius superveniens (art. 27, comma 1-bis, Codice del consumo – come introdotto dal d.lgs. n. 21/2014) abbia attribuito ad A.g.c.m. la competenza all’esercizio del potere sanzionatorio in materia di pratiche commerciali scorrette comporti il venir meno dell’interesse alla decisione in ordine alla censura di incompetenza – formulata con riguardo alla sanzione adottata da tale Autorità nel precedente regime – anche nell’ipotesi in cui la nuova norma abbia aggravato il procedimento di irrogazione della sanzione con la previsione della necessaria acquisizione del parere dell’Autorità di regolazione”. Osserva in proposito il collegio come “la relazione illustrativa allo schema del (…) d.lgs. n. 21/2014 (attuazione della direttiva 2011/83/U.e. sui diritti dei consumatori) evidenzia che la norma di modifica del Codice del consumo con la quale si attribuisce in via esclusiva all’Antitrust, acquisito il parere dell’Autorità di settore, la competenza a intervenire nei confronti delle condotte dei professionisti che integrano una pratica commerciale scorretta, ha l’obiettivo di superare” la procedura d’infrazione avviata dalla Commissione europea contro l’Italia, per l’inadeguata applicazione dell’art. 3, par. 4, e degli artt. da 11 a 13 della direttiva in materia di pratiche sleali (non essendo stato correttamente trasposto il principio della lex specialis contenuto nella direttiva, che regola il coordinamento tra tale disciplina (a carattere transettoriale) e le normative specifiche di settore – la Commissione, segnatamente, contesta la tesi per cui l’esistenza di una disciplina specifica settoriale, in quanto considerata esaustiva, comporterebbe la prevalenza di tale disciplina su quella generale, ancorché di derivazione europea, in materia di tutela dei consumatori). “Ciò posto, alla luce di quanto appena detto, è evidente che tale norma ha una portata esclusivamente di interpretazione autentica, atteso che (…), anche alla luce di una corretta analisi ermeneutica delle sentenze dell’adunanza plenaria da 11 a 16-2012 e dell’applicazione dei principî da esse scaturenti è indubbia la competenza dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato ad applicare la disciplina sulle pratiche commerciali scorrette (…) già in base alla normativa antecedente che l’art. 1, comma 6, lett. a), d.lgs. 21 Febbraio 2014, n. 21 si è limitata, per quanto qui rileva, soltanto a confermare”. “Né in senso contrario può opporsi la previsione, contenuta in tale norma sopravvenuta, di un eventuale previo parere dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, poiché tale segmento procedimentale, ora previsto nell’art. 16 della delibera A.g.c.m. Primo Aprile 2015, n. 25411 (Regolamento sulle procedure istruttorie in materia di tutela del consumatore) era già previsto in precedenti delibere (…); il legislatore, pertanto, non ha fatto altro che innalzare al rango di norma primaria una disposizione già esistente nell’ordinamento, che, per tale motivo, non può ritenersi avere portata sostanzialmente innovativa”.
In conclusione, “non viene meno l’interesse alla pronuncia di annullamento per incompetenza dell’Antitrust, dovendo essere invece direttamente respinta la censura di incompetenza”. FM
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Inserito in data 17/02/2016 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V - 15 febbraio 2016, n. 628 L’atto istruttorio del commissario ad acta non è reclamabile ex art. 114 c. 6 CPA La Quinta Sezione del Consiglio di Stato delinea l’ambito di operatività dell’art. 114 c. 6 C.P.A., a mente del quale “Il giudice conosce di tutte le questioni relative all’esatta ottemperanza, ivi comprese quelle inerenti agli atti del commissario”. In particolare, “il Collegio ritiene che il reclamo disciplinato dall’art. 114, comma 6, del c.p.a. possa essere giudicato esperibile quando il commissario ad acta debba esercitare in concreto un effettivo potere decisionale”. “Quando invece il commissario ad acta, come è avvenuto nella specie, abbia esercitato un ruolo solo istruttorio e preparatorio rispetto a un’esecuzione del giudicato destinata a sostanziarsi in successivi provvedimenti discrezionali di competenza delle autorità amministrative, le contestazioni delle parti interessate devono in tal caso essere proposte, secondo le regole generali, in sede di impugnazione dell’atto conclusivo del procedimento”. Ciò in quanto, “in sede di decisione del reclamo proposto contro l’atto infraprocedimentale, oggetto della proposta del commissario ad acta, il giudice amministrativo non potrebbe emettere statuizioni che incidano sull’esercizio dei poteri istituzionali di cui è titolare l’autorità competente all’emanazione del provvedimento conclusivo del procedimento. Sotto tale aspetto, … rileva il principio di carattere generale previsto dall’art. 34, comma 2, del c.p.a., (per il quale «in nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati»), principio che trova deroga alloquando si tratta di dare esecuzione a giudicati che precludano l’esercizio di poteri discrezionali, ma non anche quando proprio il giudicato – come nella specie – abbia fatto salvo l’ulteriore esercizio dei poteri discrezionali non esercitati”.
Pertanto, anche al fine di evitare un’inutile duplicazione di attività processuale, va dichiarato inammissibile il reclamo avverso l’atto endo-procedimentale del commissario ad acta. TM
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Inserito in data 16/02/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 15 febbraio 2016, n. 627 L’incertezza assoluta sul contenuto dell’offerta e il soccorso istruttorio La Quinta Sezione del Consiglio di Stato si è soffermata sulla causa di esclusione dalle gare d’appalto, consistente nell’incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell’offerta, prevista dall’art. 41 c. 1 bis d.lgs. n. 163/06. Per il Consiglio di Stato, “In sede di interpretazione di questa disposizione, si deve tener conto anche dei limiti entro i quali la stessa stazione appaltante può utilizzare lo strumento del soccorso istruttorio”. Segnatamente, secondo l’insegnamento dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (sentenza n. 9/14), “il ‘soccorso istruttorio’ non può essere utilizzato per supplire a carenze dell'offerta, sicché non può essere consentita al concorrente la possibilità di completare l'offerta successivamente al termine finale stabilito dal bando, salva la rettifica di errori materiali o refusi” (vale a dire di divergenze tra il giudizio e la sua espressione, cagionate da una mera svista o disattenzione, che devono emergere ictu oculi). Ad avviso dei Giudici di Palazzo Spada, la stazione appaltante ha il potere tecnico-discrezionale di valutare se il vizio che affligge l’offerta possa qualificarsi come errore materiale o refuso, e quindi sia passibile di soccorso istruttorio (circostanza non verificatasi nel caso di specie, ateso che le manifestazioni testuali dell’offerta si prestavano a una pluralità di manifestazioni di giudizio); essendo espressione di discrezionalità tecnica, tale valutazione sarà sindacabile dal giudice amministrativo sotto il profilo dell’irragionevolezza od illogicità. TM
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Inserito in data 15/02/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 10 febbraio 2016, n. 565 Scelta del medico di medicina generale nel caso di ASL “pluricomunale” Con la pronuncia in epigrafe, la terza sezione del Consiglio di Stato ha accolto il ricorso in appello proposto da un medico di base avverso la sentenza resa dal T.A.R. Calabria che aveva ritenuto legittimo il provvedimento regionale con cui si limitava la facoltà di scelta degli assistiti, in favore dei medici di medicina generale, ai più circoscritti “Distretti infracircoscrizionali” in cui era stata suddivisa l’ASP di Reggio Calabria. I giudici di palazzo Spada, richiamando costante giurisprudenza del Consiglio di Stato, hanno ricordato anzitutto come la facoltà di scelta del medico generico, da parte dell’assistito, sia regolata dal “principio della fiducia personale”, attese le prevalenti finalità di tutela della salute pubblica. Si tratta di una libertà di scelta – ha precisato il Collegio - che non può tuttavia ritenersi incondizionata ed illimitata, ma che deve pur sempre coordinarsi, per esigenze di razionalizzazione organizzativa, con l’ambito territoriale di riferimento, nella norma, coincidente con quello della ASL di appartenenza. Diversamente da quanto accade nei comuni maggiori, ove operano più ASL e l’ambito territoriale ordinariamente coincide con una frazione del comune stesso, nell’ipotesi in cui l’ASL sia invece “pluricomunale” – ad avviso del Collegio - non appare ammissibile un potere di scelta circoscritto ad una parte soltanto del territorio su cui insiste l’Azienda Sanitaria, poiché ciò determinerebbe un’intollerabile “limitazione del potere di scelta, non consentita dall’art. 25L. n. 833/1978” oltreché “una evidente disparità di trattamento tra cittadini e sanitari di grossi centri e quelli residenti in piccoli comuni ai quali ultimi, cioè ai sanitari, verrebbe attribuito un bacino di utenza più limitato”.
Sulla scorta di questi rilievi, la terza sezione del Consiglio di Stato ha, in riforma della sentenza impugnata, accolto l’appello ed annullato, quindi, il provvedimento regionale. MB
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Inserito in data 13/02/2016 CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 9 febbraio 2016, n. 3 Competenza esclusiva dell’AGCM all’irrogazione di sanzioni per pratiche commerciali aggressive Con la recente sentenza n° 3/2016, l’Adunanza Plenaria si è pronunciata sulla questione del riparto di competenza tra l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM), da una parte, e l’Autorità per le Garanzie nelle comunicazioni (AgCom), dall’altra, in materia di tutela dei consumatori. La Sezione remittente del Consiglio di Stato, si è soffermata sull’interpretazione del comma 1-bis dell’art. 27 Codice Consumo, come introdotto dal D.Lgs. 21/2014, e, ravvisato un contrasto giurisprudenziale, ha, con l’ordinanza n° 4352/2015, correttamente investito della questione l’Adunanza Plenaria, ad essa sottoponendo il quesito relativo alla “competenza ad irrogare la sanzione per pratica commerciale considerata in ogni caso aggressiva”. Secondo una prima interpretazione, legata al dato letterale della norma, il citato comma, attribuirebbe, in materia di pratiche commerciali scorrette, una competenza generale ed esclusiva ad AGCM, anche nei settori c.d. “regolati”, dunque anche a fronte di condotte disciplinate da specifiche norme settoriali di derivazione europea. Secondo una diversa impostazione - tracciata da significative pronunce dell’Adunanza Plenaria (n. da 11 a 16 del 2012), che avevano interpretato il principio di specialità sancito a livello comunitario come prevalenza della norma speciale di settore rispetto alla disciplina generale delineata dal Codice del Consumo - la disciplina generale del Codice del consumo sarebbe applicabile in via esclusiva da parte di AGCM - anche nei settori c.d. regolati – “solo quando la normativa di settore non abbia previsto ex ante, in modo completo ed esaustivo, la regola comportamentale applicabile”, sicché l’Autorità Antitrust sarebbe incompetente “ad applicare la disciplina sulle pratiche commerciali scorrette nei settori in cui la tutela del consumatore sia attribuita ad un’autorità regolamentare, secondo la disciplina della specialità per settori”. L’ordinanza di remissione ha evidenziato come il comma 1-bis dell’art. 27 Cod. Cons., pur caratterizzato da una formulazione letterale in apparenza univoca, in realtà presti il fianco a rilevanti criticità, soprattutto con riferimento al coordinamento con la normativa europea. L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, per la risoluzione della questione, ha ritenuto necessario muovere anzitutto dall’analisi del caso concreto, valorizzando la condotta che ha dato luogo all’irrogazione della sanzione contestata e consistente nell’aver il professionista attivato servizi di navigazione in internet senza aver previamente acquisito il consenso del consumatore, in questo modo esponendo l’utente ad inconsapevoli addebiti e limitando la sua facoltà di scelta. La fattispecie descritta – ad avviso dell’Adunanza Plenaria – costituirebbe una condotta senz’altro “anticoncorrenziale”, integrante la fattispecie della pratica commerciale considerata aggressiva, vietata ai sensi dell’art. 26, comma 1, lett. f) d.lgs n. 206/2005, pur se posta in essere attraverso l’inosservanza degli obblighi informativi imposti dal Codice delle comunicazioni elettroniche. Nel nostro sistema – ha osservato l’Adunanza Plenaria - “mentre la pratica commerciale aggressiva è inequivocabilmente attratta nell'area di competenza dell'Autorità Antitrust, la violazione degli obblighi informativi è invece suscettibile di sanzione da parte dell'Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni”. Tuttavia – ha proseguito l’Adunanza Plenaria - “nel caso di specie, si assiste ad una ipotesi di specialità per progressione di condotte lesive che, muovendo dalla violazione di meri obblighi informativi comportano la realizzazione di una pratica anticoncorrenziale vietata ben più grave per entità e per disvalore sociale, ovvero di una pratica commerciale aggressiva. Si realizza quindi, nell'ipotesi in esame, sempre ai fini dell'individuazione dell'Autorità competente, più che un conflitto astratto di norme in senso stretto, una progressione illecita, descrivibile come ipotesi di assorbimento-consunzione, atteso che la condotta astrattamente illecita secondo il corpus normativo presidiato dall'Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni è elemento costitutivo di un più grave e più ampio illecito anticoncorrenziale vietato secondo la normativa di settore presidiata dall'Autorità Antitrust”. Tale conclusione – ha precisato l’Adunanza Plenaria - non deve ritenersi in contrasto con la richiamata pronuncia n. 11/2012, ove era stato affermato che “per escludere la possibilità di un residuo campo di intervento di Antitrust occorre verificare la esaustività e la completezza della normativa di settore”. Ed infatti nel caso in esame, muovendo proprio da tale inciso, “il comportamento contestato all'operatore economico con il provvedimento Antitrust impugnato non è per nulla interamente ed esaustivamente disciplinato dalle norme di settore”, con la conseguenza – ed è questo il principio di diritto espresso dall’Adunanza Plenaria nella pronuncia in epigrafe - che “la competenza ad irrogare la sanzione per una pratica commerciale considerata in ogni caso aggressiva è sempre da individuare nell'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato”. MB
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Inserito in data 12/02/2016 CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA PER LA REGIONE SICILIANA - 8 febbraio 2016, n. 39 Requisiti del bando per la costituzione di R.T.I. “di tipo verticale” Con la sentenza in epigrafe, i giudici del C.G.A. hanno tracciato i limiti per la costituzione di un valido raggruppamento temporaneo di imprese “di tipo verticale” e quindi di un raggruppamento che è in grado di ripartire le prestazioni richieste tra le imprese associate secondo la loro natura ‘principale’ o ‘secondaria’ ed in relazione alle rispettive qualificazioni. Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa, l’art. 37, comma 2 d.lgs. 163/2006 ammette tale costituzione solo previa indicazione nel bando da parte della Stazione appaltante di quali prestazioni siano considerate “principali” e quali “secondarie” o comunque “scorporabili” . Ne consegue che, afferma il Collegio, in mancanza della predetta condizione, i concorrenti alla gara d’appalto non hanno la facoltà di “scomporre”, di propria iniziativa, il ‘contenuto’ dell’appalto (id est: la ‘prestazione unitaria dedotta in obbligazione’) in sub-prestazioni ‘principali’ ed ‘accessorie’ (o secondarie) allo scopo di individuare competenze settoriali interne e di ripartirle fra i vari partecipanti; e, soprattutto, allo scopo di ‘selezionare’ fra essi quelli per i quali l’obbligo di possedere i requisiti indicati dal Bando si appalesi non operante. Peraltro, continua il C.G.A., non può nemmeno essere sostenuto che il concorrente privo del requisito soggettivo in questione possa “avvalersi” - mediante stipula di un apposito “contratto di avvalimento” - del requisito posseduto dall’associato, soprattutto quando esso rappresenti (come nel caso di specie lo è il certificato di operatore aereo) un requisito di idoneità tecnica implicante un’elevata specializzazione professionale ed un alto grado di affidabilità, e dunque strettamente personale. SS
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Inserito in data 11/02/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL'ADUNANZA PLENARIA - 9 febbraio 2016, n. 538 È ammissibile il silenzio-assenso per i nulla osta paesaggistici? Rinvio all’Adunanza Plenaria I Giudici di Palazzo Spada, in questa importante ordinanza, rimettono all’Adunanza Plenaria ex art. 99 c.p.a. la questione che attiene alla possibilità (o meno), in materia ambientale, di rilasciare per silenzio-assenso il nulla osta richiesto ad un Ente parco. Rileva il Collegio che, in ordine alla questione prospettagli, ciò che è controverso è quale sia la norma applicabile. Infatti, la tesi dell’appellante è che debba valere la disposizione dell’art. 13, comma 1, della legge n. 394/1991 in base alla quale “il rilascio di concessioni o autorizzazioni relative ad interventi, impianti ed opere all’interno del parco è sottoposto al preventivo nulla osta dell’Ente parco. Il nulla osta verifica la conformità tra le disposizioni del piano e del regolamento e l’intervento è reso entro sessanta giorni dalla richiesta. Decorso inutilmente tale termine il nulla osta si intende rilasciato…”. Secondo la tesi, invece, fatta propria dal giudice di prime cure, si applicherebbe l’art. 20 della l. 241/1990 la quale, con riforma del 2005, ha operato una generalizzazione dell’operatività dell’istituto del silenzio-assenso e pur tuttavia l’ha escluso nelle materie elencate al comma 4 fra cui vi rientra la materia ambientale. Ritiene il Consiglio che fra le disposizioni ricordate intercorre un’antinomia, per sciogliere la quale è possibile ricorrere a criteri differenti e, dunque, approdare a soluzioni diverse. In base a un primo criterio (di specialità), precisa il Consiglio, l’art. 13 suindicato non sarebbe stato implicitamente abrogato dalla riforma della l. 241/90 tant’è vero che quest’ultima, avendo generalizzato l’operatività dell’istituto in questione, non ha sancito l’impossibilità in assoluto di prevedere specifiche ipotesi di silenzio-assenso in materia ambientale ma ha semplicemente previsto l’inapplicabilità della regola di cui al comma 1 dello stesso art. 20. Di talché, l’art. 13 l. 394/91 è pienamente in vigore in quanto il legislatore potrebbe introdurre, nelle materie elencate dal comma 4 dell’art. 20, norme specifiche aventi a oggetto il silenzio-assenso, a meno che non sussistano espressi divieti, derivanti dall’ordinamento comunitario o dal rispetto dei principi costituzionali. In base, invece, al secondo criterio (cronologico) – continua il Collegio – le norme avrebbero la medesima natura procedimentale e verrebbero a disciplinare lo stesso istituto operante in materia di edilizia e ambiente; resterebbe, infatti, escluso che tra esse possa configurarsi un rapporto di specialità, poiché questo presupporrebbe un certo grado di equivalenza tra norme a confronto, ma che non potrebbe spingersi sino alla sostanziale identità tra le due discipline in contrasto. Ne deriva, conseguentemente, che il conflitto tra le disposizioni dovrebbe quindi essere risolto alla luce della successione nel tempo tra due norme generali e pertanto secondo il principio per cui la legge posteriore abroga la legge anteriore con essa incompatibile. Nel rimettere la questione all’Adunanza Plenaria, il Consiglio ritiene di non poter fare a meno di segnalare la maggiore fondatezza della seconda delle alternative prospettate, e ciò, non solo per coerenza con l’orientamento della Sezione, ma anche per la non trascurabile linea di tendenza del sistema normativo di cui è indice l’art. 30, comma 9 del cd. “decreto del fare” che, pur non essendo direttamente applicabile, prevede che “qualora l'immobile oggetto dell’intervento sia sottoposto a vincoli ambientali, paesaggistici o culturali, […] il procedimento è concluso con l'adozione di un provvedimento espresso …”. SS
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Inserito in data 10/02/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 3 febbraio 2016, n. 410 Annullamento dell’interdittiva antimafia e revoca dell’aggiudicazione La peculiare complessità della fattispecie risolta dalla pronuncia in oggetto impone preliminarmente una sintetica disamina del relativo diagramma evenemenziale. Nelle more dello svolgimento di una procedura di gara scadeva l’efficacia triennale della qualificazione di una delle imprese partecipanti; quest’ultima era stata medio tempore colpita da un’interdittiva antimafia, e non avrebbe pertanto potuto ottenere da alcuna società organismo di attestazione (SOA) la rituale verifica di mantenimento dei requisiti ex art. 77 d.P.R. n. 207/2010. Preso atto di una successiva informativa liberatoria, il Consiglio di Stato, in sede cautelare, sospendeva gli effetti del provvedimento prefettizio. Ottenuta la certificazione in narrativa, la stazione appaltante aggiudicava definitivamente la gara alla ricorrente, e tuttavia, in seguito, agiva in revoca di tale determinazione, inferendo le proprie valutazioni dall’assunto che l’operatore economico non sarebbe risultato in linea con la normativa nell’intero arco temporale del procedimento. In ordine a tale ultima circostanza si declina la vicenda giudiziaria conclusasi con la sentenza in epigrafe. In primo grado, il Tribunale amministrativo territorialmente competente aveva ritenuto che l’informativa liberatoria avesse nondimeno lasciato impregiudicati gli effetti prodotti dal certificato interdittivo, il quale appariva certamente legittimo, e validamente sostenuto da elementi di fatto e di diritto, nel contesto storico-amministrativo in cui era stato emesso. Correttamente, dunque, la situazione giuridica soggettiva dell’interessata era stata incisa dall’informativa interdittiva. I giudici di Palazzo Spada, diversamente opinando, accolgono il ricorso in appello del privato, non avendo il contestato provvedimento di revoca dell’aggiudicazione tenuto conto della “non imputabilità della mancata copertura delle certificazioni antimafia”, oltre che delle ragioni sottese alla menzionata ordinanza cautelare del supremo consesso. “L’impresa (infatti) non ha potuto richiedere tempestivamente la verifica triennale dell’attestazione SOA per ragioni oggettive”. Viene soprattutto evidenziato come l’ordinanza cautelare avesse “rilevato l’insussistenza dei presupposti per disporre l’esclusione dell’impresa dalla gara”, e come la stessa mantenesse ancora intatta la propria efficacia alla data di emanazione della revoca. “L’illegittimità del provvedimento di revoca impugnato in primo grado – nel singolare caso venutosi a verificare, in cui si sono accavallati provvedimenti amministrativi e pronunce dei giudici amministrativi – risulta dalla convergente applicazione dei principî sostanziali in tema di interdittive e di quelli processuali sulla effettività della tutela giurisdizionale”. “Sotto il profilo sostanziale, va richiamato l’art. 67 del Codice antimafia (d.lgs. n. 159/2011), il quale dispone che ʻLe persone alle quali sia stata applicata con provvedimento definitivo una delle misure di prevenzione previste dal libro I, titolo I, capo II, non possono ottenere: (…) e) attestazioni di qualificazione per eseguire lavori pubblici’”. “Dal successivo art. 85 del Codice antimafia si evince che le società organismo di attestazione sono tenute ad eseguire anche i controlli previsti dal Codice antimafia, con la conseguenza che la rilevazione di un’interdittiva avrebbe comunque impedito, ex art. 67, il rilascio della SOA”. “Ciò comporta che non può essere ravvisata l’inerzia della appellante nella richiesta della verifica triennale, in quanto essa non era legittimata, perché risultava a suo tempo efficace l’interdittiva antimafia”. “È però decisivo considerare che (…) è risultata l’illegittimità della originaria certificazione negativa”.
“Poiché la durata del giudizio non può essere posta a carico della parte che ha ragione”, il collegio, preso atto dell’esito dell’appello nel cui ambito era stata ritenuta meritevole d’accoglimento l’istanza cautelare, “nella sostanza ha statuito che erano definitivamente venuti meno gli effetti dell’atto di esclusione, impugnato in quel giudizio”. La stazione appaltante non avrebbe dunque potuto revocare l’aggiudicazione “ritenendo insussistente la ‘perdurante copertura’ della certificazione antimafia, e cioè proprio la circostanza che aveva sostanzialmente già a suo tempo comportato l’esclusione (i cui effetti erano stati sospesi in sede giurisdizionale)”. FM
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Inserito in data 10/02/2016 CORTE DI CASSAZIONE - PRIMA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 4 febbraio 2016, n. 2196 Casi di consenso espresso per le comunicazioni commerciali
La Corte di cassazione conferma l’orientamento ermeneutico espresso dai giudici di merito circa l’illegittimità delle comunicazioni telefoniche a scopo commerciale, quando manca un consenso espresso da parte dell’utente ai sensi dell’art. 129, comma secondo, del d.lgs. n. 196/2003, in ipotesi di chiamate a “contatto abbattuto” o “mute” (originate dal sistema informatico, ma che per la temporanea indisponibilità di un operatore, restano inevase, pur attivandosi la comunicazione), oltre che di recapito non inserito in uno degli elenchi cartacei o elettronici a disposizione del pubblico, come nel caso dei telefoni cellulari.
La suprema Corte sottolinea la conformità alla direttiva comunitaria 2002/58-C.e. (relativa alla vita privata e alle comunicazioni elettroniche) dell’art. 130, comma terzo bis, del codice in materia di protezione dei dati personali, il quale consente, in deroga al citato principio del consenso espresso, il trattamento di dati personali mediante l’impiego del telefono per comunicazioni di natura commerciale nei confronti di chi non abbia esercitato il diritto di opposizione mediante iscrizione della propria numerazione nell’apposito registro pubblico. La disposizione ora riferita non trova, tuttavia, applicazione nei casi in cui siano inoltrate telefonate senza operatore, ovvero l’utenza contattata non risulti inserita in alcun elenco pubblico. La prescrizione formulata, a monte della vicenda giudiziaria, dal Garante per la protezione dei dati personali richiedeva all’operatore economico ricorrente di impedire la reiterazione di chiamate mute, escludendo la possibilità di ricontattare la specifica utenza per un intervallo di tempo pari almeno a trenta giorni. In prime cure era stata ritenuta l’illiceità del sistema adoperato dal ricorrente, “atteso che i destinatarî avevano visto utilizzati i proprî dati per telefonate non valevoli a proporre alcun contratto ma solo a creare allarme circa la provenienza”. Il Tribunale riscontrava la scorrettezza della modalità di trattamento dei dati, in quanto era diretta “a ottimizzare il successo delle chiamate (…) facendo ricadere il rischio, e il disagio, della chiamata muta sui soli destinatarî”. Il sistema non veniva dunque reputato in linea con i canoni di correttezza, pertinenza, e non eccedenza, rispetto alle finalità dell’utilizzo, ai quali l’attività in questione andrebbe informata (artt. 4 e 11, d.lgs. n. 196/2003). Osserva il collegio come l’art. 130, comma terzo bis, del codice della riservatezza, non abbia il significato generalissimo che il ricorrente intende attribuirgli, e vada interpretato in coerenza con la direttiva comunitaria 2002/58-C.e.; in particolare, l’opzione di esclusione, recepita dal citato comma, viene ipotizzata dalla direttiva menzionata solo con riferimento alle chiamate con operatore. Anche alla luce dell’art. 7 della direttiva 95/46-C.e. (sulla tutela del trattamento e della libera circolazione dei dati personali), norma a effetto diretto secondo la prospettazione fornita dalla sentenza n. 468/2011 della Corte di giustizia, il trattamento di dati personali, in linea generale, può essere effettuato soltanto quando la persona interessata abbia manifestato il proprio consenso in maniera inequivocabile. È anche dalla stessa statuizione consentito il trattamento di dati in ipotesi alterative, elencate tuttavia in numerus clausus, e tra le quali non si annovera l’attività di commercio telematico. Nell’alveo tracciato dalla direttiva da ultimo considerata, agli Stati membri viene delegato il compito di determinare, nei rispettivi ordinamenti, alcuni dettaglî ovvero optare tra differenti soluzioni. Non è comunque mai consentito prevedere requisiti supplementari che modifichino la portata di uno dei limiti previsti all’art. 7, laddove è invece possibile una semplice precisazione. “Gli Stati membri non possono aggiungere nuovi principî relativi alla legittimazione del trattamento dei dati personali, né prevedere requisiti supplementari che porterebbero a modificare l’ambito di applicazione di uno degli evocati principî in senso sfavorevole all’interessato”. Per quanto precede, e in conclusione, la Corte ritiene “esorbitante il metodo di utilizzo del dato personale in rapporto all’interesse o ai diritti o alle libertà fondamentali delle persone coinvolte”. FM
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Inserito in data 09/02/2016 TAR PIEMONTE - TORINO, SEZ. I, 4 febbraio 2016, n. 171 Trasferimento del dipendente pubblico per assistere un familiare portatore di handicap grave La vicenda de qua trae origine dall’impugnazione, da parte di un dipendente pubblico, del provvedimento di diniego dell’amministrazione alla richiesta di trasferimento, formulata ai sensi dell’art. 33, comma 5, legge n. 104/1992, al fine di poter prestare assistenza ad un familiare portatore di handicap grave. I giudici piemontesi hanno accolto il ricorso, condividendo la censura, prospettata dal ricorrente, di eccesso di potere per difetto di istruttoria e per complessiva contraddittorietà del comportamento dell’amministrazione. A tal riguardo hanno precisato che la mancanza nell’operato dell’amministrazione sia soprattutto da rinvenirsi nell’omessa valutazione delle esigenze e delle carenze di organico della sede di destinazione. La normativa che disciplina il trasferimento del dipendente (art. 33, comma 5, della legge n. 104 del 1992), stabilisce, tra l’altro, che il lavoratore “ha diritto a scegliere ove possibile, la sede di lavoro più vicina al domicilio della persona da assistere”. In un passaggio della sentenza, la prima sezione, aderendo alla costante interpretazione della giurisprudenza amministrativa, ha chiarito che “l'inciso «ove possibile» sta a significare che, avuto riguardo alla qualifica rivestita dal pubblico dipendente, deve sussistere la disponibilità nella dotazione di organico della sede di destinazione del posto in ruolo per il proficuo utilizzo del dipendente che chiede il trasferimento”. Pertanto, se da una parte l’amministrazione ha il dovere di compiere un bilanciamento tra le proprie esigenze di servizio e l’interesse del dipendente di avvicinarsi al luogo ove si trova la persona portatrice di handicap da assistere - dovendo con ciò valutare le esigenze organizzative della sede di appartenenza del dipendente – dall’altra, è tenuta a compiere una valutazione complessiva della situazione della sede di destinazione. Nel caso di specie, nelle motivazioni rappresentate nel provvedimento di diniego, l’amministrazione – ad avviso del T.A.R. Piemonte - si sarebbe limitata a rappresentare le esigenze della sede attualmente assegnata al dipendente, senza nulla precisare con riguardo alla sede di destinazione, trascurando, quindi, completamente l’istruttoria con riferimento alle esigenze organizzative della sede oggetto di trasferimento. MB
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Inserito in data 09/02/2016 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V - 3 febbraio 2016, n. 413 Affidamento diretto per ragioni di estrema urgenza La fattispecie in esame concerne l’affidamento diretto di un appalto per la gestione temporanea di un impianto sportivo, senza pubblicazione di bando, per ragioni di estrema urgenza. Nella sentenza impugnata, il TAR Campania – Napoli aveva ritenuto censurabile la scelta del Comune di non dare adeguata pubblicità della gara e di non interpellare la ricorrente ai fini della presentazione di un’offerta alla gara senza bando. I giudici di prime cure avevano in particolare ritenuto che l’attività posta in essere dal Comune fosse illegittima “costituendo principio immanente alle procedure di affidamento di contratti pubblici il rispetto dei principi di derivazione comunitaria che impongono, nella generalità dei casi, l’apertura alla concorrenza e la parità di trattamento tra gli operatori”. Pertanto, ad avviso dei giudici campani, “una volta riconosciuta la necessità di operare in via d’urgenza, non v’era motivo di disconoscere la necessità di una diversa modalità di selezione del contraente, consentendo la concorrenzialità tra gli operatori del settore (…) Prescegliendo di percorrere la diversa strada dell’affidamento temporaneo, non si potevano eludere le ragioni che imponevano la ricerca del contraente attraverso una selezione anche informale, non concentrandosi unicamente sull’aggiudicataria e senza trascurare la posizione della ricorrente e di altri potenziali interessati”. Di avviso diverso la quinta sezione del Consiglio di Stato che, nella pronuncia in epigrafe, ha ritenuto che la fattispecie in esame fosse riconducibile a quelle descritte dall’art. 57 d.lgs. n. 163/06. Precisa il Collegio che “il sistema di scelta del contraente a mezzo di procedura negoziata senza pubblicazione del bando di cui all'art. 57, comma 2, d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, rappresenta un'eccezione al principio generale della pubblicità e della massima concorrenzialità tipica della procedura aperta, con la conseguenza che i presupposti fissati dalla legge per la sua ammissibilità devono essere accertati con il massimo rigore e non sono suscettibili d'interpretazione estensiva (..) L’affidamento diretto è consentito nella misura strettamente necessaria, quando l'estrema urgenza risultante da eventi imprevedibili per le stazioni appaltanti, non è compatibile con i termini imposti dalle procedure aperte, ristrette, o negoziate previa pubblicazione di un bando di gara. Le circostanze invocate a giustificazione della estrema urgenza non devono essere imputabili alle stazioni appaltanti”. Nel caso concreto, l’affidamento si era reso necessario per evitare di far fronte a costi non sostenibili derivanti dal pericolo di un’eventuale “non gestione” della struttura per un tempo apprezzabile e non predeterminabile, con connessa alta probabilità di danni - non imputabili all’Amministrazione - che all’ente sarebbe potuta derivare dall’eventuale danneggiamento degli impianti notatori. L’Amministrazione – ha affermato il Collegio – “nel valutare i presupposti per l’affidamento senza gara, ha valutato ragionevolmente i presupposti dell’urgenza (dettati dalla necessità di evitare, per l’appunto, atti di vandalismo ed il deterioramento della struttura) in vista di effettuare l’affidamento provvisorio della piscina, sicché non emergono elementi tali da evidenziare una macroscopica illogicità, irrazionalità della stessa, ovvero un travisamento dei fatti”. MB
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Inserito in data 08/02/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, 8 febbraio 2016, n. 499 Condizioni di validità della sentenza in forma semplificata Con la sentenza in esame, i Giudici di Palazzo Spada trattano, tra l’altro, delle condizioni al ricorrere delle quali può essere adottata una sentenza in forma semplificata. “Vale al riguardo ricordare che, secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale …, da cui non vi è motivo per discostarsi, ai fini della validità della sentenza in forma semplificata è necessario che il Collegio, oltre alla previa verifica della regolarità del contraddittorio e della completezza dell'istruttoria, abbia puntualmente informato le parti costituite - e presenti all'udienza in camera di consiglio - della possibilità di adottare un tale tipo di pronuncia. Com'è noto, detta informazione, che non è finalizzata alla previa acquisizione del consenso delle parti (non richiesto dalla legge), bensì a consentire alle parti l'esercizio completo ed esauriente del proprio diritto di difesa nel caso concreto (mediante un'eventuale richiesta di un rinvio per la produzione di nuove prove o per proporre motivi aggiunti ovvero per chiedere un termine a difesa, cfr. Cons. Stato, VI, 26 giugno 2003, n. 3852), deve essere riferita specificamente alla singola controversia e non può pertanto essere considerata validamente sostituita dall'avvertimento eventualmente fatto in sede di "preliminari d'udienza" per tutte le istanze cautelari da chiamare nella camera di consiglio”. TM
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Inserito in data 08/02/2016 CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 2 febbraio 2016, n. 1914 L’ordinanza ex art. 348ter CPC è ricorribile in via straordinaria per cassazione Le Sezioni Unite sono state chiamate a stabilire l’an e il quomodo della ricorribilità per cassazione dell’ordinanza che dichiara inammissibile l’appello che non ha una ragionevole probabilità di essere accolto (artt. 348bis e 348ter c.p.c.). Secondo la pacifica giurisprudenza di legittimità, ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost. (“Contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali è sempre ammesso ricorso in cassazione per violazione di legge”), tutti i provvedimenti decisori e definitivi, ossia capaci di incidere con efficacia di giudicato sui diritti soggettivi, possono formare oggetto di ricorso straordinario in Cassazione, indipendentemente dalla forma di sentenza, ordinanza o decreto in cui gli stessi siano stati adottati. Ciò premesso, l’ordinanza di rimessione ha evidenziato un contrasto in seno alla giurisprudenza della Cassazione sulla “definitività” dell’ordinanza ex art. 348ter c.p.c.: secondo un orientamento, tale ordinanza potrebbe dirsi definitiva e ricorribile ex art. 111 Cost. laddove pronunciata al di fuori dei casi normativamente previsti, trattandosi di un error in procedendo che non potrebbe essere fatto valere nel ricorso per cassazione avverso la sentenza di primo grado; secondo un altro orientamento, l’ordinanza ex art. 348ter è priva del requisito della definitività, in quanto questo carattere va riferito solo alla situazione giuridica sostanziale dedotta nel processo, che può essere rimessa in discussione attraverso il ricorso in cassazione contro la sentenza di primo grado. Ad avviso delle Sezioni Unite, l’ordinanza ex art. 348ter c.p.c. è ricorribile in Cassazione, atteso che l’accezione restrittiva di definitività non trova riscontro nel dato normativo costituzionale, né nella legislazione processuale ordinaria, né tanto meno nella giurisprudenza della Cassazione. D’altro canto, se l’ordinanza de qua non fosse ricorribile, la parte potrebbe essere privata arbitrariamente del giudizio d’appello e del connesso riesame della causa nel merito; il che porterebbe a scaricare sulla Corte di Cassazione, mediante il ricorso avverso la sentenza di primo grado, le questioni che dovrebbero essere filtrate attraverso il giudizio di appello. Per i Giudici di piazza Cavour, non tutti gli errores in procedendo astrattamente ipotizzabili possono essere fatti valere col ricorso straordinario avverso l’ordinanza ex art. 348 ter c.p.c. Segnatamente, si potrà lamentare il mancato rispetto degli artt. 348bis e ter c.p.c. (ossia: la pronuncia dell’ordinanza dopo aver cominciato la trattazione o senza aver sentito le parti o nei casi in cui è obbligatorio l’intervento del PM o nelle cause svoltesi secondo il rito sommario di cognizione o al fine di dichiarare l’improcedibilità o l’inammissibilità dell’appello sotto il profilo processuale…), la violazione dell’art. 112 c.p.c. (vale a dire i vizi di omessa pronuncia, ultrapetizione ed extrapetizione, con esclusione dell’omessa pronuncia su di un motivo di appello), l’inosservanza dell’obbligo di motivazione ex art. 111 c. 4 Cost. (ravvisabile nei casi di mancanza materiale e grafica della motivazione ovvero nelle ipotesi assimilabili di motivazione apparente, perplessa o contraddittoria). In conclusione, le Sezioni Unite hanno enunciato il seguente principio di diritto: “Avverso l'ordinanza pronunciata dal giudice d'appello ai sensi dell'art. 348-ter c.p.c. è sempre ammissibile ricorso straordinario per cassazione ai sensi dell'art. 111, comma 7, Cost. limitatamente ai vizi propri della medesima costituenti violazioni della legge processuale che risultino compatibili con la logica (e la struttura) del giudizio sotteso all'ordinanza in questione, dovendo in particolare escludersi tale compatibilità in relazione alla denuncia di omessa pronuncia su di un motivo di appello, attesa la natura "complessiva" del giudizio prognostico, necessariamente esteso a tutte le impugnazioni relative alla medesima sentenza nonché a tutti i motivi di ciascuna impugnazione, e potendo, in relazione al silenzio serbato in sentenza su di un motivo di censura, eventualmente porsi (nei termini e nei limiti in cui possa rilevare sul piano impugnatorio) soltanto un problema di motivazione”. TM
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Inserito in data 06/02/2016 TAR PIEMONTE - TORINO, SEZ. II - 29 gennaio 2016, n. 91 Permesso di costruire ex art. 5 c. 9’ Decreto Sviluppo n. 70/11 e misure premiali Il Collegio piemontese avalla le doglianze di parte ricorrente che, avanzando un’istanza - ex art. 5, co. 9’ – D.L. 70/11, volta ad ottenere un permesso di costruire – subisce il rigetto da parte dell’Amministrazione comunale competente, per ritenuta carenza dei presupposti fondanti. Il Comune, infatti, ritiene manchi o comunque non risulti evidente quell’interesse pubblico al cui soddisfacimento è volta l’impostazione premiale – prevista dal Legislatore con il suddetto D.L. n. 70/11 (Decreto Sviluppo) e che, pertanto, non sia possibile procedere in deroga agli ordinari strumenti urbanistici – ex art. 14 del d.p.r. n. 380/2001- come parte ricorrente, invece, avrebbe richiesto. L’Amministrazione comunale sottolinea, altresì, come manchi persino la previa autorizzazione da parte del Consiglio comunale che, invece, è espressamente prevista dal Legislatore del 2011 e la cui assenza vizia il procedimento stesso (Cfr. TAR Piemonte, sez. II, 10 luglio 2015, n. 1210; TAR Piemonte, sez. II, 28 novembre 2013, n. 1287; TAR Pescara, sez. I, 14 novembre 2014, n. 450; TAR Basilicata, 19 aprile 2014, n. 267). I Giudici torinesi non condividono simili valutazioni, ritenendo, più semplicemente, che le argomentazione del Comune resistente si fondino su una erronea interpretazione del dato normativo. L’Ente, infatti, non ha considerato che l’intervento costruttivo rientrante nelle finalità di cui all’art. 5 comma 9 del Decreto Sviluppo e, come tale, suscettibile di interventi premiali, assume di per sé un rilievo pubblicistico nella misura in cui razionalizza e riqualifica aree degradate, con il solo limite che “si tratti di destinazioni tra loro compatibili e complementari”. Pertanto, è possibile annoverare entro tale fattispecie l’istanza promossa da parte ricorrente e, proprio perché tale, prosegue il Collegio, dovrà competere al Consiglio comunale la valutazione circa la effettiva rispondenza dell’intervento costruttivo privato alle finalità di interesse pubblico di cui all’art. 5 comma 9 del Decreto Sviluppo. Il Collegio ritiene, infine, che non possa nemmeno essere condivisa l’argomentazione della società ricorrente secondo cui nel caso di specie la deliberazione del consiglio comunale non sarebbe necessaria attesa la conformità della destinazione residenziale del nuovo edificio da costruire con l’attuale destinazione residenziale dell’area, dal momento che la valutazione rimessa dalla legge al consiglio comunale non è limitata alla verifica della compatibilità della destinazione in progetto con quella prevista dallo strumento urbanistico, ma si estende alla considerazione, più in generale, della effettiva rispondenza dell’intervento costruttivo alle finalità di recupero. In forza di ciò, i Giudici torinesi annullano il provvedimento di diniego, invitando l’Ente a valutare l’istanza di parte ricorrente per mezzo del competente Consiglio comunale. CC
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Inserito in data 05/02/2016 TAR SICILIA - CATANIA, SEZ. I, 1 febbraio 2016, n. 328 Concentrazione di cubatura su unico lotto di terreno Nella sentenza de qua, il T.A.R. Catania si è pronunciato sulla possibilità di concentrare la cubatura su un unico lotto di terreno optando per soluzioni dislocative dei volumi differenti rispetto a quelle previste nell’originario piano di lottizzazione. In particolare, la società ricorrente si doleva del fatto che il Comune gli avesse rigettato un’istanza di autorizzazione a una variante del piano di lottizzazione per l’esecuzione di un piano abitabile aggiuntivo, variante che essa stessa voleva realizzare attraverso la concentrazione su detto lotto della volumetria di un terreno limitrofo di sua proprietà, compreso nel medesimo piano e nella medesima zona omogenea del vigente P.R.G. comunale. Il T.A.R. adito, dapprima accoglie le censure mosse da parte ricorrente in ordine al difetto motivazionale del provvedimento di rigetto impugnato e alla sua contraddittorietà rispetto alle risultanze istruttorie assunte nel corso del relativo procedimento circa la fattibilità dell’operazione proposta, dopo di che passa ad esaminare la legittimità dell’operazione di concentrazione di cubatura posta in essere dalla società ricorrente. In particolare, il Collegio ricorda come il Consiglio di Stato (sent. 927/2012) ha già avuto occasione di riconoscere, “il valore non già vincolante bensì meramente indicativo della dislocazione e del disegno di ingombro dei fabbricati contenuti in generale nei piani di lottizzazione, chiarendo come la volumetria massima edificabile ivi fissata su ciascun lotto non precluda la realizzazione di una volumetria inferiore o di nessuna volumetria, con la conseguenza che sarebbe, perciò, ben possibile, non solo non edificare affatto su alcuni lotti, ma anche - per quanto qui di interesse - concentrare su un unico lotto la quantità di volumetria prevista su lotti contigui, pur sempre nel rispetto della volumetria complessivamente conseguita, delle distanze e della destinazione d’uso dei fabbricati”.
Infatti, conclude il T.A.R. Catania, “sempre il Consiglio di Stato ha precisato come il presupposto logico dell'asservimento dev’essere rinvenuto nella indifferenza, ai fini del corretto sviluppo della densità edilizia (per come configurato negli atti pianificatori), della materiale collocazione dei fabbricati, atteso, infatti, che, per il rispetto dell’indice di fabbricabilità fondiaria, assume esclusiva rilevanza il fatto che il rapporto tra area edificabile e volumetria realizzabile nella zona di riferimento resti nei limiti fissati dal piano, risultando del tutto neutra l’ubicazione degli edifici all’interno del comparto, con conseguente possibilità di computare la superficie di un lotto vicino, ai fini della realizzazione, in un altro lotto, della cubatura assentibile in quello asservito, sul rilievo della indifferenza, per il Comune, della materiale ubicazione degli edifici, posto che l’interesse dell’amministrazione si appunta sulla diversa verifica del rispetto del rapporto tra superficie edificabile e volumi realizzabili nell’area di riferimento e, cioè, dell’indice di fabbricabilità fondiaria”. SS
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Inserito in data 04/02/2016 CORTE COSTITUZIONALE, ORDINANZA 2 febbraio 2016, n. 19 Estensione della giurisdizione esclusiva del G.A.: inammissibilità La Corte Costituzionale, con la ordinanza indicata in epigrafe, si è pronunciata sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. 133, comma 1, lett. b) del c.p.a. nella parte in cui non devolve alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo anche le questioni che attengono la concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi e ausili finanziari. Ad avviso del Tribunale remittente, l’estensione della giurisdizione anche alle questioni sopra citate potrebbe trovare il suo fondamento nell’art. 12 della l. 241/90 che qualifica come concessioni le “sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari e l’attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati”. Poiché, però, tale percorso ermeneutico non è stato condiviso dalla giurisprudenza delle Corti superiori che hanno escluso che le controversie relative alla revoca di sovvenzioni in denaro pubblico rientrino nell’ambito della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, osserva il giudice a quo che continua ad applicarsi il criterio in base al quale “le controversie in tema di agevolazioni finanziarie sono attribuite alla giurisdizione amministrativa se riferite al momento genetico del rapporto, ovvero se – pur riguardando il momento funzionale − l’amministrazione abbia adottato un provvedimento discrezionale; spettano, invece, al giudice ordinario le controversie relative al momento funzionale, se l’atto che incide sulla posizione del privato consegue all’inadempimento e ha natura vincolata”. In base ai criteri appena individuati, il T.A.R. remittente si duole che la norma censurata gli permette di avere la cognizione “di soli due dei sei motivi di revoca posti a fondamento dell’atto impugnato, mentre il ricorso sarebbe inammissibile con riferimento agli altri quattro motivi del medesimo provvedimento”. Dunque, l’ostacolo che incontrerebbe il giudice amministrativo nel conoscere tutte le ragioni poste a base del provvedimento impugnato sarebbe incompatibile, in primo luogo, con gli artt. 24 e 111 Cost., “in quanto la disposizione impugnata, escludendo dall’ambito della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie in tema di diritti, relative alle agevolazioni finanziarie, si porrebbe in contraddizione con il principio costituzionale del giusto processo, sotto il profilo della concentrazione delle tutele”; in secondo luogo, con il principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost., in quanto costringerebbe ad adire due giudici e a coltivare due giudizi per rimuovere dalla realtà giuridica un solo atto; ed infine, con l’art. 76 Cost. per eccesso di delega. La Corte Costituzionale, dato atto dell’oggettiva situazione di non agevole distinguibilità tra posizioni di diritto soggettivo e d’interesse legittimo in materia di concessione di agevolazioni finanziarie nonché del fallimento del tentativo di pervenire all’estensione in via interpretativa in quanto tale percorso non è stato condiviso dalla giurisprudenza delle Corti superiori, afferma che “il petitum del rimettente è dichiaratamente volto ad ottenere una pronuncia additiva”. Tuttavia, ritiene conclusivamente la Corte, l’addizione invocata dal rimettente non tiene conto della previsione di cui all’art. 103 Cost., laddove stabilisce che “sia la legge ad indicare le particolari materie nelle quali è attribuita agli organi di giustizia amministrativa la giurisdizione per la tutela, nei confronti della pubblica amministrazione, degli interessi legittimi e dei diritti soggettivi”. Peraltro, ad avviso dei giudici costituzionali, “la motivazione dell’ordinanza di rimessione non spiega le ragioni per le quali il denunciato vulnus di costituzionalità possa, e debba, essere eliminato mediante l’attrazione nella giurisdizione del giudice amministrativo delle controversie relative a diritti in materia di concessioni di contributi e sovvenzioni: il petitum del rimettente non è, quindi, supportato da elementi che consentano di ritenere che quella invocata sia l’unica scelta costituzionalmente compatibile e necessitata”. Per entrambe le sopraindicate ragioni, conclude la Corte, la questione deve essere dichiarata inammissibile. SS
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Inserito in data 03/02/2016 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI - ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL'ADUNANZA PLENARIA, 29 gennaio 2016, n. 364 Graduatorie ad esaurimento degli insegnanti e giurisdizione del giudice amministrativo Come già aveva fatto con l’ordinanza n. 5861/15, la Sesta Sezione del Consiglio di Stato deferisce all’Adunanza Plenaria la questione circa la possibilità di inserire nelle graduatorie ad esaurimento di aspiranti docenti i titolari di diploma magistrale, conseguito entro l’anno scolastico 2001/2002.
In via pregiudiziale, il Collegio dichiara la giurisdizione del giudice amministrativo. Invero, secondo la giurisprudenza consolidata, rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la questione dell’inserimento in base a titoli predeterminati e della corretta posizione nelle graduatorie degli insegnanti che abbiano già instaurato un rapporto di lavoro con l’amministrazione, ancorché precario; viceversa, sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo laddove, come nel caso di specie, vengano in rilievo contestazioni che investono direttamente il potere regolamentare, governativo o ministeriale, ovvero la potestà di emanare atti amministrativi generali di natura non regolamentare, sussumibili nella fattispecie di cui all’art. 2 c. 1 d.lgs. n. 165/01. Ad avviso del Consiglio di Stato, “Nella situazione in esame si censurano infatti non le modalità di valutazione di singole posizioni soggettive, ma in via principale le determinazioni espresse dal MIUR nel decreto n. 235 in data 1 aprile 2014 (aggiornamento delle graduatorie ad esaurimento per il triennio 2014 – 2017), per profili organizzativi di carattere generale, inerenti a titoli che, ad avviso degli appellanti, consentirebbero una parziale riapertura delle graduatorie stesse. A tale tipologia di contestazioni, che investono la regolamentazione in via autoritativa del settore, effettuata dall’Amministrazione quale datrice di lavoro non può che corrispondere – secondo il più recente, citato orientamento delle Sezioni Unite della Cassazione – la giurisdizione del giudice amministrativo”. TM
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Inserito in data 03/02/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 28 gennaio 2016, n. 305 Procedura di mobilità e concorso dell’Agenzia delle entrate Il Consiglio di Stato dichiara l’illegittimità del concorso indetto dall’Agenzia delle entrate per la copertura di posti dirigenziali di seconda fascia, nella parte in cui, in violazione dell’art. 30, comma 2 bis, del d.lgs. n. 165/2001 (attuativo del principio generale, mai dismesso, di cui all’art. 39, comma 3, terzo periodo, della l. n. 449/1997), non sono stati previamente individuati i posti da coprire mediante mobilità volontaria. Viene, per l’effetto, parzialmente accolto il ricorso di un dirigente regionale avverso la sentenza di primo grado che non aveva considerato come l’art. 8, comma 24, del d.l. n. 16/2012 (convertito con modificazioni dalla l. n. 44/2012), abbia “delineato una procedura concorsuale specifica per il reclutamento dei dirigenti nelle Agenzie fiscali (lasciando comunque) fermi i limiti assunzionali a legislazione vigente”. La specialità derogatoria della previsione da ultimo citata consiste nella sola possibilità di indire procedure di gara in considerazione dell’urgente e inderogabile esigenza di assicurare la funzionalità operativa delle tre Agenzie fiscali, al fine di un’efficace attuazione delle misure di contrasto all’evasione, e non consente, quindi, di superare alcuna regola posta dall’ordinamento in ordine al reclutamento dei lavoratori subordinati pubblici. Detta specialità “si limita all’espletamento dei concorsi de quibus, ma non tocca gli altri istituti che regolano i modi di provvista di tali lavoratori”. Più nel dettaglio, la stessa norma prevede l’indizione dei concorsi secondo le modalità di cui agli artt. 1, comma 530, della legge finanziaria 2007 (n. 296/2006), e 2, comma 2, secondo periodo, del d.l. n. 203/2005 (convertito con modificazioni dalla l. n. 248/2005), e proprio tale ultima disposizione, rinviando ulteriormente al decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, prevede che vengano stabilite “le modalità, anche speciali, per il reclutamento, ivi inclusa la possibilità di utilizzare graduatorie formate a seguito di procedure selettive già espletate (…), ovvero di ricorrere alla mobilità”. Osserva tuttavia il collegio come nella fattispecie venga in rilievo un’ipotesi di mobilità volontaria, e non d’ufficio ex art. 34 bis, del decreto 165/2001; nel primo caso, le amministrazioni sono tenute “a rendere nota la disponibilità dei soli posti in organico che scelgono di coprire con il passaggio diretto del personale da altre amministrazioni”, nel secondo, invece, si “deve dar contezza e render disponibili tutti i posti che (si) intende coprire tramite il concorso”. Non è pertanto possibile “affermare che i posti da assegnare alla mobilità volontaria coincidano con quelli disponibili da mettere a concorso”. Orbene, pur muovendo l’istituto, di cui al citato art. 30, dall’equiordinazione del personale, appare evidente la non automatica estensibilità di tale principio ad ogni contesto organizzativo. Nella circostanza contingente l’amministrazione “ricerca in via prioritaria personale particolarmente versato nelle specialistiche funzioni inerenti al prelievo tributario (…). Pertanto i posti da coprire con la mobilità vanno individuati, di volta in volta ed in base alla valutazione discrezionale circa il loro effettivo fabbisogno, soltanto in relazione a quei posti di funzione disponibili, che l’Agenzia vuol ricoprire con il passaggio diretto di personale da altre amministrazioni ed a fronte di professionalità adeguate per tutti i suoi compiti d’istituto. È allora compito dell’Agenzia dare adeguata pubblicità sì delle disponibilità dei posti in organico da ricoprire con la mobilità volontaria, ma pur sempre tenendo conto delle proprie esigenze organizzative”. “Se si considera il complesso di compiti, specie se affidati al personale dirigente (…), non si possono individuare ragioni di indifferenziata applicazione, in qualsiasi luogo di lavoro, di dipendenti amministrativi di pari qualifica a quelli reclutandi con il concorso esterno, ma privi in sé della professionalità adeguata ed immediatamente disponibile (stante la ragione dell’urgenza per il loro reclutamento). Tale esigenza s’avverte meno (…) nei confronti di chi dovrà invece svolgere le attività logistiche e d’amministrazione delle risorse e del patrimonio”. “Spetta all’Agenzia di valutare se ed in qual misura sia necessario o solo opportuno o, addirittura, sconsigliato reclutare personale mediante il passaggio diretto di personale da altre amministrazioni, all’uopo fissando previamente i criterî di scelta in relazione ai profili professionali carenti ed alle specifiche esigenze di funzionalità di tutti e ciascun suo ufficio”. Conclusivamente ritiene il collegio di non poter predicare l’illegittimità tout court del bando impugnato, il quale appare, nella sua struttura, legittimo; lo stesso sottende, tuttavia, un accertamento non corretto a priori (quello relativo al numero dei posti messi a concorso), sul quale si condensa la portata lesiva del provvedimento nella prospettiva dell’appellante; viene, pertanto, eliminato “dal mondo giuridico l’accertamento operato al buio, che, solo, ha portata lesiva”. Si dispone, dunque, che vengano, se del caso, scorporati dal bando i posti da coprire con la mobilità, solamente in seguito alla fissazione discrezionale, da parte dell’Agenzia, dei prevî criterî inerenti alla procedura di trasferimento, e alla pubblicazione della relativa disponibilità. “Se il numero dei posti predetti è condizionato da un’attività sì ulteriore della stessa Agenzia, ma diversa dalla procedura concorsuale, allora quest’ultima di per sé sola non è preclusa, né sospesa, tranne diversa volizione della p.a., dallo svolgimento delle operazioni inerenti alla mobilità volontaria”. FM
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Inserito in data 02/02/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, 28 gennaio 2016, n. 292 Scuole paritarie “senza fini di lucro” Con la pronuncia de qua, il Consiglio di Stato ha ritenuto fondata l’impugnazione proposta dall’Associazione nazionale degli istituti non statali di educazione e di istruzione (ANINSEI) avverso la sentenza resa, in primo grado, dai giudici capitolini. Il Collegio si è, in particolare, espresso in ordine all’illegittimità dell’art. 4 del D.M. n. 46 del 2013, nella parte in cui identifica le scuole paritarie che svolgono il servizio scolastico “senza fini di lucro”, quali destinatarie di contributi pubblici in via prioritaria rispetto alle altre scuole paritarie, ai sensi dell’art. 1, comma 636, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 ("legge finanziaria 2007"), con le scuole paritarie “gestite da soggetti giuridici senza fini di lucro”. I giudici di palazzo Spada, aderendo alla prospettazione svolta dall’appellate, hanno ritenuto di dover seguire il criterio soggettivo–formale della natura giuridica dell’ente gestore, anziché fare applicazione del criterio oggettivo, in base al quale “il fine di lucro della scuola paritaria va posto in correlazione diretta con le caratteristiche, economico – commerciali, o meno, dell’attività esercitata, e non con la natura dell’ente”. Ad avviso del Collegio, diversamente da quanto stabilito nel citato art. 4 del D.M., ai fini dell’erogazione di contributi pubblici in via prioritaria, per scuole paritarie senza scopi di lucro non devono intendersi quelle gestite da soggetti giuridici senza fini di lucro, ma devono ritenersi tali “le scuole paritarie che svolgono il servizio scolastico senza corrispettivo, vale a dire a titolo gratuito, o dietro versamento di un corrispettivo solo simbolico per il servizio scolastico prestato, o comunque di un corrispettivo tale da coprire solamente una frazione del costo effettivo del servizio, dovendo, in questo contesto, il pagamento di rette di importo non minimo essere considerato fatto rivelatore dell’esercizio di un’attività con modalità commerciali”. In un primo momento – osserva la VI sezione – il giudice di prime cure si era correttamente espresso nel senso dell’illegittimo utilizzo di un “criterio soggettivo” diretto a individuare le “scuole paritarie senza fini di lucro”, con un conseguente restringimento del novero delle scuole paritarie non aventi scopo di lucro rispetto a quanto indicato all’art. 4 del decreto. Tuttavia – prosegue il Collegio – pur avendo fortemente criticato il criterio soggettivo/formale della natura giuridica dell’ente gestore fatto proprio dal D.M. n. 46/2013, il TAR Lazio ha finito con l’elaborare un’interpretazione del significato dell’espressione “fine di lucro” di cui al citato comma 636 adottando un criterio imperniato sulla natura giuridica dell'ente gestore e non dell’attività concretamente svolta. Diversamente da quanto sostenuto nell’impugnata sentenza, la nozione di “scuola paritaria senza fini di lucro” – in vista della distribuzione dei contributi pubblici in via prioritaria – deve quindi essere formulata sulla base di parametri oggettivi, attinenti perciò alle modalità di svolgimento dell’impresa, e non assumendo quale riferimento la natura giuridica o lo status conferito all’ente gestore. Oltretutto – ribadisce la VI sezione - il contesto giuridico al quale occorre fare riferimento per riempire di contenuti il concetto di scuole paritarie che svolgono il servizio scolastico senza fini di lucro, considerando sempre il risultato della concessione di contributi pubblici in via prioritaria, è anzitutto quello della giurisprudenza euro unitaria in materia di aiuti di Stato, posto che ciò che l’art. 1, comma 636, della l. n. 296 del 2006 demanda al d. m. è la fissazione di criteri e di parametri per l'assegnazione di contributi, ossia di aiuti pubblici, alle scuole paritarie e, in via prioritaria, a quelle che svolgono il servizio scolastico senza fini di lucro. Ebbene, nel settore degli aiuti pubblici, la giurisprudenza europea impone l’impiego di un criterio rigorosamente oggettivo per qualificare l’impresa commerciale, vale a dire l’impresa gestita con scopo di lucro. In definitiva, se una scuola gestisce il servizio dietro pagamento, da parte degli alunni, di rette e di contributi d’importo non minimo, non può qualificarsi come scuola senza fini di lucro, e come tale dev’essere considerata in vista dell’erogazione dei contributi pubblici in via prioritaria, e ciò indipendentemente dalla natura giuridica dell’ente gestore. MB
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Inserito in data 02/02/2016 CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 27 gennaio 2016, n. 1516 La domanda nuova in appello, pur inammissibile, interrompe la prescrizione
Con la pronuncia in epigrafe, le Sezioni Unite Civili sono intervenute per risolvere la questione relativa all’efficacia interruttiva della prescrizione della domanda nuova proposta in fase di appello nel corso di un procedimento civile.
Componendo un vivace contrasto giurisprudenziale, le SS.UU. della Suprema Corte hanno affermato che la proposizione di una domanda nuova in appello, pur se inammissibile, ha effetti interruttivi della prescrizione. Il primo comma dell’art. 2943 cod. civ. – viene ribadito nella sentenza de qua - stabilisce che la prescrizione è interrotta dalla notificazione dell’atto con il quale si inizia un giudizio, nonché dalla domanda proposta nel corso di esso. Ebbene, la proposizione di una nuova domanda, ai sensi del primo comma dell’art. 170 c.p.c. - al di fuori delle ipotesi di contumacia del convenuto (fattispecie non pertinente al caso de quo) - non può che essere notificata al difensore costituito, sebbene questi sia solo un rappresentante in senso tecnico della parte sostanziale. In quest’ipotesi – affermano le SS.UU. – la prescrizione non decorre fino al momento in cui non sia passata in giudicato la sentenza che abbia definito il giudizio (art. 2945, comma 2, c.c.). “L’unica eccezione a tale ulteriore effetto, di natura sospensiva, è costituita dall’estinzione del processo, che in ogni caso fa salvo l’effetto interruttivo istantaneo legato alla notificazione dell’atto di citazione”. Svolte queste premesse, le SS.UU. rilevano come la Corte d’Appello leccese abbia ritenuto di escludere entrambi gli effetti, in considerazione del fatto che la domanda proposta in sede di gravame fosse nuova, e come tale inammissibile. In realtà, così facendo, il giudice di secondo grado “avrebbe confuso – si legge in sentenza - l’aspetto processuale dell’inammissibilità con quello sostanziale dell’interruzione della prescrizione”. Ed infatti – precisano le SS.UU. – anche la domanda inammissibile necessita di una pronunzia giudiziale, suscettibile di passaggio in giudicato formale. “Ove l’inammissibilità non fosse rilevata dal giudice, si creerebbe una vistosa contraddizione tra l’inidoneità astratta all’interruzione e l’eventuale efficacia di un giudicato sostanziale, che evidentemente si sovrapporrebbe all’inidoneità genetica, sanandola ex post, ai fini interruttivi del decorso della prescrizione”. La Corte di legittimità ritiene ancor più contraddittoria ed illogica “la negazione di alcun valore alla domanda nuova – sia pure preclusa, in linea di principio, in grado di appello (..) ove la si ponga a confronto con l’efficacia interruttiva dell’atto di citazione in un processo conclusosi con l’estinzione”. MB
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Inserito in data 01/02/2016 CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 29 gennaio 2016, n. 1 Soppressione del reparto, indicazione di gradimento e diritto all’indennità di trasferimento La questione sottoposta all’Adunanza Plenaria consiste nello stabilire “se debba riconoscersi l'indennità di cui all'art. 1 comma 1 della legge 29 marzo 2001, n. 86 al personale ivi contemplato, e nel caso di specie a militari e sottufficiali della Guardia di Finanza, che, in relazione alla soppressione (o dislocamento) del reparto o articolazione organizzativa in cui prestavano servizio, abbiano espresso, comunque, una indicazione preferenziale di gradimento relativa a una sede distante oltre dieci chilometri da quella a quo, cui sia stato dato seguito dall'Amministrazione. Il tutto per le ipotesi non ricadenti sotto la vigenza dell’art. 1 comma 163 L. 24.12.2012 n. 228” (in quanto quest’ultima riforma ha escluso l’indennità rispetto ai militari trasferiti a seguito della soppressione o dislocazione dei reparti o relative articolazioni). Secondo l’orientamento accolto nell’ordinanza di rimessione, già prima della riforma del 2012, non integrava il trasferimento d’autorità la mobilità del personale militare dovuta alla soppressione del reparto e conforme a domanda di trasferimento o a clausole di gradimento accessive al provvedimento di trasferimento. L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato non condivide tale ricostruzione. A tal fine, preliminarmente, il Collegio chiarisce che “gli elementi costitutivi del diritto di credito alla corresponsione della indennità di trasferimento sono: I) un provvedimento di trasferimento d’ufficio; II) una distanza fra la vecchia e la nuova sede di oltre 10 chilometri; III) l’ubicazione della nuova sede in un comune diverso”. Rispetto al primo elemento costitutivo dell’indennità di trasferimento, l’Adunanza Plenaria precisa che “è qualificabile come d’ufficio il trasferimento diretto a soddisfare in via primaria l’interesse pubblico, … senza che rilevino le eventuali dichiarazioni di assenso o di disponibilità dell’interessato”; infatti, la clausola di acquiescenza “incide solo sugli effetti ubicazionali ovvero lato sensu geografici dell’ordine di trasferimento; essa comporta acquiescenza in senso proprio a tali effetti perché implica rinuncia al proprio diritto di agire in giudizio…. L’acquiescenza rende dunque irretrattabile l’individuazione della sede prescelta rendendo inammissibili, per carenza di interesse ad agire, le eventuali iniziative contenziose intraprese dal militare che subisce il trasferimento, ma non incide sul diritto di credito (a percepire l’indennità) che scaturisce direttamente dalla legge al ricorrere di determinati presupposti”. In favore della propria ricostruzione, l’Adunanza Plenaria adduce anche la circostanza che la riforma del 2012 non ha natura di norma interpretazione autentica. Secondo il Supremo Consesso amministrativo, “Una volta assodata la portata non retroattiva della nuova disciplina, è consequenziale ritenere, analizzando in chiave storica l’evoluzione della legge sul punto controverso, che assume rilievo il criterio esegetico fondato sul c.d. argumentum a contrario: la nuova norma presuppone logicamente che la pregressa disciplina abbia attribuito, in caso di soppressione del reparto di appartenenza e nel concorso di tutti gli altri presupposti di legge, l’indennità di trasferimento anche al militare che avesse espresso il gradimento circa la nuova sede di servizio in quanto privo di alternativa alla movimentazione (non esistendo più la pregressa sede di servizio) ed astretto al dovere di obbedienza”.
Alla stregua delle suesposte argomentazioni, l’Adunanza plenaria formula il seguente principio di diritto: “Prima dell’entrata in vigore (al 1° gennaio 2013) dell’art. 1, co. 163, l. 24 dicembre 2012, n. 228 - che ha introdotto il comma 1-bis nell’art. 1, l. 29 marzo 2001, n. 86 - spetta al personale militare l’indennità di trasferimento prevista dal comma 1 del medesimo articolo, a seguito del mutamento della sede di servizio dovuto a soppressione (o diversa dislocazione) del reparto di appartenenza (o relative articolazioni), anche in presenza di clausole di gradimento (o istanze di scelta) della nuova sede, purché ricorrano gli ulteriori presupposti individuati dalla norma, ovvero una distanza fra la nuova e l’originaria sede di servizio superiore ai 10 chilometri e l’ubicazione in comuni differenti”. TM
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Inserito in data 01/02/2016 CORTE DI CASSAZIONE - SECONDA SEZIONE PENALE, SENTENZA 27 gennaio 2016, n. 3691 Ampia portata al nuovo reato di autoriciclaggio La pronuncia in esame costituisce il primo rilevante intervento, in sede di giurisdizione di legittimità, concernente l’art. 648 ter 1, c.p.. A margine della questione concreta, chiarisce preliminarmente il collegio che “in materia di misure cautelari il sindacato di legittimità che compete alla Corte di cassazione è limitato alla verifica dell’esistenza di un logico apparato argomentativo sui varî punti della decisione impugnata, senza la possibilità di verificare la corrispondenza delle argomentazioni alle acquisizioni processuali, essendo interdetta in sede di legittimità una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione”; “in particolare in materia di misure cautelari reali, il giudizio di legittimità risulta ancora più circoscritto, in quanto cade in un momento processuale, quale quello delle indagini preliminari, caratterizzato dalla sommarietà e provvisorietà delle imputazioni; ciò comporta che in sede di legittimità non è consentito verificare la sussistenza del fatto reato, ma soltanto accertare se il fatto contestato possa astrattamente configurare il reato ipotizzato”. Scendendo in medias res, e per quanto ai nostri fini rileva, la suprema Corte riconosce la possibilità di configurare il delitto in narrativa anche ove il reato presupposto sia stato commesso anteriormente all’entrata in vigore dell’art. 648 ter 1, c.p.. Viene pertanto confermata l’ordinanza di parziale sequestro dei beni di un soggetto, già indagato per riciclaggio, il quale all’esito di un’ispezione successiva all’ingresso in Italia, provenendo dal territorio svizzero, era stato trovato in possesso di una notevole somma di denaro, non congruamente motivata dai redditi dichiarati al fisco. Invocato dalla difesa il fondamentale principio d’irretroattività della legge penale, essendo stato commesso l’assunto reato presupposto – di cui all’art. 4 del d.lgs. n. 74/2000 (dichiarazione infedele) – in data antecedente l’introduzione del reato di autoriciclaggio, la Corte nondimeno conclude dichiarando la manifesta infondatezza del motivo di ricorso. In particolare, rilevano i giudici di Piazza Cavour: “Impropriamente viene invocato il principio di irretroattività della legge penale di cui all’articolo 2 del Codice penale in relazione ad un reato, quale quello di autoriciclaggio, nel quale soltanto il reato presupposto si assume commesso in una epoca antecedente la data di entrata in vigore della legge 15-12-2014 n. 186, ma quando comunque lo stesso reato (presupposto) era già previsto come tale dalla legge”. FM
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Inserito in data 30/01/2016 TAR PUGLIA - BARI, SEZ. III, 14 gennaio 2016, n. 30 Indizione procedura mobilità esterna e diritto ad assunzione mediante scorrimento graduatoria Il Collegio pugliese interviene, con la pronuncia in epigrafe, riguardo all’attualissima questione circa le modalità di arruolamento del personale e, in particolare, in merito alla possibilità di adottare il metodo dello scorrimento di una graduatoria residua. In particolare, accogliendo le doglianze di parte ricorrente, i Giudici intimano all’Amministrazione opposta di procedere alla relativa assunzione – trattandosi di soggetto appartenente ad una graduatoria ancora in corso di validità, ma non adoperata dall’Ente. Quest’ultimo, infatti, aveva pubblicato un avviso di mobilità esterna – ai sensi dell’art. dall’art. 30 D. Lgs. n. 165/2001 – proprio riguardo alla necessità di assumere nell'ambito dello stesso profilo concorsuale per il quale vige ancora la suddetta graduatoria. Il Collegio, ricordando l’excursus normativo e giurisprudenziale in merito, sottolinea come la procedura di mobilità sia opportuna nell’ipotesi di indizione di nuove procedure concorsuali; ove, invece, i profili professionali siano reperibili mediante lo scorrimento di graduatorie esistenti in seno all’Ente, non sussiste motivazione alcuna perché si decida di ricorrere a personale esterno – come accaduto nella fattispecie odierna. Di conseguenza, i Giudici annullano l’avvio di procedura di mobilità esterna – indetta ex art. 30 D. Lgs. 165/01 – e dispongono l’assunzione – in favore della ricorrente – in forza di scorrimento di graduatoria cui la medesima appartiene. Infine il Collegio chiude la pronuncia rigettando la richiesta risarcitoria – avanzata dalla ricorrente – riguardo al ritardo con cui l’Amministrazione resistente provvede all’immissione in ruolo. Si ricorda, infatti, che il "diritto all'assunzione" si colloca al di fuori dell'ambito della procedura concorsuale e che, pertanto, la questione del risarcimento del danno da ritardo nella assunzione, in quanto derivante dal riconoscimento della lesione del relativo diritto soggettivo è configurabile solo dopo che l’amministrazione abbia deciso di procedere all’assunzione e deve essere prospettata innanzi al giudice ordinario (Cfr., ex multis, Cons. St., sez. III, 21 maggio 2013 n. 2754). In forza di ciò, il ricorso viene accolto limitatamente alla parte riferita all’annullamento dell’avviso di mobilità esterna. Invece, per la parte riferita all’accertamento e declaratoria del diritto all’assunzione e al risarcimento dei danni, i Giudici baresi dichiarano il ricorso inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo adito, demandandola a al giudice ordinario, innanzi al quale le parti potranno più correttamente riassumere il giudizio. CC
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Inserito in data 30/01/2016 CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA - QUINTA SEZIONE, SENTENZA 28 gennaio 2016, C - 50/14 Associazioni volontariato, ambulanze: conforme al diritto UE affidamento diretto Il Giudice europeo sancisce la compatibilità tra gli articoli 49 e 56 del Trattato sul funzionamento dell'Unione e la normativa italiana che, in ambito di servizi di trasporto sanitario pubblico, prevede l’affidamento diretto, senza previo esperimento di gara, in cambio di un rimborso spese. La Corte del Lussemburgo, infatti, intervenendo a fronte di un gravame promosso da un consorzio artigiano di taxi ed auto – noleggio avverso il provvedimento con cui un’Azienda Sanitaria piemontese aveva agito senza previa gara – ricorda che «non ostano a una normativa nazionale che consente alle autorità locali di attribuire la fornitura di servizi di trasporto sanitario mediante affidamento diretto, in assenza di qualsiasi forma di pubblicità, ad associazioni di volontariato, purché il contesto normativo e convenzionale in cui si svolge l'attività delle associazioni contribuisca effettivamente a una finalità sociale e al perseguimento degli obiettivi di solidarietà ed efficienza di bilancio».
E in questi casi, prosegue la sentenza, l'autorità che proceda all'affidamento non è neppure tenuta, in base alle norme dell'Unione, a comparare preliminarmente più offerte di varie associazioni. Pertanto, rispettando di tali indicazioni, i Giudici ricordano come la nostra normativa non infranga il dettato comunitario ove preveda la facoltà per le associazioni in questione di svolgere attività lucrative – purchè rappresentino una minima parte della attività complessiva e servano comunque a sostenere gli scopi benefici che le connotano sin dall’atto costitutivo. CC
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Inserito in data 29/01/2016 TAR CALABRIA - REGGIO CALABRIA, SEZ. I, 26 gennaio 2016, n. 70 Parità di genere negli organi rappresentativi provinciali
Nella sentenza de qua, il Tar Reggio Calabria si è pronunciato in materia di principio di pari opportunità tra uomo e donna e, in particolare, sulla necessità che tale principio venga rispettato anche in sede di nomina di assessori provinciali.
Infatti, nel caso de quo, la ricorrente impugna i provvedimenti di nomina assessorile in quanto recanti tutti destinatari di sesso maschile e, conseguentemente, denuncia la violazione dei precetti costituzionali di cui agli artt. 3 e 51 Cost., nonché delle norme di legge che ad essi danno attuazione e che garantiscono la parità di genere negli organi rappresentativi.
Ad avviso della ricorrente, i decreti di nomina non recherebbero adeguate giustificazioni in ordine alle ragioni che hanno precluso la possibilità di conferire l’incarico di amministratore della provincia ad una assessore appartenente al genere femminile, nonché la stessa nomina simbolica di una assessore donna, avvenuta con successivo decreto impugnato con motivi aggiunti, eluderebbe il principio di pari opportunità. Il Tar adito, dopo aver delineato il quadro normativo instaurato dalle leggi n. 215/2012 e n. 56/2014 attuative dei precetti costituzionali sopra richiamati, ha sottolineato come siano oramai superati gli orientamenti che, sulla base del previgente sistema normativo, ritenevano “insindacabile”, “in assenza di norme statutarie che stabiliscano una quota di riserva, il provvedimento di nomina di una Giunta provinciale che preveda solo un assessore di sesso femminile”. Infatti, l’esigenza della presenza di entrambi i generi integra una “fondamentale coordinata ordinamentale di diretta attuazione degli indicati precetti costituzionali” e i principi espressi dalle summenzionate leggi devono trovare applicazione anche nelle ipotesi, come quella in questione, in cui le operazioni elettorali si siano svolte in epoca anteriore alla loro entrata in vigore. In questo modo, afferma il Tar, “non si dà applicazione retroattiva ad una norma di legge, bensì si individua la regola iuris di composizione e di funzionamento dell’organo collegiale, in ragione dell’immediata applicabilità di disposizioni aventi primario referente costituzionale e volte a garantire la presenza di genere negli organismi rappresentativi degli Enti locali”. Peraltro, afferma il Tar che “sebbene l’attuazione del precetto tendente a garantire la pari opportunità dei generi non è, allo stato, vincolata dalla previsione di precise indicazioni numeriche, tuttavia non si può pervenire ad una sostanziale elusione del precetto per mezzo di provvedimenti che, pur formalmente garantistici in ordine al rispetto della parità di genere, di fatto si sostanzino nella elusione della portata conformativa indotta dalle citate norme: come, appunto, nel caso di specie, in cui il Presidente della Giunta Provinciale ha provveduto a nominare un solo assessore appartenente al genere femminile”. Alla fondatezza delle censure relative alla illegittimità dei decreti di nomina gravati per violazione del principio di parità di genere, non consegue, tuttavia, conclude il Tar, la fondatezza della ulteriore domanda proposta dalla ricorrente tendente all’accertamento del proprio diritto ad essere nominata assessore provinciale in quanto l’atto di nomina di un assessore è un atto connotato da alta discrezionalità che in quanto tale può essere sottoposto solo a un vaglio di ragionevolezza, coerenza ed adeguatezza motivazionale. SS |
Inserito in data 28/01/2016 TAR TOSCANA - FIRENZE, SEZ. I, 18 gennaio 2016, n. 92 È ammissibile l’avvalimento per la certificazione etica SA8000?
I giudici del Tar Toscana si sono pronunciati sulla idoneità o meno di un contratto di avvalimento a realizzare la messa a disposizione del requisito della certificazione etica SA (Social Accountability) 8000 richiesto dalla legge di gara ai fini della partecipazione.
In particolare, la ricorrente si duole del fatto che la commissione di gara abbia ritenuto ammissibile la partecipazione alla procedura della controinteressata, in virtù dell’anzidetto contratto di avvalimento che, a suo avviso, ha ad oggetto un requisito che non potrebbe essere messo a disposizione da un’impresa a un’altra.
Il Tar adito ricostruisce la ratio della certificazione in questione e sottolinea come essa attesti il rispetto di standard attinenti alla responsabilità sociale di impresa e, in particolare, al rispetto dei diritti umani e dei diritti dei lavoratori, alla tutela contro lo sfruttamento dei minori, alla sicurezza e salubrità dei posti di lavoro. A ben vedere, dunque, essa concerne una serie di fattori il cui giudizio di conformità ingloba l’intera organizzazione aziendale e finisce per atteggiarsi ad “attributo soggettivo dell’impresa, nel senso che il grado etico di un’azienda, pur non identificandosi con la morale individuale dei soggetti che dell’impresa fanno parte o che vi collaborano, esprime l’attitudine di quella individuata organizzazione a offrire il rispetto di uno standard di responsabilità sociale”, che rappresenta l’essenza stessa dell’impresa moderna negli Stati democratici e, come tale, “è materialmente irriproducibile fuori dal contesto aziendale al cui interno è generato”. Vero è, afferma il Collegio, che la giurisprudenza del Consiglio di Stato (C.d.S. 4860/2015) sembra essersi da ultimo attestata sull’affermazione secondo cui “nulla osta, in astratto, a che l'avvalimento possa riguardare anche i requisiti soggettivi di qualità, purché in questo caso l'impresa ausiliaria assuma l'impegno di mettere a disposizione dell'impresa ausiliata non la certificazione di cui dispone, ma le proprie risorse e il proprio apparato organizzativo”; ma è pur vero che la generale ammissibilità di un avvalimento del requisito qualitativo è stata esclusa in concreto sul rilievo che, non potendo l’avvalimento della certificazione di qualità andare disgiunto dal “prestito” dell’intero sistema aziendale dell’ausiliaria cui la certificazione stessa pertiene, “si avrebbe nei fatti un utilizzo distorto dell’istituto e una sorta di subappalto dissimulato” (C.d.S. 887/2014). Tale ragionamento, ritiene la Corte, vale a fortiori se riferito alla certificazione etica, la quale non misura la qualità del processo produttivo, ma l’impegno sociale dell’impresa, ovvero il suo modo di essere e di comportarsi (innanzitutto nei confronti dei lavoratori), requisito di per sé intrasmissibile. Peraltro, anche a voler ritenere che l’avvalimento non possa in nessun caso soffrire di esclusioni generalizzate sulla base della oggettiva difficoltà di circoscriverne in concreto l’oggetto, è la stessa giurisprudenza che si è richiamata ad esigere che “l’impegno assunto dall’impresa ausiliaria a norma degli artt. 49 D.Lgs. n. 163/2006 e 88 D.P.R. n. 207/2010, per potersi dire effettivo, specifichi con esattezza le risorse e i mezzi prestati all’impresa ausiliata”, requisito che, nel caso de quo, non è soddisfatto, conclude il Tar, dal contratto di avvalimento stipulato dalla controinteressata. SS |
Inserito in data 27/01/2016 TAR LIGURIA - GENOVA, SEZ. II, 8 gennaio 2016, n. 4 Danno da ritardo P.A. e diritto al risarcimento La pronuncia in esame è significativa, giacchè con essa il Collegio ligure ha delimitato la portata della pretesa risarcitoria del privato a fronte del ritardo di una Pubblica Amministrazione. In particolare, nel caso di specie, il gravame riguarda l’emanazione tardiva di un decreto interministeriale con cui il Ministero degli Interni avrebbe dovuto riconoscere, previo recepimento di una accordo sindacale, degli emolumenti in favore di una pluralità di soggetti trovantisi nelle odierne condizioni di ricorrenti. Questi, nella specie, quantificano l’ammontare del risarcimento nella misura dell’indennità che sarebbe loro spettata se la stessa fosse stata corrisposta dalla data di decorrenza del biennio disciplinato dall’accordo sindacale – recepito, invece, solo molti anni dopo. I Giudici genovesi ritengono di non poter condividere tale assunto, evidenziando come – invero – non fosse previsto alcun termine finale entro cui recepire le nuove direttive in seno all’Amministrazione. Essi ricordano, infatti, che in assenza di una specifica previsione normativa che individui un termine finale di adozione del decreto occorre utilizzare le normali categorie del danno da ritardo. Di conseguenza, richiamando l’attenzione sulla posizione dei ricorrenti, il Collegio estende l’applicabilità – al caso di specie – dell’art. 30 C.p.A. e sottolinea, pertanto, come la pretesa risarcitoria possa essere fatta valere solo dal momento in cui l’Amministrazione sia stata messa in mora, specie nelle ipotesi – come quella odierna – in cui difetti l’espressa statuizione di un termine finale. I Giudici liguri, in sostanza, intendono evitare che l’asserito danneggiato rimanga inerte per poi giovarsi dell’inerzia della P.A. a fini risarcitori (Cfr. TAR Sicilia Palermo III 5 giugno 2015 n. 1316). Tutto ciò, come è chiaro, in linea con i principi solidaristici che governano il nostro Ordinamento e che, specie negli ultimi anni, hanno preso maggior spazio anche nei rapporti tra privati ed Amministrazione pubblica. In ragione di tali valutazioni e trasponendo tali principi al caso di specie, il Collegio delimita il danno, ritenendolo risarcibile soltanto dal momento della notifica all’Amministrazione della messa in mora da parte degli odierni ricorrenti. CC
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Inserito in data 27/01/2016 TAR LAZIO - LATINA, SEZ. I, ORDINANZA di RIMESSIONE alle SEZIONI UNITE della CORTE DI CASSAZIONE - 8 gennaio 2016, n. 2 Diniego richiesta rinnovo di permesso di soggiorno: giurisdizione Il Collegio latinense rimette la pronuncia in esame alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, perché si pronuncino in punto di giurisdizione - ex art. 11 – 3’ co. C.p.A. La questione verte sul diniego – da parte dell’Amministrazione intimata – a fronte della richiesta di rinnovo di permesso di soggiorno avanzata dal ricorrente - cittadino extracomunitario. Nella specie, i Giudici laziali ritengono che la posizione giuridica soggettiva azionata dall’istante sia di diritto soggettivo, posto che l’Autorità procedente esercita in materia di rilascio/ rinnovo di permesso di soggiorno per motivi umanitari potestà di natura essenzialmente vincolata. Si richiama, in merito, la recente giurisprudenza amministrativa che così recita: “La giurisdizione sul diniego di rilascio e di rinnovo del permesso di soggiorno per motivi umanitari all'extracomunitario spetta al giudice ordinario, in quanto la posizione giuridica azionata dall'interessato ha consistenza di diritto soggettivo, ma a condizione che la consistenza dell'interesse fatto valere risulti da un esplicito provvedimento di diniego, atteso che l'esito dell'istanza di rilascio o rinnovo del permesso di soggiorno per motivi umanitari può essere il più diverso, ivi compresa la conversione dell'istanza e il rilascio di permesso di soggiorno per lavoro subordinato o altra causa rientrante nella giurisdizione del giudice amministrativo”. (Cfr. TA.R. Ancona (Marche) sez. I 08 maggio 2015 n. 356; C di Stato sent. n. 1881/13). Di conseguenza, attesa la necessità di comprendere la reale indole dell’azione amministrativa nel caso di specie, i Giudici richiedono che sulla spettanza della giurisdizione si pronuncino le Sezioni unite della Cassazione ex articolo 11, comma 3, c.p.a.. CC
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Inserito in data 26/01/2016 TAR CALABRIA - CATANZARO, SEZ. I, ORDINANZA DI RIMESSIONE alla CORTE DI CASSAZIONE, 22 gennaio 2016, n. 123 Diniego di ammissione alla procedura di emersione del lavoro nero: giurisdizione
Il collegio catanzarese solleva conflitto di giurisdizione ai sensi dell’art. 11, comma 3, c.p.a., nella controversia concernente la mancata ammissione di un imprenditore, da parte della competente Commissione di coordinamento della vigilanza presso la Direzione provinciale del lavoro, alla procedura di regolarizzazione e riallineamento retributivo e contributivo di rapporti di lavoro non risultanti da scritture o da altra documentazione obbligatoria, di cui all’art. 1, commi 1192 e seguenti, della legge finanziaria 2007 (l. n. 296/2006).
L’articolata vicenda a monte della questione prende le mosse dal ricorso gerarchico – presentato al Comitato regionale per i rapporti di lavoro presso la Direzione regionale del lavoro – rigettato per incompetenza, ai sensi dell’art. 17, comma 2, del d.lgs. n. 124/2004. Depositato il ricorso giurisdizionale dinnanzi al Tribunale civile, il giudice del lavoro declinava la propria giurisdizione in favore del Tribunale amministrativo regionale territorialmente competente, trattandosi di causa avente ad oggetto “sostanzialmente l’impugnazione di provvedimenti amministrativi finalizzata al relativo annullamento”, ed essendo la domanda diretta a ottenere la condanna del Comitato regionale a “riesaminare il proposto ricorso gerarchico”. In sede di riassunzione, con l’ordinanza in esame, i giudici amministrativi osservano che “a prescindere dalla prospettazione della domanda, formulata secondo il modello impugnatorio (…), le parti controvertono circa il diritto ad accedere alle disposizioni agevolative di cui alla l. n. 296 del 2006, con riferimento al rapporto di lavoro subordinato intercorso tra la parte ricorrente e cinque lavoratori”; e “invero, le disposizioni normative sopra citate integrano il sistema complessivo delle leggi in materia di assicurazioni sociali, assistenza e previdenza obbligatoria, quali norme speciali che accedono alla normativa generale e non conferiscono all’autorità amministrativa preposta alcun margine valutativo”. Conclusivamente, il Tribunale amministrativo ritiene “che il giudizio involva (…) questioni di diritto soggettivo e che, non rientrando la materia nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ex art., 133 c.p.a., debba sollevarsi conflitto di giurisdizione”, e per l’effetto ordina la trasmissione degli atti alla Corte di cassazione. FM |
Inserito in data 26/01/2016 TAR VENETO - VENEZIA, SEZ. I, 19 gennaio 2016, n. 29 Comunicazione della seduta di gara a un numero di fax diverso da quello indicato Con la pronuncia in oggetto i giudici veneziani accolgono il ricorso presentato da un operatore economico, nella qualità di aggiudicatario provvisorio, avverso l’annullamento in autotutela di una procedura di gara, disposto dall’amministrazione per avere comunicato, ad altra impresa partecipante, la data della seconda seduta pubblica ad un numero di fax differente da quello emarginato nell’offerta. Per effetto dell’errore l’ente resistente aveva lamentato “di non aver potuto partecipare a tale seduta, con conseguente violazione delle regole relative allo svolgimento delle pubbliche gare, in particolare del principio di par condicio”. Il ricorrente denunciava: l’erroneità dei presupposti dell’annullamento, rilevando come il mero invio a un recapito diverso (comunque riconducibile al destinatario) non potesse considerarsi alla stregua di un mancato invito; che il concorrente avrebbe dovuto comportarsi secondo i principî generali di buona fede, diligenza e fattiva collaborazione, “atteso che l’omessa segnalazione interna (…) non poteva essere invocata per negare la conoscenza della convocazione”; l’illegittimità dell’annullamento, essendo stata omessa ogni attività istruttoria in ordine all’utenza telefonica e alle ragioni per le quali era stata utilizzata dalla stazione appaltante; e infine, che la società destinataria dell’informazione aveva censurato unicamente la modalità di convocazione, senza contestare alcun profilo di svolgimento della relativa seduta. Il collegio giudicante, preso atto della titolarità dell’utenza in questione, nonché della sua appartenenza alla sede operativa della società (diversa da quella legale), nonostante la discrasia con quanto indicato nella domanda di partecipazione alla gara, ritiene, in conclusione, il recapito rientrante nella sfera di controllo dell’ente, e pertanto, la società “usando l’ordinaria diligenza, avrebbe potuto comunque apprendere della data in cui si sarebbe tenuta la seduta di gara”. “È noto, infatti, che chi partecipa a procedure ad evidenza pubblica è soggetto ad un onere di ordinaria diligenza e di buona fede in relazione ad atti ed attività che potrebbero incidere sul regolare svolgimento della gara, ciò anche nel rispetto dell’ampio patto d’integrità cui si vincola il soggetto che decide di partecipare a gare pubbliche”. FM
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Inserito in data 25/01/2016 TAR LAZIO - ROMA, SEZ. I QUATER, 19 gennaio 2016, n. 571 Revoca dall’incarico di Giudice di pace ex art. 9, comma 3, l. 174/1991 I giudici della sezione prima quater del T.A.R. Lazio - Roma, con la pronuncia in epigrafe, si sono espressi in ordine alla legittimità del provvedimento, emesso dal Consiglio Superiore della Magistratura, con il quale era stata disposta, ai sensi del 3° comma dell’art. 9 della l. n° 174/1991, la revoca dall’incarico di Giudice di pace del ricorrente, in ragione dei reiterati ed ingiustificati ritardi dal medesimo accumulati nella definizione dei procedimenti trattati. Il ricorrente aveva, nella fattispecie, impugnato la deliberazione del CSM sotto molteplici profili, eccependo, anzitutto, l’assenza di criteri normativi predefiniti ed oggettivi rispetto ai quali valutare la condotta oggetto di contestazione, ritenuta, dall’Organo di autogoverno, contraria ai doveri di diligenza e di laboriosità richiesti nello svolgimento dell’attività giurisdizionale. A norma dell’articolo 9, comma 3, della legge 174 del 1991 – ricordano i giudici nella pronuncia de qua - “nei confronti del giudice di pace possono essere disposti l'ammonimento, la censura, o, nei casi più gravi, la revoca se non è in grado di svolgere diligentemente e proficuamente il proprio incarico ovvero in caso di comportamento negligente o scorretto”. Il T.A.R. capitolino ha ritenuto che nel caso di specie – contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente – la sistematicità dei ritardi nell’emissione dei provvedimenti giurisdizionali, nonché la loro stessa entità fosse ictu oculi sproporzionata rispetto al periodo temporale di servizio del giudice, esaminato dal CSM, costituendo essi “certamente presupposti e circostanze fattuali riconducibili, secondo criteri di ragionevolezza, logicità e razionalità, alla condotta astrattamente prevista dall’art. 9, comma 3 della legge n. 374 del 1991, anche se in assenza di criteri normativi di dettaglio”. Pertanto, il Collegio ha concluso nel senso di ritenere la condotta ascritta al giudice onorario riconducibile alla mancanza di diligenza e di proficuo svolgimento della funzione giurisdizionale, sanzionabile, appunto, con la rimozione del medesimo dall’incarico. MB
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Inserito in data 25/01/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 20 gennaio 2016, n. 197 Presupposti per lo scioglimento dell’organo consiliare per infiltrazioni mafiose
Con la pronuncia in esame, i giudici di palazzo Spada si sono soffermati ad esaminare i presupposti dello scioglimento di un Consiglio comunale in ragione di presunte infiltrazioni della criminalità organizzata.
L’appello de quo scaturiva dall’impugnazione della sentenza resa dal T.A.R. Lazio con la quale, in primo grado, era stato accolto il ricorso proposto da un sindaco avverso il decreto presidenziale con cui era stato disposto lo scioglimento dell’organo consiliare dell’ente. In particolare l’appellante, in sede di gravame, aveva dedotto un unico e ben articolato motivo, ovvero la circostanza che il giudice di prime cure si fosse limitato ad una parziale e non esaustiva disamina dei vari profili sottesi al provvedimento di scioglimento del Consiglio comunale, soffermandosi sull’analisi dei singoli e separati episodi, senza tuttavia valutarli nel loro quadro complessivo, nella loro visione d’insieme. Il Collegio, prima di affrontare la fattispecie in concreto, ha richiamato i principi di diritto applicabili alla materia, funzionali – a suo avviso – ad un preliminare e corretto inquadramento della vicenda. Segnatamente – ha precisato la terza sezione, richiamando consolidata giurisprudenza amministrativa del Consiglio di Stato – “lo scioglimento del Consiglio comunale per infiltrazioni mafiose, ai sensi dell’art. 143 del T.U.E.L. (d. lgs. 267/2000), non ha natura di provvedimento di tipo sanzionatorio, ma preventivo, con la conseguenza che, per l’emanazione del relativo provvedimento di scioglimento, è sufficiente la presenza di elementi che consentano di individuare la sussistenza di un rapporto tra l’organizzazione mafiosa e gli amministratori dell’ente considerato infiltrato. “L’art. 143, comma 1, nel testo novellato dall’art. 2, comma 30, della l. 94/2009” - ha proseguito il Collegio – “richiede che detta situazione sia resa significativa da elementi «concreti, univoci e rilevanti», che assumono valenza tale da determinare un’alterazione del procedimento di formazione della volontà degli organi amministrativi e da compromettere l’imparzialità delle amministrazioni comunali e provinciali, aspetto, quest’ultimo, che riveste carattere essenziale per l’adozione della misura di scioglimento dell’organo rappresentativo della comunità locale (…). Gli elementi sintomatici del condizionamento criminale devono, quindi, caratterizzarsi per concretezza ed essere, anzitutto, assistiti da un obiettivo e documentato accertamento nella loro realtà storica; per univocità, intesa quale loro chiara direzione agli scopi che la misura di rigore è intesa a prevenire; per rilevanza, che si caratterizza per l’idoneità all’effetto di compromettere il regolare svolgimento delle funzioni dell’ente locale”. Pertanto, alla luce dei richiamati principi, è necessario che i fatti sottesi all’adozione di un provvedimento di scioglimento dell’organo consiliare vengano valutati nel loro insieme - non atomisticamente – in modo da risultare idonei a delineare il quadro complessivo del condizionamento mafioso. In poche parole, l’astratta previsione delineata dall’art. 143 del T.U.E.L. deve misurarsi con la realtà del singolo ente comunale, calandosi, concretamente, nel contesto ambientale e temporale di riferimento. Alla luce delle considerazioni esposte, deve pertanto attribuirsi significanza e rilievo anche a quelle “situazioni non traducibili in episodici addebiti personali ma tali da rendere, nel loro insieme, plausibile, nella concreta realtà contingente e in base ai dati dell’esperienza, l’ipotesi di una soggezione o di una pericolosa contiguità degli amministratori locali alla criminalità organizzata (vincoli di parentela o affinità, rapporti di amicizia o di affari, frequentazioni), e ciò anche quando il valore indiziario degli elementi raccolti non sia sufficiente per l’avvio dell’azione penale o per l’adozione di misure individuali di prevenzione”. Nella fattispecie in esame, il giudice di prime cure, pur avendo esaminato in modo analitico e rigoroso i fatti esposti nella relazione prefettizia, si era tuttavia limitato a valutarli nella loro esistenza atomistica, trascurando del tutto l’interpretazione sistematica del loro valore complessivo ed unitario. “I singoli elementi sintomatici del condizionamento o collegamento - ha precisato infatti il Collegio – possono non avere tutti, ciascuno singolarmente considerato, le caratteristiche richieste dal novellato art. 143 del T.U.E.L., nel senso della loro concretezza, univocità e rilevanza, ma sicuramente deve essere il loro complesso a denotare tale concretezza, univocità e rilevanza”, ciò in quanto lo scioglimento dell’organo consiliare rappresenta “la sintesi e non la somma dei singoli elementi”, rispetto ai quali occorre un giudizio, sintetico e conclusivo che tenga debitamente conto della “intima interconnessione e del nesso sistematico” dei singoli episodi. MB |
Inserito in data 23/01/2016 TAR LOMBARDIA - MILANO, SEZ. III, 20 gennaio 2016, n. 119 Compilazione domanda di concorso in base a istruzioni equivoche: obbligo di prestare soccorso istruttorio? Il TAR Milano si è pronunciato, nella sentenza de qua, sull’importante questione relativa alla possibilità o meno per l’amministrazione di esimersi dall’avviare il soccorso istruttorio in caso di errore nella compilazione di una domanda di concorso da parte di un candidato (si trattava di concorso straordinario per l’assegnazione di sedi farmaceutiche per il privato esercizio). Le ricorrenti lamentano, infatti, l’illegittimità del criterio, introdotto dalla commissione giudicatrice, in base al quale si “ritengono tamquam non esset i titoli di studio la cui tipologia non sia stata specificata in sede di compilazione della domanda” in quanto tale criterio sarebbe viziato da eccesso di potere per manifesta irragionevolezza, risolvendosi sostanzialmente nell’esclusione dell’obbligo dell’amministrazione procedente di prestare soccorso istruttorio, ciò che non può essere escluso in radice. Ritenendo la censura condivisibile, spiega il Tribunale adito che la dizione impiegata nelle istruzioni di compilazione (nel caso di specie “titolo”) è equivoca (“titolo”, infatti, può indicare non solo la tipologia del corso, ma anche l’oggetto del corso seguito): le istruzioni avrebbero dovuto esplicitare, infatti, con terminologia univoca, quali informazioni avrebbero dovuto essere indicate in tale campo. Afferma il Tar, dunque, che la Regione resistente, avendo ritenuto insufficiente l’indicazione fornita dalla ricorrente, “avrebbe dovuto provvedere a fornire il soccorso istruttorio non potendo far ricadere sul concorrente le conseguenze della inesatta predisposizione della piattaforma informatica (e delle relative istruzioni)”, piattaforma che costituiva, tra l’altro, l’unico modo di presentazione della domanda. Non sussistono, inoltre, condivisibili ragioni per cui l’amministrazione avrebbe potuto nel caso di specie non prestare tale forma di soccorso istruttorio il che pone le basi, a detta del Collegio, per operare un’elencazione dei presupposti nonché dei limiti dello stesso. Sotto un primo profilo, “è necessario che si tratti della rettifica o integrazione di una dichiarazione comunque resa”, nel caso di specie relativa ad un titolo già conseguito, così “risolvendosi in una precisazione che non altera la par condicio fra i concorrenti e la legalità della procedura”, avendo ad oggetto un fatto meramente integrativo di una situazione sostanzialmente già verificatesi ed acquisita. Sotto un secondo profilo “è necessario che il responsabile del procedimento sia in grado di accorgersi della erroneità o incompletezza della dichiarazione o istanza presentata”. Sotto un terzo profilo, ritiene, infine, il Tar, si deve tenere conto dell’insegnamento della sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 9/2014 in base al quale in relazione alle procedure comparative e di massa, caratterizzate dalla presenza di un numero ragguardevole di partecipanti (come nel caso di specie) “si configurano in capo al singolo partecipante obblighi di correttezza - specificati attraverso il richiamo alla clausola generale della buona fede, della solidarietà e dell’auto responsabilità - rinvenienti il fondamento sostanziale negli artt. 2 e 97 Cost., che impongono che quest’ultimo sia chiamato ad assolvere oneri minimi di cooperazione: si pensi al dovere di fornire informazioni non reticenti e complete, di compilare moduli, di presentare documenti ecc. …” e tenendo sempre ben presente che “il divieto del formalismo incontra il limite derivante dalla particolare importanza che assume l’esigenza di speditezza (e dunque di efficienza, efficacia ed economicità), dell’azione amministrativa”.
Peraltro, sottolinea conclusivamente il Tar Milano (discostandosi dall’orientamento espresso dal Tar Veneto nella sent. n. 1048/2015), “non può di per sé rilevare l’esigenza di preferire fra più candidati chi ha adempiuto esattamente a quanto previsto dalla procedura”: ciò non significa che la carenza di diligenza del concorrente nella presentazione della domanda non rilevi, ma che “essa non possa, di per sé ed in assenza di ulteriori circostanze, assurgere ad elemento che impedisca il soccorso istruttorio”. SS
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Inserito in data 22/01/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, 19 gennaio 2016, n. 167 Sulla distinzione tra illeciti permanenti e illeciti istantanei ad effetti permanenti
Discostandosi da quanto sostenuto dall’AGCM e dal Giudice di primo grado, la Sesta Sezione ha qualificato come illecito istantaneo ad effetti permanenti (anziché come illecito permanente) la pratica restrittiva della concorrenza consistente nell’introduzione nel codice deontologico medico di misure volte a limitare l’uso della pubblicità.
Ciò in quanto, secondo il Consiglio di Stato, l’illecito permanente postula che la lesione persista grazie al comportamento dell’agente. Mentre, quando si protraggono nel tempo solo le conseguenze dannose dell’illecito per effetto della mancata rimozione dello stato antigiuridico da parte dell’autore dell’illecito, si ha un illecito istantaneo con effetti permanenti. La distinzione (illecito permanente e illecito istantaneo con effetti permanenti) rileva sotto il profilo del dies a quo della prescrizione che, soltanto nel caso dell’illecito permanente, si sposta in avanti e coincide col momento in cui viene meno la permanenza. Pertanto, nel caso di specie, è stato annullato il provvedimento sanzionatorio emesso dall’Antitrust, ritenendo che lo stesso fosse intervenuto quando l’illecito amministrativo si era già prescritto. TM |
Inserito in data 21/01/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 20 gennaio 2016, n. 189 Invalidità della notifica a mezzo PEC nel processo amministrativo Nella sentenza in epigrafe, il Consiglio di Stato si è nuovamente imbattuto nella tematica concernente la validità/invalidità nel processo amministrativo della notifica a mezzo PEC mostrando un nuovo “irrigidimento” che si pone in contrasto con le recenti pronunce intervenute in materia da parte della stessa Sez. III e della Sez. V del C.d.S., nonché da parte del C.G.A. In particolare, sostengono i giudici di Palazzo Spada che la notifica dell’atto processuale (nel caso de quo, la notifica dell’appello) effettuata mediante PEC “non è una modalità utilizzabile nel processo amministrativo” in quanto essa non è ammessa in base al disposto di cui all'art. 16-quater, comma 3-bis, del D.L. n. 179/12 come convertito dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221 che esclude l'applicabilità alla giustizia amministrativa delle disposizioni idonee a consentire l'operatività nel processo civile del meccanismo di notificazione in argomento. Precisa il Consiglio che, in questo momento, manca un apposito Regolamento che, così come avvenuto per il processo civile e penale, detti le relative regole tecniche anche per il processo amministrativo e che tale regolamento non può che individuarsi nel D.P.C.M. previsto dall’art. 13 dell’All. 2 al c.p.a. allo stato non ancora intervenuto. Ne consegue che, solo dopo l’emanazione del suddetto D.P.C.M., “l’intero processo amministrativo digitale avrà una completa regolamentazione e la notifica del ricorso a mezzo PEC potrà avere effettiva operatività ed abbandonare l’inequivocabile ed ineludibile carattere di specialità oggi affermato dall’art. 52, comma 2, c.p.a., che prevede per il suo utilizzo, facendo all’uopo espresso riferimento all’art. 151 c.p.c., una specifica autorizzazione presidenziale, del tutto mancante nel caso all’esame”. Il Collegio, nel prosieguo della sentenza, dà anche conto della tendenza del processo amministrativo a trasformarsi sempre più in processo telematico, ma afferma chiaramente che tale “tendenza” costituisce solo un “orientamento” che non può portarsi avanti senza regole tecnico-operative concrete, “in assenza delle quali il Giudice amministrativo non può certo sostituirsi al legislatore statuendo l’ordinaria applicabilità di una forma di notifica allo stato ancora non tipizzata”. Peraltro, aggiunge conclusivamente il Consiglio, la notifica avvenuta mediante PEC costituisce un’ipotesi di inesistenza in alcun modo sanabile (nemmeno con la successiva costituzione in giudizio del soggetto destinatario della notifica); anche a volerla considerare un’ipotesi di nullità ex art. 44, comma 3, c.p.a., “l’eventuale costituzione dell’intimato è sì idonea a sanare la nullità medesima, ma, a differenza che nel processo civile, con efficacia ex nunc, ossia con salvezza delle eventuali decadenze già maturate in danno del notificante prima della costituzione in giudizio del destinatario della notifica, ivi compresa la scadenza del termine di impugnazione”. SS
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Inserito in data 20/01/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 14 gennaio 2016, n. 93 Tassatività delle cause d’esclusione e costi di sicurezza esterni L’articolata fattispecie risolta dal Consiglio di Stato concerne l’esclusione dalla gara di un operatore economico, per la omessa presentazione, insieme all’offerta economica, della dichiarazione di remuneratività e delle giustificazioni, ex art. 87, comma secondo, del codice dei contratti pubblici, relative alle voci di prezzo che concorrono a formare l’importo complessivo del servizio, entrambe richieste dal disciplinare. In sede incidentale, viene affrontato il tema degli oneri di sicurezza esterni. Confermando la pronuncia del T.a.r. competente, il collegio statuisce primariamente in merito alla tempestività dell’impugnazione introdotta dalla società esclusa. Viene richiamato l’orientamento giurisprudenziale consolidato, secondo cui la decorrenza del termine decadenziale si verifica dalla piena conoscenza delle motivazioni dell’atto di esclusione, a prescindere dall’invio di una comunicazione formale ex art. 79, comma quinto, lettera b, del codice dei contratti pubblici, ciò in quanto, l’art. 120, comma quinto, c.p.a., “non prevedendo forme di comunicazione esclusive e tassative, non incide sulle regole processuali generali del processo amministrativo”. Si osserva, tuttavia, come nel caso di specie non vi sia stata “certezza della piena conoscenza del contenuto del provvedimento da parte del soggetto che era presente (…) alla seduta (…), in cui è stata disposta l’esclusione (…). Infatti, il verbale non risulta sottoscritto dal ʻdelegato’, né risulta che gliene sia stata consegnata copia; nemmeno consta espressamente dal verbale che sia stata oralmente comunicata ad alta voce la duplice motivazione dell’esclusione, in modo da farla comprendere ai presenti”. I giudici ritengono, pertanto, plausibile che la piena conoscenza dell’esclusione si sia verificata, ai sensi degli artt. 79, d.lgs. n. 163/2006, e 41, comma secondo, c.p.a., solo a seguito della comunicazione. Circa la dichiarazione di remuneratività dell’offerta, l’appellante, aggiudicatario della gara, ne prospettava la riconducibilità alla previsione normativa di cui all’art. 106 del regolamento di attuazione del codice dei contratti. Osservano tuttavia i giudici di Palazzo Spada, in consonanza con la pronuncia di prime cure, come la disposizione afferisca al settore dei lavori pubblici, e non a quello dei servizî o delle forniture, cui è riconducibile la gara in questione. Viene pertanto ribadita la nullità della clausola di esclusione (rilevabile anche d’ufficio), per contrasto con l’art. 46, comma primo bis, del codice dei contratti, a mente del quale le circostanze legittimanti un provvedimento di esclusione si individuano in numerus clausus. Una simile dichiarazione apparirebbe, peraltro, “ininfluente in sede di formulazione dell’offerta (posto che la sostenibilità economica può assumere rilevanza soltanto nell’ambito del procedimento di verifica della congruità)”. Si osserva, a margine, come le modalità di compilazione dell’offerta, per altro verso, non avrebbero comunque impedito alla commissione di considerare la dichiarazione come non indispensabile, ai sensi dell’art. 38, comma secondo bis, del codice dei contratti. In merito alle giustificazioni, l’obbligo di allegazione all’offerta è venuto meno con l’abrogazione dell’originario comma quinto dell’art. 86 del codice dei contratti, e la modifica del successivo art. 87 richiede tali specificazioni solo in via eventuale, nella fase successiva di verifica dell’anomalia. L’appellante sosteneva, tuttavia, che la previsione del disciplinare concernesse un adempimento diverso da quello sancito dall’art. 87, comma secondo, consistente in una “specificazione delle voci di prezzo necessaria per poter individuare una potenziale anomalia”. La tesi sostenuta confliggeva però con l’espressa formulazione adottata, la quale chiaramente allude alla disposizione da ultimo citata. Pertanto il Consiglio di Stato, sempre alla luce dell’art. 46, conferma la dichiarazione di nullità della relativa clausola.
Gli ulteriori profili di lagnanza, suscitati con ricorso incidentale, e successivamente in appello, parimenti non colgono nel segno. Segnatamente, secondo il collegio, l’omessa indicazione degli oneri della sicurezza da rischî da interferenza, c.d. esterni (non di quelli aziendali, c.d. interni – sui quali si è intrattenuta l’adunanza plenaria, con le sentenze nn. 3 e 9/2015), non comporta un vizio dell’offerta quando la specificazione non è univocamente richiesta dalla lex specialis, come avviene nella fattispecie. “Non vi è alcuna norma (infatti) che imponga ai concorrenti, tanto meno a pena di esclusione, di riprodurre nell’offerta la quantificazione dei costi da interferenza già effettuata dalla stazione appaltante; una previsione in tal senso non avrebbe utilità, posto che i concorrenti non possono far altro che tenere conto di detta quantificazione all’atto della formulazione dell’offerta; le radicali differenze che investono la natura dei costi della sicurezza dell’uno e dell’altro tipo impediscono di estendere la regola della necessaria indicazione dei costi aziendali, anche ai costi da rischî da interferenza; l’art. 86, comma 3-bis, del Codice dei contratti pubblici, dove stabilisce che il ʻcosto relativo alla sicurezza’ debba essere ʻspecificamente indicato’, si rivolge, al tempo stesso: per i costi da interferenza/esterni, alla stazione appaltante, chiamata a fornire detta indicazione in occasione della predisposizione della gara d’appalto; per i costi aziendali/interni, ai concorrenti, ai fini della formulazione dell’offerta”. “Mentre la valutazione della serietà dell’offerta economica, ovvero la volontà di vincolarsi al rispetto delle norme a tutela della sicurezza dei lavoratori – sulla base delle quali l’appellante prospetta la necessità di un’indicazione specifica dei costi della sicurezza esterni – sono demandate alla verifica della congruità, ai sensi degli artt. 86 e 87 del Codice”. FM
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Inserito in data 20/01/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 15 gennaio 2016, n. 103 Trasferimento di un militare per incompatibilità ambientale Con la pronuncia in esame il Consiglio di Stato decide dell’appello proposto, dal Ministero dell’economia e delle finanze e dal Comando generale della Guardia di finanza, avverso la sentenza d’annullamento di una determinazione recante il trasferimento extraregionale d’autorità e per esigenze di servizio di un appuntato scelto della Guardia di finanza, il cui suocero era stato sottoposto alla misura della custodia cautelare degli arresti domiciliari, in relazione a un tentativo di estorsione in danno di un suo debitore; il delitto avrebbe dovuto essere materialmente eseguito da due pregiudicati vicini alla criminalità organizzata. Dell’arresto aveva dato notizia ai proprî superiori lo stesso appuntato. Il giudice di prime cure rilevava che il trasferimento, qualificato come d’autorità e per esigenze di servizio, “è invece correlato a un profilo d’incompatibilità ambientale”; “non è stato dato avviso dell’avvio del procedimento (…), e senza che sussistessero ragioni d’urgenza”; “non è stato considerato che il provvedimento di custodia cautelare era stato già annullato”. Gli appellanti censuravano la sentenza di primo grado, sostenendo comunque la riconducibilità del trasferimento per ragioni d’incompatibilità ambientale all’ambito dei trasferimenti di autorità. Rilevavano, inoltre, l’appartenenza del provvedimento in questione alla categoria degli ordini, sottratta alle garanzie partecipative, ed espressione di ampia discrezionalità. Sottolineavano infine, come l’amministrazione, chiaramente a conoscenza dell’annullamento del provvedimento custodiale, avesse comunque ritenuto tale circostanza irrilevante, individuandosi “le ragioni del trasferimento (…) nella contiguità del suocero con ambienti malavitosi, e quindi nella negativa ricaduta sia sul prestigio del Corpo che sulla stessa serenità dell’interessato, tenuto conto del particolare contesto territoriale”. Nella memoria di costituzione in giudizio, l’appellato deduceva l’assoluzione del suocero per insussistenza del fatto ascrittogli. Nelle note difensive, l’Avvocatura generale dello Stato, rimarcava “l’irrilevanza della sentenza penale assolutoria, che al pari dell’ordinanza custodiale assume mera valenza di fatto storico, laddove l’incompatibilità ambientale si radica in funzione dei rapporti del suocero con soggetti pregiudicati”. I giudici del Consiglio di Stato rigettano l’appello. “In disparte l’omissione delle formalità partecipative – delle quali, in effetti, la prevalente giurisprudenza nega l’applicabilità ai trasferimenti disposti anche per ragioni d’incompatibilità ambientale, in quanto ricondotti pur sempre alla species dei trasferimenti di autorità, e quindi degli ordini (…), benché un minoritario indirizzo ne valorizzi l’accostamento, in qualche misura, a quelli disciplinari”. “È indubbio che la valutazione della situazione soggettiva che, anche in difetto di comportamenti colpevoli del militare, costituisce la causa funzionale del trasferimento, debba fondarsi su una compiuta e complessiva considerazione dell’episodio di vita, della sua gravità, della sua idoneità concreta, anche in relazione ai compiti disimpegnati dal militare, a ledere il prestigio del reparto o comando di appartenenza, o quantomeno a menomarlo in modo significativo”. “In tale prospettiva, non poteva restare indifferente, però, che la misura custodiale era stata già annullata”, e successivamente era anche intervenuta una sentenza d’assoluzione con formula piena. Peraltro “non sono state addotte circostanze da cui possa desumersi non solo l’adesione, bensì anche soltanto una consuetudine di frequentazione con pregiudicati e con sodalizî criminali”. L’appuntato, poi, “non svolge alcun incarico operativo esterno o di natura investigativa”, e presenta una “situazione familiare di peculiare difficoltà”. L’atto impugnato, per quanto precede, appare viziato da lacunosità dell’istruttoria, da carenza di motivazione, e da difetto di proporzionalità. FM
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Inserito in data 19/01/2016 CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 7 gennaio 2016, n. 64 Il GA conosce delle domande risarcitorie da inadempimento degli accordi di programma La sentenza in esame trae origine da un accordo concluso tra la Regione Campania, la Provincia di Caserta e i Comuni di Maddaloni e di Marcianiese; la società privata, che nell’accordo era indicata come quella che avrebbe realizzato l’intervento concordato, era intervenuta all’accordo, impegnandosi ad adempiere a tutti gli obblighi ivi previsti. Secondo le Sezioni Unite, detto accordo va qualificato come accordo di programma ai sensi dell’art. 27 della L. n. 241/90 (successivamente trasfuso nell’art. 34 del d.lgs. n. 267/00), ossia “una convenzione tra Regioni, Province e Comuni ed altre amministrazioni pubbliche, mediante la quale le parti coordinano le loro attività per la realizzazione di opere, interventi o programmi di intervento che richiedono, per la loro realizzazione, l’azione integrata e coordinata di due o più tra i soggetti predetti”; mentre l’impegno assunto dal privato deve essere ricondotto agli accordi sostitutivi o integrativi di provvedimento di cui all’art. 11 della L. 241/90. Poiché tra gli accordi fra pubbliche amministrazioni ex art. 15 L. n. 241/90 e gli accordi di programma sussiste un rapporto di genere a specie, ne consegue che la disciplina prevista per i primi si applica anche ai secondi; in particolare, l’art. 11 della L. 241/90 (oggi transitato nell’art. 133 c.1 lett. a n. 2 C.P.A.) – che riserva alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie in materia di formazione, conclusione ed esecuzione degli accordi – deve applicarsi anche all’accordo in esame, in quanto richiamato dall’art. 15 c. 2 della stessa legge. Ciò premesso, secondo le Sezioni Unite, la domanda volta ad ottenere il risarcimento dei danni derivanti dall’inadempimento degli obblighi assunti dalla società privata con l’accordo in questione appartiene alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, perché attiene alla fase dell’esecuzione di un accordo di programma tra enti pubblici volto alla realizzazione di un interesse pubblico e cui ha aderito una società privata. TM
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Inserito in data 19/01/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 15 gennaio 2016, n. 109 Sull’insussistenza di un obbligo a contrarre la cessione bonaria in capo all’espropriante Secondo la Quarta Sezione, “deve recisamente escludersi che possa affermarsi la sussistenza, in capo all’amministrazione, di un obbligo a contrarre, attribuendo effetti obbligatori alla comunicazione della misura dell’indennità di esproprio seguita da manifestazione di disponibilità dell'interessato ad addivenire alla cessione bonaria”. Ciò in quanto, come ha precisato la Cassazione, “nell'intervenuto scambio fra le parti dei due atti (la comunicazione dell'espropriante e la dichiarazione di condivisione dell'espropriando) non è ravvisabile un contratto preliminare rispetto a quello successivo di cessione volontaria del bene perché nessuno degli atti in questione ha un contenuto volitivo, ma solo conoscitivo nel senso che il primo dei due si limita a fornire alla controparte gli elementi di conoscenza necessari perché questi possa consapevolmente decidere di optare per il proseguo del procedimento oblatorio, ovvero per una soluzione negoziale, mentre il secondo, a sua volta, si limita a dichiarare che condivide la stima effettuata dal primo, dichiarandosi, quindi, disponibile ad una cessione su base negoziale del terreno”. Pertanto, “ciò che è precluso all'Amministrazione è di procedere all'esproprio se l'interessato ha dichiarato la disponibilità alla cessione bonaria e in tal senso deve intendersi che " il proprietario ha il diritto di stipulare col soggetto beneficiario dell'espropriazione l'atto di cessione del bene o della sua quota di proprietà”, secondo la formulazione dell’art. 45 del d.P.R. n. 327/2001, e non anche che l'Amministrazione sia obbligata a stipulare il negozio di cessione bonaria, salva naturalmente la scadenza dei termini per le espropriazioni e quindi del vincolo espropriativo”. TM
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Inserito in data 18/01/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 14 gennaio 2016, n. 91 Niente “DASPO” se non c’è scavalcamento di barriera È illegittimo il divieto di accesso ai luoghi in cui si svolgono manifestazioni sportive (c.d. DASPO) emesso nei confronti di un tifoso che non abbia oltrepassato la barriera che delimita i settori delle tifoserie – questo, sinteticamente, quanto affermato nella pronuncia in epigrafe dalla terza sezione del Consiglio di Stato. Preliminarmente, il Collegio, con riguardo alla presunta inammissibilità del ricorso introduttivo dichiarata dal T.A.R. di Bari, in quanto notificato a mezzo p.e.c., chiarisce - richiamando recente giurisprudenza del Consiglio di Stato - che “la mancata autorizzazione presidenziale ex art. 52, comma 2, cod. proc. amm. non può considerarsi ostativa alla validità ed efficacia della notificazione del ricorso a mezzo posta elettronica certificata, atteso che, nel processo amministrativo, trova applicazione immediata la legge 53/1994 (ed in particolare gli articoli 1 e 3 bis), nel testo modificato dall’art. 25 comma 3, lett. a) della legge 183/2011, secondo cui l’avvocato può eseguire la notificazione di atti in materia civile, amministrativa e stragiudiziale… a mezzo della posta elettronica certificata di Stato”. Poi, nel merito, passando all’esame della censura dedotta dall’appellante avverso il provvedimento impugnato, i giudici di palazzo Spada osservano che l’art. 6-bis, comma 2, della lege n° 401 del 1989 (richiamata dallo stesso art. 6 della medesima legge) concerne una fattispecie diversa rispetto a quella contestata al ricorrente, prendendo in considerazione, infatti, il comportamento di chi “… supera indebitamente una recinzione o separazione dell’impianto ovvero, nel corso delle manifestazioni sportive, invade il terreno di gioco….”. Quindi, la richiamata disposizione – ed il relativo trattamento sanzionatorio - sarebbe applicabile nelle sole ipotesi in cui sia stato accertato lo scavalcamento od il superamento, da parte del tifoso, di un ostacolo materiale, fattispecie che, nel caso concreto, non risulta essere stata provata, essendosi invece l’appellante semplicemente arrampicato alla barriera senza tuttavia oltrepassarla. La formulazione complessiva degli artt. 6 e 6-bis, nel testo attualmente vigente, rivela l’intenzione del legislatore di individuare una serie di fattispecie tipiche, dettagliatamente specificate, e ciò sembrerebbe escludere la possibilità di estensioni interpretative o analogiche, quanto meno quando il fatto non abbia prodotto, come nel caso di specie, turbative per l’ordine e la sicurezza pubblica. Pertanto, il Supremo Consesso ha ritenuto che la fattispecie non potesse considerarsi riconducibile alla previsione di cui all’art. 6-bis ai fini dell’applicazione del DASPO, e per tali ragioni, ha annullato il provvedimento impugnato con il ricorso introduttivo. MB
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Inserito in data 18/01/2016 CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 5 gennaio 2016, n. 29 La pregiudizialità della questione di giurisdizione rispetto a quella di competenza Con la pronuncia in epigrafe, le Sezioni Unite hanno respinto la prospettazione contenuta nell’ordinanza interlocutoria con la quale la Sezione VI, in presenza di non univoci orientamenti della Corte, sollecitava – ai sensi dell’art. 374, comma 2, c.p.c. “il riesame del dibattuto rapporto di pregiudizialità tra la questione di giurisdizione e quella di competenza – ritenendo, la corte rimettente – condivisibile l’opinione risalente, un tempo maggioritaria, che la competenza rivesta carattere prioritario: giacché l’accertamento della spettanza della giurisdizione (…) non può che essere decisa dal giudice in astratto competente per materia, valore e territorio a conoscere la controversia, sulla base della prospettazione della domanda”. La Suprema Corte, diversamente opinando, osserva che “in un ordinamento giurisdizionale connotato da più giurisdizioni – ciascuna con proprie e specifiche attribuzioni giurisdizionali – il diritto alla tutela giurisdizionale, la garanzia del giudice naturale e gli stessi principi del giusto processo … per risultare pienamente ed effettivamente realizzati, esigono la massima certezza quanto all’individuazione del giudice legittimato alla cognizione della controversia relativamente alla quale si chiede tutela: innanzitutto del giudice – ordinario, amministrativo, speciale – al quale è attribuita, secondo Costituzione, tale cognizione (potestas judicandi) e, soltanto in seconda e definitiva approssimazione, del giudice al quale è concretamente attribuita, secondo l’ordinamento processuale di ciascuno ordine giurisdizionale stabilito con legge ordinaria, la cognizione medesima (potestas decidendi)”. Quindi, da tali considerazioni, le Sezioni Unite traggono il principio di diritto secondo cui “la pregiudizialità della questione di giurisdizione rispetto alla questione di competenza – in quanto fondata sulle norme costituzionali relative al diritto alla tutela giurisdizionale (art. 24, comma 1), alla garanzia del giudice naturale precostituito per legge (art. 25, comma 1), ai principi del giusto processo (art. 111, commi 1 e 2), all’attribuzione della giurisdizione a giudici ordinari, amministrativi e speciali ed al suo riparto tra questi secondo criteri predeterminati (art. 102, commi 1 e 2, art. 103, VI disp. trans. e fin.) – può essere derogata soltanto in forza di norme o principi della Costituzione o espressivi di interessi o di valori di rilievo costituzionale, come, ad esempio, nei casi di mancanza delle condizioni minime di legalità costituzionale nell’instaurazione del giusto processo, oppure della formazione del giudicato, esplicito od implicito, sulla giurisdizione”. E proprio le considerazioni sull’affermata pregiudizialità della questione di giurisdizione rispetto alla questione di competenza – prosegue il supremo Collegio – consente di esaminare il quesito nello specifico posto dalla fattispecie processuale in questione, ovvero se “nel caso in cui avverso una sentenza (di primo grado) con la quale il giudice ordinario adito abbia esaminato e deciso sia una questione di giurisdizione, dichiarando espressamente la giurisdizione del giudice ordinario, sia una questione di competenza, declinando la propria competenza ed indicando il diverso giudice ritenuto competente – sia stato proposto regolamento di competenza, la Corte di cassazione possa o meno, in tale sede, rilevare d’ufficio il difetto di giurisdizione del giudice ordinario originariamente adito”. Il Collegio ha ritenuto che nella fattispecie, non operando la preclusione pro judicato sulla dichiarazione di giurisdizione del giudice ordinario pronunciata dal giudice a quo (e neppure l’adesione della ricorrente a detta pronuncia), l’applicazione dell’art. 37 c.p.c. consente di riesaminare, d’ufficio, la questione di giurisdizione. In particolare – hanno affermato del Sezioni Unite – ogni giudice adito, qualora egli stesso o la parte – dubiti della sua competenza, deve sempre preliminarmente verificare, anche d’ufficio, la sussistenza della propria giurisdizione e, solo in un momento successivo, in caso affermativo, la sussistenza della propria competenza, nel rispetto delle prescrizioni dettate dall’art. 38 c.p.c., diversamente operando la previa “statuizione sulla sola questione di competenza potrebbe risultare inutiliter”, qualora il giudice adito fosse poi dichiarato privo di giurisdizione, oltreché collidente con i principi di economia processuale e del giusto processo. Quindi, Le Sezioni Unite civili, muovendo dall’affermazione della pregiudizialità della questione di giurisdizione rispetto a quella di competenza, derogabile solo in forza di norme o principi della Costituzione o espressivi di interessi o di valori di rilievo costituzionale, hanno conclusivamente affermato che, qualora sia stato proposto regolamento di competenza (facoltativo) avverso una sentenza di primo grado declinatoria della competenza, la Corte di cassazione, non essendosi formato il giudicato sulla giurisdizione, giusta l’art. 43, comma 3, primo periodo, c.p.c., possa rilevarne d’ufficio l’eventuale difetto da parte del giudice ordinario adito ai sensi dell’art. 37 c.p.c. Da ultimo, con riferimento alla giurisdizione in materia di opposizione ad ingiunzione fiscale per il pagamento dell’imposta comunale sugli immobili (ICI) - “imposta da qualificarsi come tributo e non come entrata patrimoniale pubblica extratributaria” - gli Ermellini hanno espresso il principio per cui “la controversia promossa dal contribuente – ai sensi dell’art. 3 del R.D. 14 aprile 1910, n° 639, nel testo sostituito dall’art. 34, comma 40, del d.Lgs. 10 settembre 2011, n° 150, e disciplinata dall’art. 32 dello stesso d.Lgs n° 150 del 2011 – avverso l’ingiunzione fiscale, emessa dal comune in pendenza del giudizio tributario promosso contro l’avviso di accertamento ai sensi dell’art. 68 del d.Lgs n° 546 del 1992 e quindi sostanzialmente equivalente all’iscrizione dell’imposta nel ruolo notificata al contribuente, è assimilabile alla controversia avente ad oggetto l’impugnazione del ruolo, con la conseguenza che la controversia medesima, alla luce del combinato disposto degli artt. 2, comma 1, primo periodo, e 19, comma 1, lett. d) del d.Lgs. n° 546 del 1992, e 15 del d.Lgs. n° 504 del 1992, è attribuita alla giurisdizione del giudice tributario”. MB
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Inserito in data 16/01/2016 CORTE DI CASSAZIONE - QUARTA SEZIONE PENALE, SENTENZA 13 gennaio 2016, n. 1035 Guida in stato d’ebbrezza e particolare tenuità del fatto – ex art. 131 bis cp. Il Collegio della Quarta Sezione della Corte di Cassazione penale interviene – con la pronuncia di cui in epigrafe – in seno all’attualissimo dibattito circa l’applicabilità dell’articolo 131 bis – introdotto al codice penale dall’articolo 1 – co. 2’ – del D. Lgs. 16 marzo 2015, n. 28. "Disposizioni in materia di non punibilità per particolare tenuità del fatto, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera m), della legge 28 aprile 2014, n. 67". I Giudici, infatti, delimitano l’operatività e l’applicabilità della suddetta norma nel caso in esame in cui, il sinistro stradale, pur procurato da un soggetto incensurato, aveva inciso sulla sicurezza di più soggetti – a seguito dello scontro con un autobus. Peraltro, il tasso alcolemico presentato dall’autore del sinistro era di ammontare triplo rispetto al consentito. Come si vede, uniformemente a quanto già notato dai primi Commentatori di tale arresto, il Collegio adopera – ai fini della decisione - valutazioni di buon senso che, per quanto non del tutto rilevanti nel caso in esame, risultano comunque decisive al fine di individuare la portata applicativa del nuovo articolo 131 bis del codice penale. I Giudici, infatti, sottolineano - in merito alla guida in stato d'ebbrezza - la natura di reato di pericolo e non di evento e, in quanto tale, ricordano come – in casi simili - sia maggiormente rilevante la mera condotta dell’imputato più che le modalità in cui la stessa si è articolata. In forza di tali valutazioni e, peraltro in linea con l’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite penali - n. 19089/15 con cui è stato posto il quesito circa l’operatività e l’estensione applicativa dell’articolo 131 bis, la Quarta Sezione decide di non garantirne l’applicabilità al caso in esame, in cui l’imputato, invero, ha mostrato una condotta del tutto dissonante rispetto alla mera tenuità. CC
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Inserito in data 16/01/2016 TAR ABRUZZO - L'AQUILA, SEZ. I, 5 gennaio 2016, n. 1 Disattivazione e rimodulazione punti nascita La pronuncia in esame è degna di nota giacchè interviene in un ambito di estrema attualità, quale quello relativo alla riorganizzazione del piano sanitario – in particolare riguardo alla rimodulazione dei punti nascita in taluni ospedali ubicati in centri abitativi di piccole dimensioni. Infatti, per quanto riguardi ovviamente vicende più risalenti (Accordo sanità Stato – Regioni del 2010), si evidenzia comunque la piena apertura del Prefetto abruzzese il quale, consapevole delle nuove richieste formulate – da ultimo – alle competenti, attuali strutture ministeriali sanitarie, ha manifestato – a ridosso dell’udienza di discussione qui esaminata – la propria volontà di riconsiderare la questione, solo se e quando vengano a monte ripensate le disposizioni direttive che hanno determinato l’adozione degli atti oggi impugnati. In specie, il Comune ricorrente, nel caso in esame, impugnava il decreto con cui il Prefetto di una provincia abruzzese - nella qualità di Commissario ad acta - aveva disposto talune misure restrittive della sanità locale, con particolare attenzione ad un punto nascita sito in un territorio particolarmente ridotto. I Giudici aquilani sanciscono l’infondatezza dell’impugnativa, negando – in primo luogo – che il decreto commissariale gravato si fosse fondato su presupposti falsi. La valutazione fatta dal Prefetto, infatti, prendeva in considerazione un lasso di tempo abbastanza consistente – pari ad un triennio, nel corso del quale era prevedibile che fossero state rispettate le oscillazioni nel numero dei parti e, quindi, fosse stato rasentato il limite quantitativo minimo previsto dal Piano per la Sanità censurato. Ricorda il Collegio che, il limite minimo costituisce, come anche ribadito dal Consiglio di Stato, “prerequisito dimensionale in carenza del quale le ripetute Linee di indirizzo non ammettono deroghe (Cfr. sentenza n. 4393 del 2014. Nello stesso senso, Tar Puglia, Bari, n. 428 del 2015). Ne consegue che “la mancanza di tale prerequisito è perciò la ragione primaria e sufficiente della prevista disattivazione, a prescindere dalle motivazioni economico finanziarie della revisione della rete ospedaliera imposta dal piano regionale di rientro” (Cfr. sentenza consiglio di Stato 4393/14 cit.). Pertanto, chiosa il Collegio abruzzese, la determinazione commissariale di disattivazione del Punto nascita risulta conforme ai criteri numerici stabiliti nel vincolante accordo Stato-Regioni del 2010. I Giudici proseguono nel contestare le doglianze di parte ricorrente, ove questa lamentava l’inattendibilità delle tempistiche delineate dall’ASL intimata, nel suo crono programma, per la definizione di talune misure organizzatorie interne. Ad avviso del Collegio, tali censure si palesano peraltro inammissibili, perché non lamentano l’illegittimità delle previsioni temporali del cronoprogramma, bensì l’impossibilità pratica di rispettarle, con conseguenti disservizi sull’utenza. In buona sostanza, si contesta, non già l’auspicabile “contestualità” fra disattivazione del punto nascita e rinforzo organizzativo delle strutture sostitutive, bensì la presunta superficialità con cui l’ASL avrebbe rassicurato l’utenza, sui temuti disservizi post chiusura. Pertanto, data l’evidente iniquità del gravame e la mancanza di vere e proprie censure di legittimità che dovrebbero costituirne il fondamento, il Collegio approda alla relativa declaratoria di inammissibilità. Esso ricorda, peraltro, la possibile esperibilità - in favore dell'utenza - dell’azione avverso il silenzio – rifiuto – ex artt. 31 e 117 CPA e le connesse pretese risarcitorie – ex art. 2 bis L. 241/90 – nelle ipotesi in caso di proseguito impasse dell’Amministrazione sanitaria – quale qui solo ipotizzato. CC |
Inserito in data 15/01/2016 CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 14 gennaio 2016, n. 2 Politiche sociali provincia Trento e vulnus alla Convenzione di NY e all’articolo 38 della Costituzione I Giudici della Consulta sono chiamati ad intervenire su una questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Trento con riguardo all’articolo 18 della legge della Provincia autonoma di Trento 27 luglio 2007, n. 13 (Politiche sociali nella provincia di Trento), ritenendolo presuntivamente in contrasto con l’articolo 38 della Costituzione e con l’articolo 4 del d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670 (Testo unico delle leggi costituzionali concernente lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige), in relazione alla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, conclusa a New York il 13 dicembre 2006 e ratificata e resa esecutiva con la legge 3 marzo 2009, n. 18 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, con Protocollo opzionale, fatta a New York il 13 dicembre 2006 e istituzione dell’Osservatorio nazionale sulla condizione delle persone con disabilità). Più nel dettaglio, il Giudice a quo ravvisa il contrasto ove la norma interna, a dispetto delle previsioni convenzionali, richieda la necessaria cooperazione del nucleo familiare cui appartiene il soggetto disabile. Le doglianze del Tribunale trentino si fondano, in sostanza, sulla ritenuta, ma erronea valutazione secondo cui la predetta Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità (evocata quale parametro interposto della dedotta violazione dell’articolo 4 dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige), nonché l’articolo 38, primo comma, della Costituzione, avrebbero posto la condizione individuale e autonoma della persona disabile come specifico ed esclusivo oggetto di protezione. Ne deriverebbe – ad avviso del Rimettente - che, ai fini della conformazione degli istituti di assistenza, non possa né debba assumere alcuna rilevanza la situazione del relativo nucleo familiare: non soltanto sul piano delle garanzie e dei diritti della persona interessata, ma anche – ed è questo il punto che rileva agli effetti del presente scrutinio – sul versante dei possibili doveri o obblighi dei suoi familiari. Il Collegio della Consulta, investito della questione, ne coglie da subito l’iniquità. In primo luogo, con riferimento ai dettami della Convenzione del 2006 – i Giudici costituzionali negano la ritenuta tendenza a valutare il soggetto disabile quale distinto e separato dal restante nucleo familiare. Evidenzia il Collegio che, semmai ed in forza delle ultime tendenze giurisprudenziali e normative, è proprio la famiglia la sede privilegiata del più partecipe soddisfacimento delle esigenze connesse ai disagi del relativo componente, così da mantenere intra moenia il relativo rapporto affettivo e di opportuna e necessaria assistenza, configurando solo come sussidiaria – e comunque secondaria e complementare – la scelta verso soluzioni assistenziali esterne (Cfr. sentenza n. 203 del 2013) e che, da tale impostazione sociologica e culturale – propria del nostro Ordinamento - i principi convenzionali non si discostano in alcun modo. Diversamente, infatti, la Convenzione finirebbe con l’incidere in un ambito – quale quello della individuazione delle disabilità e del necessario sostegno sul piano economico – tradotto nel nostro sistema agli articoli 433 e ss. del codice civile e verrebbe meno, pertanto, la ragion d’essere della portata auto - applicativa della Convenzione in seno al nostro Stato – stante l’eventuale contrarietà a principi fondanti il relativo sistema giuridico. Occorre ricordare, piuttosto, come il nucleo della Convenzione ruoti essenzialmente, intorno all’avvertita esigenza di conformare i vari ordinamenti interni in chiave non già meramente protettiva delle persone con disabilità, ma piuttosto in una prospettiva dinamica e promozionale, volta a garantire a ciascuna di esse la più efficace non discriminazione. Appare infondata, pertanto, la prima doglianza mossa dal Tribunale trentino. Del pari, i Giudici della Consulta sanciscono l’infondatezza della questione sollevata anche con riguardo alla lamentata incisione del parametro costituzionale di cui all’articolo 38. Essi, evidenziando – in primo luogo - la carenza motivazionale dell’ordinanza di rimessione, sottolineano, altresì, come la garanzia costituzionale del «diritto al mantenimento e all’assistenza sociale» presuppone che la persona disabile sia «sprovvista dei mezzi necessari per vivere» e che, pertanto, l’accertamento di questa condizione di effettiva indigenza possa richiedere anche una valutazione delle condizioni economiche dei soggetti tenuti all’obbligo alimentare. Ove così non fosse, ricorda la Consulta, verrebbero a poter irragionevolmente godere dello stesso trattamento di assistenza e di mantenimento, con conseguente identico carico finanziario e sociale, tanto le persone con disabilità individualmente e “familiarmente” non abbienti, quanto quelle prive di reddito ma concretamente assistite o anche potenzialmente assistibili da familiari con consistenti possibilità economico-patrimoniali.
In ragione di ciò è facile, quindi, evidenziare l’infondatezza di ambedue le censure mosse dal Giudice trentino. CC
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Inserito in data 14/01/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 8 gennaio 2016, n. 26 Lottizzazione abusiva: rilevanza o meno del carattere risalente o della condonabilità degli interventi I giudizi (riuniti) oggetto della decisione de qua afferiscono ad un’unica vicenda amministrativa sostanziale, ovvero alla “lottizzazione abusiva” ipotizzata dall’Amministrazione comunale in relazione ad aree di proprietà degli appellanti - derivanti tutte dal frazionamento di una medesima area originaria - e contestata con provvedimenti coevi, frutto di sopralluoghi svolti in un medesimo lasso temporale e culminati in un’ingiunzione di rimozione delle opere abusive, sotto comminatoria di acquisizione delle aree al patrimonio comunale. La questione centrale sottesa a tutti i giudizi riuniti concerneva, nello specifico, la presunta insussistenza dei presupposti per la configurabilità della fattispecie della lottizzazione abusiva ai sensi dell’art. 30 del d.P.R. 6 giugno 2001, nr. 380, ipotizzata dall’Amministrazione nelle ordinanze impugnate in prime cure. In particolare, il Collegio, nella valutazione della questione, si è richiamato al costante e consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo cui, “in presenza di riscontrati abusi edilizi sul territorio, l’intento lottizzatorio (..) può essere legittimamente desunto da una pluralità di elementi indiziari, anche di per sé non univocamente significativi, ma che nel loro complesso denuncino in modo ragionevolmente inequivoco la strumentalità degli abusi al perseguimento delle suindicate finalità”. Nel caso in esame, i giudici della IV sezione hanno ritenuto ragionevole e adeguatamente motivata la conclusione dell’Amministrazione che ha desunto l’intento lottizzatorio da plurimi e concordanti indizi, quali, tra tutti, la circostanza che i lotti derivassero dal frazionamento di un’unica e vasta area, la contestualità temporale delle vendite delle singole aree, ed ancora la realizzazione di interventi edilizi abusivi incompatibili con l’originaria destinazione dell’area. In particolare, ai fini della configurazione della fattispecie della lottizzazione abusiva, ciò che più rileva – ha sottolineato il Collegio - è il discendere degli abusi dall’iniziale frazionamento dell’area, fatto, questo, idoneo a dimostrarne la coerenza con il divisato intento lottizzatorio, “inteso nella comune accezione, come volontà di realizzare un non consentito frazionamento dei suoli, o comunque di alterarne surrettiziamente la destinazione urbanistica in contrasto con gli strumenti vigenti”. Oltretutto, contrariamente a quanto sostenuto dagli appellanti, alcuna rilevanza avrebbe potuto rivestire “la circostanza che taluni singoli interventi edilizi possano essere stati sanati a seguito di istanza di condono, o addirittura che potessero essere stati ab initio assentiti dal Comune, dovendo considerarsi non già le singole porzioni di suolo in modo isolato e atomistico, ma lo stravolgimento della destinazione di zona nel suo complesso”. Neanche la buona fede dei ricorrenti che avessero, eventualmente, assunto di aver acquistato i lotti solo a valle del frazionamento dell’area - hanno osservato conclusivamente i giudici della IV sezione - avrebbe potuto incidere negativamente ai fini della riconducibilità della fattispecie ad un’ipotesi di “lottizzazione abusiva”, atteso che essa – per costante orientamento giurisprudenziale – “opera in modo oggettivo e indipendentemente dall’animus dei proprietari interessati, i quali se del caso potranno far valere la propria buona fede nei rapporti interni con i propri danti causa”. Sulla base dei superiori rilievi, il Collegio ha quindi respinto i ricorsi (riuniti) proposti e confermato le impugnate sentenze rese dal T.A.R. della Lombardia. MB
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Inserito in data 14/01/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, 11 gennaio 2016, n. 49 È necessario individuare l’autore responsabile dell’abuso prima di emettere un’ordinanza di demolizione Con la pronuncia de qua, la VI sezione del Consiglio di Stato ha accolto il ricorso in appello, formulato da una società attiva nel settore della formazione professionale, avverso la sentenza resa dal T.A.R. del Molise con la quale era stato dichiarato irricevibile, per tardività, il ricorso proposto contro il provvedimento con cui l’amministrazione comunale - contestato il presunto cambio di destinazione d’uso dell’edificio e l’abusiva realizzazione di opere edili in assenza di permesso di costruire - aveva ingiunto al legale rappresentante della società, nella sua qualità, l’immediata demolizione e riduzione in pristino dello stato dei luoghi. Il caso in esame rappresenta l’occasione, per i giudici di palazzo Spada, per ribadire l’obbligo, incombente sull’Amministrazione, di accertare, prima di procedere all’emissione di un’ordinanza di rimozione o demolizione, “l’autore responsabile dell’abuso” edilizio compiuto in difformità od in assenza di permesso, ovvero con variazioni essenziali. Stando alla prospettazione formulata dall’appellante, l’Amministrazione avrebbe erroneamente rivolto al rappresentante legale della società, nella sua qualità, l’ordine di immediato ripristino dello status quo ante dei luoghi, senza aver, tuttavia, nello specifico indicato gli elementi in fatto ed in diritto che l’avevano indotta ad individuarlo quale corretto destinatario del provvedimento. In particolare, è emerso come, seppur il Comune - con finalità meramente cautelativa - avesse richiamato, nel gravato provvedimento, gli articoli “seguenti” all’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001, “evidenti ragioni di garanzia connesse ai principi di tipicità e tassatività delle fattispecie sanzionatorie imponessero all’amministrazione di indicare in modo puntuale le condotte contestate ed i relativi riferimenti normativi”. Essendo apparso inequivoco che l’Ente avesse inteso circoscrivere al solo citato art. 31 il possibile fondamento normativo dell’ingiunzione, il Collegio ha precisato che deve, nella fattispecie, trovare necessaria applicazione il terzo comma del medesimo articolo il quale espressamente prevede che “il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, accertata l’esecuzione di interventi in assenza di permesso, in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali (…) ingiunge al proprietario e al responsabile dell’abuso la rimozione o la demolizione”. Nello specifico, l’Amministrazione, esclusa agevolmente la qualità di “proprietario” dell’edificio della società ricorrente, in spregio alla lettera della disposizione, ha erroneamente ritenuto di poter individuare nell’appellante il soggetto “responsabile dell’abuso” – destinatario, quindi, dell’ingiunzione - senza tuttavia allegare alcuna circostanza idonea a supporto e senza fornire, sul punto, ulteriori e puntuali elementi motivazionali. I giudici di palazzo Spada hanno inoltre ritenuto fondato il motivo di appello afferente il contestato mutamento d’uso dell’immobile, condividendo le osservazioni rese sul punto dal ricorrente secondo cui l’attività svolta nei locali oggetto di causa - censiti con destinazione d’uso commerciale - rivestisse concretamente carattere commerciale. Oltretutto – ha precisato la VI sezione – ai sensi dell’art. 32, comma 1, lett. a) del citato d.P.R. n. 380/2001, “il mutamento della destinazione d’uso costituisce variazione essenziale ai sensi del precedente art. 31 solo laddove essa abbia comportato variazione degli standard previsti dal d.m. 2 aprile 1986” – variazione della quale, nel caso di specie, non è stata data prova da parte dell’Amministrazione che, nel provvedimento impugnato in primo grado, ha invece erroneamente presupposto “una piena assimilazione fra il mutamento di destinazione d’uso e la realizzazione di una variazione essenziale in quanto tale”. MB
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Inserito in data 13/01/2016 TAR LAZIO - ROMA, SEZ. III - 7 gennaio 2016, n. 121 La giurisdizione in tema di scissione dei pagamenti (cd. split system) per l’IVA I giudici del Tar Roma si sono pronunciati sulla giurisdizione in materia di controversie che concernono gli atti regolamentari che istituiscono o disciplinano tributi di qualsiasi genere ed, in particolare, di quelli che hanno introdotto il meccanismo di scissione dei pagamenti (cd. split system) dell’IVA. Il criterio discretivo fra giurisdizione amministrativa e giurisdizione tributaria è costituito dal tipo di potere esercitato dall’amministrazione: “se è in discussione l’esercizio di un potere discrezionale, per di più a carattere generale, trattandosi di atti a contenuto normativo destinati ad incidere su una pluralità indifferenziata di soggetti, nei confronti degli stessi non vi è giurisdizione del giudice tributario ma di quello amministrativo”. Afferma il Tar, ribadendo l’orientamento espresso dal giudice regolatore della giurisdizione, che è affidata alla giurisdizione esclusiva del giudice tributario la tutela del contribuente riguardo ai “tributi di ogni genere e specie”, in base all'art. 2, comma 1, d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, come modificato dall'art. 12, comma 2, l. 28 dicembre 2001, n. 448. Tale tutela, nondimeno, può svolgersi solo attraverso l'impugnazione di specifici atti impositivi dell'amministrazione finanziaria, nell'inammissibilità di ogni accertamento preventivo, positivo o negativo del debito di imposta, sia dinanzi alle commissioni tributarie, che dinanzi al giudice ordinario. Ove, invece, manchi uno specifico atto impositivo, nella richiesta del cui annullamento consiste il petitum sostanziale idoneo a radicare la giurisdizione esclusiva del giudice tributario, questo, in mancanza della “mediazione” rappresentata dall'impugnativa dell'atto impositivo, non può giudicare della legittimità degli atti amministrativi generali, dei quali può conoscere, incidenter tantum ed entro confini determinati, solo ai fini della disapplicazione nella singola fattispecie dell’atto amministrativo presupposto dell'atto impositivo impugnato. Nel caso di specie, come sopra evidenziato, la ricorrente contesta, in via principale ed esclusiva, non già uno specifico atto impositivo, bensì la legittimità di un atto amministrativo generale il quale ha introdotto l’istituto della scissione dei pagamenti dell’IVA che, per effetto della nuova disciplina deve essere versata dalla Regione direttamente all’Erario. Ne consegue, conclude il Tar, che la controversia in esame non riguarda la fase del procedimento impositivo, vale a dire il vero e proprio rapporto tributario tra il contribuente e l'Ente locale, bensì l’iter procedimentale che precede il sorgere dell'obbligazione tributaria e che sfocia nell'adozione di un atto amministrativo generale assunto dall’Amministrazione, pertanto la giurisdizione appartiene al giudice amministrativo. SS
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Inserito in data 13/01/2016 CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA PER LA REGIONE SICILIANA - 22 dicembre 2015, n. 740 L’interpretazione del nuovo divieto di rideterminazione della media e della soglia di anomalia Nella sentenza de qua, il C.G.A.R.S. si è interrogato sull’interpretazione dell’art. 38, comma 2 bis del Codice dei contratti così come introdotto dal d.l. 90/2014 nella parte in cui ha sancito il divieto di procedere al ricalcolo della media dopo la fase di ammissione, regolarizzazione o esclusione delle offerte. Innanzitutto, il Collegio ha delineato il perimetro applicativo della disposizione precisando che essa vada interpretata nel senso di “non permettere qualsiasi successiva variazione della media e della soglia di anomalia o per effetto di una pronuncia giurisdizionale o in ragione di provvedimenti adottati dall’amministrazione in sede di autotutela”. Tale interpretazione risponde alla finalità perseguita dal legislatore di giungere alla rapida stipulazione ed esecuzione del contratto, peraltro, per evitare qualunque dubbio di legittimità costituzionale, va precisato che per l’interessato – ostacolato dalla norma nell’acquisire il bene della vita cui aspirava – resta impregiudicata la possibilità del rimedio risarcitorio per equivalente nonché le connesse responsabilità dell’amministrazione e dei funzionari per il loro operato. In secondo luogo, il C.G.A. si è interrogato su quale sia il momento a partire dal quale opera per l’amministrazione il divieto di agire in autotutela. A tal fine, il Consiglio ha sposato una tesi in base alla quale il potere di agire in autotutela è vietato dalla norma de qua solo dopo che la stazione appaltante ha adottato il provvedimento di aggiudicazione definitiva. Precisa il Collegio che “nonostante il fatto che la norma possa legittimare una diversa interpretazione (maggiormente restrittiva del potere dell’amministrazione di agire in autotutela, escludendo tale possibilità sin dall’atto di ammissione o di esclusione), ragioni di carattere sistematico e logico impongono la soluzione che esclude il potere della stazione appaltante di agire in autotutela solo dopo l’adozione dell’atto di aggiudicazione definitiva, rimanendo possibile prima di tale momento”. Ragionando diversamente, l’utilizzo della locuzione “successivamente alla fase di ammissione, regolarizzazione o esclusione delle offerte” significherebbe che l’amministrazione non possa “ritornare sui suoi passi”, agendo in autotutela, dopo che, nel momento destinato alla verifica dei requisiti, abbia ammesso o escluso un operatore economico e, dunque, già sin dalla seduta in cui, aperta la busta, sia stata decisa l’ammissione o l’esclusione. Si avrebbe, conseguentemente, che, ammesso o escluso un operatore economico, l’amministrazione non potrebbe rivedere la sua scelta a prescindere dal momento in cui si è accorta dell’errore (prima dell’aggiudicazione provvisoria, dopo l’aggiudicazione provvisoria e prima di quella definitiva, dopo l’aggiudicazione definitiva). Peraltro, l’operatore pretermesso non avrebbe la possibilità di ottenere una revisione in autotutela dell’operato dell’amministrazione (e l’aggiudicazione in suo favore) e, potrebbe agire solo per il risarcimento del danno, sempre che si accolga la tesi che ammette tale possibilità. SS |
Inserito in data 12/01/2016 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV - 12 gennaio 2016, n. 59 È ammesso solo il controllo estrinseco sui giudizi sul rendimento degli ufficiali della GDF La sentenza in esame tratta la tematica dell’intensità del controllo giurisdizionale sui giudizi valutativi sul rendimento del personale della Guardia di Finanza. Secondo il collegio, “ogni valutazione espressa per la formazione dei quadri di avanzamento al grado superiore goda di specifica autonomia, senza che un giudizio successivamente formulato possa essere vincolato ad uno precedentemente espresso”. ”E ciò a maggior ragione quando, come nella specie, il giudizio in contestazione non attenga né allo stesso grado già precedentemente scrutinato ma ad altro grado, né allo stesso periodo, con ciò ancor più giustificandosi una possibile diversità dei risultati e la non invocabilità del “principio di continuità logica delle valutazioni””.
Pertanto, “il controllo giurisdizionale dei giudizi valutativi sul rendimento, sulle capacità lavorative e sulle attitudini del personale militare è assai limitato, in quanto si tratta di una tipica valutazione di "merito" riservata all'Amministrazione militare”. In particolare, “il giudicante deve limitarsi al mero riscontro di eventuali profili sintomatici dell'eccesso di potere, inteso sia nelle figure tradizionali sia in quelle più evolute del sindacato di ragionevolezza e di proporzionalità (in particolare nel caso in cui i fatti accertati e posti a fondamento del giudizio valutativo si rivelino insussistenti, oppure, ancorché effettivamente sussistenti, siano stati macroscopicamente travisati nel loro valore tale da indurre alla formulazione di valutazioni del tutto inverosimili, la cui erroneità sia talmente palese da essere percepibile da chiunque)”. TM
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Inserito in data 12/01/2016 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV - 12 gennaio 2016, n. 67 Se nel bando i costi per la sicurezza sono già stimati, l’offerente non deve esplicitarli La pronuncia segnalata riguarda una procedura di affidamento di appalti pubblici e desta interesse, soprattutto, sotto due profili. Da un canto, si chiarisce l’ambito applicativo del principio di diritto enunciato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la decisione n. 3 del 2015. Segnatamente, l’Adunanza Plenaria aveva affermato che anche i concorrenti alle procedure di affidamento di lavori hanno l’obbligo di esplicitare i costi per la sicurezza a prescindere dalla sussistenza di una prescrizione del bando in tal senso e a pena di esclusione dalla gara. Ad avviso della Quarta Sezione del Consiglio di Stato, “il principio di diritto di cui alla invocata decisione dell’Adunanza Plenaria non è applicabile alla fattispecie sottoposta all’attenzione del Collegio, riguardando un caso in cui la Stazione appaltante non aveva in alcun modo specificato e predeterminato i costi della sicurezza c.d. interni”. ”Nella lex specialis dell’appalto di cui trattasi, al contrario, tali costi sono stati puntualmente stimati”.
D’altro canto, ci ricorda che la stazione appaltante può caducare in autotutela l’aggiudicazione provvisoria, senza inoltrare agli interessati la specifica comunicazione di avvio del procedimento. Ciò in quanto “l’aggiudicazione provvisoria quale atto che determina una scelta non ancora definitiva del soggetto aggiudicatario della gara non costituisce provvedimento conclusivo del procedimento, facendo nascere in capo all'interessato solo una mera aspettativa alla definizione positiva del procedimento stesso”. “Pertanto detta aggiudicazione, al contrario di quella definitiva, è inidonea ad attribuire in modo stabile il bene della vita, ed alla Stazione appaltante è quindi riconosciuta la possibilità di procedere alla sua revoca o al suo annullamento ovvero, ancora, di non procedere affatto all'aggiudicazione definitiva”. TM
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Inserito in data 11/01/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 8 gennaio 2016, n. 27 Variazione di strumenti urbanistici ex art. 5 d.P.R. n. 447/1998 Il Consiglio di Stato si pronuncia sulla variante urbanistica semplificata al programma di fabbricazione (p.d.f.), in ordine all’insediamento di una media struttura commerciale di vendita, ricadente in area originariamente destinata a zona “agricola semplice”, convertita all’esito dell’apposita conferenza dei servizî in zona “industriale-artigianale”. Il ricorrente, e appellante, titolare di altro esercizio di vendita, situato nelle immediate vicinanze del suolo interessato dall’intervento, si opponeva al provvedimento. Il collegio affronta primariamente la questione della mancata sottoposizione della variante urbanistica alla valutazione ambientale strategica (v.a.s.). Osservano i giudici di Palazzo Spada, in conformità alla pronuncia del Tribunale di prime cure, come tale acquisizione avrebbe dovuto certamente essere effettuata in base alla normativa vigente al tempo della delibera consiliare di variazione. Tuttavia, l’aggiunta medio tempore del comma dodicesimo all’art. 6 del d.lgs. n. 152/2006, ha determinato il difetto di interesse dell’istante alla decisione sul punto. Essendo, infatti, venuto meno l’obbligo di sottoporre le modifiche in questione alla valutazione in parola, la rinnovazione dell’attività amministrativa, all’esito di un eventuale annullamento della delibera di approvazione della variante, in applicazione del principio tempus regit actum, non avrebbe comunque reso necessaria l’attivazione della procedura di v.a.s.. Viene in proposito richiamato il prevalente insegnamento giurisprudenziale secondo cui: “In seguito all’annullamento giurisdizionale di un titolo abilitativo (o di un diniego di esso), l’Amministrazione deve riesaminare la relativa istanza non già ʻora per allora’, ma tenendo conto della normativa sopravvenuta medio tempore, con il solo limite – che qui non viene in rilievo – dell’inopponibilità delle modifiche legislative intervenute dopo la notifica della sentenza da parte del ricorrente vittorioso”. Non sussiste nemmeno un interesse all’accertamento incidentale della divisata illegittimità a fini risarcitorî, ex art. 34, comma terzo, c.p.a., avendo lo ius superveniens privato il ricorrente di ogni chance di ottenere un risultato diverso. Il Consiglio di Stato reputa invece fondata la censura relativa all’improprio ricorso allo strumento della variante urbanistica semplificata ai sensi dell’art. 5 del d.P.R. n. 447/1998. Viene, infatti, rilevata l’insussistenza del presupposto fattuale richiesto dalla norma, la quale consente la variante laddove l’area interessata dall’intervento abbia una destinazione incompatibile con lo stesso, a condizione che “lo strumento urbanistico non individui aree destinate all’insediamento di impianti produttivi ovvero queste siano insufficienti in relazione al progetto presentato”. Nella fattispecie, l’assetto urbanistico vigente contemplava alcune aree astrattamente idonee allo scopo perseguito, le quali risultavano, secondo le motivazioni del provvedimento amministrativo, in concreto non sfruttabili. Uno dei comparti, sito in zona di espansione, prevedeva fra le destinazioni quella commerciale, ma al suo interno doveva ritenersi non possibile la realizzazione di una media struttura di vendita, in considerazione della prevalente destinazione residenziale delle aree, sulle quali avrebbero potuto essere realizzati soltanto esercizî “di vicinato”. Un’altra area, destinata al piano per gli insediamenti produttivi (p.i.p.), era interessata da un problema di salute pubblica, legato alle emissioni provenienti da un elettrodotto, superiori ai minimi consentiti dalla legislazione regionale. La stessa area, peraltro, consentiva soltanto attività commerciali all’ingrosso, e non al dettaglio. Riprendendo la propria giurisprudenza, il collegio ribadisce il carattere eccezionale e derogatorio della procedura in esame, “la quale non può essere surrettiziamente trasformata in una modalità ordinaria di variazione dello strumento urbanistico generale”; “perché a tale procedura possa legittimamente farsi luogo, occorre che siano preventivamente accertati in modo oggettivo e rigoroso i presupposti di fatto richiesti dalla norma, e quindi anche l’assenza nello strumento urbanistico di aree destinate ad insediamenti produttivi (o commerciali) ovvero l’insufficienza di queste, laddove per insufficienza deve intendersi, in costanza degli standard previsti, una superficie non congrua (e, quindi, insufficiente) in ordine all’insediamento da realizzare”. “Più specificamente, si è affermato che, se è vero che il concetto di sufficienza o insufficienza delle aree esistenti va verificato in relazione al progetto presentato, il che certamente significa che esiste un margine di flessibilità e adattabilità di quest’ultimo, per inserirlo nel contesto risultante dallo strumento urbanistico, resta fermo, però, che il parametro di riferimento è costituito dallo strumento vigente, il quale non può essere esso oggetto di modifiche per adeguarlo alle esigenze del proponente”. Appare evidente, secondo i giudici, “che il presupposto fattuale costituito dalla assenza o insufficienza nello strumento urbanistico di aree a destinazione specifica e coerente con il progetto va inteso nel senso della necessità di verificare preventivamente la disponibilità non soltanto di aree stricto sensu destinate a insediamenti produttivi, ma anche di aree con destinazione commerciale, anche se non in via esclusiva, quali certamente sono le aree (…) di espansione”. Il giudizio di “insufficienza” delle aree esistenti nel p.d.f., pertanto, “è scaturito non già da una ritenuta insufficienza delle superfici (…), bensì da un apprezzamento tecnico-discrezionale dell’impatto che la realizzazione della struttura avrebbe avuto sulle diverse e residue destinazioni impresse alle medesime aree”. I giudici ritengono, pertanto, “molto discutibile che in tal modo possa dirsi integrato il presupposto normativo”, e opinabile il giudizio che ha portato a “sostenere che nelle aree in questione avrebbero potuto essere insediati solo esercizî di vicinato (limitazione, quest’ultima, non presente nelle disposizioni urbanistiche vigenti e che a sua volta è discesa dal suindicato apprezzamento tecnico-discrezionale); è evidente, infatti, che quella dell’inserimento della struttura commerciale nell’area in discorso e del suo raccordo con le altre destinazioni a questa impresse dal p.d.f. era questione afferente alle modalità esecutive dell’insediamento, e da affrontare in una alle altre problematiche connesse al rilascio dell’autorizzazione unica per l’esercizio commerciale”; “l’aver elevato tale problematica a elemento impeditivo a monte dell’utilizzabilità delle aree in questione, in modo da integrare il presupposto normativo per procedere a variante urbanistica su altra e diversa porzione del territorio comunale, costituisce chiaro elemento indiziario di sviamento di potere, inteso a offrire ai proponenti il progetto la possibilità, non consentita alla stregua della vigente disciplina urbanistica, di operare su aree in loro proprietà non compatibili dal punto di vista urbanistico con l’insediamento de quo”. Inoltre, anche con riferimento alle circostanze ritenute ostative all’utilizzabilità dell’ulteriore area p.i.p., successivamente alla declaratoria d’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma terzo, della l.r. campana n. 13/2001, per violazione della competenza statale in materia ambientale, nella parte in cui introduceva parametri di riferimento per le emissioni elettromagnetiche più rigorosi di quelli stabiliti dal d.P.C.m. 23 Aprile 1992, le misurazioni a suo tempo condotte devono ritenersi superate. Infine, e sempre in ordine all’area da ultimo menzionata, l’ulteriore impedimento costituito dalla norma tecnica di attuazione del p.i.p., che consente la presenza nella zona di soli esercizî all’ingrosso, ben avrebbe potuto essere superata con una semplice modifica del piano stesso, senza intervenire sullo strumento urbanistico generale.
Appariva pertanto preclusa, nel caso di specie, la possibilità di avvalersi dello strumento derogatorio ed eccezionale della variante semplificata. FM
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Inserito in data 11/01/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 8 gennaio 2016, n. 32 Riconoscimento del titolo professionale conseguito all’estero Con la sentenza in epigrafe il Consiglio di Stato definitivamente decide del ricorso avverso il provvedimento con il quale era stata respinta la domanda volta al riconoscimento del titolo di “economista”, conseguito in Spagna, quale titolo valido per l’iscrizione all’albo dei dottori commercialisti ed esperti contabili in Italia. Accolta in primo grado l’istanza del ricorrente; il Ministero della giustizia propone appello, deducendo violazione e/o falsa applicazione degli artt. 10 bis e 21 octies della l. n. 241/1990, degli artt. 11, 12, 13 e 14 della direttiva 2005/36/C.e., degli artt. 20, 21 e 22 del d.lgs. n. 206/2007, e dell’art. 1 del d.lgs. n. 139/2005, assumendosi che il mancato preavviso di rigetto non avrebbe, nel caso concreto, portata invalidante “essendo il provvedimento di reiezione vincolato dall’assenza di una specifica formazione professionale post-laurea svolta in Spagna dall’istante”. Il collegio ritiene l’appello manifestamente fondato. Segnatamente, i giudici di prime cure avevano fondato la propria pronuncia sulla “ritenuta sussistenza del vizio procedimentale di omissione della previa notificazione all’interessato del preavviso di rigetto”. I giudici di Palazzo Spada, diversamente opinando, giungono alla conclusione che possa invece senz’altro applicarsi la causa di esclusione dell’annullabilità sancita dal già menzionato art. 21 octies. In linea con la difesa erariale si osserva, infatti, come la direttiva 2005/36/C.e., recepita in Italia dal d.lgs. n. 206/2007, sia “costantemente interpretata dalle stesse istituzioni europee nel senso di non consentire l’automatico riconoscimento di titoli conseguiti in altro Stato dell’Unione, qualora questo sia richiesto al fine di ottenere l’attribuzione di un titolo per il quale l’ordinamento nazionale richiede un esame o una formazione professionale specifica, ulteriore rispetto al diploma di laurea” (cfr. Corte di giustizia dell’Unione europea, 29 Gennaio 2009, C-311). L’ottenimento del titolo di “economista” in territorio spagnolo è conseguibile sulla base della sola laurea, non essendo previsto nessun esame abilitativo, né alcuna formazione professionale: “Ne discende in modo pressoché vincolato l’impossibilità che tale titolo possa consentire in Italia l’iscrizione all’albo dei dottori commercialisti e degli esperti contabili”. FM
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Inserito in data 09/01/2016 TAR LOMBARDIA - BRESCIA, SEZ. II, 5 gennaio 2016, n. 6 Disciplina della cd. “cinotecnica”, SCIA ed eccesso di potere Il Collegio lombardo condivide le ragioni del soggetto ricorrente che, dedicatosi ad un’iniziale attività di onoterapia ed avendo deciso di ampliarla nel quadro di un più articolato progetto di pet therapy – subiva la inibizione dell’esercizio di tali attività. L’Amministrazione comunale, infatti, contestava l’avvenuta rettifica della SCIA originariamente presentata dal ricorrente. In particolare, dissentiva dalla possibilità che quest’ultimo si dedicasse anche alla disciplina della cd. cinotecnica (addestramento e selezione di specie canine), in quanto privo della qualifica di imprenditore agricolo – ex art. 2135 cod. civ. – ritenuta presuntivamente necessaria per un’attività non più classificabile come amatoriale – quale ritenuta, invece, dall’istante. L’Ente evidenziava, ancora, la necessaria qualifica di imprenditore agricolo in considerazione del fatto che l’attività contestata fosse esercitata in un territorio pianificato ed individuato quale zona agricola. I Giudici dissentono dalle valutazioni svolte dall’Amministrazione in sede di inibizione delle suddette attività. In primo luogo, infatti, sottolineano la non necessarietà della previa qualifica di imprenditore agricolo in capo al ricorrente. Essi ricordano, infatti, come lo stesso art. 2135 del c.c. – nello stabilire il criterio di collegamento dell'attività economica con il fattore produttivo “terra”, individuando le “attività connesse” come quelle che si inseriscono nel ciclo dell'economia agricola (cfr. Corte di Cassazione, sez. I civile – 10/5/2013 n. 11237) – è comunque rubricato “imprenditore agricolo”, e dunque si rivolge ai soggetti che (diversamente dal caso di specie) prestano l’attività in forma professionale. Tanto, per l’appunto, non ricorre nella questione in esame. Peraltro, richiamando la disciplina normativa regolante la cd. cinotecnica - L. n. 349/96 – il Collegio lombardo evidenzia come – sia pure in una lettura oscillante del suddetto dato normativo – parrebbero non sussistere ragioni logiche per escludere l’operatività di tale disciplina in un caso pari a quello oggi contestato – consistente solo in iniziative limitate all’addestramento. A dispetto, dunque, di quanto sostenuto dalla Difesa resistente, secondo la quale si debbano necessariamente comprendere – per rendere operativa tale regolamentazione - anche l’allevamento e la selezione canina, non praticate in tal caso. Infine, nell’avallare il gravame promosso, i Giudici lombardi condividono anche le valutazioni fatte in ultimo dal ricorrente, riguardo al ricorrere di un presunto eccesso di potere per illogicità manifesta, da parte dell’Amministrazione resistente.
Il Collegio, infatti, ricorda che la pet therapy consiste effettivamente in un’attività terapeutica di promozione della salute dei soggetti beneficiari, i quali si trovano in condizioni di particolare debolezza o fragilità: l’instaurazione di una relazione positiva con l’animale domestico realizza un evidente interesse di portata generale, ossia il miglioramento del benessere degli individui in difficoltà. Situazioni concretanti proprio quei servizi di interesse pubblico che l’Amministrazione, in questo caso, parrebbe non aver voluto perseguire. CC
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Inserito in data 08/01/2016 TAR LAZIO - ROMA, SEZ. III TER, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALLA CORTE COSTITUZIONALE - 28 dicembre 2015, n. 14564 Limiti costituzionali alle leggi “impropriamente retroattive” Con l’ordinanza in esame, il Collegio laziale ha ritenuto di sottoporre al giudizio della Corte costituzionale l’art. 26, commi 2 e 3, d.l. 91/14 (in tema di incentivi spettanti ai titolari di impianti fotovoltaici).
La questione dell’incostituzionalità del comma 3 (per violazione degli artt. 3 e 41 Cost.) desta interesse in quanto rientra nel tema dei limiti costituzionali alle leggi che modificano in peius il rapporto di durata, con riflessi negativi sulla posizione acquisita dall’interessato (cd. retroattività impropria). Secondo la Corte costituzionale, tali leggi sono legittime nonostante incidano su diritti soggettivi perfetti, purché la retroattività sia necessaria a tutelare principi, beni e diritti di rilievo costituzionale, che costituiscono motivi imperativi di interesse generale, ai sensi della CEDU; inoltre, tali disposizioni non devono collidere coi principi costituzionali e altri fondamentali valori di civiltà giuridica (es. il principio di ragionevolezza, la tutela del legittimo affidamento, la sicurezza giuridica, il rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario…). Analogamente, secondo la Corte di Giustizia UE, le disposizioni che incidono su rapporti di durata sono legittime, quando l’operatore economico prudente e accorto poteva prevederle. “Tanto premesso, ritiene il Collegio che in capo ai soggetti titolari di impianti fotovoltaici, fruitori delle relative incentivazioni pubbliche in forza di “contratto di diritto privato” (ex art. 24 d.lgs. n. 28/2011) o convenzione (avente la medesima natura […]) stipulati col GSE, sussista una posizione di legittimo affidamento nei sensi innanzi precisati, non essendo mai emersi nel corso del tempo elementi alla stregua dei quali un operatore “prudente e accorto” avrebbe potuto prevedere (al momento di chiedere gli incentivi, di decidere se far entrare in esercizio il proprio impianto e di stipulare con il Gestore il negozio che disciplina l’erogazione degli incentivi) l’adozione da parte delle autorità pubbliche di misure lesive del diritto agli incentivi stessi”. TM
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Inserito in data 07/01/2016 TAR LOMBARDIA - MILANO, SEZ. IV, 30 dicembre 2015, n. 2867 Ordinanza di rimozione dei rifiuti abbandonati Con la pronuncia in esame, i giudici meneghini si sono espressi in merito alla legittimità o meno di un’ordinanza di rimozione e smaltimento di rifiuti, indirizzata alla società proprietaria dell’area interessata dall’incontrollato abbandono, emessa sul mero presupposto della sua qualità di proprietaria del fondo e senza il previo accertamento, da parte dei soggetti preposti al controllo, della sua responsabilità a titolo di dolo o colpa. Il Collegio ha ritenuto che l’ordinanza emessa dal Comune, nella fattispecie, fosse in contrasto con il disposto dell’art. 192 del d.lgs. n. 15/2006 e non sorretta da adeguata motivazione. Ed infatti, costante giurisprudenza amministrativa ha ripetutamente affermato che è prevista la corresponsabilità solidale del proprietario o del titolare di diritti personali o reali di godimento sull’area ove siano stati abusivamente abbandonati o deposti i rifiuti “solo in quanto la violazione sia imputabile anche a quei soggetti a titolo di dolo o colpa”, precisando ulteriormente che l’ordine di rimozione può essere adottato esclusivamente in base agli accertamenti effettuati dai soggetti preposti al controllo, in contraddittorio, quindi, con i soggetti interessati. Nel caso di specie, l’ordine risultava assolutamente carente di motivazione, in quanto emesso sulla base della qualità di mera proprietaria dell’aera della ricorrente, senza, quindi, un previo accertamento della sua responsabilità, a titolo di dolo o colpa, per l’abbandono dei rifiuti ed in assenza di contraddittorio. Questo principio – hanno osservato i giudici milanesi – risulta altresì consacrato, a livello comunitario, dalla nota sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (causa C-534-2013), pronunciatasi sulla questione pregiudiziale sollevata dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (ordinanze n. 21/2013 e n. 25/2013) con riguardo agli obblighi del proprietario incolpevole in ordine alla messa in sicurezza ed alla bonifica di un sito inquinato. Uniformandosi all’orientamento maggioritario espresso dalla giurisprudenza amministrativa, il Giudice europeo ha confermato che “qualora il proprietario di un’area inquinata non sia anche l’autore della contaminazione, non è tenuto ad adottare le misure di messa in sicurezza d’emergenza e di bonifica della stessa”. Ed infatti, l’applicazione del regime di responsabilità, istituito dalla Direttiva UE 2004/35 sul danno ambientale, ha come suo ineludibile presupposto “l’individuazione di un soggetto che possa essere qualificato come responsabile della contaminazione, dovendo, dunque, l’Amministrazione accertare il nesso di causalità che esiste tra l’attività svolta dall’operatore e il danno ambientale contestato”.
Tali principi – ha affermato il Collegio - devono ritenersi estensivamente applicabili anche alle ipotesi di abbandono dei rifiuti, con la conseguenza che, non essendo stata, nel caso di specie, preventivamente accertata la responsabilità, a titolo di colpa o dolo, del proprietario dell’area per la violazione, alcun obbligo di provvedere allo smaltimento ed al ripristino può essere emesso nei suoi confronti. MB
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Inserito in data 07/01/2016 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V - 30 dicembre 2015, n. 5864 Giurisdizione in materia di contributi pubblici Con la sentenza in epigrafe, il Consiglio di Stato si è pronunciato sull’individuazione del giudice dotato di potestas judicandi con riguardo ad una controversia generata dalla revoca di un contributo regionale all’edilizia convenzionata. In via generale, secondo l’orientamento maggioritario della giurisprudenza della Corte di Cassazione e del Consiglio di Stato, in materia di controversie riguardanti la concessione e la revoca di contributi e sovvenzioni pubbliche, sussiste sempre la giurisdizione del giudice ordinario quando il finanziamento sia riconosciuto direttamente dalla legge, mentre alla Pubblica Amministrazione è demandato soltanto il compito di verificare l’effettiva esistenza dei relativi presupposti. Qualora la controversia attenga alla fase di erogazione o di ripetizione del contributo sul presupposto di un addotto inadempimento del beneficiario alle condizioni statuite in sede di erogazione, la giurisdizione spetta al giudice ordinario, anche se sia fatta questione di atti formalmente intitolati come revoca, decadenza o risoluzione; diversamente, la giurisdizione è del giudice amministrativo ove la controversia riguardi una fase procedimentale precedente al provvedimento discrezionale attributivo del beneficio, ovvero quando, a seguito della concessione del beneficio, il provvedimento sia stato annullato o revocato per vizi di legittimità o per contrasto iniziale con il pubblico interesse (ex plurimis, SS.UU. ord. N. 1776/2013, Ad.Pl. n. 6/2014). Il Collegio, uniformandosi a questo principio, ritiene quindi sussistente la giurisdizione del giudice ordinario, quando vi sia stata una sovvenzione pubblica e si contesti un atto di decadenza. “A maggior ragione – sottolineano i giudici di Palazzo Spada – quando, come avvenuto nel caso di specie, l’Amministrazione ritenga di essere creditrice di una somma di denaro, in quanto erogata a chi non la doveva percepire”. Pertanto, il Consiglio di Stato, in riforma dell’impugnata sentenza, ha dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, sussistendo quella del giudice ordinario. MB
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Inserito in data 05/01/2016 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V - 30 dicembre 2015, n. 5873 Indicazione degli oneri di sicurezza aziendale La sentenza in oggetto si inserisce nel novero delle pronunce che nel corso degli ultimi due anni hanno segnato l’importante dibattito sul tema dell’omessa previsione nella lex specialis dell’obbligo, a carico dei concorrenti, di indicare nell’offerta economica i costi di sicurezza aziendali, e della conseguente violazione dell’art. 87 del codice dei contratti pubblici, alla luce del quale il bando deve ritenersi etero integrato, secondo l’attuale orientamento giurisprudenziale. Il ricorrente lamentava la violazione dei principî elaborati dall’adunanza plenaria n. 16 del 2014, del favor partecipationis e del legittimo affidamento dei concorrenti; oltre che l’inammissibilità del ricorso in primo grado per la mancata impugnativa del bando di gara e della relativa modulistica, e l’impossibilità di invocare la tecnica di etero integrazione, la quale costituirebbe, di fatto, una disapplicazione della lex specialis. Costituiva gravame, infine, la prospettata violazione degli artt. 86 e 87 del codice dei contratti pubblici “sotto il profilo che l’incidenza dei costi di sicurezza aziendali andrebbe vagliata nella sede propria della valutazione della anomalia dell’offerta”, nonché la violazione del principio di tassatività delle clausole di esclusione “sotto il profilo della violazione dell’art. 46 del codice dei contratti pubblici, come interpretato dalla sentenza dell’adunanza plenaria n. 9 del 2014”. I giudici di Palazzo Spada respingono l’appello per infondatezza.
Richiamandosi alle sentenze pronunciate dall’adunanza plenaria (nn. 9 e 3 del 2015, e 16 e 9 del 2014), i giudici ribadiscono che: “In tutte le gare di appalti di lavori, servizî e forniture, le imprese devono indicare in sede di offerta economica gli oneri di sicurezza aziendali (c.d. costi di sicurezza interni); tale obbligo integra un precetto imperativo che etero integra la legge di gara, ove questa sia silente sul punto o comunque compatibile con esso, nel rispetto del ‘principio di tassatività attenuata’ delle cause di esclusione, sancito dall’art. 46 del codice dei contratti pubblici”; “Nel caso di mancata indicazione degli oneri di sicurezza aziendali, non sono legittimamente esercitabili i poteri attinenti al soccorso istruttorio, anche per le procedure nelle quali la fase della presentazione delle offerte si è conclusa (come nel caso di specie) prima della pubblicazione della decisione dell’adunanza plenaria n. 3 del 2015”; “Nella vicenda in esame: il bando di gara non ha imposto di non esplicitare, da parte dell’impresa concorrente, i costi di sicurezza aziendali (anzi ha specificato, che la dichiarazione relativa all’offerta economica doveva essere compilata adeguandola alla fattispecie); in ogni caso, quand’anche si dovesse ritenere che il bando di gara abbia escluso l’obbligo delle imprese di indicare i costi di sicurezza aziendale in sede di offerta, in parte qua esso è stato espressamente impugnato dalla ditta (appellata) (sicché per tale ipotesi non si può che disporre l’annullamento in parte qua del bando, nel senso del suo adeguamento alle disposizioni di legge, quale fonte del dovere dell’Amministrazione di disporre l’esclusione dell’appellante)”. FM
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Inserito in data 04/01/2016 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI - 28 dicembre 2015, n. 5844 Autorizzazione paesaggistica: preavviso di rigetto; poteri della Sovrintendenza Con la sentenza in epigrafe il Consiglio di Stato si pronuncia sull’obbligo di comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza di autorizzazione paesaggistica ex art. 146, comma ottavo, del Codice dei beni culturali e del paesaggio (d.lgs. n. 42/2004), e sulle competenze delle Soprintendenze ai sensi dello stesso art. 146, comma quinto. Nel caso di specie, il ricorrente agiva per l’annullamento del parere negativo reso dalla Soprintendenza, in ordine al progetto di realizzazione di un’unità produttiva artigianale, dopo che l’organo consultivo comunale aveva invece espresso “parere favorevole di compatibilità dell’intervento rispetto ai valori paesaggistici”. L’interessato, segnatamente, deduceva: violazione del citato art. 146, eccesso di potere, carenza di potere, sviamento e inammissibilità, “in quanto la Soprintendenza, invece di esercitare un controllo di legittimità sulla decisione comunale, si sarebbe sostituita all’ente locale compiendo un’autonoma valutazione di merito, non consentita, sulla compatibilità dell’intervento, pienamente assentibile”; violazione dell’art. 146, dell’art. 3 della l. n. 241/1990 e dell’art. 97 Cost., “perché dal parere dell’organo statale non emerge una contestazione specifica degli elementi valutati dall’ente locale – (e inoltre il parere stesso) impinge nel merito di valutazioni tecnico discrezionali che ricadono nella sfera di competenza esclusiva dell’ente locale, preposto alla tutela del vincolo”; e infine, violazione dell’art. 10 bis della l. n. 241/1990, e degli artt. 146 e 159 del d.lgs. n. 42/2004, violazione del giusto procedimento amministrativo e del contraddittorio, “in quanto né il Comune, né la Soprintendenza hanno preventivamente comunicato all’interessato i motivi ostativi al rilascio del parere positivo”. In ordine al profilo da ultimo emarginato, il Collegio, conformemente alla statuizione di primo grado, osserva che ai sensi dell’art. 146, comma ottavo (nel testo vigente al tempo dell’adozione dell’atto impugnato – in vigore dal 24 Aprile 2008 al 12 Luglio 2011), “l’obbligo di comunicazione gravava in capo alla sola Regione (o all’ente sub delegato), prima di adottare il provvedimento definitivo di diniego”, e che, nel caso di specie, il procedimento non era ancora giunto a tale fase, avendo il ricorrente immediatamente deciso di impugnare, in via diretta, il parere negativo della Sovrintendenza, il quale è senz’altro dotato di immediata e autonoma capacità lesiva. Circa la violazione diretta dell’art. 10 bis, quale norma di carattere generale, in base alla quale la Sovrintendenza sarebbe tenuta a comunicare le “ragioni ostative all’accoglimento delle domande dei privati prima di ogni atto che si pronunci in maniera definitiva e sfavorevole al richiedente”, i giudici di Palazzo Spada ribadiscono le precedenti pronunce in base alle quali “il parere reso al Comune ai fini paesaggistici dall’Amministrazione preposta alla tutela dello specifico interesse non è soggetto all’obbligo di comunicazione preventiva del preavviso di rigetto di cui al citato art. 10 bis, in quanto costituisce esercizio, entro un termine decadenziale, di un potere che intercorre tra autorità pubbliche”. Relativamente ai primi motivi di impugnazione, si osserva che nel nuovo regime ex art. 146 “l’autorità statale esprime un parere vincolante ed esteso al merito circa l’assentibilità paesaggistica dell’intervento progettato”. Non si è in presenza di un atto di secondo grado, incidente su una precedente determinazione amministrativa; il parere viene reso “in autonomia utilizzando competenze tecnico-specialistiche senza la necessità di confutare analiticamente punto per punto le ragioni della valutazione favorevole operata dal Comune”.
Sul difetto di motivazione e di presupposti, la carenza d’istruttoria e il travisamento di fatti, l’irragionevolezza manifesta e l’esorbitanza dalle competenze della Soprintendenza, “posto che il parere negativo si baserebbe su ragioni di carattere urbanistico anziché attinenti alla tutela del paesaggio”, i giudici rilevano preliminarmente che la Soprintendenza, diversamente dal passato, è titolare di un potere di valutazione sull’intervento progettato che non si limita al sindacato di legittimità (cfr. regime transitorio, vigente fino al 31 Dicembre 2009, ex art. 159, d.lgs. n. 42/2004), ma si estende al merito; l’organo periferico dello Stato “compie una valutazione di discrezionalità tecnica di compatibilità con i valori protetti, espressione dei nuovi poteri di cogestione del vincolo paesaggistico ex art. 146”. Per tutto quanto precede, la Soprintendenza non può ritenersi obbligata a confutare puntualmente le considerazioni favorevoli svolte dall’organo comunale. “Il potere di valutazione tecnica esercitato è sindacabile in sede giurisdizionale soltanto per difetto di motivazione, illogicità manifesta ovvero errore di fatto conclamato, tutte ipotesi che nella specie non ricorrono”. “La motivazione del parere indica dimensioni e caratteristiche dell’intervento, descrive il contesto paesaggistico nel quale esso si colloca e il rapporto tra intervento progettato e contesto stesso, con specifico riguardo al profilo dell’inserimento armonico dell’opera nel paesaggio”. “La motivazione del parere, pur non particolarmente ampia, è sufficiente e adeguata nell’indicare le ragioni dell’impatto dell’opera sul paesaggio circostante e del contrasto con le esigenze di tutela e di riqualificazione dell’area”. “Le considerazioni dell’organo statale territoriale sulla vocazione agricola residuale dell’area si inscrivono (…) entro una valutazione, doverosa e globale, da parte della Soprintendenza, del contesto di riferimento”, non già come illegittimi rilievi di tipo urbanistico. FM
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Inserito in data 02/01/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL'ADUNANZA PLENARIA - 28 dicembre 2015, n. 5861 Graduatorie ad esaurimento degli insegnanti: rimessione alla Plenaria Con l’ordinanza de qua, il Consiglio di Stato si è interrogato sulla dibattuta questione della possibilità o meno di inserire nelle graduatorie ad esaurimento i docenti possessori di diploma magistrale conseguito entro l’anno 2001/2002. Premesso che le graduatorie ad esaurimento, in cui gli appellanti vorrebbero essere inseriti, discendono dalla trasformazione delle graduatorie permanenti del personale docente, con alcuni ulteriori inserimenti per personale già abilitato o con abilitazione in corso di conseguimento o per chi si fosse iscritto al corso di laurea in scienze della formazione, nessuna inclusione invece è prevista per chi abbia conseguito il diploma entro l’anno 2001/2002, pur essendo il titolo in questione antecedente alla chiusura delle graduatorie stesse. In sede di ricorso straordinario, si è riconosciuta l’efficacia abilitante del titolo ma – precisa il Collegio – continua ad essere espressamente negata la possibilità di iscrivere i docenti in questione nelle graduatorie ad esaurimento, “per la preclusione normativa sussistente al riguardo, ovvero per non essere stata rappresentata in tempo utile la possibilità di inserimento degli stessi nelle graduatorie permanenti, con conseguente tardività dell’impugnazione sotto tale profilo”. La tesi sostenuta dagli appellanti afferma che il carattere abilitante del titolo di cui trattasi non farebbe sorgere una posizione diversa da quella degli insegnanti, a suo tempo inseriti nelle graduatorie permanenti e quindi, all’atto della trasformazione delle stesse, nelle graduatorie ad esaurimento. In tal senso sono stati presentati numerosissimi ricorsi in alcuni casi accolti in sede di appello, tuttavia, ad avviso del Consiglio, tali conclusioni sono ampliative rispetto a quelle del citato ricorso straordinario e, dunque, non appaiono condivisibili. Peraltro, sottolinea il Collegio, come “la domanda degli appellanti vada ben oltre, se intesa come indiscriminata rivendicazione della possibilità – per chiunque avesse avuto (a tempo debito) la possibilità di accedere alle graduatorie, per il reclutamento di personale docente (prima a titolo precario, poi anche a tempo indeterminato) – di richiedere ed ottenere in qualsiasi momento l’iscrizione nelle graduatorie, ormai ad esaurimento”. Ne consegue che va rimessa all’Adunanza Plenaria, ai sensi dell’art. 99 c.p.a., al fine di risolvere e prevenire futuri contrasti giurisprudenziali, la questione della riapertura delle graduatorie ad esaurimento, per i possessori di diploma magistrale conseguito entro l’anno scolastico 2001/2002. SS
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Inserito in data 02/01/2016 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 30 dicembre 2015, n. 5862 Annullamento in autotutela di una gara per finanziamento pubblico: legittimazione all’impugnazione I giudici di Palazzo Spada si sono pronunciati sull’annullamento in via di autotutela di un bando di concorso per la realizzazione di alloggi di edilizia residenziale sociale, mediante erogazione di appositi finanziamenti e sulla necessità, di regola, che la ditta interessata partecipi alla gara per riconoscere la sua legittimazione all’impugnazione. In particolare, hanno precisato che è legittimo l’esercizio del potere di autotutela motivato con la presenza di gravi vizi del procedimento riscontrati ex post dall’amministrazione in quanto “l’interesse pubblico alla revoca dell’illegittimo finanziamento prevale sull’eventuale affidamento ingenerato nel beneficiario soprattutto quando, considerando le modalità palesemente illegittime attraverso le quali quest’ultimo si è visto assegnare il beneficio economico, è da escludere che si possa essere ingenerato un qualsiasi legittimo affidamento”. Peraltro, l’annullamento in autotutela dell’illegittima ammissione al finanziamento “ha natura sostanzialmente doverosa sotto il profilo delle responsabilità e della legittima gestione delle risorse pubbliche”: non rileva nella specie, infatti, solo la validazione della spesa da parte dell’Amministrazione, ma anche la necessità stessa di ripristinare la legalità violata che ha originato un’indebita (anche potenziale) erogazione di benefici economici comunque a danno delle finanze pubbliche. Per ciò che concerne, invece, la legittimazione all’impugnazione, il Consiglio ha affermato che, soprattutto in materia di controversie aventi ad oggetto gare di appalto e affidamenti di servizi, “il tema della legittimazione al ricorso è declinato nel senso che essa deve essere correlata alla circostanza che l’instaurazione del giudizio non solo sia proposta da chi è legittimato al ricorso, ma anche che non appaia finalizzata a tutelare interessi emulativi, di mero fatto, pretese impossibili o contra ius”. In ogni caso, “l’impresa che non partecipa alla gara non può contestare la relativa procedura e l’aggiudicazione in favore di ditte terze”, in quanto a tale regola generale può essere fatta eccezione solo in tre tassative ipotesi: quando si contesti in radice l’indizione della gara; quando, all’inverso, si contesti che una gara sia mancata, avendo l’amministrazione disposto l’affidamento in via diretta del contratto; e quando si impugnino direttamente le clausole del bando deducendo che le stesse siano immediatamente escludenti. SS
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Inserito in data 30/12/2015 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, 28 dicembre 2015, n. 5856 Da attività alberghiera ad attività di affittacamere: vi è mutamento di destinazione d’uso? Il Consiglio di Stato, nella sentenza in epigrafe, si è pronunciato sulla sussistenza o meno di un mutamento di destinazione d’uso nell’ipotesi di utilizzo di un immobile destinato ad albergo per l’esercizio dell’attività di affittacamere. In particolare, il Comune appellante si doleva della falsa rappresentazione in ordine alla destinazione dell’immobile effettuata da parte appellata al momento della presentazione della domanda di autorizzazione per lo svolgimento della sopra citata attività. Al riguardo, il Collegio ha ribadito che “l'attività di affittacamere, pur differenziandosi da quella alberghiera per le dimensioni modeste, richiede non solo la cessione del godimento di un locale ammobiliato e provvisto delle necessarie somministrazioni (luce, acqua, ecc.), ma anche la prestazione di servizi personali, quali il riassetto del locale stesso e la fornitura della biancheria da letto e da bagno”. Ne consegue che non sussiste la radicale oggettiva diversità tra le due modalità di destinazione (alberghiera e di affittacamere) denunciata dall’appellante, di talchè non è configurabile una falsa rappresentazione in ordine al denunciato cambio di destinazione dell’immobile, considerata la parziale sovrapposizione tra le due forme di destinazione e la circostanza che l’eventuale impiego del bene secondo modalità parzialmente diverse da quelle che configurano “l’affittacamere” comporta l’applicazione di una sanzione pecuniaria. SS
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Inserito in data 30/12/2015 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, 28 dicembre 2015, n. 5841 Espropriazione per p.u.: rapporto tra impugnazione della dichiarazione e risarcimento dei danni Con la sentenza de qua, i giudici di Palazzo Spada sono stati chiamati a pronunciarsi sul rapporto intercorrente tra l’impugnazione della dichiarazione di pubblica utilità e l’azione risarcitoria per i danni da occupazione illegittima, nonché sui poteri del giudice amministrativo in queste ipotesi. In particolare, si sono domandati se la reiezione del ricorso avverso la dichiarazione di pubblica utilità implicasse automaticamente anche la reiezione della domanda risarcitoria e se, visto l’assenza nell’art. 42 bis del D.P.R. 327/2001 di un termine per adottare l’atto di acquisizione sanante, il giudice possa ordinare alla p.a. occupante di scegliere, entro un determinato termine, tra l’emanazione del provvedimento di acquisizione sanante e la restituzione del bene. Con riguardo alla prima questione, ritiene il Consiglio, che “è errata la sentenza di primo grado che fa discendere automaticamente dal rigetto dei motivi di impugnazione della delibera di approvazione del progetto, alla quale era riconnessa la dichiarazione di pubblica utilità, anche l’infondatezza dell’azione risarcitoria da occupazione illegittima, ove risulti che la parte ricorrente abbia chiesto anche la condanna della p.a. espropriante al risarcimento e quest’ultima non abbia emesso il decreto di espropriazione entro i termini decorrenti dall’occupazione d’urgenza, atteso che l’illegittima occupazione dei terreni del privato costituisce di per sé un’autonoma fattispecie costitutiva di danno”. Con riguardo alla seconda questione, il Collegio ha dapprima richiamato l’orientamento di recente espresso dalla Corte Costituzionale (sent. 71/2015) che ha eliminato ogni dubbio di costituzionalità sull’art. 42 bis nella parte in cui non prevede un termine per adottare il relativo provvedimento di acquisizione, e ha, poi, affermato che, proprio al fine di far ottenere al privato una decisione della p.a. in un termine giudizialmente stabilito, “il giudice possa condannare l’Amministrazione a scegliere, entro un termine fissato, tra l’adozione del provvedimento di acquisizione o la restituzione del bene con il risarcimento dei danni derivanti dall’occupazione illegittima”. SS
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Inserito in data 29/12/2015 TAR LAZIO - ROMA, SEZ. II TER, 22 dicembre 2015, n. 14441 Deficit di fiducia ed esclusione dalla gara: obbligo motivazionale della stazione appaltante Con la pronuncia in epigrafe, il TAR Lazio – Roma ha accolto il ricorso proposto da un’impresa avverso il provvedimento con il quale la stessa era stata esclusa dalla gara - ex art. 38, co. 1, lett. f) del d. lgs. n. 163/2006 – a causa di un precedente inadempimento contrattuale che – nella prospettazione della ricorrente – sarebbe in realtà dipeso da un evento di causa di forza maggiore in capo ad altra impresa facente parte del costituito RTI. I giudici romani, richiamando pregressa giurisprudenza del Consiglio di Stato, affermano che l’esclusione dalla gara d’appalto prevista dall’art. 38 lett. f) d.lgs n. 163/2006 scaturisce dalla necessità di garantire l’elemento fiduciario nei rapporti contrattuali della pubblica amministrazione, fin dal momento genetico, in questo modo scongiurando le situazioni di pericolo che potrebbero discendere dalla stipulazione di un contratto con operatori economici ritenuti professionalmente inaffidabili. Per giungersi ad un tale giudizio di inaffidabilità, e quindi “ai fini dell’esclusione di un concorrente dalla gara, non è necessario un accertamento della responsabilità per l’inadempimento relativo ad un precedente rapporto contrattuale - quale sarebbe richiesto per l’esercizio di un potere sanzionatorio - ma è sufficiente una motivata valutazione dell’Amministrazione in ordine alla grave negligenza o malafede nell’esercizio delle prestazioni affidate dalla Stazione appaltante che bandisce la gara, che abbia fatto venir meno la fiducia nell’impresa, potere il quale, in quanto discrezionale, è soggetto al sindacato del giudice amministrativo nei soli limiti della manifesta illogicità, irrazionalità o errore di fatto”. La lesione dell'elemento fiduciario trova la propria ragion d’essere nelle valutazioni - di carattere discrezionale - rimesse alla stazione appaltante. Vero è però che il carattere discrezionale del provvedimento di esclusione impone alla pubblica amministrazione di assolvere ad un puntuale e rigoroso onere motivazionale del provvedimento. In particolare – precisano i giudici romani – “dalla motivazione del provvedimento di esclusione, deve emergere l'incidenza della malafede o negligenza dell'operatore economico privato nel pregresso inadempimento contrattuale, al fine di evitare che il deficit di fiducia venga strumentalizzato allo scopo di determinare l'esclusione definitiva dell'impresa dal mercato degli appalti pubblici”. Diversamente, la mera allegazione di un precedente inadempimento contrattuale – nel caso di specie neppure imputabile all’impresa partecipante alla gara - non si appalesa di per sé idonea a giustificare l’adozione del provvedimento di esclusione ai sensi della lettera f) dell’art. 38 del codice degli appalti, occorrendo invece una motivazione puntuale e rigorosa a sostegno delle ragioni per cui, oltre all’inadempimento, l’impresa esclusa abbia compiuto rilevanti violazioni dei doveri professionale o contrattuali, dolose o gravemente colpose, tali da compromettere il rapporto fiduciario tra le parti. MB |
Inserito in data 28/12/2015 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 21 dicembre 2015, n. 5786 Decorrenza della penalità di mora La IV Sezione del Consiglio di Stato, con la sentenza in commento, si è espressa in ordine all’individuazione del momento della decorrenza della penalità di mora, nella fattispecie accogliendo il ricorso proposto dal Ministero della Giustizia avverso la sentenza resa dal Tar Lazio-Roma concernente l’ottemperanza al giudicato di un decreto della Corte di Appello di Roma. Il Giudice di prime cure, rilevato che il titolo giudiziale, già passato in giudicato, non aveva ancora ricevuto esecuzione, aveva ordinato al Ministero di dare integrale esecuzione al decreto, al tempo stesso aveva accolto la domanda di condanna ex art 114, co. 4, lett. e) del cod. proc. amm., fissando la decorrenza della penalità a far data dalla notificazione dell'atto introduttivo del giudizio di ottemperanza. In particolare, il tribunale amministrativo regionale, nella motivazione della sentenza, aveva ritenuto di dover concedere all’Amministrazione “un termine di tolleranza di sei mesi, la cui decorrenza va individuata con riferimento alla data in cui il titolo giudiziale recante la condanna al pagamento di una somma di denaro a titolo di indennizzo, munito della prescritta formula esecutiva, è stato notificato nei confronti dell'Amministrazione soccombente”. La IV Sezione del Consiglio di Stato ha ritenuto, con la pronuncia in epigrafe, di non poter condividere le motivazioni rese in primo grado dal Collegio, per un duplice ordine di ragioni. Anzitutto poiché la condanna ex art. 114, co. 4, lett. e), appare, nel caso di specie, sproporzionata in ragione dell'entità della pretesa azionata, avente ad oggetto il pagamento di una somma di denaro di importo esiguo, da corrispondere a titolo di equa riparazione per l’irragionevole durata del processo, e ciò tanto più alla luce del dato normativo che prescrive che il giudice possa ordinare all'Amministrazione il pagamento di una penalità di mora per ogni ulteriore ritardo nell'adempimento, "salvo che ciò sia manifestamente iniquo”. Sotto altro profilo - ha rilevato il Collegio - il TAR avrebbe, erroneamente, fatto decorrere la penalità di mora dalla notifica dell’atto introduttivo del giudizio di ottemperanza, senza rispettare il termine di tolleranza di sei mesi, indicato nella sentenza. Con riguardo all’individuazione del momento di decorrenza della penalità di mora – ha osservato il Consiglio di Stato – la giurisprudenza amministrativa non appare del tutto uniforme. Segnatamente, secondo un primo orientamento, formatosi successivamente alla pronuncia dell’Ad. Plen. n. 15/2014 (a cui aderisce la sentenza impugnata), la decorrenza delle astreintes va individuate con riferimento al giorno della notifica del ricorso per l'ottemperanza. Secondo una diversa prospettazione, il termine iniziale decorrerebbe invece dalla data di notifica del provvedimento da ottemperare. Tuttavia, la IV Sezione ha ritenuto non condivisibili sul piano logico le citate soluzioni, in quanto esse non concederebbero all’amministrazione soccombente - alla luce delle procedure contabili che essa è tenuta a rispettare - un lasso temporale, neppure minimo, per adempiere al pagamento. Le richiamate soluzioni si porrebbero, quindi, in contrasto con la ratio stessa dell'istituto, in quanto “fissano il termine iniziale di decorrenza della astreinte in un momento antecedente rispetto alla pronuncia sull'ottemperanza, la quale, constatando l'intervenuto inadempimento da parte dell'amministrazione, definisce il termine minimo dal quale può operare la penalità di mora”. In questo modo – ritiene il Collegio - la penalità di mora “perderebbe la sua funzione riconosciuta come esclusiva di stimolo all'adempimento, e lato sensu sanzionatoria, per assumere una funzione risarcitoria, estranea al dettato legislativo, e comunque già assicurata dagli interessi legali”. Pertanto, ritiene conclusivamente il Collegio con la pronuncia de qua, appare più aderente al dettato normativo “la soluzione secondo cui la penalità decorra, solo eventualmente, dallo spirare del termine concesso all'amministrazione per adempiere”, ed infatti – proseguono i giudici di palazzo Spada – le astreinte si configurano come “uno strumento per contrastare non l’inottemperanza, ma il protrarsi della stessa nonostante l'intervenuto accertamento di essa”, trovando esse applicazione “a partire dal momento in cui l'Amministrazione dimostri la sua pervicace volontà di non attuare il giudicato” e quindi “solo allorquando l'Amministrazione non abbia ottemperato nel termine prescritto dalla sentenza di ottemperanza, il quale a sua volta decorre dal giorno della comunicazione/notificazione della stessa”. MB
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Inserito in data 23/12/2015 TAR CAMPANIA - SALERNO, SEZ. I, 18 dicembre 2015, n. 2662 Riduzione del finanziamento pubblico per il comportamento del beneficiario Con la sentenza in epigrafe il collegio campano conferma l’orientamento in base al quale difetta la giurisdizione amministrativa in caso di controversia concernente un finanziamento pubblico già riconosciuto, quando la questione attiene al comportamento del beneficiario. Richiamando la precedente giurisprudenza: “In tema di sovvenzioni e di contributi pubblici, successivamente all’attribuzione del beneficio, il destinatario risulta titolare di un diritto soggettivo, per cui in caso di insorgenza di controversia nella fase di erogazione del contributo o sovvenzione, per un preteso inadempimento del destinatario, la giurisdizione spetta al giudice ordinario anche se ci si trovi in presenza di atti denominati di revoca, di decadenza, di risoluzione ecc., quando essi si fondino sull’asserito inadempimento da parte del destinatario alle obbligazioni assunte in sede di concessione del contributo. Diversamente, ricorre una situazione soggettiva d’interesse legittimo se la controversia riguarda una fase procedimentale precedente all’attribuzione del beneficio o se il provvedimento sia annullato o revocato per vizi di legittimità o di contrasto iniziale con il pubblico interesse”; “La controversia avente ad oggetto la riduzione dell’importo di finanziamenti già erogati, essendo il beneficiario titolare di un diritto soggettivo alla conservazione dell’erogazione stessa disposta di fronte alla contraria posizione assunta dall’amministrazione, con provvedimenti variamente denominati (…), per l’asserito inadempimento, da parte del concessionario, della disciplina regolatrice del rapporto, rientra nella giurisdizione del g. o.”. L’inadempimento dell’amministrazione comunale ricorrente, avverso l’ente regionale che aveva provveduto alla rettifica di valore, riguardava nello specifico due irregolarità emerse nel corso della procedura di gara indetta per l’affidamento dei lavori di riqualificazione e messa in sicurezza di un plesso scolastico. Segnatamente: l’appalto in questione era stato sostanzialmente modificato, stralciando dal computo metrico originario i lavori di bonifica dell’amianto; ed erano stati violati i termini di ricezione delle offerte. Ai sensi e per gli effetti dell’art. 11, comma secondo, c.p.a., la questione può essere riassunta di fronte al competente giudice ordinario, nel termine perentorio di tre mesi dal passaggio in giudicato della decisione in esame. FM
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Inserito in data 23/12/2015 TAR TOSCANA - FIRENZE, SEZ. II, 18 dicembre 2015, n. 1757 Liberalizzazione degli orarî e dei turni di apertura delle farmacie L’autorità giudiziaria amministrativa accoglie il ricorso presentato avverso un’ordinanza emessa da un sindaco per la riorganizzazione degli orarî e dei turni delle farmacie e dei dispensarî farmaceutici nel territorio comunale, per effetto della quale veniva operata una sostanziale liberalizzazione delle scelte assunte sul tema dai varî operatori, “garantendo comunque un orario di apertura settimanale non inferiore a quaranta ore suddiviso in almeno cinque giorni, per le farmacie urbane (,) e di trentasei ore settimanali (sempre suddivise in almeno cinque giorni), per le farmacie rurali”. Nel merito, la sezione rigetta l’eccezione preliminare d’inammissibilità del ricorso per mancanza di interesse concreto ed attuale all’impugnazione, svolgendo i ricorrenti (titolari di una serie di farmacie operanti sul territorio, nonché l’Associazione provinciale titolari di farmacie) “un ruolo costitutivo ed ineliminabile nell’organizzazione e gestione del servizio farmaceutico comunale”, a nulla rilevando “che non si siano ancora verificati sostanziali disagî nell’erogazione del servizio”. La materia in oggetto è stata recentemente incisa dall’art. 11, comma ottavo, d.l. n. 1/2012 (c.d. decreto Salva Italia), convertito con modificazioni dalla l. n. 27/2012, ai sensi del quale: “I turni e gli orarî di farmacia stabiliti dalle autorità competenti in base alla vigente normativa non impediscono l’apertura della farmacia in orari diversi da quelli obbligatorî”. I giudici, richiamando propria nonché consolidata giurisprudenza, ribadiscono che la norma citata: “Da un lato richiama e fa salve (...) tutte le disposizioni vigenti in materia di turni e di orari delle farmacie e insieme ad esse i provvedimenti amministrativi emanati ed emanandi; dall’altro lato innova il sistema precisando che detti provvedimenti sono vincolanti solo nella parte in cui fanno obbligo, alle singole farmacie, di rimanere aperte in un determinato orario e/o in un determinato turno, ma non sono più vincolanti nella parte in cui prevedono che esse rimangano chiuse in orari e/o turni diversi (…). La norma attribuisce inoltre direttamente a ciascun esercente, titolare di farmacia, la facoltà di programmare a sua discrezione l’orario e il calendario dell’apertura del proprio esercizio, salvo il rispetto degli obblighi di apertura imposti dall’autorità; e ciò senza il bisogno dell’intermediazione di appositi provvedimenti amministrativi”. La specifica regolamentazione della materia, attribuita alla legislazione regionale, assume dunque funzione di “garanzia minima e cogente dei limiti temporali di apertura del servizio”. Detta normativa continua a “prevedere l’obbligo dell’autorità comunale di fissare la disciplina degli orarî, dei turni e delle ferie delle farmacie”. Nel caso di specie, il Comune non aveva “dato applicazione ad una norma (quella regionale) finalizzata a garantire corretti standard minimi di erogazione del servizio farmaceutico”. A tale proposito il collegio ritiene che il “pericolo per l’organizzazione del servizio (non) possa essere neutralizzato dal fatto che alcuni esercizî farmaceutici rispettino (…) orarî di apertura più ampî di quelli minimi previsti dalla legislazione regionale o che più farmacie (…) operino 24 ore su 24”; si è, infatti, in presenza di mere “scelte aziendali”, prive di “cogenza e stabilità”, le quali “non incidono sull’obbligo normativo di regolamentare gli orarî minimi di apertura degli esercizî farmaceutici”. Un ulteriore profilo di censura del provvedimento impugnato si ravvisa nell’omissione degli obblighi stabiliti, sempre dalla normativa regionale in questione, con riferimento alla consultazione delle organizzazioni sindacali delle farmacie pubbliche e private, previo parere dei rappresentanti degli ordini professionali di competenza, acquisito il parere dei competenti ufficî dell’a.u.s.l.. FM
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Inserito in data 22/12/2015 CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA PER LA REGIONE SICILIANA - 16 dicembre 2015, n. 689 Appalti: decorrenza del termine d’impugnazione previsto dall’art. 120, co. 5 c.p.a. I giudici del C.G.A., pronunciandosi sulla decorrenza del termine d’impugnazione dell’aggiudicazione definitiva o dell’esclusione dalla gara, si sono occupati del caso in cui l’interessato, in assenza di formale comunicazione da parte della stazione appaltante, abbia comunque acquisito la conoscenza degli elementi essenziali dei relativi provvedimenti. Al riguardo – afferma il Collegio – “l’art. 120, comma 5 c.p.a., non prevedendo forme di comunicazione esclusive e tassative, non incide sulle regole processuali generali del processo amministrativo, con precipuo riferimento alla possibilità che la piena conoscenza dell'atto, al fine del decorso del termine di impugnazione, sia acquisita con forme diverse rispetto a quelle divisate dall’art. 79 del Codice dei contratti pubblici”. Non v’è dubbio, infatti, che la conoscenza dell’atto di aggiudicazione definitiva possa avvenire con modalità diverse da quelle in prima battuta previste dal richiamato articolo 120, comma 5 c.p.a. e, non a caso, tale conclusione risulta avvalorata proprio dall’inciso contenuto nel predetto comma 5 ove si dice “ovvero, in ogni altro caso, dalla conoscenza dell'atto”. In conclusione, dunque, ai sensi del combinato disposto degli artt. 79 commi 5 e 5 bis Codice dei contratti pubblici e 120 comma 5 c.p.a., “è irricevibile il ricorso proposto contro un provvedimento di esclusione dopo lo spirare del termine di trenta giorni dalla sua conoscenza ottenuta mediante comunicazione compiuta dalla stazione appaltante via fax e, ai fini della piena conoscenza di un provvedimento lesivo, non è necessario che esso sia conosciuto nella sua integralità, ma è sufficiente la concreta percezione dei suoi elementi essenziali, posto che la completa successiva cognizione di tutti gli aspetti del provvedimento o del procedimento può consentire la proposizione dei motivi aggiunti”. Tale conclusione, sempre a giudizio del Collegio, è legislativamente imposta: ragionando diversamente, infatti, il termine per impugnare “slitterebbe” in avanti sino al momento della comunicazione formale ex articolo 79 cod. contr. SS |
Inserito in data 22/12/2015 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 21 dicembre 2015, n. 5802 Requisiti negli appalti: cosa si intende per definitività dell’accertamento dell’irregolarità contributiva? Nella sentenza in epigrafe, il Consiglio di Stato si è pronunciato sul requisito di regolarità contributiva previsto dall’art. 38, comma 1, lett. i) del d.lgs. 163/2006 nella parte in cui afferma che le violazioni gravi alle norme in materia di contributi previdenziali e assistenziali debbano essere “definitivamente accertate” per poter condurre all’esclusione dell’impresa dalla procedura ad evidenza pubblica. Precisa il Collegio che “il concetto di definitività nell’ambito delle gare pubbliche va fotografato al momento della scadenza del termine di presentazione dell’offerta, nel senso che dubbi sulla debenza devono sussistere a quel momento, oppure a quella data deve risultare accolta una istanza di rateizzazione, ovvero deve essere stato presentato e risultare ancora pendente un ricorso amministrativo (se previsto) e/o giurisdizionale”. Peraltro, non può valere a sanatoria della situazione di inerzia la mera pendenza del termine di contestazione giudiziale della contestata irregolarità, laddove il gravame giurisdizionale è stato presentato in una data successiva al momento storico (quello costituito dal termine finale di presentazione dell’offerta) in cui l’impugnativa giudiziale avrebbe potuto e dovuto essere proposta, di guisa che il DURC negativo reso alla data della relativa verifica deve ritenersi definitivo. Opinare diversamente – concludono i giudici di Palazzo Spada – significherebbe rimettere alla mera volontà dell’interessato la gestione di una azione che ha effetti sull’attività di conduzione della gara da parte della stazione appaltante e che soprattutto incide negativamente sulla par condicio degli offerenti. SS
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Inserito in data 21/12/2015 TAR PIEMONTE - TORINO, SEZ. II - ORDINANZA DI RIMESSIONE ALLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA, 16 dicembre 2015, n. 1745 L’esclusione dalla gara per omissione degli oneri di sicurezza è euro-compatibile? Attesa la scarsa chiarezza delle disposizioni legislative sul tema, con la sentenza n. 3 del 2015, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha chiarito che le ditte partecipanti alle gare pubbliche per l’affidamento di lavori devono indicare separatamente nell’offerta economica gli oneri di sicurezza aziendale, pena l’esclusione dalla procedura anche se non prevista dal bando di gara. Poi, con la successiva decisione n. 9 del 2015, la stessa Adunanza Plenaria ha precisato che tale lettura interpretativa ha natura dichiarativa e, conseguentemente, ha escluso la possibilità di esercitare i poteri attinenti al soccorso istruttorio, nel caso di omessa indicazione degli oneri di sicurezza aziendali, pure per le procedure nelle quali la fase della presentazione delle offerte si fosse conclusa prima della pubblicazione della decisione dell'Adunanza Plenaria n. 3 del 2015.
Ciò premesso, il T.A.R. Piemonte ha rimesso alla Corte di Giustizia dell’Unione europea la questione della compatibilità del diritto vivente così sintetizzato coi principi comunitari: in primis, coi principi del legittimo affidamento e di certezza del diritto, che risulterebbero traditi nella misura in cui la normativa italiana pretende che l’impresa di gara eterointegri il bando non solo con la legge ma anche con l’interpretazione estensiva accolta dall’Adunanza Plenaria; in secundis, coi principi di libera circolazione delle merci, di libertà di stabilimento e di libera prestazione di servizi, di favor partecipationis e di parità di trattamento sostanziale tra le imprese concorrenti, che sarebbero violati in quanto l’esclusione opera anche quando l’impresa sia concretamente rispettosa degli oneri di sicurezza aziendale. TM
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Inserito in data 21/12/2015 TAR PIEMONTE - TORINO, SEZ. II - ORDINANZA DI RIMESSIONE ALLA CORTE COSTITUZIONALE, 17 dicembre 2015, n. 1747 È legittimo l’art. 30 CPA, che sottopone l’azione risarcitoria al termine di 120 gg? Il T.A.R. Torino ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 30 c. 3 C.P.A., nella parte in cui stabilisce che la domanda di risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi deve essere proposta “entro il termine di decadenza di centoventi giorni decorrente dal momento in cui il fatto si è verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da questo”. In primo luogo, la previsione di un brevissimo termine decadenziale per la proposizione dell’azione risarcitoria è sospettata di contrasto con l’accezione funzionale del principio del giusto processo (sancito negli artt. 47 della Carta dei diritti UE, 6 e 13 della CEDU, 111 c. 1 Cost.), secondo la quale il processo è giusto se garantisce adeguate forme di tutela della situazione giuridica soggettiva fatta valere dal ricorrente. Inoltre, ad avviso del Giudice piemontese, “l’ingiustificato favore per la posizione della pubblica amministrazione responsabile dell’illecito, nonché la potenziale disparità di trattamento di situazioni soggettive ugualmente meritevoli di tutela (diritto soggettivo – interesse legittimo) sottoposte, dalla norma censurata, ad un regime processuale sensibilmente diseguale (prescrizione ordinaria – decadenza breve), inducono a ravvisare anche la violazione del principio di uguaglianza proclamato dall’art. 3 della Costituzione”. Da ultimo, “l’art. 30 cod. proc. amm. appare in contrasto con il principio di generalità ed effettività della tutela giurisdizionale che è sancito, per il processo amministrativo, dagli artt. 24, primo e secondo comma, e 113, primo e secondo comma, della Costituzione”. TM
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Inserito in data 19/12/2015 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 18 dicembre 2015, n. 5776 Prescrizione farmaci biosimilari, pazienti di nuova diagnosi e diritto alla salute La pronuncia in epigrafe è degna di nota poiché interviene in un contesto, quale quello attinente alla prescrizione di farmaci e alla correlata tutela della salute, di indubbio interesse per la collettività. Il Collegio, infatti, respinge gli appelli – riuniti ex art. 70 C.p.A. – di due società farmaceutiche avverso la delibera regionale con cui si auspicava la necessità/opportunità di «conseguire un tasso di utilizzo di farmaci biosimilari, qualora siano disponibili ad un costo inferiore rispetto al farmaco originatore, pari almeno all’incidenza dei pazienti di nuova diagnosi (“drug naive”) sul totale dei pazienti trattati». I Giudici respingono le doglianze paventate avverso i suddetti atti di indirizzo, chiaramente rivolti ai Direttori generali delle Aziende sanitarie locali, negando – in primo luogo – la ritenuta violazione del dettato costituzionale – di cui all’articolo 117 – 2’ co. Lett. m). Non si ritiene, infatti, che la Regione avrebbe inciso – con le delibere impugnate – sulla possibilità di mantenere standards univoci su tutto il territorio nazionale in tema di tutela della salute. Il Collegio della Terza Sezione continua ricordando, poi, come sia pacificamente ammessa sia dalla giurisprudenza amministrativa che dall’AIFA, Agenzia del Farmaco, il confronto concorrenziale tra farmaci biosimiliari ed il corrispondente farmaco originatore (Cfr. Consiglio di Stato, Sez. III n. 5478 del 3 dicembre 2015, CdS n. 298 del 22 gennaio 2014). Quel che occorre, evidenziano i Giudici, è che a fronte di un’equa operatività dei farmaci sul piano scientifico, ovviamente prioritaria, si possa agire in modo da favorire il sistema sanitario nazionale e garantire una concentrazione delle spese. Inoltre, pronunciandosi riguardo alla posizione dei medici prescrittori ed alla paventata delimitazione del relativo modus operandi, il Collegio ricorda come non sussista alcun vincolo – posto che il medico può comunque disporre l’utilizzazione del farmaco da lui ritenuto maggiormente appropriato al caso di specie» (Cfr. Consiglio di Stato, Sez. III, ordinanza n. 4516 del 1 ottobre 2015). In ultimo, insistendo nella reiezione delle posizioni delle aziende farmaceutiche, i Giudici concludono ricordando che l’Amministrazione non è sempre tenuta a servirsi del farmaco in assoluto più evoluto o ritenuto migliore, soprattutto se il farmaco più evoluto è certamente più costoso di altro farmaco di pari e sicura efficacia nella terapia della maggior parte dei casi trattati. Fermo restando la possibilità di acquisire anche il farmaco più evoluto e costoso se ciò si rileva (per una parte dei pazienti da trattare) realmente necessario (Cfr. Consiglio di Stato, Sez. III, n. 5476 del 3 dicembre 2015). Come si vede, sulla base di un equo contemperamento tra tutela della salute, efficienza delle professioni mediche ed economicità delle aziende sanitarie sul piano nazionale, i Giudici sono fermi nel respingere le contestazioni mosse dalle ditte farmaceutiche appellanti. CC
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Inserito in data 18/12/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III - 18 dicembre 2015, n. 5778 Difetto di giurisdizione: tesi della prospettazione e diritto ad una tutela piena Il Collegio della Terza Sezione conferma, sia pure con motivazione differente, la posizione assunta dai Giudici di primo grado. Questi ultimi, infatti, erano intervenuti – declinando la propria giurisdizione in favore di quella ordinaria – nell’ambito di un contratto di fornitura siglato tra una ditta produttrice di strumentazione per attività ospedaliera ed un’azienda sanitaria locale, interrotto nelle more dell’esecuzione. La denegata giurisdizione veniva fondata, ad avviso del primo Collegio amministrativo, sulla ritenuta qualificazione - dell’avvenuta interruzione del contratto, oggetto dell’odierna pronuncia - come recesso, anziché quale revoca – come prospettato, invece, dall’Azienda sanitaria resistente,. In sostanza, il T.A.R. aveva accettato la tesi che con gli atti susseguenti all’aggiudicazione sia stato giuridicamente perfezionato il contratto; proprio per questo le successive manifestazioni di volontà dell’Azienda Sanitaria dovevano essere interpretate, a tutti gli effetti, come “recesso dal contratto” al di là della errata denominazione “revoca dell’aggiudicazione”. Pertanto, i Giudici avevano ritenuto di poter fondare la giurisdizione civile e non quella amministrativa, originariamente adita. Di contro, la ricorrente – odierna appellante – contesta il fatto che non spettasse ai Giudici qualificare la vicenda oggetto dell’odierno contenzioso come recesso, piuttosto che come revoca. Il Collegio interviene in sede di gravame, sottolineando, in primo luogo, la pienezza dei propri poteri – riguardo alla devoluzione di questioni attinenti alla giurisdizione, ex art. 9 C.p.A. Ritiene, poi, che la questione di giurisdizione debba essere risolta prendendo come riferimento la posizione giuridica soggettiva rivendicata dalla parte ricorrente in primo grado. Di conseguenza, dibattendo tra effettività della tutela giurisdizionale e rilevanza della cd. tesi della prospettazione, i Giudici di Palazzo Spada insistono nel ritenere fondata la devoluzione al Giudice civile. Infatti, dando seguito alle doglianze presentate dall’appellante, si è dato vigore alla tesi per cui l’atto interruttivo – oggetto di contestazione - sia stato emesso in carenza di potere. Come tale, e prescindendo dalla individuazione come recesso piuttosto che come revoca, quel che rileva – sottolinea il Collegio – è l’impostazione data dalla ricorrente alla propria domanda, che si risolve nella chiara rivendicazione di una posizione di diritto soggettivo (il diritto, o se si vuole il complesso di diritti, nascente dal contratto) a fronte della quale l’atto impugnato risulta viziato da “carenza di potere”. Si tratta, dunque, di una domanda sulla quale deve pronunciarsi il Giudice ordinario. CC
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Inserito in data 17/12/2015 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, 10 dicembre 2015, n. 5630 Appalti: offerta al lordo o al netto dell’i.v.a. Il Consiglio di Stato respinge il ricorso presentato da un operatore economico, secondo classificato in una gara d’appalto per l’affidamento di un servizio, il quale lamentava l’erronea applicazione, nel verbale d’aggiudicazione e nella nota-comunicazione della stazione appaltante, del criterio del prezzo più basso, calcolato al netto dell’i.v.a. anziché al lordo, in asserita violazione dell’art. 82 del codice dei contratti pubblici, e della lex specialis. In particolare, il ricorrente, costituito in o.n.l.u.s., essendo esente dal pagamento dell’imposta indiretta, motivava nel senso di ritenere la propria offerta migliore rispetto a quella dell’aggiudicatario, che in qualità di soggetto commerciale è invece assoggettato all’imposta sul valore aggiunto. Si rilevava, già in primo grado, come il disciplinare di gara, non impugnato, fosse “chiaro ed univoco nel prevedere quale criterio di aggiudicazione il prezzo più basso al netto dell’i.v.a.”; inoltre, secondo l’orientamento costante della giurisprudenza, “nelle gare d’appalto il prezzo base d’asta e, correlativamente, il prezzo oggetto dell’offerta, dovevano sempre considerarsi al netto dell’i.v.a., al fine di garantire la parità di trattamento tra i concorrenti, la libera concorrenza e la trasparenza dell’azione amministrativa, da ritenersi prevalenti sull’interesse della stazione appaltante a sopportare costi inferiori, venendo diversamente svantaggiate le imprese commerciali rispetto agli enti senza fini di lucro, già destinatarî di un regime fiscale e contributivo agevolato estraneo alla disciplina delle offerte nelle gare pubbliche di appalto, il cui mercato era aperto, a parità di condizioni, a tutti gli operatori a prescindere dal regime fiscale cui fossero assoggettate singole categorie”.
Per le medesime ragioni l’appello è ritenuto infondato, non sussistendo alcuna “erronea interpretazione ed applicazione del principio comunitario della par condicio”, con riferimento al quale si era paventato un contrasto con l’ordinamento europeo, e conseguentemente suscitata istanza di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, ai sensi dell’art. 267 T.f.U.e. (si riporta, a margine, la formulazione del quesito: “Se il termine ʻprezzo più basso’ di cui all’art. 53, comma 1, lett. b), della Direttiva 2004/18/CE dev’essere interpretato nel senso che la stazione appaltante deve, nella determinazione del prezzo più basso, tenere in considerazione eventuali agevolazioni e/o esenzioni fiscali sul corrispettivo d’appalto, o se invece il prezzo più basso va sempre e comunque determinato al netto di eventuali gravami fiscali”). FM
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Inserito in data 17/12/2015 TAR CALABRIA - CATANZARO, SEZ. II, 11 dicembre 2015, n. 1921 Annullamento della cartella di pagamento per oneri di urbanizzazione Con la sentenza in epigrafe il Tribunale amministrativo di Catanzaro conferma l’orientamento giurisprudenziale secondo cui: “Qualora il privato rinunci o non utilizzi il permesso di costruire ovvero anche quando sia intervenuta la decadenza del titolo edilizio, (viene) meno la giustificazione causale della corresponsione di somme a titolo di contributo per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione. Il contributo concessorio è, infatti, strettamente connesso all’attività di trasformazione del territorio e quindi, ove tale circostanza non si verifichi, il relativo pagamento risulta privo della causa dell’originaria obbligazione di dare, cosicché l’importo versato va restituito” (cfr. da ultimo T.a.r. Puglia, Bari, sez. III, 17 Marzo 2015, n. 420). L’interessato ricorreva avverso una cartella di pagamento con la quale l’ente riscossore agiva per l’esazione di oneri di urbanizzazione. Segnatamente, il privato forniva la prova dell’adempimento, evincibile dai bollettini prodotti nonché dalla concessione edilizia. Le somme in questione erano state pagate al competente funzionario comunale, il quale non aveva tuttavia provveduto al conseguente versamento. In sede penale, il pubblico ufficiale patteggiava per il reato di peculato. Sui beni del soggetto veniva disposto il sequestro conservativo. In ordine al secondo motivo di censura, il ricorrente eccepiva la circostanza del mancato utilizzo della concessione cui gli oneri si connettono. Il Comune, nonostante la richiesta di rimborso avanzata dal ricorrente, risulta che non avesse mai contestato l’utilizzo del titolo edilizio. Il Collegio si pronuncia per la fondatezza del secondo motivo di ricorso, ritenendo assorbito il primo, accoglie la richiesta del privato, e per l’effetto accerta e dichiara che il soggetto non è debitore della somma contestata, conseguentemente annulla la cartella impugnata. L’ente comunale non viene tuttavia condannato al rimborso delle somme trasferite dalla controparte al funzionario, in considerazione della circostanza che dalle risultanze documentali in atti il pagamento non risulta effettuato in favore del Comune, bensì di soggetto non legittimato a riceverlo. Conclude il Tribunale osservando come resti comunque salva l’applicazione delle norme civilistiche dettate in materia di ripetizione, attivabili nei confronti del soggetto percettore dell’indebito. FM
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Inserito in data 16/12/2015 CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE PENALI, SENTENZA 24 novembre 2015, n. 46624 Nessun raddoppio di sospensione della patente per chi rifiuta alcoltest e guida auto di terzo Con la sentenza in epigrafe, le Sezioni Unite Penali hanno affrontato la seguente questione: “se, nel caso di rifiuto a sottoporsi all’esame alcolemico previsto dall’art. 186, comma 7, cod. strada, il rinvio operato dalla norma all’art. 186, comma 2, lettera c), è limitato al trattamento sanzionatorio ivi previsto per la più grave fattispecie di guida in stato di ebbrezza o sia esteso anche alla previsione del raddoppio della durata della sospensione della patente di guida qualora il veicolo appartenga a persona estranea al reato”. Nella fattispecie in esame, il Tribunale di Treviso aveva raddoppiato (determinandola in anni quattro) la durata della sospensione della patente di guida dell’imputato - chiamato a rispondere del reato di rifiuto di sottoposizione ad esame alcolemico di cui all’art. 186, comma 7, Cod. strada - in considerazione del fatto che l'autovettura appartenesse a persona estranea alla violazione. Avverso detta statuizione, l’imputato aveva proposto ricorso per cassazione, deducendo che il richiamo operato dall’art. 186, comma 7 al precedente comma 2, lett. c) avrebbe dovuto essere interpretato come riferito alla sola misura delle sanzioni penali, essendo la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente sottoposta, invece, ad un regime autonomo rispetto a quello previsto dal comma 2 del medesimo articolo. A tale impostazione aveva altresì aderito il Procuratore generale, ulteriormente specificando come la clausola di esclusione (“salvo che il veicolo appartenga a persona estranea alla violazione”), contenuta nel secondo periodo del comma 7, art. 186 cod. strada, diversamente da quanto ritenuto dal giudice di prime cure, dovesse essere interpretata come collegata direttamente alla sola sanzione accessoria della confisca e non anche alla sospensione della patente di guida. Le Sezioni Unite penali, investite della questione dalla IV sezione assegnataria del ricorso, dopo aver ricostruito il quadro normativo di riferimento della fattispecie, hanno dato atto dell’esistenza di due contrapposti orientamenti in materia. Segnatamente, un primo filone – richiamato dal ricorrente – si era espresso nel senso che “il rinvio operato dall’art. 186, comma 7 all’art. 186, comma 2, lett. c) dovesse considerarsi limitato al trattamento sanzionatorio previsto per la più grave fattispecie di guida in stato di ebrezza, mentre, in relazione alle sanzioni amministrative accessorie, il legislatore ha, al comma 7, espressamente disciplinato la sospensione della patente di guida con autonoma cornice edittale (fino ad un massimo di due anni), e la confisca del veicolo, rinviando - limitatamente a quest’ultima - ad altra disposizione di legge, solo con esclusivo riferimento alle stesse modalità e procedure previste dal comma 2, lett. c), salvo che il veicolo appartenga a persona estranea alla violazione”. La conseguenza diretta di detta impostazione ermeneutica è che la durata della sospensione della patente di guida, quale sanzione amministrativa che accede al reato di rifiuto ai sensi dell’art. 186, comma 7, cod. strada, non dovrebbe essere raddoppiata nell’ipotesi in cui il veicolo appartenga ad un soggetto terzo. Altra impostazione, di segno diametralmente opposto rispetto alla precedente, riteneva, invece, che il rinvio al trattamento sanzionatorio dell’art. 186, comma 2, lett. c), contenuto nel comma 7 dell’art. 186 cod. strada, legittimasse l’applicazione del raddoppio della durata della pena accessoria della sospensione della patente qualora il veicolo appartenesse ad un soggetto terzo e non fosse possibile quindi procedere alla sua confisca, ciò in ragione del fatto che tale rinvio, da qualificarsi come “formale” (o “dinamico), implica di dover individuare la disciplina applicabile per relationem, avendo cioè riguardo a quella attualmente contenuta nell'art. 186, comma 2, lett. c). Il Supremo Consesso, dopo aver esaminato le principali modifiche intervenute nella disciplina della fattispecie ed aver altresì analizzato le presumibili intenzioni del legislatore nella regolamentazione della materia in oggetto, ha ritenuto di dover aderire alla prima delle tesi esposte, enunciando il seguente principio di diritto: “il rinvio alle stesse modalità e procedure previste dal comma 2, lett. c), salvo che il veicolo appartenga a persona estranea alla violazione, contenuto nel secondo periodo del comma 7 dell'art. 186 cod. strad., dopo le previsioni relative alla sospensione della patente di guida ed alla confisca del veicolo, deve intendersi limitato alle sole modalità e procedure contenute nell'art. 186, comma 2, lett. c), che regolano il sistema della confisca del veicolo, con esclusione del rinvio alla disciplina del raddoppio della durata della sospensione della patente di guida, qualora il veicolo appartenga a persona estranea al reato; conseguentemente la durata della sospensione della patente di guida, quale sanzione amministrativa che accede al reato di rifiuto, compresa, ai sensi dell'art. 186, comma 7, secondo periodo, tra il minimo di sei mesi ed il massimo di due anni, non deve essere raddoppiata nel caso in cui il veicolo appartenga a persona estranea al reato”. MB
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Inserito in data 16/12/2015 CONSIGLIO DI STATO- SEZ. V, 11 dicembre 2015, n. 5662 A chi spetta la rimozione dei rottami di un aereo precipitato? La V sezione del Consiglio di Stato, con la pronuncia in commento, ha rigettato il ricorso proposto da Alitalia SpA, volto alla riforma della sentenza resa dal T.A.R. Sardegna con la quale era stata confermata l’ordinanza emessa dal Comune di Sarroch ed intimante alla compagnia aerea il recupero e lo smaltimento dei rottami dell’aeromobile DC-9, di proprietà della compagnia di volo ATI (incorporata, a far data dal 1994, dal gruppo Alitalia), precipitato nel lontano 1979. In particolare, il Collegio ha ritenuto di non poter condividere la tesi prospettata dalla ricorrente ed afferente la presunta assenza di responsabilità di Alitalia quale successore universale di A.T.I., in quanto a mente dell’art. 192, co. 4 del D. Lgs. n. 152 del 2006, “qualora la responsabilità del fatto illecito sia imputabile ad amministratori o rappresentanti di persona giuridica, ai sensi e per gli effetti del comma 3, sono tenuti in solido la persona giuridica ed i soggetti che siano subentrati nei diritti della persona stessa, secondo le previsioni del d.l. n. 231/2001, in materia di responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni”. Con riguardo a tale rilievo – ha precisato la V Sezione – i rapporti giuridici attivi e passivi della Società incorporata (ATI), non concernono sanzioni di natura amministrativa – notoriamente intrasmissibili agli eredi - ma riguardano la responsabilità derivante da un evidente danno ambientale causato dalla società dante causa: ciò è sufficiente a sgombrare il campo dalla censura rappresentata dall’appellante. Il Consiglio di Stato ha ritenuto parimenti infondati i rilievi formulati dalla ricorrente e relativi, da una parte, all’assenza di un accertamento della responsabilità in capo ai proprietari delle aree interessate dallo spargimento dei rottami, dall’altra, all’omessa comunicazione di avvio del procedimento ai fini dell’instaurazione del contraddittorio tra le parti coinvolte. In virtù del terzo comma dell’art. 192 del D. Lgs. n. 152 del 2006, “fatta salva l'applicazione delle sanzioni di cui agli articoli 255 e 256, chiunque viola i divieti di cui ai commi 1 e 2 è tenuto a procedere alla rimozione, all'avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento sull'area, ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa, in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo”. Tuttavia, nel caso in esame, la dinamica dell’evento ed il clamore realizzatosi intorno al fatto fanno ritenere insussistente il nesso causale tra la condotta del proprietario dei terreni sui quale il velivolo è precipitato - che sorge esclusivamente in relazione ad un atteggiamento doloso o colposo - ed il danno realizzatosi. Ad avviso del Collegio, del tutto pleonastica deve altresì ritenersi la comunicazione di avvio del procedimento di rimozione, in considerazione del fatto che la responsabilità non potesse che essere ascritta alla Società proprietaria dell’aeromobile. Da ultimo – hanno precisano i giudici di palazzo Spada – parimenti infondato l’argomento, sostenuto dalla ricorrente, afferente la “vetustà” dei rifiuti, l’inerzia delle amministrazioni coinvolte ed il lungo tempo trascorso che avrebbero reso i rottami aerei “res derelictae” usucapite dai proprietari dei terreni. Ed invero, la giurisprudenza del Consiglio di Stato da sempre ha affermato che “l’inquinamento dà luogo a una situazione di carattere permanente al pari dell’abuso edilizio, che perdura fino a che non ne siano rimosse le cause e i parametri ambientali non siano riportati entro i limiti normativamente accettabili; da tale presupposto la giurisprudenza ha fatto derivare l’applicazione della legge ratione temporis vigente per far cessare i perduranti effetti della condotta omissiva ai fini della bonifica, anche indipendentemente dal momento in cui siano avvenuti i fatti origine dell’inquinamento”. MB
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Inserito in data 15/12/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III - 14 dicembre 2015, n. 5666 L’idoneo è titolare di un (mero) interesse legittimo allo scorrimento della graduatoria Questa interessante decisione del Consiglio di Stato si sofferma sulla posizione soggettiva degli idonei di una graduatoria concorsuale vigente, operando un’efficace sintesi della problematica sottesa. “Va premesso che, la previsione di ultrattività delle graduatorie dei concorsi non può fondare, secondo l’insegnamento dell'Adunanza Plenaria di questo Consiglio 28.7.2011, n. 14, un diritto soggettivo pieno all'assunzione degli idonei mediante scorrimento della graduatoria, che sorgerebbe per il solo fatto della vacanza e disponibilità di posti in organico”. “L'amministrazione non è incondizionatamente tenuta alla copertura dei posti, ma deve comunque assumere la decisione organizzativa di procedere al reclutamento di personale, correlata ad eventuali limiti normativi alle assunzioni, alla disponibilità di bilancio, alle scelte programmatiche compiute dagli organi di indirizzo e ad ulteriori altri elementi di fatto e di diritto rilevanti”. “Di conseguenza, rimane ampiamente discrezionale la decisione sull’opportunità di procedere alla copertura del posto vacante; solo allorchè si è stabilito di procedere alla provvista di personale, l'amministrazione è tenuta a motivare in ordine alle modalità di reclutamento utilizzate, dando conto dell’esistenza di eventuali graduatorie degli idonei ancora valide ed efficaci al momento dell'indizione del nuovo concorso”. TM
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Inserito in data 14/12/2015 CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 11 dicembre 2015, n. 262 La prescrizione dell’azione di responsabilità contro gli amministratori della SNC La Corte costituzionale ha dichiarato “l’illegittimità costituzionale dell’art. 2941, numero 7), del codice civile, nella parte in cui non prevede che la prescrizione sia sospesa tra la società in nome collettivo e i suoi amministratori, finché sono in carica, per le azioni di responsabilità contro di essi”. Come sottolineato dal Giudice delle Leggi, “Per le azioni di responsabilità, intraprese dalle società in nome collettivo contro gli amministratori, non opera la sospensione della prescrizione, sancita per le persone giuridiche e per le società in accomandita semplice”. La ratio di tale causa di sospensione - sintetizzabile nella considerazione che “durante la permanenza in carica degli amministratori, è più difficile per la società acquisire compiuta conoscenza degli illeciti che essi hanno commesso e determinarsi a promuovere le azioni di responsabilità” – non ha alcuna attinenza né con la distinzione tra soci accomandanti e soci accomandatari, né con la personalità giuridica e, pertanto, è riferibile tanto alle s.a.s. quanto alle s.n.c. In conclusione, la norma codicistica viola l’art. 3 Cost., in quanto opera una discriminazione tra S.N.C. da un lato, S.A.S. e persone giuridiche dall’altro, priva di una giustificazione plausibile. TM
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Inserito in data 12/12/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 10 dicembre 2015, n. 5617 Sugli organismi di diritto pubblico (e, in particolare, sulla Fondazione Arena di Verona)
Al fine di vagliare la legittimità dell’inserimento della Fondazione Arena di Verona tra le amministrazioni sottoposte alla spending review, il Consiglio di Stato si è preliminarmente interrogato sulla possibilità di qualificare tale ente come organismo di diritto pubblico.
Ai sensi dell’ art. 3 c. 26 DLGS 163/06, un ente può qualificarsi come organismo di diritto pubblico se presenta tutti e tre i seguenti requisiti: 1) ha come fine istituzionale il soddisfacimento di specifiche esigenze di interesse generale, aventi carattere non industriale e commerciale; 2) possiede la personalità giuridica (anche di natura privata); 3) è finanziato in percentuale maggioritaria dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico oppure la cui gestione è sottoposto al controllo di questi ultimi oppure il cui organo d’amministrazione, di direzione o di vigilanza è costituito da membri, dei quali più della metà è designata dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali, o da altri organismi di diritto pubblico. Secondo il Consiglio di Stato, “La rispondenza della fondazione appellante (della quale sono soci fondatori lo Stato, la Regione Veneto e il Comune di Verona) ai parametri sopra indicati risulta innegabile in base a dati non controversi, quali il possesso di personalità giuridica – la cui natura privata non esclude il perseguimento di rilevanti interessi pubblici, connessi alla diffusione dell’arte musicale e quindi alla promozione della cultura, quale valore riconducibile all’art. 9, primo comma, della Costituzione – con ulteriore (e di primario rilievo sotto il profilo in esame) percezione di contributi pubblici , nonchè assoggettamento a controlli di assoluta pregnanza” (quali, ad esempio, la vigilanza del Ministero per i beni e le attività culturali, il controllo sulla gestione finanziaria da parte della Corte dei Conti…). Né tale qualificazione può essere messa in dubbio dal riconoscimento statutario dell’autonomia nell’esercizio delle funzioni affidate alla fondazione. Infatti, la giurisprudenza prevalente si attiene a una nozione di controllo che prescinde dal finanziamento pubblico e non esclude criteri imprenditoriali di gestione. “Appare evidente, dunque, come l’elemento fondante dell’organismo di diritto pubblico sia appunto quello, riconducibile alla rilevanza degli interessi generali perseguiti, in rapporto ai quali non può venire meno una funzione amministrativa di controllo, anche qualora la gestione fosse produttiva di utili (come dimostra il carattere espressamente disgiunto dei requisiti, di cui al precedente punto “c”): è propria dell’Amministrazione, infatti, la cura concreta di interessi della collettività, che lo Stato ritiene corrispondenti a servizi da rendere ai cittadini e che pertanto, ove affidati a soggetti esterni all’Apparato amministrativo vero e proprio, debbono comunque rispondere a corretti parametri gestionali, anche sul piano dell’imparzialità e del buon andamento”. TM |
Inserito in data 11/12/2015 CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 11 dicembre 2015, n. 260 Norme fintamente interpretative e diritto ad un processo equo ex art. 117 Cost. Con la sentenza in esame, la Corte costituzionale ha dichiarato “l’illegittimità costituzionale dell’art. 40, comma 1-bis, del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69 …, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 9 agosto 2013, n. 98, nella parte in cui prevede che l’art. 3, comma 6, primo periodo, del decreto-legge 30 aprile 2010, n. 64, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 29 giugno 2010, n. 100, si interpreta nel senso che alle fondazioni lirico-sinfoniche, fin dalla loro trasformazione in soggetti di diritto privato, non si applicano le disposizioni di legge che prevedono la stabilizzazione del rapporto di lavoro come conseguenza della violazione delle norme in materia di stipulazione di contratti di lavoro subordinato a termine”. Secondo il Giudice delle Leggi, la norma censurata non presenta i requisiti minimi per poter essere qualificata come interpretativa, in quanto fornisce un significato non ricavabile dalla disposizione interpretata. Nello specifico, la norma impugnata vieta la stabilizzazione al ricorrere di qualunque violazione di norme in materia di stipulazione di contratti di lavoro subordinato a termine e, quindi, non solo in caso di rinnovo o proroga illegittima ma anche in caso di apposizione al primo contratto di un termine illegittimo. Al contrario, “La norma, oggetto di interpretazione, contiene un riferimento specifico ai rinnovi dei contratti a termine. Secondo il significato proprio delle parole, che è canone ermeneutico essenziale (art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale), il vocabolo “rinnovo” evoca un concetto diverso rispetto a quello dell’illegittimità del termine, apposto al primo contratto”. “Se il rinnovo attiene alla successione dei contratti e all’aspetto dinamico del rapporto negoziale, la questione scrutinata nel giudizio principale verte su un vizio genetico, che inficia il contratto sin dall’origine. … L’autonomia concettuale dei rinnovi traspare da una trama, variegata e coerente, di disposizioni” (cfr. art. 2 L. 230/62; artt. 4 e 5 DLGS 368/01; art. 21 DLGS 81/15). Stante l’assenza di un appiglio semantico con la norma oggetto di interpretazione, la norma censurata era diretta a produrre effetti retroattivi. In questo modo la disposizione impugnata ha leso l’affidamento legittimo dei consociati e si è ingerita arbitrariamente nell’esercizio della funzione giurisdizionale, in mancanza di motivi imperativi di interesse generale. Pertanto, nella misura in cui impedisce la stabilizzazione anche in caso di illegittima apposizione del termine, la norma impugnata contrasta con l’art. 117 Cost., in relazione agli artt. 6 e 13 CEDU, che consacrano il diritto ad un processo equo. TM
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Inserito in data 10/12/2015 CORTE DI CASSAZIONE - PRIMA SEZIONE PENALE, SENTENZA 1 dicembre 2015, n. 47489 Apologia dell’IS via web: istigazione a delinquere aggravata da finalità terroristica La prima sezione penale della Corte di Cassazione, con la pronuncia in epigrafe, ha affermato che integra l’elemento soggettivo del delitto di cui all’art. 414 c.p., comma 3, aggravato dalla finalità di terrorismo, la diffusione, a mezzo internet, di documenti, scritti in lingua italiana e diretti ad un numero potenzialmente illimitato di soggetti radicati sul territorio nazionale, che incitino al sostegno delle ragioni di un’organizzazione terroristica, esaltandone la sua espansione, e che disvelino collegamenti con personaggi ufficialmente classificati come terroristi nei documenti internazionali. Nel caso di specie, il ricorrente era stato indagato per aver fatto pubblicamente apologia dello Stato Islamico, tramite la diffusione in rete di un documento, redatto in lingua italiana, di propaganda delle attività del Califfato. La Corte ha anzitutto ricordato, come ai fini dell’integrazione del delitto di cui all'art. 414 c.p., comma 3, non sia sufficiente l'esternazione di un giudizio positivo su un episodio criminoso, occorrendo invece che “il comportamento dell'agente, per il suo contenuto intrinseco, per la condizione personale dell'autore e per le circostanze di fatto in cui esso si esplica, appaia tale da determinare concretamente il rischio della consumazione di reati lesivi di interessi omologhi a quelli offesi dal crimine esaltato”. I giudici di piazza Cavour - muovendo dall’assunto che l'apologia possa avere ad oggetto anche un reato associativo, quindi anche il delitto di associazione con finalità di terrorismo, anche internazionale (art. 270 bis c.p., comma 2) – precisano che l’accertamento del pericolo effettivo è riservato al giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità qualora sia stato correttamente ed esaustivamente motivato. Sulla scorta di tali considerazioni, la Corte ha ritenuto di non poter accogliere la tesi - sostenuta dal ricorrente - secondo cui il documento sollecitava un’adesione soltanto “ideologica”, ed invero lo scritto propagandistico diffuso in rete presupponeva “la natura combattente e di conquista violenta da parte dell'organizzazione”, esaltando l’espansione del Califfato, anche con l'uso delle armi. Pertanto, ad avviso dei giudici, l'adesione sollecitata nei destinatari non poteva affatto essere considerata una mera manifestazione del pensiero, anzi, la circostanza che il documento fosse scritto in italiano, rivolto quindi ad un pubblico di soggetti radicati sul territorio nazionale, ne tradiva la sua attitudine ad essere in concreto capace di suscitare ampio interesse ed illimitata condivisione. Parimenti infondata la censura relativa all’operatività dello “Stato Islamico” dentro confini geografici suoi propri: la Suprema Corte ha, con riguardo a tale rilievo, osservato che l'apologia di reato oggetto della contestazione, senza alcun dubbio, è stata posta in essere in Italia, ulteriormente precisando che, in ogni caso, ai fini dell'affermazione della giurisdizione italiana è sufficiente che nel territorio dello Stato si sia verificato l'evento o sia stata compiuta, in tutto o in parte, l'azione. In particolare – proseguono gli Ermellini - integra “il delitto di associazione con finalità di terrorismo, anche internazionale, la formazione di un sodalizio, connotato da strutture organizzative "cellulari" o "a rete", in grado di operare contemporaneamente in più Paesi, anche in tempi diversi, che realizzi anche una delle condotte di supporto funzionale all'attività terroristica di organizzazioni riconosciute ed operanti come tali (…), con l'affermazione della giurisdizione italiana in caso di cellula operante in Italia per il perseguimento della finalità di terrorismo internazionale sulla base dell'attività di indottrinamento, reclutamento e addestramento al martirio di nuovi adepti”. Quindi – concludono i giudici della I sezione – in un contesto simile, contrassegnato dalla potenzialità diffusiva indefinita sui siti web di documenti inneggianti ad organizzazioni terroristiche e caratterizzati dalla fruibilità illimitata, la natura pubblica dell’apologia appare pienamente integrata. MB
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Inserito in data 10/12/2015 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 7 dicembre 2015, n. 5572 Sospensione del procedimento disciplinare a carico del g.a. nel caso di inizio dell’azione penale La IV Sezione del Consiglio di Stato è intervenuta sulla questione relativa all’applicabilità, anche ai magistrati amministrativi, dell’art. 59 del D.P.R. n. 916 del 1958 che prevede la sospensione del procedimento disciplinare a carico del magistrato nel caso di inizio dell’azione penale. La vicenda de qua trae origine dal ricorso proposto da un magistrato, all’epoca dei fatti Presidente TAR ed imputato di intrattenere contatti telefonici aventi ad oggetto la decisione di un ricorso riguardante una gara di appalto - avverso l’applicazione di una sanzione disciplinare, irrogata per aver il comportamento del magistrato denotato “una violazione dei doveri afferenti l’ufficio, con conseguente eventuale lesione dell’immagine pubblica del magistrato e dell’intero ordine giudiziario amministrativo”. Contestualmente, gli stessi fatti avevano portato all’apertura di un procedimento penale per l’accertamento dell’eventuale rilevanza penale della condotta posta in essere dal magistrato. L’appellante era insorto, prospettando plurime censure di violazione di legge e facendo presente che si era al cospetto di un “vuoto normativo” circa la normativa applicabile ai magistrati amministrativi. Il Giudice di prime cure aveva respinto il ricorso, osservando anzitutto che “mentre le norme di cui al R.d.lgs. n. 511 del 1946 erano venute meno per i magistrati ordinari - nei cui confronti operavano le norme di cui al d.lgs. n 109 del 2006 - esse continuavano ad applicarsi ai magistrati amministrativi. Doveva pertanto ritenersi che, fino all’emanazione di una nuova legge relativa ai procedimenti disciplinari avviati nei confronti dei magistrati amministrativi, il corpus normativo applicabile ai Magistrati Amministrativi era quello costituito dagli artt. 18, 19 e 21 della legge sulle guarentigie della magistratura, nonché, per quanto concerne il rapporto tra procedimento disciplinare e penale, dall’art. 59 del d.P.R. n. 916 del 1958”. Con riferimento al caso di specie, i giudici romani avevano altresì ritenuto che la pendenza dell’azione penale non ostasse alla conclusione del procedimento disciplinare ed all’eventuale irrogazione della sanzione, in considerazione del fatto che il procedimento disciplinare era stato avviato per violazione dei doveri d’ufficio, con particolare riferimento all’obbligo di riserbo, mentre quello penale aveva ad oggetto il reato di corruzione in atti giudiziari di cui all’art. 319 ter c.p. in relazione all’art 318 c.p., e non sussisteva, quindi, “alcuna identità” del fatto materiale addebitato. Il Consiglio di Stato, con la pronuncia in epigrafe, sovverte la decisione resa dal Tar Lazio – Roma, anzitutto precisando che la disposizione cui far riferimento, nel caso di specie, è quella di cui all’art. 59 del D.P.R. n. 916 del 1958, da sempre interpretata nel senso di norma “espressiva di una pregiudizialità penale che impone la sospensione del procedimento disciplinare dal momento in cui si abbia notizia dell’avvenuto avvio dell’azione penale”. Il punto centrale della questione – osserva il Collegio – è comprendere la “latitudine applicativa” della disposizione, ovvero stabilire le condizioni in forza delle quali il giudizio disciplinare debba necessariamente arrestarsi allorché sia stata intrapresa l’azione penale. Sul significato da attribuirsi all’espressione contenuta nell’ultimo comma della citata norma – precisa il collegio - si sono espresse, in termini lapidari, le SS.UU. della Corte di Cassazione (n° 7310/2014), affermando che esso debba intendersi nel senso di “medesima vicenda”. Quindi, ciò che rileva è che si proceda in relazione al “medesimo fatto storico”, diversamente - qualora detta locuzione venisse intesa nel più ristretto significato di “stessa imputazione” – “si determinerebbero inevitabili sovrapposizioni con potenziali contrasti e divergenze nell'ambito degli accertamenti svolti”, sicché l'incolpato si troverebbe potenzialmente esposto ad una duplice condanna disciplinare, anziché ad una sola: nel caso di specie, una prima condanna disciplinare per il fatto qualificato quale rivelazione di segreto d’ufficio, una seconda (conseguente all’eventuale condanna penale) coincidente con l’imputazione positivamente riscontrata dal giudice in sede penale. La IV Sezione ritiene, pertanto, di non poter condividere le motivazioni espresse dal Tar, poiché esse traviserebbero le esigenze sottese al decisum delle SS.UU. sopra richiamate, facendo venir meno il favor rei processuale di cui la disposizione è portatrice e che si declina proprio “nella opportunità di evitare che l’incolpato si trovi esposto alla possibilità di contestazioni c.d. grappolo e frazionate nel tempo in relazione al medesimo fatto storico diversamente qualificato”. MB
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Inserito in data 09/12/2015 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 4 dicembre 2015, n. 5530 Giurisdizione per la quantificazione dell’indennizzo ex art. 42 bis d.P.R. n. 327/01 In una controversia esclusivamente attinente alla quantificazione dell’importo dovuto ai sensi dell’art. 42 bis del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità, il Consiglio di Stato ribadisce la sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario. Nella fattispecie in questione, osserva il collegio, non veniva in contestazione l’utilizzo da parte dell’amministrazione dell’istituto dell’acquisizione sanante, né la legittimità dello stesso in relazione alla sussistenza dei presupposti normativamente previsti per l’emanazione del relativo provvedimento. I giudici di Palazzo Spada riprendono la propria recente pronuncia n. 4777 del 19 Ottobre 2015, nonché le statuizioni sul medesimo tema della Corte regolatrice della giurisdizione (sentenza 29 Ottobre 2015, n. 22096) e della Corte costituzionale (sentenza 30 Aprile 2015, n. 71). In particolare, secondo le sezioni unite: “Può affermarsi che, nella fattispecie delineata dal d.P.R. n. 327/2001, art. 42 bis, l’illecita o l’illegittima utilizzazione di un bene immobile da parte dell’amministrazione per scopi di interesse pubblico costituisce soltanto il presupposto indispensabile, unitamente alle altre specifiche condizioni previste da tale articolo per l’adozione – si noti: nell’ambito di un apposito procedimento espropriativo, del tutto autonomo rispetto alla precedente attività della stessa amministrazione – del peculiare provvedimento di acquisizione ivi previsto (presupposto da indicare puntualmente nella motivazione di tale provvedimento …), con la conseguenza che , ove detto autonomo, speciale ed eccezionale procedimento espropriativo sia stato legittimamente promosso, attuato e concluso, l’indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale, in quanto previsto dal legislatore per la perdita della proprietà del predetto bene immobile, non può che conferire all’indennizzo medesimo natura non già risarcitoria ma indennitaria, con l’ulteriore corollario che le controversie aventi ad oggetto la domanda di determinazione o di corresponsione dell’indennità in conseguenza dell’adozione di atti di natura espropriativa o ablativa sono attribuite alla giurisdizione del giudice ordinario”. Viene pertanto dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo per appartenere la stessa al giudice ordinario, dinanzi al quale il processo può essere riproposto, nei termini e con gli effetti di cui all’art. 11 c.p.a.. FM
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Inserito in data 07/12/2015 TAR LAZIO - ROMA, SEZ. III, 2 dicembre 2015, n. 13655 Sanzioni A.n.a.c.: false dichiarazioni in merito ai requisiti morali Con la sentenza in epigrafe i giudici laziali respingono il ricorso collettivo proposto per l’annullamento dei provvedimenti con i quali il Consiglio dell’Autorità nazionale anti corruzione aveva deliberato di irrogare, contro due operatori economici, sanzioni pecuniarie ai sensi dell’art. 6 comma 11, d.lgs. n. 163/2006, nonché la sanzione dell’iscrizione nel casellario informatico dei contratti pubblici di lavori, servizî e forniture, ai sensi degli artt. 38, comma 1 ter, decreto citato, e 8, comma 2, lettera s), d.P.R. n. 207/2010. Nel dettaglio, la stazione appaltante aveva segnalato all’Autorità il rilascio da parte dei ricorrenti di dichiarazioni ritenute false, circa l’assenza di condanne penali rilevanti ai sensi dell’art. 38, comma 1, lettera c), codice dei contratti pubblici. L’A.n.a.c. aveva ritenuto, ai sensi dell’art. 38 comma 2, fonte citata, che i partecipanti alla procedura di gara avrebbero dovuto indicare tutte le condanne penali riportate, e non soltanto quelle relative alla moralità professionale (essendo esclusi dall’informativa i soli casi espressamente emarginati dalla disposizione richiamata). Ciò in quanto la valutazione in ordine alla rilevanza dei casi spetta esclusivamente alla stazione appaltante. I ricorrenti lamentavano, la violazione del più volte menzionato art. 38, sotto diversi profili. Segnatamente assumevano: in merito al comma 1, lettera c), che i reati di cui alle condanne riportate non sarebbero rientrati nel novero di quelli richiamati; con riferimento al comma 1 ter, l’assenza del dolo o della colpa grave in considerazione della rilevanza o della gravità dei fatti (e ciò anche ai fini dell’art. 8 del citato regolamento del 2010); e infine, un ulteriore profilo di illegittimità “sarebbe costituito dalla ritenuta automaticità della sanzione e dell’iscrizione nel casellario ogni volta che il concorrente abbia taciuto una condanna riportata, senza considerare la sua rilevanza ai fini della moralità professionale e della partecipazione alla gara”. Si eccepiva ancora: l’eccesso di potere per errata o inconferente motivazione, difetto di istruttoria, e violazione degli artt. 3 e 10 l. 241/1990; la violazione dell’art. 8 comma 6 d.lgs. n. 163/2006; l’eccessiva afflittività della ritardata pubblicazione dell’annotazione; la violazione dell’art. 6 d.lgs. n. 163/2006. Il collegio non condivide nessuna delle censure relative all’art. 38, ed osserva come il primo e il secondo periodo del comma 2 della norma debbano essere letti disgiuntamente, “in quanto il legislatore è stato chiaro nell’imporre, anzitutto, la declaratoria dei requisiti mediante l’indicazione di ʻtutte le condanne penali riportate’, comprese quelle per cui l’operatore ha beneficiato della non menzione”. “Questo per consentire alla stazione appaltante la valutazione connaturata alla lettera c) del primo comma in ordine alla natura dei reati eventualmente dichiarati ed alla loro possibile ascrizione ad una delle categorie ʻescludenti’ ivi contemplate: è per tale ragione che la dichiarazione da rendere ai fini dell’attestazione del possesso dei requisiti di ordine generale deve, pertanto, essere completa, e dunque contenere tutte le sentenze di condanna subite, a prescindere dalla entità del reato e dalla sua connessione con il requisito della moralità professionale, la cui valutazione compete esclusivamente alla stazione appaltante” (cfr. Consiglio di Stato, sentenza 28 Settembre 2015, n. 4511). “Parimenti, non rileva, in sede di valutazione di legittimità della partecipazione alla gara, lo stato soggettivo con cui l’omissione è commessa (che deve invece essere valutato dall’A.n.a.c. nel procedimento sanzionatorio); e, di conseguenza, neppure rileva che la condanna sia stata, o non, incidente sulla moralità professionale e suscettibile di condurre all’esclusione dalla gara”. “Non merita accoglimento neppure il profilo di doglianza secondo il quale, nella circostanza, l’A.n.a.c. avrebbe applicato un sostanziale automatismo tra l’omissione dichiarativa e l’esercizio del suo potere sanzionatorio, senza considerare che la mancata indicazione di una condanna non comportante l’esclusione dalla gara eliderebbe in radice la sussistenza dell’elemento soggettivo della colpa o del dolo”. “L’elemento determinante ai fini della valutazione dello stato soggettivo dell’incolpato non è, né può essere, legato alla natura della condanna riportata e non dichiarata; proprio perché la valutazione della condanna ai fini dell’esclusione deve essere condotta esclusivamente dall’appaltante. Ciò che invece rileva è costituito dalla compromissione di tale potere valutativo mediante l’omissione dichiarativa, tanto che non può rilevare il c.d. falso innocuo (…) (cfr. T.a.r. Lazio 5 Febbraio 2015, n. 2129), la completezza delle dichiarazioni da fornire in gara costituisce di per sé un valore, ed una dichiarazione falsa o incompleta incide, già solo perché tale, sull’interesse tutelato dall’art. 38”. Istruttoria e motivazione del provvedimento appaiono complete e coerenti. “Del tutto generico e meritevole di rigetto si palesa il terzo motivo (d’appello)”. “Parimenti destinato alla reiezione il quarto mezzo, con cui le ricorrenti invocano la violazione dell’art. 6, comma 11, del d.lgs. n. 163/2006”. “Il motivo, come ripetuto, sottende un assunto errato, ovvero che la sanzione possa essere irrogata solo quando l’elemento oggetto di falsa dichiarazione (…), se palesato, avrebbe condotto all’esclusione dalla gara”. FM
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Inserito in data 05/12/2015 CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 3 dicembre 2015, n. 245 Illegittima la norma della L. finanziaria 2014 sul rinnovo dei contratti di locazioni delle PP.AA. La Corte Costituzionale, con la sentenza in epigrafe, dichiara l’illegittimità dell’art. 1, comma 388 della Legge Finanziaria del 2014 (L. n. 147/2013) nella parte in cui, nel sancire il divieto di rinnovo dei contratti di locazione stipulati dalle Pubbliche Amministrazioni senza l’autorizzazione dell’Agenzia del Demanio, estende l’anzidetto divieto anche al caso in cui tale autorizzazione non sia stata espressa. In particolare, la Regione ricorrente invoca la violazione degli artt. 3, 42, 117, 118 e 119 Cost. e contesta il potere esercitato dallo Stato sotto il profilo della ragionevolezza e proporzionalità dell’obiettivo perseguito rispetto all’incidenza sull’autonomia privata regionale, nonché su quella organizzativa e finanziaria. Inoltre, la ricorrente censura la soluzione adottata dalla normativa (nulla osta espresso dell’Agenzia del demanio emesso nei 60 giorni prima della data entro la quale l’amministrazione locataria può avvalersi della facoltà di comunicare il recesso dal contratto) mettendo in evidenza il rischio che l’impedimento al rinnovo del contratto derivi non dall’accertata esistenza di un bene pubblico idoneo ovvero dalla inadeguatezza del canone pattuito, bensì anche dal mero silenzio dell’Agenzia del demanio entro il termine dato. Al riguardo, la Corte Costituzionale afferma che “se è vero che le finalità perseguite dalla norma sono meritevoli di tutela al punto tale da giustificare un’indubbia compressione dell’autonomia regionale, è anche vero che solo la dimostrata esistenza delle condizioni che permettono la valorizzazione di beni demaniali e la riduzione dei canoni può produrre tale effetto”. “Ciò evidentemente non avviene quando l’Agenzia del demanio si limita a non provvedere. In tale evenienza l’effetto preclusivo dell’esercizio dell’autonomia privata regionale troverebbe il suo fondamento non nella effettiva tutela dell’interesse pubblico, ma in un meccanismo meramente formale, per di più contrastante con il principio generale enunciato dall’art. 2 della legge n. 241/1990, secondo cui il procedimento deve concludersi con un provvedimento espresso”. Conclude la Consulta che la norma in questione è dunque costituzionalmente illegittima nella parte in cui ricollega al semplice silenzio dell’Agenzia del demanio un’efficacia preclusiva al rinnovo del contratto, e cioè nella parte in cui prevede “non abbia espresso il nulla osta” anziché “espresso il diniego di nulla osta”. SS
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Inserito in data 04/12/2015 TAR CALABRIA - CATANZARO, SEZ. II - ORDINANZA 26 novembre 2015, n. 1823 Conflitto di giurisdizione in materia di occupazioni illegittime della P.A. Con l’ordinanza de qua, il Tar ha sollevato d’ufficio innanzi alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione un conflitto negativo di giurisdizione ex art. 11, comma 3 c.p.a. relativamente alla domanda di condanna della P.A. intimata alla corresponsione dell’indennità da occupazione legittima. In particolare, il proprietario di un’area occupata illegittimamente dalla P.A. per la realizzazione di un’opera pubblica aveva proposto, con un’unica azione giudiziaria, sia domanda di condanna dell’Amministrazione al risarcimento del danno da occupazione illegittima, sia domanda di condanna della P.A. alla corresponsione dell’indennità da occupazione legittima. Rileva il Tar adito che secondo l’assetto normativo delineato dall’art. 53, comma 2 D.P.R. 327/2001 (e confermato dall’art. 133 comma 1 lett. f) c.p.a.) “resta ferma la giurisdizione del giudice ordinario per le controversie riguardanti la determinazione e la corresponsione delle indennità in conseguenza dell’adozione di atti di natura espropriativa o ablativa”, di talché per la parte relativa alla domanda di corresponsione dell’indennità la giurisdizione spetta al giudice ordinario. Precisa il Tar che nemmeno l'eventuale connessione tra la domanda di corresponsione dell’indennità per il periodo di occupazione legittima e la domanda di risarcimento del danno per l’occupazione illegittima “può giustificare l'attribuzione di entrambe le domande allo stesso giudice, essendo pacifico ed indiscusso in giurisprudenza il principio generale dell'inderogabilità della giurisdizione per motivi di connessione”. Peraltro, in caso di pluralità di domande, quella di corresponsione dell’indennità può rientrare nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo solo quando “il diritto che ne costituisca l’oggetto sia alternativo e/o subordinato alla tutela chiesta in via principale rientrante nella giurisdizione del giudice amministrativo”. Nel caso di specie, conclude il Tar, le domande proposte da parte ricorrente “sono distinte e non possono dar luogo ad una trattazione unitaria, per avere ad oggetto causa petendi e petitum diversi e per l’assenza di una prospettazione subordinata della richiesta di indennità da occupazione legittima rispetto all’azione risarcitoria”. SS |
Inserito in data 03/12/2015 TAR SICILIA - CATANIA, SEZ. IV - 27 novembre 2015, n. 2785 Accesso alla cartella clinica del coniuge per scioglimento del vincolo matrimoniale Il Tar Catania, con la pronuncia in epigrafe, ha dichiarato l’illegittimità del silenzio serbato da una Casa di cura, accreditata presso il Servizio Sanitario Nazionale, rispetto all'istanza di accesso, formulata dal ricorrente, alla cartella clinica del coniuge e propedeutica all’introduzione del giudizio di nullità del matrimonio in sede sia civile che canonica. Il Collegio ricostruisce, anzitutto, il quadro normativo di riferimento e, dopo aver precisato che la Casa di cura, quale concessionaria accreditata al servizio sanitario nazionale, rientra tra i soggetti passivi di richiesta di accesso agli atti, osserva come, in ogni caso, in tema di accesso ai documenti amministrativi, è sufficiente che un soggetto di diritto privato ponga in essere un'attività che corrisponda ad un pubblico interesse affinché lo stesso assuma la veste di pubblica amministrazione e sia, quindi, sottoposto alla specifica normativa dettata dalla l. n. 241/1990. La IV Sezione richiama poi l'art. 22, comma 1, lett b) legge n. 241/90, nel testo novellato dalla legge 11 febbraio 2005 n. 15, il quale richiede, per la legittimazione attiva all'esercizio del diritto di accesso, la titolarità di un "interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è richiesto l'accesso"; l'art. 24, comma 7, che precisa che "deve comunque essere garantito ai richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici”; l'art. 92, par. 2, del D.lgs. 196/2003 che, nel dettare una disciplina specifica sull'accesso alla cartelle cliniche quali documenti contenenti dati "sensibilissimi", stabilisce che “eventuali richieste di presa visione o di rilascio di copia della cartella e dell'acclusa scheda di dimissione ospedaliera da parte di soggetti diversi dall'interessato possono essere accolte, in tutto o in parte, solo se la richiesta è giustificata dalla documentata necessità: a) di far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria ai sensi dell'articolo 26, comma 4, lettera c), di rango pari a quello dell'interessato, ovvero consistente in un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale e inviolabile; b) di tutelare, in conformità alla disciplina sull'accesso ai documenti amministrativi, una situazione giuridicamente rilevante di rango pari a quella dell'interessato, ovvero consistente in un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale e inviolabile”. Nel caso di specie – osserva il Collegio – l'istanza di accesso alla cartella clinica del coniuge risulta formulata in rapporto di stretta strumentalità con la necessità di utilizzo della medesima nell'ambito del procedimento di scioglimento del matrimonio canonico pendente innanzi al Tribunale ecclesiastico. E, sotto tale profilo, il Collegio, richiamando pregressa giurisprudenza del Consiglio di Stato, ritiene che “il fine dello scioglimento del vincolo matrimoniale (religioso) costituisca una situazione giuridica di rango almeno pari alla tutela del diritto alla riservatezza dei dati sensibili relativi alla salute, in quanto involgente un significativo diritto della personalità, con la conseguenza che in presenza di tale situazione deve ritenersi sussistente l'interesse personale idoneo a legittimare la proposizione della domanda di accesso alla cartella clinica, senza che sia necessaria alcuna penetrante indagine in merito alla essenzialità o meno della documentazione richiesta, né circa le prospettive di buon esito del rito processuale concordatario”. Quanto poi al carattere non statuale dei Tribunali ecclesiastici – osservano ulteriormente i giudici catanesi - l'intento di adire la via giurisdizionale concordataria per la declaratoria di nullità del vincolo coniugale deve essere assimilato, ai fini dell'esercizio del diritto di accesso, all'intento di adire il giudice nazionale per il conseguimento del divorzio. La tesi, nel caso concreto, risulta peraltro suffragata dalla circostanza che il ricorrente avesse rappresentato nell’istanza di accesso alla cartella contenete i dati clinici del coniuge di aver già introdotto un giudizio di separazione, presso il competente Tribunale ordinario. Pertanto, sulla scorte dei rilievi esposti, il T.A.R. Catania ha ritenuto che il silenzio avversato dalla Casa di cura fosse del tutto ingiustificato, per l’effetto accogliendo il ricorso. MB
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Inserito in data 03/12/2015 CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI, ORDINANZA 13 novembre 2015, n. 23306 Risarcimento danni subiti da società partecipate per condotte illecite dei dipendenti: giurisdizione G.O. “Sussiste la giurisdizione del giudice ordinario sull’azione di risarcimento del danno subito da una società a partecipazione pubblica per effetto di condotte illecite dei dipendenti, in quanto l'autonomia patrimoniale di essa esclude ogni rapporto di servizio tra agente ed ente pubblico danneggiato e impedisce di configurare come erariali le perdite che restano esclusivamente della società, che è regolata come ogni altro soggetto sovrapersonale di diritto privato”. Questo il principio espresso dalle SS.UU. della Suprema Corte con l’ordinanza in epigrafe. Nel caso concreto, il socio pubblico della società partecipata (Alitalia S.p.A.) aveva convenuto in giudizio, avanti la Sezione giurisdizionale regionale della Corte dei Conti per la regione Lazio, alcuni dipendenti per la presunta commissione atti di “mala gestio”. Quindi, i soggetti chiamati a risarcire il danno (presidenti, amministratori delegati e dirigenti di Alitalia S.p.A.) con distinti ricorsi (poi riuniti), proponevano, dinanzi alla Corte di Cassazione, regolamento di giurisdizione per la declaratoria del difetto di giurisdizione della Corte dei Conti. Ricorda anzitutto la Suprema Corte come, con riguardo al tema del riparto della giurisdizione - tra giudice ordinario e Corte dei Conti - rispetto alle azioni di risarcimento per i danni arrecati al patrimonio delle società partecipate, si siano, nel tempo, formati orientamenti giurisprudenziali piuttosto precisi. In particolare, nell’ordinanza in esame, le SS.UU., precisano che la giurisdizione spetta al giudice ordinario nell’ipotesi in cui il danno di cui si chiede il risarcimento sia stato arrecato al patrimonio sociale “avuto riguardo alla natura di ente privato della società ed all'autonomia giuridica e patrimoniale di essa rispetto al socio pubblico, non essendo configurabile, né un rapporto di servizio tra l'agente e l'ente pubblico titolare della partecipazione, né un danno direttamente arrecato allo Stato o ad altro ente pubblico”. Invece – proseguono le SS.UU. – la giurisdizione deve essere attribuita alla Corte dei conti “sia quando l'azione di responsabilità miri al risarcimento di un danno che sia stato arrecato al socio pubblico direttamente, e non quindi quale mero riflesso della perdita di valore della partecipazione sociale conseguente al danno arrecato alla società, sia quando essa trovi fondamento nel comportamento di chi, quale rappresentante dell'ente partecipante o comunque titolare del potere di decidere per esso, abbia colpevolmente trascurato di esercitare i propri diritti di socio o li abbia comunque esercitati in modo tale da pregiudicare il valore della partecipazione”. Richiamati questi principi di carattere generale, la Suprema Corte precisa altresì come il quadro complessivamente tracciato non sia in grado di esaurire l'intero spettro delle questioni. Ad esempio, spetta alla Corte dei Conti la giurisdizione sulle azioni di risarcimento del danno cagionato dai dipendenti di talune società che, in considerazione della natura speciale del loro statuto legale, sono caratterizzate da una significativa compenetrazione della sfera pubblica. Allo stesso modo, si è ritenuto sussistere la giurisdizione della Corte dei Conti con riguardo alle azioni di responsabilità proposte nei confronti di organi o dipendenti delle c.d. società in house: la ragione risiede nel fatto che “un tale tipo di società, quanto meno ai fini del riparto della giurisdizione, non è in rapporto di alterità con la pubblica amministrazione partecipante, bensì è una sua longa manus”, con la conseguenza che “il danno arrecato al patrimonio sociale si configura come danno direttamente riferibile all'ente pubblico”. Venendo al caso in concreto, la Suprema Corte sofferma la propria attenzione su due aspetti: la struttura organizzativa nonché l'attività societaria svolta da Alitalia S.p.A. In relazione all’assetto organizzativo – osserva la Corte – non vi è dubbio alcuno circa il carattere concretamente civilistico della struttura societaria e dei suoi organi rappresentativi. Con riguardo, invece, al secondo aspetto – osservano le SS.UU. – a seguito del processo di liberalizzazione del settore del trasporto aereo - che ha comportato l’apertura al mercato delle compagnie aeree, libere quindi di scegliere i meccanismi tipici di ottimizzazione dell'attività economica - il ruolo di Alitalia “si è uniformato a quello di un'impresa che svolge la sua attività in regime concorrenziale di libero mercato, avendo ormai perso la fisionomia di "compagnia di bandiera". In questa ottica, “i finanziamenti erogati nel tempo dal socio pubblico rientrano nel normale procedimento privatistico quali forme di partecipazione al capitale sociale nel quale sono confluiti, anche ai fini degli aumenti dello stesso”. Sulla scorta delle considerazioni svolte – concludono le SS.UU. - deve ritenersi che Alitalia “svolge un'attività economica e commerciale in regime di mercato libero e la sua veste giuridica non rappresenta un mero schermo di copertura di una struttura amministrativa pubblica”, con la conseguenza che, in tema di riparto di giurisdizione, si applicherà il principio già affermato secondo il quale dell’azione di risarcimento del danno subito da una società a partecipazione pubblica per effetto di condotte illecite poste in essere dai suoi dipendenti può conoscere il solo giudice ordinario. MB
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Inserito in data 02/12/2015 CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 12 novembre 2015, n. 23113 Giurisdizione sulle cause inerenti il provvedimento d’iscrizione d’ipoteca su immobili Preliminarmente, la Corte di Cassazione ha affermato che è ammissibile il regolamento di giurisdizione proposto d’ufficio dal giudice dinanzi al quale la causa era stata riassunta, dopo aver provveduto sull’istanza di sospensione dell’esecuzione dell’atto impugnato. Ciò in quanto, a mente dell’art. 59 c. 3 L. 69/09, il giudice davanti al quale la causa è riassunta può sollevare d'ufficio la questione di giurisdizione davanti alle sezioni unite della Corte di cassazione, “fino alla prima udienza fissata per la trattazione del merito”; e, secondo la Corte di Cassazione, “la norma deve essere interpretata nel senso che il limite oltre il quale il secondo giudice non può sollevare il conflitto di giurisdizione non è costituito dal compimento in sé della prima udienza, se nell'udienza prevista dall'art. 183, primo comma, cod. proc. civ. il giudice si è limitato ad adottare i provvedimenti indicati nello stesso primo comma, cioè provvedimenti ordinatori ed eventualmente decisori su questioni impedienti di ordine processuale, logicamente precedenti quella di giurisdizione; in tal caso, quel limite si sposta all'udienza che il giudice fissa in base al secondo comma del medesimo articolo”; in definitiva, il termine ultimo per la proposizione della questione di giurisdizione non era stato superato, come si evince sia dal tenore letterale della disposizione (ove si parla della prima udienza fissata per la trattazione del merito), sia da un’interpretazione costituzionalmente orientata della medesima, poiché l’opposta conclusione finirebbe col vanificare la garanzia costituzionale della tutela.
Ciò premesso, per il Supremo Giudice della giurisdizione, “Le controversie aventi ad oggetto il provvedimento di iscrizione di ipoteca sugli immobili, ai sensi dell’art. 77 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, appartengono … alla giurisdizione del giudice tributario solo qualora i crediti garantiti dall'ipoteca abbiano natura tributaria, spettando altrimenti la giurisdizione al giudice ordinario“ (nel caso di specie, la giurisdizione spettava al g.o. perché l’ipoteca era stata iscritta a tutela di crediti aventi natura non tributaria, in quanto relativi a sanzioni amministrative per indebita percezione di aiuti comunitari per l’olio d’oliva). TM
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Inserito in data 02/12/2015 CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 1 dicembre 2015, n. 11 Sebbene privo di qualificazione, l’offerente può omettere il nominativo del subappaltatore L’Adunanza Plenaria è stata chiamata a stabilire “se, in ipotesi di gara d’appalto avente ad oggetto lavorazioni rientranti nelle categorie c.d. a qualificazione obbligatoria, il concorrente il quale risulti sprovvisto per esse dei necessari requisiti di qualificazione sia tenuto sempre (e, dunque, anche qualora sia in possesso di qualificazione nella categoria prevalente per l’intero importo dell’appalto) non solo a dichiarare preventivamente l’intento di subappaltare le dette prestazioni, ai sensi dell’art. 118 del d.lgs. nr. 163/2006, ma anche a indicare già in sede di offerta i nominativi delle imprese che saranno subappaltatrici”. A tale questione il Supremo consesso amministrativo ha dato una risposta conforme a quella già fornita con la sentenza n. 9/2.11.2015, relativa ad identica questione di diritto. Segnatamente, è stato ribadito il principio di diritto secondo cui “l’indicazione del nominativo del subappaltatore già in sede di presentazione dell’offerta non è obbligatoria, neanche nell’ipotesi in cui il concorrente non possieda la qualificazione nelle categorie scorporabili previste all’art. 107, comma 2, del citato d.P.R. n. 207/2010, tanto discendendo da plurime considerazioni di ordine testuale, sistematico e logico”. TM
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Inserito in data 01/12/2015 TAR VENETO - VENEZIA, SEZ. II, 27 novembre 2015, n. 1274 Avvocatura interna Enti pubblici e diritto all’indipendenza da altri uffici amministrativi Il Collegio veneto accoglie il ricorso, proposto da un Avvocato appartenente all’organico della Difesa civica, avverso una deliberazione della Giunta comunale con cui veniva disposta la sottoposizione degli Uffici legali dell’Ente alle direttive di altri Uffici di gestione amministrativa del medesimo Soggetto pubblico. I Giudici veneziani, ricordando giurisprudenza consolidata (ex pluribus Cfr. Tar Lombardia, Milano, Sez. III, 16 febbraio 2015 n. 486; Tar Basilicata, Sez. I, 8 luglio 2013, n. 405; Tar Sardegna, Sez. II, 14 gennaio 2008 n. 7) unitamente alle numerose posizioni assunte nello stesso senso dal Consiglio Nazionale forense, evidenziano la necessità che le Avvocature degli Enti pubblici debbano essere costituite in un apposito ufficio dotato di adeguata stabilità ed autonomia organizzativa, nonché distinzione dagli altri uffici di gestione amministrativa, al quale devono essere preposti avvocati addetti in via esclusiva alle cause e agli affari legali con esclusione dello svolgimento di “attività di gestione. Considerato che nulla del genere ricorreva nel caso di specie e che, peraltro, gli ultimi parametri legislativi in materia (Cfr. Art. 23 della legge 31 dicembre 2012, n. 247) riconfermano la suddetta esigenza di autonomia ed indipendenza della classe forense, anche all’interno di Uffici legali destinati alle difese di Strutture pubbliche, il Collegio non può che condividere le doglianze della ricorrente. Ella, infatti, sottoposta – in forza della delibera impugnata – alla volontà di un apparato amministrativo, peraltro carente degli specifici requisiti culturali e professionali ope legis richiesti, lamentava la sopravvenuta, carente autonomia decisionale ed il venir meno di indipendenza. Data la distonia rispetto ai principi propri della legge professionale di appartenenza, l’Avvocato ricorrente ottiene conferma – dal Collegio veneto - delle proprie doglianze. CC
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Inserito in data 01/12/2015 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 30 novembre 2015, n. 5410 Diritto di accesso copia integrale cartelle esattoriali e decorso termini actio ad exhibendum I Giudici di Palazzo Spada respingono la posizione assunta da un TAR campano in merito alla ritenuta fondatezza di un diniego di accesso di cartelle esattoriali, disposto dal Concessionario a carico di una società contribuente. Più nel dettaglio, la denegata possibilità di accedere ai documenti richiesti veniva fondata dall’Ente concessionario ed avallata dal Collegio partenopeo sul ritenuto decorso del termine quinquennale entro cui l’Amministrazione sarebbe tenuta a mantenere copia delle cartelle esattoriali (Cfr. artt. 23 e ss.del D.P.R. 602/1973). Ad avviso del contribuente/appellante, invece, unitamente alla giurisprudenza consolidata dei massimi Giudici amministrativi, un simile assunto non è condivisibile, posto che – in primo luogo - verrebbe eluso il termine prescrizionale ordinario previsto ope legis per la pretesa erariale. Fattispecie, questa, assolutamente non superabile, posto che il termine dei cinque anni – assunto a propria difesa dal Concessionario – costituisce un mero obbligo minimo di conservazione delle cartelle e non un termine massimo di conservazione delle stesse. Peraltro, con riferimento a rapporti impositivi non ancora definiti, come quelli oggetto dell’odierno giudizio, è necessario conservare anche gli atti presupposti – quali, per l’appunto, le cartelle esattoriali, ex art. 26 del D.P.R. 602/1973, in guisa da consentire al contribuente di conoscere la propria posizione al cospetto dell’Erario. Nel caso di specie, nulla del genere era ricorso; peraltro, il contribuente aveva chiesto l’ostensione di cartelle limitatamente alle quali il quinquennio non era neppure spirato e che, a fortiori, non avrebbe potuto essere incisa dall’atteggiamento volutamente ostruzionistico del Concessionario. Ciò posto e richiamando, peraltro, posizioni consolidate in seno a Palazzo Spada, i Giudici della Quarta sezione convalidano la posizione del contribuente, il quale vanta un interesse concreto ed attuale all’ostensione di tutti gli atti relativi alle fasi di accertamento, riscossione e versamento, dalla cui conoscenza possano emergere vizi sostanziali procedimentali tali da palesare l’illegittimità totale o parziale della pretesa impositiva (Cfr. in tal senso, l’art. 22, comma 1, lett. b) l. n. 241 del 1990) (cfr. Cons. Stato, sez. VI, sent. 15 febbraio 2012, n. 766).
Pertanto, contrariamente a quanto addotto ex adverso, viene statuita la fondatezza della pretesa ostensiva avanzata dalla società/contribuente – odierna appellante e, per l’effetto, riconosciuto alla medesima il diritto ad ottenere copia delle cartelle esattoriali originariamente richieste. CC
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Inserito in data 30/11/2015 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 25 novembre 2015, n. 5356 Requisito formale del contratto di appalto Nella fattispecie in esame, una stazione appaltante rifiutava di prendere atto dello scioglimento da ogni vincolo, dichiarato dall’aggiudicatario ai sensi dell’art. 11, comma nono, d.lgs. n. 163/2006 – per l’asserita mancanza di tempestività nella stipulazione – sul presupposto che il contratto si fosse invece già perfezionato. L’ente appaltante contestava all’aggiudicatario l’inadempimento degli obblighi contrattuali. L’adito Tribunale amministrativo regionale declinava la propria giurisdizione, ritenendo che la controversia concernesse la fase esecutiva del contratto. Ricorreva in appello l’aggiudicatario lamentando come non potesse ritenersi stipulato il contratto secondo l’ordo procedendi stabilito dalla lex specialis. Il Consiglio di Stato respinge il ricorso. I giudici di Palazzo Spada, sulla scorta degli artt. 11, commi settimo, nono e tredicesimo, d.lgs. n. 163/2006, e 133, comma primo, lettera e), numeri uno e due, c.p.a., nonché dei consolidati principî elaborati dalla giurisprudenza, ribadiscono che: “Nel settore dell’attività negoziale della pubblica amministrazione (omissis) la cognizione dei comportamenti e degli atti assunti prima dell’aggiudicazione della gara (compresi tra tali atti anche quelli di autotutela pubblicistica e questi ultimi pure dopo la conclusione del contratto), e nella successiva fase compresa tra l’aggiudicazione e la conclusione del contratto, spetta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo; mentre le controversie relative alla fase di esecuzione del contratto (salvo quelle, tassativamente indicate, relative al divieto di rinnovo tacito dei contratti, alla clausola di revisione prezzi e ai provvedimenti applicativi dell’adeguamento dei prezzi) rientrano nella giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria”; “Appartiene alla giurisdizione del giudice amministrativo, essendosi la fattispecie svolta ed esaurita tra l’originaria aggiudicazione e la stipula del contratto (,) la controversia introdotta dall’aggiudicatario decaduto per ottenere l’accertamento del preteso inadempimento dell’ente agli obblighi contrattuali e la sua condanna alla restituzione delle cauzioni versategli, oltre accessorî, nonché al risarcimento del danno asseritamente patito nel corso della trattativa precontrattuale; in tali casi, infatti, alla deliberazione di aggiudicazione dell’appalto non segue la stipula della convenzione di disciplina tra le parti, bensì, all’esito di una fase interlocutoria volta alla eventuale rinegoziazione dell’oggetto dell’instaurando rapporto, la decadenza dalla stessa aggiudicazione”; “La cognizione degli atti autoritativi emessi in sede di autotutela – conformemente allo schema disegnato dagli artt. 75 e 113 del codice contratti pubblici, in forza del quale, ai fini dell’incameramento della cauzione provvisoria, va considerato ʻfatto dell’aggiudicatarioʼ sia il recesso volontario dalle trattative sia il difetto dei requisiti che preclude la stipula, imponendo la caducazione dell’aggiudicazione – appartiene alla cognizione del giudice amministrativo”; e che “Nel sistema disegnato dal codice dei contratti pubblici, il contratto deve essere necessariamente concluso in forma scritta non potendosi attribuire al provvedimento di aggiudicazione definitiva il valore di conclusione del contratto medesimo”. Il Collegio giunge a ritenere che il contratto sia stato effettivamente concluso nella forma della scrittura privata: la nota denominata “lettera di aggiudicazione”, inviata dalla stazione appaltante conteneva, infatti, oltre alla comunicazione dell’aggiudicazione definitiva, una serie di elementi relativi al contenuto essenziale del contratto; tale nota era stata firmata dall’aggiudicatario per benestare e accettazione e restituita all’ente appaltante. In relazione ai detti elementi l’impresa aveva, inoltre, posto in essere tutti gli adempimenti connessi alla stipulazione del contratto. Ancora, il capitolato speciale d’appalto prevedeva che, in considerazione dell’urgenza dell’intervento, il verbale di consegna dei lavori avrebbe potuto essere anteriore alla firma del contratto: “Il che dimostra che per la stazione appaltante – e per la ditta che vi ha espressamente aderito – nel caso di specie la conclusione del contratto è coincisa con la sottoscrizione della lettera di comunicazione dell’aggiudicazione”. Deve pertanto concludersi che il consenso delle parti si sia formato “nell’ambito di un contesto documentale scritto recante gli elementi essenziali del regolamento contrattuale”.
“Dall’esame in astratto della causa petendi della domanda proposta in primo grado emerge che, nella sostanza, è stata introdotta un’azione contrattuale sub specie di declaratoria di nullità o inesistenza del rapporto contrattuale per contrasto della forma in concreto seguita con le prescrizioni, che si assumono vincolanti, dettate dalla lex specialis e che non consentirebbero la stipula fra assenti; tale controversia, per le ragioni dianzi esposte, deve ritenersi attribuita alla cognizione del giudice ordinario”. FM
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Inserito in data 30/11/2015 CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA - QUINTA SEZIONE, SENTENZA 26 novembre 2015, C - 166/14 Appalti: termine per l’azione risarcitoria “Il diritto dell’Unione europea, segnatamente il principio di effettività, osta ad una normativa nazionale che subordina la proposizione di un ricorso diretto ad ottenere il risarcimento danni per violazione di una norma in materia di appalti pubblici al previo accertamento dell’illegittimità della procedura di aggiudicazione dell’appalto in questione per mancata previa pubblicazione di un bando di gara, qualora tale azione di accertamento di illegittimità sia soggetta ad un termine di decadenza di sei mesi a partire dal giorno successivo alla data dell’aggiudicazione dell’appalto pubblico di cui trattasi, indipendentemente dalla circostanza che colui che propone l’azione fosse o meno in grado di conoscere l’esistenza dell’illegittimità di tale decisione dell’amministrazione aggiudicatrice”. Tanto dichiara la Corte di Lussemburgo in ordine alla questione pregiudiziale suscitata ai sensi dell’art. 267 T.f.U.e., dal Verwaltungsgerichtshof (Corte amministrativa austriaca), nel caso MedEval G.m.b.H., interpretando la direttiva 89/665/CEE del Consiglio (c.d. direttiva ricorsi), come modificata dalla direttiva 2007/66/CE del Parlamento europeo e del Consiglio (nuova direttiva ricorsi), nonché i principî di effettività e di equivalenza. La cognizione della Corte austriaca concerne una decisione dell’Ufficio federale degli appalti, con la quale veniva respinta la domanda della MedEval diretta a far constatare l’illegittimità della procedura di gara d’appalto pubblico svolta dalla Federazione degli organismi austriaci di sicurezza sociale, riguardante l’attuazione di un sistema di gestione elettronica della prescrizione di medicinali – appalto che era stato assegnato alla Cassa delle retribuzioni dei farmacisti. La ricorrente lamentava la mancanza di una previa pubblicazione o indizione della gara. L’Ufficio sopra citato aveva dichiarato irricevibile il ricorso, essendo spirato il termine semestrale previsto dalla legislazione austriaca per la proposizione dell’azione di accertamento dell’illegittimità – termine (asseritamente conforme al precetto dell’art. 2 septies, paragrafo 1, lettera b, della direttiva 89/665) decorrente dal giorno successivo alla data di aggiudicazione dell’appalto, indipendentemente dalla circostanza che la ricorrente fosse in quel momento a conoscenza, o meno, dell’illegittimità della procedura. Ai sensi della normativa federale, inoltre, la collegata azione di risarcimento dei danni è ricevibile solo qualora, in via preliminare, e a seguito del tempestivo esercizio dell’azione di accertamento, consti l’illegittimità della procedura. Sulla questione incidentale posta dal giudice del rinvio, la Corte di giustizia, dopo aver precisato l’ambito di riferimento, e individuato le direttrici fondamentali della materia (cfr. artt. 1, paragrafi uno e tre, e 2, paragrafo uno, della direttiva 89/665), osserva come il menzionato art. 2 septies, alla lettera b, consenta agli Stati membri di prevedere termini di decadenza applicabili ai ricorsi di cui all’art. 2 quinquies (la cui lettera a, sancisce che venga assicurato, in caso di mancata pubblicazione del bando fuori dai casi consentiti, che il contratto sia considerato privo di effetti), purché venga rispettato il limite minimo dei sei mesi, decorrente dal giorno successivo alla data della stipula del contratto. Tutte le altre azioni giudiziarie relative agli appalti, comprese quelle dirette ad ottenere il risarcimento dei danni, sono soggette ai termini stabiliti dal diritto nazionale, con il limite segnato dall’art. 2 quater. L’art. 2 septies, paragrafo uno, lettera b, non osta pertanto a disposizioni di diritto nazionale, come quella in esame. Si confronti anche il considerando 27 della direttiva 2007/66. Circa il risarcimento danni, la direttiva 89/665 prevede all’art. 2, paragrafo sei, che gli Stati membri possano subordinare l’esercizio di una siffatta azione al previo annullamento della decisione contestata. Rientra dunque nella facoltà degli Stati la determinazione delle modalità procedurali dei ricorsi per risarcimento danni. E tuttavia, non è possibile prescindere dai principî di equivalenza e di effettività; in particolare, relativamente a quest’ultimo, “Subordinare la ricevibilità delle azioni per risarcimento danni alla previa constatazione dell’illegittimità della procedura di aggiudicazione dell’appalto in questione a causa dell’assenza della previa pubblicazione di un bando di gara, allorché tale azione di constatazione è soggetta a un termine semestrale di decadenza, senza tener conto della conoscenza o meno, da parte del soggetto leso, dell’esistenza di una violazione di una norma giuridica, può rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio del diritto di proporre un’azione per risarcimento danni”. In conclusione, in assenza della previa pubblicazione del bando di gara, un termine semestrale fissato in base ai criterî ora richiamati, rischia di non consentire al danneggiato di raccogliere le informazioni necessarie al fine di un eventuale ricorso, lasciando il soggetto privo di tutela. FM
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Inserito in data 28/11/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V - 27 novembre 2015, n. 5378 Domanda di accesso ai documenti ed effettività del diritto di difesa Con la pronuncia in esame, i Giudici di Palazzo Spada forniscono un ulteriore chiarimento in merito al bilanciamento tra esercizio del diritto di accesso ed effettività della tutela giurisdizionale. Più nel dettaglio, contestando la posizione del TAR, i Giudici della Quinta Sezione condividono le doglianze di parte appellante, ove essa dimostra chiaramente di agire per l’ostensibilità di documenti afferenti ad un altro giudizio, pendente sempre dinanzi al medesimo Organo giurisdizionale e la cui prima udienza è già fissata per i mesi futuri. In casi del genere, ritiene il Collegio, non v’è dubbio alcuno che le garanzie procedimentali di accesso ai documenti si atteggiano a “diritto fondamentale di difesa”, poiché laddove sia negata la conoscenza di tale documentazione, il diritto di difesa perde di effettività. E, prosegue il Consesso nell’accogliere il gravame, non rientra comunque tra i poteri del Giudice valutare nel merito l’idoneità dimostrativa della documentazione richiesta, bensì soltanto verificare la verosimiglianza delle allegazioni a sostegno dell’istanza di accesso per ragioni di difesa in giudizio. In considerazione di ciò, viene disposta la riforma della sentenza impugnata e, per l’effetto, annullato l’originario diniego e consentito l’accesso oggetto dell’odierna impugnazione. CC
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Inserito in data 27/11/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V - 27 novembre 2015, n. 5377 Ordinanza contingibile ed urgente e competenza del Sindaco Il Collegio della Quinta Sezione interviene, ancora una volta, in tema di ordinanze contingibili ed urgenti, affermando l’infondatezza dell’appello sollevato avverso un simile provvedimento, emesso dal Sindaco di un Comune campano per motivi di igiene e sicurezza pubblica. I Giudici affrontano, in primo luogo, il lamentato vizio di incompetenza dell’Amministrazione comunale e, per essa, del Sindaco, in merito all’emissione dell’ordinanza oggi impugnata. A dispetto di quanto affermato da parte appellante, riguardo alla necessità che provvedessero Organi diversi alla rimozione degli autoveicoli rottamati (i cui liquami, anche a seguito di fenomeni temporaleschi, davano luogo a situazioni generalizzate di insalubrità, il Collegio – ribadendo invece la pronuncia di primo grado – ha ritenuto correttamente esercitato l’adozione da parte del Sindaco di un'ordinanza contingibile ed urgente in materia di igiene e sanità ai sensi della statuizione dell’art. 38 della l. n. 142 del 1990, poi confluito nell'art. 54 del d.lgs. n. 267 del 2000 e nel d.P.R. n. 915 del 1982, trattandosi di sua competenza esclusiva. (in senso conforme anche TAR Campania sez. I Salerno , n. 1275/2014 , T.A.R. sez. V Napoli , Campania n. 3630/2015 , TAR Puglia Lecce, sez. I, 7 luglio 2007, n. 1084 Cass. pen. Sez. I, 3 luglio 1996). Del pari, vi è da ricordare che l’obbligo incombente sulla società appellante - quale proprietaria dell’area - di eliminare tale situazione di pericolo, discenda comunque dalla necessità di ottemperare un provvedimento, quello del Sindaco – per l’appunto, legittimamente emanato in applicazione dei principi costituzionali di tutela dell’ambiente, della salubrità e sicurezza pubbliche – incise da una contingenza da debellare. A fronte di valori di tale rango, ricordano i Giudici di Palazzo Spada, le argomentazioni dell’appellante, oltrechè prive di fondamento, appaiono comunque recessive. Per l’effetto, quindi, va confermata la fondatezza dell’impugnato provvedimento di urgenza. CC
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Inserito in data 26/11/2015 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, 24 novembre 2015, n. 5328 Presupposti della lottizzazione abusiva Con la pronuncia in epigrafe, la VI Sezione del Consiglio di Stato ha accolto il ricorso in appello proposto avverso la sentenza resa dal T.A.R. Lazio – Roma con la quale era stato, in primo grado, respinto il ricorso avverso un ordine di sospensione dei lavori per presunta lottizzazione abusiva, seguito dal provvedimento repressivo di cui all’art. 30 del d.P.R. n° 380/2001 (nella fattispecie si trattava dell’acquisizione di diritto dell’aera al patrimonio comunale). I Giudici di Palazzo Spada hanno precisato che a mente del citato art. 30, ricorre la fattispecie di lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio quando “vengono iniziate opere che comportano trasformazione urbanistica o edilizia dei terreni stessi, in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la prescritta autorizzazione, nonché quando tale trasformazione venga predisposta attraverso il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno in lotti, che per le loro caratteristiche (…) denunciano in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio”. Alla luce del richiamato dettame normativo, deve ritenersi integrata la tipologia di abusivismo di particolare gravità in presenza di alcuni indici sintomatici quali, anzitutto, il compimento di opere edilizie eseguito con modalità tali da far supporre “la destinazione a scopo edificatorio” e con interventi idonei, in concreto, a “stravolgere l’assetto territoriale preesistente”, tali quindi da giustificare l’adozione di severe misure repressive, tra cui l’acquisizione ex se al patrimonio comunale delle aree lottizzate. Tuttavia – precisa il Collegio – la nozione di lottizzazione abusiva, nell’ambito della quale la fattispecie in esame era stata ricondotta dal giudice di prime cure, “non deve confondersi con l’effettuazione di qualsiasi pur ampio intervento edificatorio non autorizzato o non compatibile con la disciplina urbanistica vigente”. Ed infatti – prosegue la VI Sezione, richiamando consolidata casistica giurisprudenziale – la fattispecie della lottizzazione abusiva può individuarsi “solo in presenza della preordinata trasformazione di una porzione di territorio, in modo tale da aggiungere una nuova e composita maglia al tessuto urbano”, con conseguente necessità – per la consistenza innovativa dell’intervento – di costituzione o integrazione della necessaria rete di opere di urbanizzazione. Oltretutto, osserva ancora il Consiglio di Stato, il dato normativo contenuto nel citato art. 30 sembrerebbe riferirsi non tanto alla materiale entità dell’intervento, quanto piuttosto alle finalità del medesimo, in termini di “peso insediativo” sul territorio. Sicché, potendo la sanzione repressiva essere comminata in via preventiva, è necessario che “l’intento sia evidenziato da elementi precisi ed univoci, ovvero da un quadro indiziario idoneo a prefigurare un perseguito assetto dell’area, globalmente incompatibile sia con quello esistente che con quello previsto dagli strumenti urbanistici”. Nel caso concreto, il Collegio ha ritenuto che non fossero stati adeguatamente rappresentati i presupposti e i segnali indicatori della lottizzazione abusiva, in considerazione del fatto gli interventi in questione non avrebbero potuto determinare una così profonda modificazione dell’assetto del territorio sì da essere equiparati all’introduzione di un nuovo insediamento in area non ancora urbanizzata, e per tale ragione, il Collegio ha accolto il ricorso e, in riforma della sentenza appellata, annullato l’ordinanza impugnata. MB
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Inserito in data 26/11/2015 CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONE LAVORO, SENTENZA 23 novembre 2015, n. 23837 Mobbing e demansionamento: il danno esistenziale va provato Alla condanna del datore di lavoro al risarcimento dei danni per mobbing, non segue automaticamente anche quella per danno c.d. esistenziale – questo il principio di diritto affermato dalla Cassazione con la pronuncia de qua. In particolare – hanno chiarito i giudici di piazza Cavour – il lavoratore è tenuto a dimostrare l’effettivo cambiamento nelle abitudini di vita che, proprio per il carattere «personale» della fattispecie di danno, non può presumersi, con la conseguenza che il “giudice è astretto alla allegazione che ne fa l’interessato sull’oggetto e sul modo di operare dell’asserito pregiudizio”. Anzitutto la Corte traccia, nell’ambito del danno non patrimoniale, una linea di demarcazione tra danno biologico e morale, da una parte, e danno esistenziale, dall’altra - soprattutto in termini di allegazione della prova - osservando come quest’ultimo sia fondato sulla natura non meramente emotiva, bensì su quella oggettivamente accertabile del pregiudizio, attraverso la prova di scelte di vita diverse da quelle che si sarebbero potute adottare se non si fosse verificato l’evento dannoso. Detta categoria di danno – sottolineano gli Ermellini - essendo indissolubilmente legata alla persona - come tale non passibile di parametrazione secondo il sistema tabellare - necessita di precise indicazioni che solo il soggetto danneggiato è in grado di fornire, allegando ed indicando le circostanze comprovanti la significativa alterazione delle abitudini di vita personale e sociale ed attestanti il peggioramento del trend di vita. Alla luce delle argomentazioni svolte, non può quindi ritenersi sufficiente, ai fini dell’accertamento della sussistenza del danno c.d. esistenziale, la mera prova della “dequalificazione, dell’isolamento, della forzata inoperosità, dell’assegnazione a mansioni diverse ed inferiori a quelle proprie”, poiché questi elementi integrano l’inadempimento del datore, essendo poi comunque necessario dimostrare la sussistenza del danno esistenziale, e cioè che tutto ciò abbia effettivamente inciso in senso negativo nella sfera del lavoratore, alterandone l’equilibrio e le abitudini di vita, provocando concretamente conseguenze pregiudizievoli – allegazione, questa, che, nel caso in esame, non è avvenuta. MB
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Inserito in data 25/11/2015 TAR CAMPANIA - SALERNO, SEZ. I, 20 novembre 2015, n. 2457 Oneri di sicurezza: effetti dell’omessa previsione nel modello di domanda Definendo il giudizio in esito all’udienza cautelare ai sensi dell’art. 60 c.p.a., il Tribunale adito accoglie il ricorso presentato da un operatore economico, escluso da una procedura di selezione aperta per non avere indicato gli oneri c.d. interni per la sicurezza del lavoro, essendo il ricorrente ragionevolmente incorso in errore, per l’allegazione al disciplinare di gara di un modello per la formulazione dell’offerta economica non contenente alcun riferimento alla suddetta necessaria componente. Rileva in particolare il Collegio come l’indicazione degli oneri di cui all’art. 87, comma quarto, del codice dei contratti pubblici (norma esaminata dall’adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con la sentenza 20 Marzo 2015, n. 3), non fosse contemplata né dal menzionato modello fornito dalla stazione appaltante, né tantomeno dalla lex specialis. I giudici campani inferiscono dai riscontri che precedono il carattere scusabile dell’errore omissivo della società ricorrente, e dunque l’illegittimità della sanzione espulsiva cui la stessa è stata sottoposta. Si osserva come, ai fini della fattispecie, non assuma rilievo il principio di c.d. etero-integrazione “dal momento che esso attiene alla individuazione delle regole disciplinatrici del procedimento di gara ed è quindi atto a colmare la lacuna emergente sul punto dalla lex specialis, laddove il modello di offerta fornito alle imprese concorrenti dalla stazione appaltante riguarda il (omissis) diverso piano del concreto comportamento che deve essere tenuto dai concorrenti ai fini della partecipazione alla gara”. Può, secondo il T.a.r., “esigersi uno sforzo di diligenza da parte del concorrente nell’ipotesi di mera carenza prescrittiva della lex specialis, laddove la lacuna possa essere colmata mediante il riferimento integrativo alle norme vigenti (così come enucleate a livello interpretativo dalla giurisprudenza dominante)”, tuttavia “a diversa conclusione deve pervenirsi qualora, come nella specie, la stazione appaltante abbia posto a disposizione del concorrente strumenti documentali funzionali ad agevolare e semplificare gli oneri e gli adempimenti partecipativi dei concorrenti, tali da giustificare l’affidamento di coloro che, come l’impresa ricorrente, avvalendosene, ritengano ragionevolmente di avere esaustivamente assolto alle prescrizioni della disciplina di gara, astenendosi dall’effettuare specifiche indagini al fine di individuare eventuali regole partecipative ulteriori, pur vigenti nell’ordinamento, ma che in essa non abbiano trovato esplicita previsione”. Conclude il collegio lasciando comunque impregiudicato l’onere dell’impresa di specificare, in sede di verifica della congruità dell’offerta, quanto rileva ai fini del citato art. 87, comma quarto (cfr. Consiglio di Stato, sezione terza, sentenza 28 Settembre 2015, n. 4537). FM
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Inserito in data 25/11/2015 CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI, ORDINANZA 18 novembre 2015, n. 23542 Eccesso di potere giurisdizionale: limiti del ricorso ex art. 41 c.p.c. “È inammissibile il ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione che – in un giudizio proposto in primo grado innanzi al giudice ordinario il quale, in corso di causa, abbia adottato, a domanda del ricorrente (omissis) ex art. 700 c.p.c., un provvedimento (d’urgenza) diretto ad accordare al ricorrente (stesso) una tutela provvisoria ed interinale nelle more del giudizio incidentale di costituzionalità che contestualmente, con ordinanza di rimessione, abbia sollevato – lamenti l’eccesso di potere giurisdizionale di quel giudice assumendo che la tutela cautelare era preclusa per legge e che il contestuale sollevamento della questione di legittimità costituzionale non autorizzava quel giudice a non applicare la norma della cui legittimità (omissis) dubitava, atteso che nella questione così proposta non è identificabile una questione di giurisdizione ex artt. 37 e 41 c.p.c. che la Corte di cassazione, a sezioni unite, possa essere chiamata a risolvere”. Questo il principio di diritto formulato con l’ordinanza in epigrafe, ai sensi dell’art. 384, comma primo, c.p.c.. L’articolata vicenda a monte del provvedimento in esame, prende le mosse dal procedimento sommario di cognizione (ex art. 702 bis, sgg., c.p.c.) intentato ai sensi dell’art. 22, d.lgs. n. 150/2011 (c.d. semplificazione dei riti civili), per l’asserita illegittimità del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, con il quale era stata dichiarata, in applicazione dell’art. 8, d.lgs. n. 235/2012 (c.d. legge Severino), la sospensione dalla carica del neo eletto Presidente della Regione Campania, condannato in primo grado per il reato di abuso d’ufficio (art. 323 c.p.); il ricorrente prospettava profili di ritenuta illegittimità costituzionale degli artt. 7 e 8, del citato d.lgs. n. 235/2012. Interveniva nel giudizio ad opponendum, oltre ad altri, un cittadino elettore, per sentire dichiarare l’inammissibilità o l’infondatezza del ricorso. Il ricorrente domandava successivamente al Tribunale, in via cautelare ex art. 700 c.p.c., di “sospendere o disapplicare” l’atto impugnato e “conseguentemente reintegrare e conservare, con effetto immediato, il ricorrente (omissis) nella carica (omissis) con l’esercizio dei connessi poteri e funzioni fino alla decisione di merito”; in subordine, reiterata la richiesta di rimessione della questione di legittimità costituzionale come sopra riferita, chiedeva la sospensione del citato decreto e la reintegrazione provvisoria nella carica “almeno fino alla prima udienza successiva alla decisione della Corte costituzionale”. Il Tribunale, inaudita altera parte, accoglieva in via provvisoria la domanda cautelare, sospendendo l’efficacia del decreto governativo; successivamente, pronunciandosi sul provvedimento d’urgenza, il Tribunale stesso sollevava la questione incidentale di legittimità costituzionale degli artt. 8, comma primo, e 1, comma primo, lettera b, in relazione all’art. 7, comma primo, lettera c, d.lgs. n. 235/2012; e accoglieva provvisoriamente la domanda cautelare, sospendendo gli effetti del provvedimento impugnato “fino alla camera di consiglio di ripresa del giudizio cautelare successiva alla definizione delle questioni di legittimità costituzionale”. Reclamava, ex art. 669 terdecies c.p.c., avverso il provvedimento cautelare, il menzionato interveniente nel procedimento sommario di cognizione. L’istanza veniva rigettata. Lo stesso cittadino elettore, proponeva, inoltre, ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione, chiedendo alle sezioni unite di dichiarare “limiti e ampiezza” dei poteri del giudice ordinario investito della controversia, statuendo: sulla “inesistenza, in capo al Tribunale adito, del potere (omissis) cautelare di sospensione del menzionato decreto del Presidente del Consiglio dei ministri” (potere giurisdizionale ritenuto escluso per effetto degli artt. 5 e 22, d.lgs. n. 150/2011); sulla “inesistenza (omissis) del potere (omissis) di disapplicare la legge dello Stato sospendendo il menzionato d.P.C.m. pur riconoscendone la conformità a legge seppur affetta, secondo il Tribunale, da un dubbio non manifestamente infondato di legittimità costituzionale”; e infine sulla “attribuzione alla Corte d’appello del potere giurisdizionale sulle impugnazioni delle decisioni cautelari collegiali del Tribunale adito e in subordine a diversa sezione del Tribunale o, in mancanza, al Tribunale più vicino”. Osservava, infatti, il ricorrente come rientri tra le questioni di cui all’art. 41 c.p.c. non soltanto l’accertamento del riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice speciale, ma anche la definizione delle forme di tutela che il legislatore assegna a un dato potere giurisdizionale. Le sezioni unite dichiarano il ricorso inammissibile, in quanto fondato su questioni che non rientrano nel proprium del regolamento preventivo. Sul terzo motivo di ricorso, le sezioni unite rilevano immediatamente come la questione attenga alla sede del reclamo – peraltro proposto dal ricorrente stesso – e concerna dunque una questione di competenza, e non di giurisdizione. In ordine, invece, all’asserito eccesso di potere giurisdizionale da parte del Tribunale, secondo la formulazione dei primi due motivi di ricorso, osservano le sezioni unite come la categoria dei c.d. limiti esterni del potere giurisdizionale si innesti tra il generale sindacato straordinario di legittimità di cui al comma settimo dell’art. 111 della Costituzione (già inteso in chiave ampiamente comprensiva, e considerato riflesso, nell’ambito della tutela giurisdizionale, del principio di uguaglianza), e il più ristretto sindacato sulla giurisdizione di cui al successivo comma ottavo dello stesso articolo 111, i cui confini vengono dunque allargati. Tuttavia, continua la Corte, ove “il sindacato di legittimità per violazione di legge può dispiegarsi a tutto campo (,) il canone dell’eccesso di potere giurisdizionale non ha, in linea di massima, autonomia concettuale e normativa rispetto alla violazione di legge”: e ciò è quanto si verifica nel caso di specie, non rientrando la pronuncia del Tribunale tra quelle contemplate dal citato comma ottavo; ragione per cui l’asserito error in iudicando rimane interno “ai meccanismi processuali del sistema delle impugnazioni”. Ricorda, a margine, il giudice di nomofilachia, come l’eccesso di potere giurisdizionale acquisti anche autonomia in caso di conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, e investita della decisione sia la Corte costituzionale. A tal ultimo fine, il ricorrente nel caso di specie non potrebbe certamente dedurre un simile vizio nel regolamento preventivo “quasi in via di sussidiarietà”. Per ipotesi, il regolamento di cui all’art. 41, comma primo, c.p.c., non può essere adoperato nemmeno in funzione impugnatoria di un provvedimento abnorme del giudice, assunto in violazione dell’art. 101, comma secondo, della Costituzione.
Osserva conclusivamente la Corte come l’inammissibilità del ricorso emergerebbe anche a prescindere dal rito, in considerazione dell’evidente assenza di eccesso di potere giurisdizionale. Ciò in quanto “la tutela d’urgenza costituisce in linea di massima un corollario della tutela giurisdizionale in generale ed appartiene alla garanzia costituzionale dell’art. 24 Cost., cui il legislatore ordinario può derogare solo in presenza di particolari esigenze di segno opposto che giustifichino, secondo uno scrutinio stretto, un regime differenziato di eccezione”. “La Corte costituzionale (omissis) ha ripetutamente affermato che la tutela cautelare in quanto preordinata ad assicurare l’effettività della tutela giurisdizionale, in particolare a non lasciare vanificato l’accertamento del diritto, è uno strumento fondamentale e inerente a qualsiasi sistema processuale, anche indipendentemente da una previsione espressa”. Orbene, un’esclusione della tutela cautelare non sembra potersi rinvenire nella disposizione contenuta all’art. 22, d.lgs. n. 150/2011, la quale stabilisce che tutte le controversie elettorali, cui sia applicabile il rito descritto, “siano trattate in ogni grado in via d’urgenza”. L’art. 5 dello stesso decreto “detta una disposizione processuale a carattere generale per l’ipotesi in cui sia prevista la sospensione dell’efficacia esecutiva del provvedimento impugnato stabilendo che il giudice, se richiesto, vi debba provvedere sentite le parti e con ordinanza non impugnabile, sempre che ricorrano gravi e circostanziate ragioni esplicitamente indicate nella motivazione”. Inoltre, secondo la Consulta il giudice, sia speciale sia ordinario, può “senza esaurire i suo potere giurisdizionale d’urgenza, adottare misure provvisorie per accordare una tutela interinale nel tempo occorrente per la definizione del giudizio incidentale di costituzionalità”. “Ricorrente nella giurisprudenza della Corte è l’affermazione secondo cui il giudice ben può sollevare questione di legittimità costituzionale in sede cautelare anche quando conceda provvisoriamente la relativa misura su riserva di riesame della stessa e nello stesso tempo sospenda il giudizio con l’ordinanza di rimessione, purché tale concessione non si risolva, per le ragioni addotte a suo fondamento, nel definitivo esaurimento del potere cautelare”. “Infatti, la potestas iudicandi non può ritenersi esaurita quando la misura cautelare è fondata, quanto al fumus boni iuris, sulla non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale, dovendosi in tal caso ritenere che la sospensione dell’efficacia del provvedimento impugnato abbia carattere provvisorio e temporaneo fino alla ripresa del giudizio cautelare dopo l’incidente di legittimità costituzionale”. FM
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Inserito in data 24/11/2015 CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI - SENTENZA 5 ottobre 2015, n. 19786 Limiti alla ricorribilità per cassazione del DPR conclusivo del ricorso straordinario Confermata l’ammissibilità in astratto di un ricorso per cassazione contro il provvedimento con il quale il Presidente della Repubblica decide in caso di ricorso straordinario, le Sezioni Unite tracciano i limiti di tale impugnazione. Al fine di confermarne la ricorribilità per cassazione, la Corte di Cassazione ripercorre tutti gli elementi normativi che inducono ad affermare la natura giurisdizionale del d.P.R. che definisce il ricorso straordinario e, di conseguenza, consentono di ricomprendere tale decreto nell’ambito di applicazione dell’art. 111 c. 8 Cost., a mente del quale “contro le decisioni del Consiglio di Stato … il ricorso per cassazione è ammesso per i soli motivi inerenti alla giurisdizione”. In ordine ai limiti di tale impugnazione, le Sezioni Unite precisano che il ricorso per cassazione contro il provvedimento che definisce il ricorso straordinario è proponibile per gli stessi motivi per i quali si può ricorrere in Cassazione contro un'ordinaria decisione del Consiglio di Stato, ossia “per i soli motivi inerenti alla giurisdizione” (cfr. artt. 111 c. 8 Cost., 326 c.p.c. e 110 c.p.a.). Segnatamente, “con riferimento specifico ai compiti del Consiglio di Stato in sede di ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, i motivi inerenti alla giurisdizione si rapportano ai limiti dell'istituto che…. il legislatore ha ridefinito in senso riduttivo nel codice del processo amministrativo”; vale a dire, in Cassazione, si potrà lamentare che il ricorso al Presidente della Repubblica sia stato proposto per controversie devolute al g.o. (in violazione dell’art. 7 c.p.a.) o per una delle materie della giurisdizione amministrativa rispetto alle quali è esclusa l’esperibilità (in contrasto con gli artt. 120 e 128 c.p.a.). “Rimangono invece fuori dal perimetro dei motivi inerenti alla giurisdizione tutte le situazioni in cui si denunzi un cattivo esercizio da parte del Consiglio di Stato della propria giurisdizione, quando cioè si prospetti una violazione nell'interpretazione di norme di legge, o falsa applicazione delle stesse, posta in essere dal Consiglio di Stato all'interno dell'area riservata alla sua giurisdizione. In questo caso il vizio, attenendo all'esplicazione interna del potere giurisdizionale conferito dalla legge al giudice amministrativo, non può essere oggetto di ricorso per cassazione”. TM
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Inserito in data 24/11/2015 CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA, SEZIONE QUARTA - SENTENZA 17 novembre 2015, causa C-115/14 Sull’obbligo di salario minimo a pena di esclusione dalle gare di appalto In risposta alla prima questione pregiudiziale sollevata, i Giudici di Lussemburgo hanno affermato che “L’articolo 26 della direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio… deve essere interpretato nel senso che non osta ad una normativa di un ente regionale di uno Stato membro, come quella controversa nel procedimento principale, che impone agli offerenti e ai loro subappaltatori di impegnarsi, mediante una dichiarazione scritta che deve essere allegata alla loro offerta, a versare un salario minimo, fissato dalla suddetta normativa, al personale che sarà assegnato all’esecuzione delle prestazioni oggetto dell’appalto pubblico considerato”. Ciò in quanto, a norma dell’art. 26 della direttiva 2014/18, possono essere imposte condizioni particolari in merito all’esecuzione dell’appalto basate su considerazioni sociali «purché siano compatibili con il diritto comunitario», circostanza verificatesi nel caso di specie. Infatti, la condizione di cui si discute rispetta il principio di trasparenza (perché menzionata nel bando di gara e nel capitolato degli oneri), non è direttamente o indirettamente discriminatoria e, pur costituendo una restrizione alla libertà di prestazione dei servizi degli offerenti stabiliti in uno Stato membro diverso da quello a cui appartiene l’amministrazione aggiudicatrice, è giustificata dall’obiettivo di tutela dei lavoratori pubblici. Poi, rispondendo alla seconda questione pregiudiziale, la Corte di Giustizia ha chiarito che “L’articolo 26 della direttiva 2004/18… deve essere interpretato nel senso che non osta ad una normativa di un ente regionale di uno Stato membro, come quella controversa nel procedimento principale, che prevede l’esclusione, dalla partecipazione ad una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico, degli offerenti e dei loro subappaltatori che si rifiutino di impegnarsi, mediante una dichiarazione scritta che deve essere allegata alla loro offerta, a versare un salario minimo, fissato dalla suddetta normativa, al personale che sarà assegnato all’esecuzione delle prestazioni oggetto dell’appalto pubblico considerato”. Difatti, il considerando 34 della direttiva 2004/18 enuncia che gli Stati possono prevedere per il mancato rispetto degli obblighi imposti dal diritto nazionale in materia di condizioni di lavoro, tra l’altro, l’esclusione dalla procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico. Peraltro, la condizione di cui si discute non risulta particolarmente onerosa per gli operatori, concretandosi nel mero riempimento di moduli già predisposti. Infine, l’esclusione appare una conseguenza adeguata e proporzionata, atteso che la normativa nazionale prevede espressamente che siffatta esclusione può essere applicata solo se, dopo aver invitato l’operatore interessato a completare l’offerta allegando a quest’ultima il suddetto impegno, questi si rifiuti di ottemperarvi. TM
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Inserito in data 23/11/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV - 19 novembre 2015, n. 5278 Permesso di costruire: nozione di “vicinitas” rilevante per la legittimazione ad agire Il Consiglio di Stato, con la sentenza in epigrafe, si è pronunciato sulla differente nozione di vicinitas nel caso in cui ad impugnare il permesso di costruire, a cui è correlata un’autorizzazione commerciale, sia un operatore economico, al fine di comprendere se quest’ultimo abbia o meno la legittimazione e l’interesse ad agire nel caso di specie. Al riguardo, il ragionamento del Collegio si fonda sul presupposto che la nozione di vicinitas vada differentemente apprezzata a seconda che: a) ad impugnare il permesso di costruire sia o meno il titolare di un immobile confinante, adiacente o prospiciente su quello oggetto dell'intervento assentito; b) ad impugnare il permesso di costruire cui è correlata un'autorizzazione commerciale, sia un operatore economico. Nel primo caso, l’orientamento giurisprudenziale ormai pacifico ritiene che ai fini della legittimazione a impugnare un titolo edilizio da parte del proprietario confinante, è sufficiente la semplice vicinitas, ossia la dimostrazione di uno stabile collegamento materiale fra l'immobile del ricorrente e quello interessato dai lavori, escludendosi in linea di principio la necessità di dare dimostrazione di un pregiudizio specifico e ulteriore; ciò in quanto tale pregiudizio deve ritenersi sussistente in re ipsa. Diversamente, nel caso in cui ad impugnare il titolo edilizio non sia il proprietario confinante (o un soggetto che si trovi in posizione analoga), il mero criterio della vicinitas riguardato in senso solo materiale non può di per sé radicare la legittimazione al ricorso giurisdizionale, occorrendo a tal fine la specificazione con riferimento alla situazione concreta e fattuale del come, del perché ed in quale misura il provvedimento impugnato si rifletta sulla propria posizione sostanziale, determinandone una lesione concreta, immediata e di carattere attuale. Nel secondo caso, in cui vi rientra la fattispecie sottoposta all’esame del Consiglio di Stato, il riconoscimento della legittimazione ad agire non è genericamente ammesso nei confronti di tutti gli esercenti commerciali, ma è subordinato al riconoscimento di determinati presupposti, e ciò al fine di poter ritenere giuridicamente rilevante, nonché qualificato e differenziato, l'interesse all'impugnazione. Pertanto, è necessario che l’operatore economico che intenda impugnare un titolo edilizio, a cui acceda una valida e formale autorizzazione commerciale, eserciti l’attività nelle immediate adiacenze, che tale attività sia dello stesso tipo in tutto o in parte di quella relativa ai provvedimenti in contestazione, e che le due attività vengano a servire uno stesso bacino di clientela oggettivamente circoscritto o comunque circoscrivibile con sufficiente certezza. Osserva il Consiglio, in totale riforma delle statuizione del primo giudice, che, nel caso di specie, al titolo edilizio in contestazione non accede alcuna valida e formale autorizzazione commerciale, di talché l'impugnativa del solo permesso di costruire deve sottostare agli usuali criteri elaborati dalla giurisprudenza in materia edilizia (primo caso) per la individuazione della sussistenza della vicinitas necessaria a legittimare l'azione giurisdizionale intrapresa. Peraltro – concludono i giudici di Palazzo Spada – la vicinitas commerciale, nonostante la mancanza dell’anzidetta autorizzazione, non sussisterebbe in ogni caso in quanto mancherebbe la possibilità, per le attività in questione (turistico-alberghiere), di circoscrivere oggettivamente quel concetto di “bacino di utenza” elaborato dalla giurisprudenza amministrativa. SS
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Inserito in data 23/11/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V - 20 novembre 2015, n. 5299 Grave negligenza in precedenti appalti: legittimità dell’esclusione dalla gara Con la pronuncia de qua, il Consiglio di Stato ha valutato la legittimità e chiarito i presupposti dell’esclusione dalla gara di un’impresa conseguente a sua grave negligenza o malafede nell’esecuzione di precedenti appalti ai sensi dell’art. 38, co. 1 lett. f) d.lgs. 163/2006. In particolare, la società appellante si doleva del fatto che la semplice indagine penale sui contestati episodi di grave negligenza nel pregresso rapporto contrattuale era stata dal giudice di prime cure ritenuta da sola sufficiente a minare il rapporto di fiducia ed ad escludere l’affidabilità professionale dell’impresa, a nulla valendo la circostanza che la inadempienza fosse stata commessa in epoca molto pregressa. Afferma il Collegio che l'esclusione dalla gara d'appalto prevista dall’art. 38, comma 1 lett. f) d.lgs. 163/2006, si fonda sulla necessità di garantire l'elemento fiduciario nei rapporti contrattuali della Pubblica Amministrazione fin dal momento genetico. “Non rileva pertanto che i fatti valutati dall’Amministrazione per addivenire alla decisione di rilevare grave negligenza o malafede nell’esercizio di un precedente rapporto contrattuale tra le parti, se oggetto di indagine penale, siano sub iudice, né che non siano stati oggetto di condanna, poiché ciò che giustifica la scelta di esclusione è solo l'imperizia emersa nel corso dell'attività professionale, che a sua volta ha leso quel rapporto di fiducia nella capacità professionale dell'impresa”. Peraltro, il concetto normativo di “violazione dei doveri professionali” cui la norma in questione fa riferimento abbraccia un’ampia gamma di ipotesi, riconducibili alla negligenza, all’errore ed alla malafede, purché tutte qualificabili “gravi” e richiede che la responsabilità risulti accertata e provata con qualsiasi mezzo di prova, senza la necessità di una sentenza passata in giudicato o di un accertamento della responsabilità del contraente per l'inadempimento in relazione ad un precedente rapporto contrattuale, quale sarebbe richiesto per l'esercizio di un potere sanzionatorio, ma è sufficiente una motivata valutazione dell'Amministrazione in ordine alla grave negligenza o malafede nell'esercizio delle prestazioni affidate dalla stazione appaltante che bandisce la gara. Posto, infine, che il provvedimento di esclusione costituisce esercizio di un potere discrezionale che dunque, in quanto tale, è sottoposto al sindacato del giudice amministrativo nei soli limiti della manifesta illogicità, irrazionalità o errore sui fatti, il Consiglio conclude – respingendo l’appello – che la stazione appaltante ha, non illogicamente, ritenuto che i comportamenti in questione avessero costituito grave inadempimento contrattuale, sotto il profilo della violazione del dovere di diligenza qualificata da un comportamento colposo o doloso, e che fossero idonei ad incidere negativamente sul rapporto fiduciario con la stessa stazione appaltante. SS
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Inserito in data 20/11/2015 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 17 novembre 2015, n. 5230 Mediazione: diritto alle spese per gli Organismi anche se negativo l’esito del “primo incontro” Il Consiglio di Stato, con la pronuncia in epigrafe, ha accolto le censure mosse dall’Amministrazione appellante in ordine alle statuizioni di annullamento della disciplina regolamentare di cui al D.M. 180/2010 avente ad oggetto il criterio di calcolo delle indennità spettanti agli organismi di mediazione cui è pervenuto il giudice di prime cure. Per quel che concerne la prima statuizione di annullamento operata nella sentenza impugnata, l’Amministrazione appellante si duole della pronuncia di illegittimità dei commi 2 e 9 dell’art. 16 del D.M. 180/2010 che prevedono sempre e comunque l’erogazione di somme da parte dell’utente anche in caso di esito negativo del primo incontro, anche quando cioè tale erogazione possa apparire in contrasto con l’innovativa disposizione di cui al comma 5 ter dell’art. 17 del d.lgs. 28/2010, secondo cui: “…Nel caso di mancato accordo all’esito del primo incontro, nessun compenso è dovuto per l’organismo di mediazione”. Peraltro, siffatta incompatibilità veniva in sentenza ricondotta a un difetto di coordinamento fra la “novella” di cui al d.l. 69/2013 ed il preesistente impianto normativo, avendo la prima introdotto il principio della gratuità del ricorso alla mediazione, sia pure limitatamente alla fase del “primo incontro”. Al riguardo, i giudici del Consiglio di Stato, accogliendo il motivo di appello, hanno ritenuto che, stante l’infelicità della novella del 2013 che adotta (per indicare il corrispettivo del servizio di mediazione) il termine generico “compenso” anziché il termine tecnico di “indennità”, bisogna effettuare una scomposizione delle varie voci di spese. Dal citato art. 16, fra le varie voci, si traggono anche quelle di “spese di avvio” e di “spese di mediazione”: nessun dubbio – afferma il Consiglio – può porsi per le spese di mediazione, le quali, comprendendo “anche l’onorario del mediatore per l’intero procedimento di mediazione” (art. 16, comma 10), integrano certamente il nucleo essenziale dell’indennità di mediazione. Di queste, in applicazione del richiamato comma 5-ter dell’art. 17, “non può che essere esclusa la debenza in caso di esito negativo del primo incontro”. Diversamente può ritenersi per le spese di avvio: ed invero, esse, quantificate dal legislatore in modo fisso e forfettario (e, quindi, sganciato da ogni considerazione dell’entità del servizio effettivamente prestato dall’organismo di mediazione), vanno qualificate come onere economico imposto per l’accesso a un servizio che è obbligatorio ex lege per tutti coloro i quali intendano accedere alla giustizia in determinate materie. Per quel che concerne la seconda statuizione di annullamento effettuata dal giudice di prime cure, l’Amministrazione censura il capo di sentenza con cui è stato annullato il comma 3, lettera b), dell’art. 4 del D.M. 180/2010, nella parte in cui obbligava anche gli avvocati a seguire i percorsi di formazione e aggiornamento previsti per gli organismi di mediazione. Ritiene il Consiglio, accogliendo il motivo di appello, che “non può sussistere dubbio sulla diversità ontologica dei corsi di formazione e aggiornamento gestiti per l’avvocatura dai relativi ordini professionali - i quali possono bensì prevedere anche una preparazione all’attività di mediazione, ma solo come momento eventuale e aggiuntivo rispetto ad una più ampia e variegata pluralità di momenti e percorsi di aggiornamento – rispetto alla formazione specifica che la normativa primaria richiede per i mediatori, proprio in ragione dell’esigenza di assicurare che il rischio di incisione sul diritto di iniziativa giudiziale costituzionalmente garantito sia bilanciato da un’adeguata garanzia di preparazione e professionalità in capo agli organismi chiamati a intervenire in tale delicato momento”.
La stessa disciplina regolamentare, vero è che afferma che “gli avvocati sono mediatori di diritto”, ma subito dopo aggiunge che “…Gli avvocati iscritti ad organismi di mediazione devono essere adeguatamente formati in materia di mediazione e mantenere la propria preparazione con percorsi di aggiornamento teorico-pratici a ciò finalizzati, nel rispetto di quanto previsto dall’articolo 55 bis del codice deontologico forense (…)”. SS
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Inserito in data 19/11/2015 CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 19 novembre 2015, n. 236 E' legittima l’applicazione retroattiva della L. 190/12 - cd. Legge Severino La Corte Costituzionale si è pronunciata sulla legittimità dell’applicazione retroattiva della sospensione dalla carica elettorale prevista dalla cd. legge Severino (L. 190/12 - art. 11, co. 1 lett. a) anche a fattispecie di reato contro la P.A. realizzatesi prima della sua entrata in vigore rispetto agli artt. 2, 4, co. 2, 51, co. 1 e 97, co. 2 Cost. In particolare, il Giudice rimettente (Tar Campania – Napoli) contestava la sussistenza, in questa ipotesi, di un eccessivo sbilanciamento a favore della salvaguardia della moralità dell’amministrazione pubblica rispetto ad altri interessi costituzionali quali il diritto di elettorato passivo (art. 51 Cost.), da ritenersi inviolabile ai sensi dell’art. 2 Cost., nonché posto a fondamento del funzionamento delle istituzioni democratiche repubblicane, secondo quanto previsto dall’art. 97, co. 2 Cost. ed infine espressione del dovere di svolgimento di una funzione sociale che sia stata frutto di una libera scelta del cittadino, ai sensi dell’art. 4, co. 2 Cost. Il rimettente, peraltro, a riprova della sua affermazione, argomentava in ordine essenzialmente a tre elementi: il carattere sanzionatorio della sospensione dalla carica; l’applicazione retroattiva della sospensione, in contrasto con un divieto di retroattività che si ricaverebbe dallo stesso art. 51, co. 1 Cost.; il collegamento della sospensione con una condanna non definitiva. La Corte, con la sentenza de qua, dichiara l’infondatezza della q.l.c. sollevata motivando in ordine a ciascun singolo elemento posto a base del giudice rimettente per sostenere la sua affermazione. In ordine al carattere sanzionatorio della sospensione della carica, la Consulta richiama le sue pregresse pronunce sulle norme di legge che costituiscono i “precedenti” della cd. legge Severino al fine di ribadire che è escluso che le misure della incandidabilità, della decadenza e della sospensione abbiano carattere sanzionatorio. Tali misure, afferma la Corte, “non costituiscono sanzioni o effetti penali della condanna, ma conseguenze del venir meno di un requisito soggettivo per l’accesso alle cariche considerate o per il loro mantenimento”, inoltre “esse rispondono ad esigenze proprie della funzione amministrativa e della pubblica amministrazione presso cui il soggetto colpito presta servizio e, trattandosi di sospensione, costituiscono misura sicuramente cautelare”. In ordine, poi, all’asserita retroattività dell’art. 11 della legge Severino, la censura mossa dal giudice rimettente va intesa nel senso che la violazione dell’art. 51, co. 1 Cost. deriverebbe dall’applicazione della norma censurata ad un mandato già in corso, e ciò in quanto, come si legge nell’ordinanza di rimessione, l’art. 51 vieterebbe alla legge – alla quale affida il compito di stabilire i requisiti dell’elettorato passivo – di introdurre sanzioni in via retroattiva in virtù di una presunta “costituzionalizzazione” dell’art. 11 delle disposizioni preliminari al codice civile nei casi di riserva di legge per la disciplina di diritti fondamentali. Afferma la Corte che la tesi della “costituzionalizzazione” del principio di irretroattività in tutti i casi in cui la Costituzione ponga una riserva di legge per la disciplina di diritti inviolabili “è infondata, dato che, al di fuori dell’ambito di applicazione dell’art. 25, co. 2 Cost. – al quale il giudice rimettente non ha fatto riferimento – le leggi possono retroagire, rispettando una serie di limiti che questa Corte ha da tempo individuato”. Ritiene la Consulta che non è irragionevole ritenere che una condanna (non definitiva) per determinati delitti susciti l’esigenza cautelare di sospendere temporaneamente il condannato dalla carica, “per evitare un inquinamento dell’amministrazione e per garantire la credibilità dell’amministrazione presso il pubblico”; tali esigenze sarebbero vanificate se l’applicazione delle norme in questione dovesse essere riferita soltanto ai mandati successivi alla loro entrata in vigore. Infine, sotto il profilo dell’applicazione della sospensione anche per condanne non definitive, la Corte afferma che “anche una condanna non definitiva può far sorgere l’esigenza cautelare di sospendere temporaneamente l’eletto da tale mandato, sicché si deve concludere che la scelta operata dal legislatore nell’esercizio della sua discrezionalità non ha superato i confini di un ragionevole bilanciamento degli interessi costituzionali in gioco”. SS
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Inserito in data 18/11/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III - 17 novembre 2015, n. 5240 Insussistenza onere di dichiarare condanne procuratore ad negotia con poteri limitati Con la pronuncia in commento, la Terza Sezione del Consiglio di Stato ha affermato l’insussistenza dell’onere, in capo all’impresa partecipante ad una gara, di segnalare le eventuali condanne riportate dai procuratori ad negotia con poteri limitati, altresì dichiarando l’impossibilità di disporre l’esclusione dalla gara per omessa dichiarazione di un reato di lieve entità – per di più risalente nel tempo - qualora il modulo predisposto dalla stazione appaltante imponga di dichiarare soltanto i reati gravi. Nel caso in esame, la stazione appaltante, dopo la definitiva aggiudicazione dell’appalto all’unica impresa partecipante, avendo riscontrato l’esistenza di una sentenza di condanna a carico del procuratore speciale della società ed avendo, per ciò, ravvisato una causa ostativa alla sottoscrizione del contratto, aveva dichiarato l’inefficacia dell’aggiudicazione. Il giudice di prime cure, innanzi al quale aveva proposto ricorso l’aggiudicataria, aveva respinto le ragioni della ricorrente, argomentando che “i procuratori ad negotia, muniti di poteri decisionali di particolare ampiezza e riferiti ad una pluralità di oggetti, rientrano nella figura cui si richiama l’art. 38, comma 1, Cod. Appalti”, altresì precisando che, in ogni caso, la falsa dichiarazione resa in ordine ai precedenti penali non possa considerarsi un “falso innocuo”, di talché “l’inefficacia dell’aggiudicazione è stata disposta non già per l’esistenza di una condanna, bensì per la violazione dell’obbligo di rendere autodichiarazioni veritiere”. I Giudici di Palazzo Spada, investiti della questione, hanno osservato come il Tar Abruzzo avesse “correttamente individuato il principio applicabile alle false o incomplete dichiarazioni sull’assenza di cause ostative ex art. 38 del Codice, qualora effettuate da procuratori speciali”, errando, tuttavia, nel qualificare la posizione del procuratore ad negotia nel caso concreto. Ed infatti – ha ricordato il Collegio richiamando un principio espresso dall’Ad. Pl. nella pronuncia n. 23/2013 – appare pienamente condivisibile l’assunto secondo cui con riferimento “ai procuratori speciali muniti di poteri decisionali di particolare ampiezza (..), debbano trovare applicazione le previsioni sull’obbligo di dichiarazione dell’assenza di cause ostative ex art. 38 del Codice dei contratti pubblici”, Oltretutto, la portata interpretativa del citato art. 38 appare ispirata ad un’ottica sostanzialistica di natura comunitaria, volta a tutelare l'interesse pubblico affinché l’amministrazione non contratti “con persone giuridiche governate in sostanza da persone fisiche sprovviste dei richiesti requisiti di onorabilità ed affidabilità morale e professionale”. Venendo, tuttavia, al caso di specie, i poteri decisionali del procuratore speciale non apparivano, in concreto, particolarmente significativi ed ampi, e comunque “non tali da potersi equiparare a quelli propri degli amministratori e a quelli concretamente attribuiti ai consiglieri di amministrazione dallo statuto”. Inoltre – ha ulteriormente argomentato la Terza Sezione – “quanto all’orientamento della giurisprudenza, secondo il quale l’esistenza di false dichiarazioni sul possesso dei requisiti – quali, appunto, la mancata dichiarazione di sentenze penali di condanna - si configura come causa autonoma di esclusione, va osservato che l’art. 75 del d.P.R. 445/2000, commina la decadenza dai benefici eventualmente conseguenti al provvedimento emanato sulla base della dichiarazione non veritiera; ma, qualora - come nel caso in esame - la dichiarazione non sia necessaria ai fini della partecipazione alla gara, viene meno quella stretta correlazione tra il beneficio – costituito, per l’appunto, dall’aggiudicazione - e la dichiarazione, che impone di sanzionarne la falsità”. In ogni caso, nella fattispecie, deve attribuirsi rilevanza esimente alla circostanza che “la dichiarazione sia stata resa sul modulo predisposto dalla stazione appaltante che, in modo fuorviante, menzionava le (sole) condanne per reati gravi” e che il reato, oltre ad essere risalente nel tempo, fosse di lieve entità, percepito, quindi, dalla concorrente come “irrilevante ai fini della moralità professionale attuale e dell’obbligo di dichiarazione in gara”.
Dunque, sulla scorta delle esposte argomentazioni, il Consiglio di Stato, in riforma della sentenza di primo grado, ha accolto il ricorso proposto dall’impresa aggiudicataria, per l’effetto annullando i provvedimenti con essa impugnati. MB
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Inserito in data 18/11/2015 TAR CAMPANIA - SALERNO, SEZ. II, 16 novembre 2015, n. 2419 Illegittima la sospensione “sine die” di un procedimento amministrativo Con la sentenza in epigrafe, i Giudici Salernitani hanno sancito l’illegittimità della sospensione “sine die” del procedimento amministrativo qualora non sia, cioè, stato fissato alcun termine certo alla durata della disposta sospensione. Nella fattispecie, il ricorrente, titolare di uno stabilimento balneare, aveva presentato al Comune istanza volta ad usufruire del beneficio della proroga di cui all’art. 34-duodecies della L. n. 221/12 e, in risposta, il Responsabile dell’Ufficio Demanio del Comune, preso atto dell’esistenza di accertamenti in corso da parte dell’U.T.C., aveva disposto la sospensione dell’iter istruttorio, in attesa della conclusione degli accertamenti. La Seconda Sezione del Collegio, pur ammettendo che l’orientamento giurisprudenziale più diffuso, “volto a negare la legittimità della sospensione del provvedimento amministrativo, ove disposta sine die, si riferisce, generalmente, alle ipotesi in cui la sospensione incide su provvedimenti amministrativi già in atto”, ha, tuttavia, ritenuto di poter estendere il richiamato principio pure alle ipotesi di sospensione di un procedimento amministrativo, “in quanto anche nelle suddette fattispecie deve ravvisarsi la violazione, da parte dell’Amministrazione procedente, dei principi di correttezza e buona fede, nonché di ragionevole conclusione del procedimento, racchiusi nell’art. 2 della legge n. 241/90, ed espressione dei canoni generali dell’azione amministrativa”. Pertanto, il Collegio, basandosi sulla circostanza assorbente che, nella fattispecie, il Comune non avesse previsto un termine certo alla durata della disposta sospensione, ma, al contrario, avesse sospeso l’iter procedimentale a tempo indeterminato ovvero con il generico richiamo alla futura quanto imprecisata conclusione degli accertamenti da parte dell’U.T.C., ha accolto il ricorso, per l’effetto annullando l’impugnato provvedimento amministrativo. MB
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Inserito in data 17/11/2015 CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 13 novembre 2015, n. 10 In caso di discrasia, l’offerta espressa in lettere prevale su quella espressa in cifre L’Adunanza Plenaria è stata chiamata a stabilire il “criterio utile a dirimere le incertezze derivanti dall’emersione di discordanze fra le offerte espresse in lettere e quelle espresse in cifre, in sede di esame delle offerte presentate dagli operatori partecipanti ad una gara finalizzata all’affidamento di un contratto pubblico di lavori, servizi o forniture”. Secondo una parte della giurisprudenza, di regola la discrasia andava risolta dando prevalenza all’indicazione più vantaggiosa per l’Amministrazione, in applicazione dell’art. 72 r.d. n. 827/24. Con la pronuncia in esame, l’Adunanza Plenaria aderisce all’opposto indirizzo giurisprudenziale, affermando che, in caso di discrasia, l’offerta espressa in lettere prevale su quella espressa in cifre, in attuazione dell’art. 119 DPR 207/10; infatti, quest’ultima norma esprime un principio di portata generale nel settore degli appalti pubblici; viceversa, non rispondendo alla logica comunitaria della tutela della concorrenza, l’art. 72 r.d. n. 827/24 deve applicarsi alle fattispecie non sottoposte al Codice dei contratti, id est nelle ipotesi di procedure ad evidenza pubblica aventi ad oggetto la stipula di contratti passivi come la vendita o la locazione di beni . Più nello specifico, contro il criterio dell’offerta maggiormente vantaggiosa per l’Amministrazione si evidenzia che tale criterio genererebbe delle interferenze col meccanismo di esclusione delle offerte anomale: da un canto, l’offerta più vantaggiosa per la PA potrebbe risultare anomala e passibile di esclusione; d’altro canto, la stessa soglia di anomalia risulterebbe falsata, in quanto essa si determina sulla base del valore medio delle offerte presentate dalla totalità dei concorrenti nel corso della gara. Inoltre, il criterio dell’offerta più vantaggiosa per l’amministrazione violerebbe il principio di unicità della offerta di cui all’art. 11 c. 6 DLGS n. 163/06, atteso che la PA individuerebbe l’offerta più vantaggiosa soltanto in una fase successiva alla individuazione delle offerte degli altri concorrenti.
Poi, nel senso dell’applicazione del criterio previsto dall’art. 119 depone la maggiore ponderazione che richiede la scritturazione in lettere rispetto a quella in cifre, argomento tenuto in considerazione anche in altri settori dell’ordinamento (cfr. art. 6 r.d. n. 1669/33; art. 9 r.d. n. 1736/33). TM
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Inserito in data 16/11/2015 TAR PUGLIA - LECCE, SEZ. III, 13 novembre 2015, n. 3321 Prestazioni non suddivise: errata la forma del r.t.i. verticale L’adito Tribunale amministrativo regionale respinge per infondatezza nel merito il ricorso presentato da un raggruppamento temporaneo di imprese, unico partecipante alla selezione, per l’annullamento della nota di esclusione dalla gara – emessa in seguito all’annullamento in autotutela dell’aggiudicazione provvisoria – essendo stata adottata dal ricorrente la forma dell’associazione di tipo verticale, nell’ambito di una procedura aperta per l’affidamento di servizî la quale non prevedeva una suddivisione delle prestazioni in principale e secondarie. Osserva il Collegio salentino, come la mancata individuazione nel bando delle due categorie di prestazioni – anche in termini economici – non consenta, alla luce dell’interpretazione fornita dell’art. 37, del codice dei contratti pubblici, la possibilità per gli operatori economici di organizzarsi alla stregua di una ripartizione verticistica delle competenze; dovendo, invece, gli stessi essere obbligati alla medesima prestazione, secondo uno schema di tipo orizzontale “nel quale i requisiti richiesti devono essere posseduti, almeno in percentuale, da tutte le imprese associate”. Il Tribunale fonda il proprio giudizio sull’assenza nella lex specialis di elementi che consentano ai partecipanti di costituirsi in raggruppamenti verticali; segnatamente, avendo la stazione appaltante provveduto all’indicazione di un’unica prestazione; a nulla rilevando la descrizione, pur dettagliata, degli interventi, anche di carattere accessorio, posta a specificazione dell’oggetto del servizio, trattandosi di mera elencazione riassuntiva, inidonea a distinguere le varie voci all’interno di ipotetiche categorie – si ritiene a tal ultimo proposito rilevante la circostanza dell’omessa quantificazione delle relative percentuali. Il giudice territoriale esclude, inoltre, di dover disporre il rinvio pregiudiziale dinanzi alla Corte di giustizia dell’Unione europea, ex art. 267, T.f.U.e., per l’eventuale contrasto del citato art. 37, con l’art. 4 della direttiva 2004/18/CE, il quale stabilisce che le amministrazioni aggiudicatrici non possano esigere dai raggruppamenti di operatori economici l’assunzione di specifiche forme giuridiche. La questione è stata infatti considerata insussistente, riferendosi la norma ai diversi tipi societarî, e non già all’assetto del raggruppamento, il quale può configurarsi come verticale, in caso di “pluralità di prestazioni, di cui alcune specialistiche e/o scorporabili da quella principale”, ovvero orizzontale, quando si riscontra invece la “uniformità della specializzazione professionale delle imprese partecipanti”; l’ordinamento può conseguentemente fissare “i correlati differenti requisiti di idoneità professionale e di capacità tecnica dei singoli operatori economici”.
Si osserva, inoltre, come l’impugnativa del bando – sul punto immediatamente lesivo dell’interesse del ricorrente, venendo in rilievo un requisito di partecipazione alla gara – debba ritenersi irricevibile per tardività, ai sensi dell’art. 120 del codice del processo amministrativo. FM
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Inserito in data 16/11/2015 CORTE DI CASSAZIONE - TERZA SEZIONE PENALE, SENTENZA 12 novembre 2015, n. 45278 Applicazione dell’art. 169 c.p.p. Avverso il provvedimento del giudice territoriale che rigettava l’appello, il ricorrente eccepiva in sede di legittimità l’erroneità della notifica dell’avviso di fissazione dell’udienza camerale, effettuata ai sensi dell’art. 161, comma quarto, c.p.p., trattandosi di soggetto stabilmente residente all’estero, rispetto al quale avrebbe dovuto trovare applicazione la disciplina stabilita dall’art. 169, c.p.p.. Si osservava, segnatamente, da parte della difesa, come la mera dichiarazione – in atti – del domicilio all’estero, non potesse essere assunta alla stregua di una indicazione inidonea, integrante la circostanza riferita dal citato art. 161, comma quarto, essendo stata detta dichiarazione rilasciata nel corso di un’indagine amministrativa, svoltasi prima del procedimento penale (concernente, nel dettaglio, l’esecuzione di un sequestro ex art. 10, d.lgs. n. 74/2000).
La suprema Corte, confermando le conclusioni del giudice di merito, ribadisce che l’art. 169 c.p.p. trova applicazione soltanto in occasione della prima notifica al soggetto indagato o imputato, che risulti avere residenza o dimora all’estero, ed è posto a garanzia delle informazioni di carattere essenziale cui la parte processuale deve avere accesso, al fine di renderla edotta dell’esistenza e dell’oggetto, “ancorché con tratti sommarî, ma al momento sufficienti”, di un procedimento penale a suo carico. La dichiarazione o l’elezione di domicilio nel territorio dello Stato, per le successive notificazioni, risponde all’esigenza di rendere più “celere e agevole” il flusso di comunicazioni, “garantendo in primis all’interessato la pronta e sicura conoscenza dell’atto a lui inviato”. Rileva infine la Corte, come nel caso di specie l’iter seguito appaia corretto, essendo stato ritualmente notificato il primo atto (consistente in un decreto di sequestro), mettendo la parte “a conoscenza delle già citate informazioni essenziali (omissis) che, diversamente, avrebbe avuto diritto di apprendere a mezzo della raccomandata di cui all’art. 169, comma primo, c.p.p.”; inoltre, con il medesimo adempimento amministrativo, il soggetto era anche stato invitato a dichiarare o eleggere domicilio in Italia “al fine di consentire notifiche più certe e rapide nelle (allora eventuali) fasi successive del procedimento medesimo, senza però provvedervi”. Nella fattispecie, l’esecuzione del sequestro aveva costituito “l’occasione per inverare in fatto quanto previsto dall’art. 169 (omissis), senza così imporre l’invio della raccomandata all’estero; l’inottemperanza del ricorrente, poi, ha comportato l’ovvia declaratoria di inidoneità del domicilio dichiarato all’estero, ed ha imposto la notifica ex art. 161, comma quarto, c.p.p.”. FM
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Inserito in data 13/11/2015 TAR VENETO - VENEZIA, SEZ. III, 6 novembre 2015, n. 1141 Legittimità del diniego all'autorizzazione alla vendita dei farmaci soggetti a prescrizione nelle parafarmacie Il T.A.R. Veneto, con la pronuncia in esame, respinge il ricorso volto all’annullamento del diniego di autorizzazione alla vendita al pubblico di tutte le specie medicinali in commercio, comprese quelle soggette a prescrizione medica, richiesta dal titolare di una parafarmacia, regolarmente abilitato all’esercizio della professione di farmacista ed iscritto al relativo albo professionale. La questione relativa alla dispensazione dei farmaci dietro prescrizione medica nelle parafarmacie costituisce un tema molto discusso, già oggetto di approfondimento da parte della Consulta e della Corte di Giustizia. Nella pronuncia de qua, il Collegio richiama la decisione n° 216/2014 con la quale la Corte Costituzionale aveva dichiarato legittimo, per le parafarmacie, il divieto di dispensare i medicinali soggetti a prescrizione medica ex art. 87, c. 1, del d.lgs n. 219/2006, per l’effetto limitandone la distribuzione alle sole farmacie e ciò in quanto la “complessa regolamentazione pubblicistica della attività economica di rivendita dei farmaci è preordinata ad assicurare e controllare l’accesso dei cittadini ai prodotti medicinali ed in tal senso a garantire la tutela del fondamentale diritto alla salute”. Nell’ambito della citata pronuncia, la Consulta ha ben chiarito che il regime delle farmacie è conforme all’ordinamento comunitario ed in particolare al principio di tutela della concorrenza, altresì osservando come “l’incondizionata liberalizzazione di quella categoria di farmaci inciderebbe con effetti non privi di conseguenze sulla distribuzione territoriale delle parafarmacie le quali, non essendo inserite nel sistema di pianificazione di cui al d.l. n° 201 del 2011, potrebbero alterare il sistema stesso, posto prima di tutto a garanzia della salute dei cittadini”. Anche la Corte di Giustizia – ricordano i Giudici veneziani - ha avuto, in più occasioni, modo di sottolineare come la salute e la vita delle persone occupino una posizione preminente tra gli interessi protetti dal Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, precisando che spetta agli Stati membri stabilire “il livello al quale essi intendono garantire la tutela della salute pubblica e il modo in cui tale livello debba essere raggiunto”. Ed ancora – osserva la Corte - l’apertura ed il dislocamento delle farmacie sul territorio italiano è oggetto di un sistema di pianificazione, con la conseguenza che l’eventuale liberalizzazione, nella conduzione delle parafarmacie, dei medicinali soggetti a prescrizione medica, senza osservare il requisito della pianificazione territoriale, avrebbe inevitabilmente ripercussioni negative sull’effettività dell’intero regime di pianificazione delle farmacie e quindi sulla sua stabilità. Nel solco tracciato dalla Consulta nella citata pronuncia, il T.A.R Veneto ribadisce quindi il divieto, per le parafarmacie, di dispensazione al pubblico dei farmaci soggetti a prescrizione medica. MB
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Inserito in data 13/11/2015 CORTE DI CASSAZIONE - SESTA SEZIONE PENALE, SENTENZA 9 novembre 2015, n. 44765 Gli assegni familiari percepiti dal genitore non affidatario concorrono al mantenimento dei figli La Sesta Sezione penale della Corte di Cassazione ha affermato il principio di diritto secondo cui, in assenza di espressa indicazione del giudice civile in sede di determinazione dell’assegno di mantenimento, gli importi erogati a titolo di assegni familiari al genitore naturale lavoratore e da questi spontaneamente versati in favore del genitore affidatario per il mantenimento del minore, concorrono ad integrare l'obbligo di mantenimento per la prole e possono, quindi, essere impiegati per integrare il pagamento dell’assegno. Con la pronuncia in esame, la Cassazione - nel confermare la sentenza di appello con la quale era stato assolto il genitore naturale, non affidatario, condannato in primo grado con l’accusa di avere fatto mancare al figlio minore i mezzi di sussistenza – osserva, anzitutto, come con riferimento alla fattispecie de qua, trattandosi di genitori non legati dal vincolo di coniugio, non sia invocabile l’art. 211 della L. n° 151/1975, a mente del quale il coniuge affidatario ha diritto di percepire direttamente gli assegni familiari anche quando questi siano corrisposti all’altro coniuge. Ed infatti – ragguaglia la Corte, richiamando consolidata giurisprudenza – detti assegni, costituendo «una prestazione generale e astratta di sostegno al reddito familiare in ragione della presenza di minori», spettano al lavoratore cui vengono corrisposti per consentirgli di far fronte al proprio obbligo di mantenimento della prole e, salva diversa statuizione del giudice, non possono affatto essere “pretesi” dall’altro genitore. Pertanto – concludono i giudici di Piazza Cavour - «in assenza di diversa specifica indicazione del giudice civile in sede di determinazione dell’assegno di mantenimento, nel caso di genitore naturale lavoratore, non affidatario, l’importo degli assegni familiari destinati al figlio minore concorre ad integrare la somma alla cui periodica corresponsione lo stesso è obbligato». MB
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Inserito in data 12/11/2015 CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 11 novembre 2015, n. 229 Non commette reato il medico che non impianta gli embrioni malati (L. n. 40/04) Con la sentenza de qua, la Consulta “dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 13, commi 3, lettera b), e 4 della legge 19 febbraio 2004, n. 40 …, nella parte in cui contempla come ipotesi di reato la condotta di selezione degli embrioni anche nei casi in cui questa sia esclusivamente finalizzata ad evitare l’impianto nell’utero della donna di embrioni affetti da malattie genetiche trasmissibili rispondenti ai criteri di gravità di cui all’art. 6, comma 1, lettera b), della legge 22 maggio 1978, n. 194 … e accertate da apposite strutture pubbliche”. Difatti, secondo la Consulta, per il principio di non contraddizione rilevante ex art. 3 Cost., quanto è divenuto lecito, per effetto della pronunzia additiva n. 96/15 della Corte costituzionale, non può essere più attratto nella sfera del penalmente rilevante. Sotto questo profilo si ricorda che, con la sentenza n. 96/15, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 1 c. 1 e 2 e 4 c. 1 della L. n. 40/04, nella parte in cui non consentono il ricorso alle tecniche di PMA, al fine esclusivo della previa individuazione degli embrioni sani, alle coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili, rispondenti ai criteri di gravità di cui all’art. 6 c. 1 lett. b) della L. 194/78, accertate da apposite strutture pubbliche. Viceversa, secondo la Corte costituzionale, non è “censurabile la scelta del legislatore del 2004 di vietare e sanzionare penalmente la condotta di «soppressione di embrioni», ove pur riferita … agli embrioni che, in esito a diagnosi preimpianto, risultino affetti da grave malattia genetica”. Infatti, tale scelta legislativa non è irragionevole, atteso che gli embrioni malati non sono mero materiale biologico e, perciò, non meritano, per il solo fatto della malformazione, un trattamento deteriore rispetto a quello riservato agli embrioni sani creati in sovrannumero. Pertanto, ex artt. 14 L. 40/04 e 2 Cost., deve essere tutelata la dignità dell’embrione, ancorché malato. D’altro canto, nella fattispecie in esame, non esiste alcun interesse di rilievo costituzionale che giustifichi l’affievolimento della tutela dell’embrione. Da ultimo, la Corte chiarisce che la norma incriminatrice censurata non contrasta col diritto all’autodeterminazione, posto che il divieto di soppressione non ne comporta l’impianto coattivo nell’utero della gestante. TM
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Inserito in data 11/11/2015 CORTE DI CASSAZIONE - SESTA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 6 novembre 2015, n. 22763 Irragionevole durata del processo: termine per il deposito dei documenti “Soggiace al termine perentorio stabilito dall’art. 4 legge n. 89/01 unicamente il deposito nella cancelleria della Corte d’appello adita di un ricorso avente i requisiti di cui all’art. 125 c.p.c., richiamato dal primo comma dell’art. 3 stessa legge. Pertanto, il deposito degli atti e dei documenti elencati nel terzo comma del medesimo articolo può sopravvenire in qualunque momento utile, prima che il presidente della Corte o il consigliere da lui designato provvedano con decreto sulla domanda, ovvero nel termine eventualmente concesso ai sensi dell’art. 640, primo comma c.p.c., richiamato dal successivo quarto comma dello stesso art. 3”. Questo il principio di diritto espresso ai sensi dell’art. 384, comma primo, c.p.c., dalla Corte di legittimità, con la sentenza in epigrafe, pronunciata in ordine alla domanda di equa riparazione per irragionevole durata del processo. La Corte d’appello aveva ritenuto la domanda inammissibile “per l’incompletezza e l’inidoneità della documentazione depositata”; aggiungendo, nel decreto reso nel giudizio d’opposizione intentato ai sensi dell’art. 5 ter della c.d. legge Pinto, che “il ricorso mancava degli atti e dei verbali di causa del giudizio presupposto, nonché del provvedimento definitivo”. La Corte, in composizione collegiale, osservava come non fosse “possibile assegnare alla parte un termine ai sensi dell’art. 3, comma 4 legge citata per integrare le produzioni, dovendosi osservare il termine perentorio prescritto dall’art. 4 anche con riguardo all’integrazione dei documenti”, e il richiamo all’art. 640, c.p.c., dovesse essere “inteso nel senso che la richiesta d’integrazione della prova riguardava il solo caso in cui apparisse necessario l’esame di documenti ulteriori, utili ai fini della decisione, mentre essa restava senz’altro esclusa quando a mancare fossero stati, nelle forme prescritte, gli atti e i documenti indicati dalla legge e ʻda allegare al ricorso a pena di decadenzaʼ”. I giudici della sesta sezione civile della Cassazione, rilevano come le disposizioni contenute agli artt. 3, comma terzo, e 4, della legge Pinto, “si coordinino agevolmente tra loro senza per questo integrarsi”. La logica ermeneutica seguita, invece, dalla Corte territoriale conduceva a ritenere invalido, e non rinnovabile oltre il termine di cui all’art. 4, il ricorso privo del corredo documentale richiesto dal citato art. 3. La Corte di nomofilachia, premettendo che “l’inammissibilità non è altro che la conseguenza di una nullità (formale o extraformale) insanabile o non più sanabile ovvero di una preclusione”, riscontra come la produzione documentale ai sensi dell’art. 3 non possa essere considerata alla stregua di una condizione d’ammissibilità del ricorso. Conferma quest’interpretazione la norma di cui al comma quarto dello stesso art. 3, laddove rinvia ai commi primo e secondo dell’art. 640 c.p.c., consentendo al giudice di richiedere un’integrazione degli atti: per tali dovendosi intendere quelli di cui al comma terzo dell’art. 3; ed invero, ritenere, al contrario, che l’invito possa riferirsi soltanto a “quant’altro appaia utile”, sembra apertamente confliggere, in relazione al contenuto del comma secondo del citato art. 640, con la ratio sottesa al comma terzo dell’art. 3, che fornendo un’elencazione dettagliata dei documenti da allegare, implicitamente li considera “necessarî e sufficienti” ai fini della decisione. Sullo stesso tema, osserva ancora la Corte che, ove si seguisse l’interpretazione del giudice territoriale “la seconda parte del quarto comma dell’art. 3 esprimerebbe un potere di ricerca officiosa della prova inconciliabile con la natura monitoria del procedimento”. Infine, rileva la Corte, come l’art. 125 c.p.c., richiamato dal comma primo dell’art. 3, disciplinando contenuto e sottoscrizione dell’atto di parte, non elenchi “tra i requisiti di validità le produzioni documentali, che per loro stessa natura riguardano la prova del diritto azionato, non la sua corretta ed efficiente postulazione mediante la domanda giudiziale”. Il ricorrente, in caso di respingimento della domanda per insufficienza della documentazione, stante la natura pienamente devolutiva dell’opposizione ex art. 5 ter, avrebbe peraltro potuto ancora, in quella sede, provvedere al deposito degli atti mancanti, senza alcun vincolo di subordinazione dell’esercizio di tale facoltà ad una previa concessione. FM
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Inserito in data 11/11/2015 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 6 novembre 2015, n. 5069 Alterata la competizione elettorale per la partecipazione di un soggetto incandidabile Il Consiglio di Stato pronuncia l’annullamento integrale di una consultazione elettorale, a fronte del ricorso, presentato da un cittadino elettore e candidato sindaco non eletto, avverso il provvedimento di ammissione di una lista alla quale partecipava (quale candidato sindaco) un soggetto non candidabile, per l’effetto dell’art. 10, comma primo, del d.lgs. n. 235/2012, in quanto condannato in via definitiva alla pena della reclusione per anni uno e mesi sei, per i reati di cui agli artt. 323 e 479, c.p.. Il giudice di prime cure, accogliendo la linea difensiva del Comune resistente, aveva dichiarato il ricorso inammissibile per tardività: la circostanza della conoscenza da parte del ricorrente della condizione ostativa alla candidabilità, già rilevata dalla prefettura competente, e l’immediata lesività del provvedimento di ammissione, avrebbero imposto, secondo l’interpretazione del T.a.r., la proposizione dell’impugnativa entro il brevissimo termine stabilito dall’art. 129, c.p.a., anziché, ai sensi del successivo art. 130, alla conclusione del procedimento elettorale unitamente all’atto di proclamazione degli eletti. Nell’ermeneutica del Tribunale, dunque, costituirebbero provvedimenti lesivi del diritto del ricorrente a partecipare al procedimento elettorale, “anche gli atti di ammissione di candidati o liste differenti da quelle del ricorrente”. Il Consiglio di Stato, richiamando la propria giurisprudenza pregressa, afferma la non condivisibilità del sopra menzionato orientamento; rilevando come, nonostante la novella del citato art. 129, il tenore letterale della norma, fin dall’indicazione della rubrica rimasta inalterata, non consenta un’estensione dell’ambito applicativo al di fuori degli atti di esclusione. Il criterio stesso dell’immediata lesività non può che riferirsi al diritto del ricorrente a partecipare al procedimento elettorale; e su tale diritto certamente non incide l’altrui ammissione; la quale “può solo dispiegare un’eventuale influenza sfavorevole sul futuro esito dell’elezione, riverberandosi quindi su un interesse di natura sostanziale che solo, però, alla luce del concreto risultato elettorale registrato potrebbe dirsi leso”. Si rammenta, inoltre, come la norma in esame venga unanimemente reputata di stretta interpretazione, in ragione della “pesante compressione del contraddittorio processuale che caratterizza tutti i termini” in essa stabiliti. Infine, la regola generale “tanto in tema di gare quanto di concorsi, vuole che le ammissioni di terzi si rendano impugnabili unicamente in occasione dell’impugnativa dell’atto di conclusione dei relativi procedimenti, in aderenza, del resto, al più ampio canone della non impugnabilità degli atti endoprocedimentali se non unitamente all’atto che definisce la procedura interessata”. Nel merito della fattispecie dedotta in giudizio, rimasta incontestata la condizione ostativa alla candidabilità, il Collegio passa a considerare le conseguenze derivanti dalla partecipazione del soggetto alle elezioni. Il ricorrente asseriva l’irrimediabile compromissione del risultato. I giudici di Palazzo Spada rilevano “che effetto minimo inevitabile di una patologia siffatta è quello del disconoscimento alla corrispondente lista dei seggi consiliari che le fossero stati assegnati”. È infatti sancito dall’art. 71 del d.lgs. n. 267/2000 “un intimo legame tra le candidature alla carica di sindaco e le liste collegatevi”. “L’indicazione del candidato sindaco costituisce, quindi, un elemento essenziale della valida presentazione della lista”. La nullità della candidatura, ex art. 10, d.lgs. n. 235/2012, inficia il risultato della lista collegata. Una diversa conclusione “permetterebbe alla lista collegata al sindaco, pur incandidabile, di tesaurizzarne il risultato elettorale, sia pure ai limitati fini della distribuzione dei seggi consiliari”. Secondo la sentenza in esame il citato art. 10 non fornisce “alcun elemento che possa denotare un ipotetico intento legislativo di escludere la possibilità di una propagazione dell’invalidità da esso stabilita al di là di quanto concerne la specifica persona del soggetto incandidabile”. In ordine alla domanda principale, volta all’invalidazione integrale delle elezioni comunali, il ricorrente presentava l’impugnativa nella “duplice qualità di cittadino elettore e di candidato a sindaco non eletto”; autorevole giurisprudenza, osserva il Consiglio di Stato, ha escluso che la spendita del doppio titolo di legittimazione attiva possa viziare il ricorso, ritenendo, anzi, che si tratti di prassi normale, e che tali qualifiche siano suscettibili di “reciproca integrazione”; il giudice, in sede di valutazione, deve osservare ad entrambe le dimensioni, non può, dunque, limitare il proprio sindacato “al solo risultato elettorale ottenuto dalla specifica lista collegata al candidato sindaco ricorrente (come opina la difesa comunale nel tentativo di dimostrare la carenza di interesse al ricorso)”, ma deve anche guardare “al risultato conseguito dalle altre liste”, “l’impugnativa (omissis), infatti, deve (omissis) essere vagliata alla stessa stregua di quella identicamente proponibile da qualsiasi altro cittadino elettore”. Viene comprovata la “incidenza totalmente invalidante del vizio cagionato dall’illegittima partecipazione”. Appare, infatti, alterata “in misura rilevante la posizione conseguita dalle altre forze politiche”. Non sono invece ammissibili le richieste di ripetizione della consultazione, nonché di limitare la partecipazione a quest’ultima alle sole liste legittimamente ammesse ab origine. Con riferimento alla prima: “La rinnovazione delle elezioni (omissis) esorbita il petitum consentito dalla disciplina dell’art. 130 c.p.a.”. La seconda richiesta, invece, oltre a costituire una domanda formulata ex novo in appello, appare anche priva di fondamento, essendo ogni tornata elettorale “diretta a costituire una rappresentanza politica che sia emanazione della volontà attuale del corpo elettorale legittimato a esprimersi”, e potendovi, dunque, “partecipare tutte le formazioni politiche che adempiano agli oneri previsti dalla legge per la presentazione delle liste”.
Si rileva a margine come il Collegio abbia ribadito, in via preliminare, che l’unica parte pubblica necessaria nel giudizio elettorale, a differenza di quanto disposto dall’art. 129, c.p.a., si individua nell’ente “cui vanno imputati i risultati elettorali”; non sono, dunque, contraddittori necessarî gli ufficî elettorali “i quali esauriscono la loro funzione con la proclamazione degli eletti”, né l’amministrazione statale. Non viene seguito, infatti, un criterio d’imputazione formale degli atti. FM
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Inserito in data 10/11/2015 CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 5 novembre 2015, n. 216 L’art. 26 del DL 201/11 viola il legittimo affidamento dei possessori di lire Dopo l’introduzione dell’euro avvenuta l’1/1/99, le banconote e le monete in lire continuarono ad avere corso legale fino al 28/2/02. Ai sensi degli artt. 3 c. 1 e 1bis L. 96/97 e 52-ter c. 1 e 1bis D.LGS. 213/98, da tale data iniziò a decorrere il termine di prescrizione decennale in favore dell’Erario delle lire ancora circolanti, con la conseguenza che il diritto di convertire in euro le banconote e le monete metalliche in lire poteva essere esercitato fino al 28/2/12. In questo quadro normativo si è inserito l’art. 26 del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, il quale, al fine di ridurre il debito pubblico, aveva disposto la prescrizione anticipata, con effetto immediato, delle lire ancora in circolazione dopo il 28/2/02, stabilendo altresì che il relativo controvalore fosse versato all’entrata del bilancio dello Stato per essere riassegnato al Fondo per l’ammortamento dei titoli di Stato. Con la sentenza de qua, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, per violazione dei principi di tutela dell’affidamento e di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., dell’art. 26 del d.l. n. 201/2011, come convertito. Secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, infatti, “il valore del legittimo affidamento, il quale trova copertura costituzionale nell’art. 3 Cost., non esclude che il legislatore possa assumere disposizioni che modifichino in senso sfavorevole agli interessati la disciplina di rapporti giuridici «anche se l’oggetto di questi sia costituito da diritti soggettivi perfetti», ma esige che ciò avvenga alla condizione «che tali disposizioni non trasmodino in un regolamento irrazionale… Solo in presenza di posizioni giuridiche non adeguatamente consolidate, dunque, ovvero in seguito alla sopravvenienza di interessi pubblici che esigano interventi normativi diretti a incidere peggiorativamente su di esse, ma sempre nei limiti della proporzionalità dell’incisione rispetto agli obiettivi di interesse pubblico perseguiti, è consentito alla legge di intervenire in senso sfavorevole su assetti regolatori precedentemente definiti”. Nel caso di specie, non ricorrevano le circostanze che legittimano il legislatore a modificare la disciplina giuridica in senso peggiorativo per gli interessati: per un verso, le posizioni giuridiche dei possessori di banconote e monete in lire erano adeguatamente consolidate, essendo decorsi 9 anni e 9 mesi dalla cessazione del corso legale della lira senza alcuna modifica dell’assetto normativo regolatore del rapporto; per altro verso, la sopravvenienza dell’interesse dello Stato alla riduzione del debito pubblico poteva giustificare la compressione, ma non la radicale e irreversibile estinzione di situazioni giuridiche consolidate verificatasi nel caso di specie (cioè sarebbe stato legittimo ridurre il termine di prescrizione, lasciando un termine residuo per la conversione). TM
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Inserito in data 10/11/2015 CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 28 ottobre 2015, n. 21946 Limiti all’immunità dalla giurisdizione civile degli Stati esteri per atti iure imperii Le Sezioni Unite aderiscono al principio enunciato dalla Corte costituzionale (sentenza n. 238/14), secondo cui la consuetudine internazionale sull’immunità dalla giurisdizione civile degli Stati esteri per atti iure imperii va interpretata in modo restrittivo, nel senso di non comprendere l’immunità degli Stati rispetto alle azioni di danni derivanti da crimini di guerra e contro l’umanità (cd. delicta imperii lesivi delle norme di ius cogens che tutelano i diritti inviolabili della persona). Tale adesione è fondata su due ragioni: in primis, sul “vincolo (negativo) che deriva, per tutti i giudici comuni, da una sentenza interpretativa di rigetto resa dalla Corte costituzionale, consistente nell’imperativo di non applicare la norma ritenuta non conforme al parametro costituzionale evocato e scrutinato dalla Corte costituzionale”; in secundis, “perché la propugnata lettura adeguatrice … trova rispondenza negli orientamenti della giurisprudenza di questa Corte, la quale più volte nel recente passato, proprio in tema di immunità dalla giurisdizione civile dello Stato estero, ha ritenuto prevalenti, sul dogma della sovranità, i principi e i diritti fondamentali che si riconnettono ai valori costitutivi della dignità umana”. Pertanto, secondo le Sezioni Unite, il principio di immunità giurisdizionale non è opponibile al cittadino statunitense che domandi il risarcimento del danno patito per un fatto terroristico annoverabile tra i crimini internazionali e imputabile allo Stato iraniano. Tuttavia, nel caso di specie, non può essere riconosciuta la sentenza di condanna dello Stato iraniano pronunciata dalla United States District Court for the District of Columbia, poiché nessuno dei titoli di giurisdizione propri dell’ordinamento italiano consentiva a tale giudice di decidere la controversia sottoposta alla sua cognizione, mentre, a mente dell’art. 64 c. 1 lett. a L. 218/95, ai fini del riconoscimento della sentenza straniera, è necessario che il giudice straniero che ha pronunciato la sentenza avesse la competenza internazionale in base ai criteri propri dell’ordinamento italiano. Del resto, la necessità di ricercare un titolo di giurisdizione conforme all’ordinamento italiano non è venuta meno per effetto della sentenza n. 238/14, in quanto con tale decisione la Corte costituzionale non ha creato un nuovo criterio di collegamento giurisdizionale fondato sul principio di giurisdizione civile universale, bensì ha fornito un’interpretazione restrittiva della norma consuetudinaria sull’immunità dalla giurisdizione civile degli Stati esteri per atti iure imperii. TM
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Inserito in data 09/11/2015 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 6 novembre 2015, n. 5070 Oneri di sicurezza cd. esterni: è obbligatoria l’indicazione nell’offerta? I giudici di Palazzo Spada, nella sentenza de qua, si sono pronunciati sull’obbligatorietà o meno dell’indicazione degli oneri di sicurezza cd. esterni in sede di presentazione dell’offerta, e, in particolare, se l’omessa riproduzione di tale tipo di oneri possa generare di per sé un’indeterminatezza dell’offerta stessa o possa essere tale da far venir meno un elemento essenziale di essa. La censura mossa dall’appellante incidentale era quella che l’offerta avversaria si era limitata a indicare la percentuale di ribasso, senza specificare l’ammontare degli oneri di sicurezza non soggetti a ribasso da sottrarre all’importo a base d’asta, e perciò senza chiarire su quale base andasse applicato il ribasso offerto: essa, dunque, riguardava i soli oneri di sicurezza cd. esterni. A ben vedere – chiarisce il Consiglio – che bisogna tenere distinti gli oneri di sicurezza in questione da quelli cd. interni o aziendali (già oggetto della sentenza dell’Ad. Plen. n. 3/2015) tant’è vero che le radicali differenze che investono la natura degli oneri di sicurezza dell’uno e dell’altro tipo (ben evidenziati dalla anzidetta sentenza) “escludono, invero, che la regola della necessaria indicazione da parte delle concorrenti degli oneri interni o aziendali, i quali sono appunto loro individualmente propri, possa essere estesa anche agli oneri cd. esterni, giacché la definizione di questi ultimi compete appunto, per converso, alla sola Amministrazione, chiamata a fissarli a monte della procedura, e su di essi le concorrenti non dispongono di alcun potere dispositivo, sicché anche una loro eventuale indicazione sul punto sarebbe solo pedissequamente riproduttiva di quella posta a base della procedura”. D’altra parte, non vi è alcuna norma che imponga ai concorrenti di riprodurre nella loro offerta la quantificazione degli oneri di sicurezza c.d. esterni già effettuata dall’Amministrazione: un precetto simile, infatti, non compare né nella disciplina positiva, né nella specifica lex specialis. Né l’adempimento ulteriore preteso dall’appellante presenterebbe utilità di sorta, proprio per la ragione che la determinazione degli oneri di sicurezza cd. esterni compete alla Stazione appaltante che vi procede impartendo un’indicazione di cui i concorrenti non possono far altro che tenere conto all’atto della formulazione delle loro offerte. Alla luce delle pregresse considerazioni – conclude il Collegio – il ribasso offerto senza la specificazione sulla cui omissione si appunta la doglianza dell’appellante incidentale “non può che essere inteso alla luce della previsione della lex specialis già indicativa dell’importo a base d’asta ammesso a ribasso”: l’offerta dell’impresa avversaria deve, pertanto, essere riferita al (solo) importo soggetto a ribasso in forza della legge di gara. Giova, peraltro, evidenziare che la sentenza in epigrafe si è pronunciata anche su altre due rilevanti questioni: sulla necessità o meno di una apposita motivazione da parte della Stazione appaltante nel caso di valutazione dell’irrilevanza di una condanna penale a carico del rappresentante legale di un’impresa, e sulla possibilità o meno di comprovare mediante avvalimento il requisito dell’iscrizione all’Albo dei Gestori Ambientali. In ordine alla prima questione, il Consiglio di Stato, applicando la regola generale della necessità di motivazione degli atti amministrativi e il principio di trasparenza dell’azione amministrativa, ha affermato che, nel caso in cui nel corso di una gara di appalto sia stata riscontrata l’esistenza di un precedente penale a carico del legale rappresentante di una impresa, la Stazione appaltante, prima di ammettere in gara la stessa, deve effettuare una apposita valutazione di cui deve dare contezza con puntuale motivazione. “Vero è che, secondo un indirizzo della giurisprudenza, la Stazione appaltante che non ritenga un precedente penale incisivo sulla moralità professionale non è tenuta a esplicitare in maniera analitica le ragioni del proprio convincimento, potendo la sua motivazione risultare anche per implicito o per facta concludentia, ma tale orientamento non è suscettibile di applicazione quando la situazione concreta non offra indici idonei a comprovare che la Stazione appaltante abbia effettivamente compiuto la propria valutazione sull’eventuale ostatività del precedente emerso”. In ordine alla seconda questione, il Collegio ha chiarito che l’istituto dell’avvalimento non può essere utilizzato nel caso della carenza, da parte di una concorrente, del requisito dell’iscrizione all’Albo dei Gestori Ambientali, dovendosi negare l’applicabilità dell’avvalimento con riguardo ai requisiti cd. soggettivi. SS
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Inserito in data 09/11/2015 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 6 novembre 2015, n. 5078 Pubblico impiego: mobilità o utilizzazione della graduatoria per l’assunzione? Il Consiglio di Stato si è pronunciato sulla questione della legittimità della riapertura della graduatoria ricavata da un procedimento di mobilità volontaria per la copertura di un posto di dirigente e ciò dopo aver proceduto alla formazione e all’utilizzo della graduatoria di mobilità ed al successivo scorrimento della tuttora vigente graduatoria del concorso pubblico per esami per la copertura di tale posizione lavorativa. Al riguardo, secondo l’orientamento consolidato, “il reclutamento dei dipendenti pubblici avviene attraverso un procedimento complesso nell’ambito del quale la procedura concorsuale non è affatto soppressa, ma è subordinata alla previa obbligatoria attivazione della procedura di mobilità, in attuazione dei fondamentali principi di imparzialità e buon andamento, predicati dall’articolo 97 della Costituzione”. Dunque – afferma il Collegio – bene ha fatto l’Amministrazione a dare priorità nel “piano assunzionale” all’esperimento delle procedure di mobilità ex art. 30 e 34 bis stabilite dal D. Lgs. 165 del 2001 e a prevedere lo scorrimento eventuale delle graduatorie concorsuali vigenti in caso di assenza o parziale risposta alle predette procedure. Tuttavia, nel caso sottoposto all’attenzione dei Giudici di Palazzo Spada, il problema risiede nella potestà dell’amministrazione di continuare i procedimenti di assunzione per i posti che le possibilità di bilancio offrono di ricoprire, “utilizzando nuovamente la procedura di mobilità al tempo attivata ed esaurita e quindi successivamente e nuovamente sostituita dallo scorrimento delle graduatorie”. Vero è che secondo l’orientamento espresso dall’Ad. Plen. nella sentenza n. 14/2011 “si è oramai realizzata la sostanziale inversione del rapporto tra l’opzione per un nuovo concorso e la decisione di scorrimento della graduatoria preesistente ed efficace, in quanto quest’ultima modalità di reclutamento rappresenta oggi la regola generale”, ma ciò non significa che il previo esperimento delle procedure di mobilità (previste dal citato art. 30 a pena di nullità prima di avviare le altre procedure di assunzione del personale) dia luogo alla formazione di sorta di graduatorie sul modello di quelle concorsuali. Si può concludere, dunque, che “le graduatorie formate a seguito delle procedure di mobilità non possono essere considerate efficaci negli anni seguenti al pari di quelle concorsuali”, ma si esauriscono al momento delle specifiche assunzioni cui sono finalizzate: “infatti, come si è visto, la regola generale delle assunzioni rimane sempre quella di tipo concorsuale dello scorrimento delle graduatorie che viene derogata solo nella fase preliminare mediante le procedure di mobilità”. SS |
Inserito in data 06/11/2015 CORTE COSTITUZIONALE - SENTENZA 5 novembre 2015, n. 221 Rettificazione giudiziale dell’attribuzione di sesso: necessario l’intervento chirurgico “demolitorio”? La Consulta è stata chiamata a pronunciarsi sulla q.l.c. sollevata in riferimento agli artt. 2, 3, 32, e 117 Cost. (quest’ultima norma in riferimento all’art. 8 della CEDU) ed avente ad oggetto l’art. 1 della l. n. 164/1982 nella parte in cui – prevedendo che, ai fini della rettificazione anagrafica dell’attribuzione di sesso, sia necessaria l’intervenuta modificazione dei caratteri sessuali primari – esso viene interpretato nel senso che tali modificazioni richiedano sempre dei trattamenti clinici altamente invasivi (nello specifico, nel caso di mutamento da uomo a donna, di un vero e proprio intervento chirurgico “demolitore”). Ritiene la Corte che la questione non sia fondata in quanto è necessario interpretare la disposizione in esame come il vero e proprio “approdo di un’evoluzione culturale ed ordinamentale volta al riconoscimento del diritto all’identità di genere quale elemento costitutivo del diritto all’identità personale, rientrante a pieno titolo nell’ambito dei diritti fondamentali della persona (art. 2 Cost. e art. 8 della CEDU)”. Viene, infatti, ribadito che la legge n. 164 del 1982 accoglie “un concetto di identità sessuale nuovo e diverso rispetto al passato, nel senso che ai fini di una tale identificazione viene conferito rilievo non più esclusivamente agli organi genitali esterni, quali accertati al momento della nascita ovvero naturalmente evolutisi, sia pure con l’ausilio di appropriate terapie medico-chirurgiche, ma anche ad elementi di carattere psicologico e sociale”. Alla luce di tali considerazioni – dice la Consulta – deve essere lasciato all’interprete il compito di definire il perimetro di tali modificazioni sessuali e, per quanto qui rileva, delle modalità attraverso le quali realizzarle. Di talché, nella disposizione oggetto di censura, la mancanza di un riferimento testuale alle modalità (chirurgiche, ormonali, ovvero conseguenti ad una situazione congenita), attraverso le quali si realizzi la modificazione sessuale, “porta ad escludere la necessità, ai fini dell’accesso al percorso giudiziale di rettificazione anagrafica, del trattamento chirurgico, il quale costituisce solo una delle possibili tecniche per realizzare l’adeguamento dei caratteri sessuali”. L’impostazione ermeneutica seguita dalla Corte Costituzionale coincide anche con quella fatta propria dalla giurisprudenza di legittimità nella recente sentenza della Cassazione n. 15138/2015 in base alla quale, dunque, si può concludere che “la prevalenza della tutela della salute dell’individuo sulla corrispondenza fra sesso anatomico e sesso anagrafico, porta a ritenere il trattamento chirurgico non quale prerequisito per accedere al procedimento di rettificazione, ma come possibile mezzo, funzionale al conseguimento di un pieno benessere psicofisico”. SS |
Inserito in data 05/11/2015 TAR LAZIO - LATINA, SEZ. I, 2 novembre 2015, n. 707 Il Comune può intervenire nei rapporti di utenza tra il gestore del SSI e l’utente moroso? La vicenda in esame trae origine dal ricorso proposto da una società gestrice del servizio idrico integrato (S.I.I.) per l’annullamento di un’ordinanza sindacale, emanata ai sensi dell’art. 50, comma 5, del d.lgs. n. 267/2000, contenente l’ingiunzione di ripristino immediato dell’erogazione della fornitura di acqua potabile presso un’utenza domestica, sospesa a causa della situazione di grave morosità dell’utente. In particolare, la ricorrente deduceva la violazione dell’art. 50 T.U.E.L. e l’eccesso di potere di sviamento, rilevando che le ordinanze contingibili ed urgenti possono essere emesse dall’Autorità comunale, in persona del Sindaco pro tempore, solo per il superamento di emergenze sanitarie o di pubblica igiene – nel caso di specie non sussistenti - né sarebbe tantomeno pertinente il richiamo, operato nell’ordinanza, agli aspetti di natura socio-assistenziale, i quali non assumerebbero rilievo alcuno ai fini dell’emanazione di un provvedimento ai sensi del citato art. 50 T.U.E.L. I Giudici laziali, investiti della questione, hanno osservato come recente giurisprudenza amministrativa (ex multis, T.A.R. Sardegna, Sez. I, 12 giugno 2015, n. 855; T.A.R. Campania, Salerno, Sez. I, 13 maggio 2015, n. 1000), già intervenuta in casi simili, abbia chiarito che il Sindaco non possa “intervenire con l’ordinanza prevista dall’art. 50, comma 5, T.U.E.L. a vietare al gestore del servizio idrico l’interruzione della fornitura nei confronti di singoli utenti morosi, poiché in questo caso si realizza uno sviamento di potere che vede il Comune, estraneo al rapporto contrattuale gestore–utente, impedire al medesimo gestore di azionare i rimedi di legge tesi ad interrompere la somministrazione di acqua nei confronti di utenti non in regola con il pagamento della prevista tariffa, e ciò a prescindere dall’imputabilità di siffatto inadempimento a ragioni di ordine sociale”. Il Collegio ha, in particolare, chiarito come debba senz’altro condividersi il principio per cui all’Autorità comunale non possa essere “riconosciuto un ruolo nello svolgersi del rapporto di utenza tra il soggetto gestore del S.I.I. ed il destinatario della fornitura idrica”, ed ha ulteriormente precisato che se anche si volesse ipotizzare una sorta di “dinamica di rapporti” tra l’Autorità comunale ed il gestore del servizio, “lo strumento amministrativo utilizzabile non potrebbe legittimamente rinvenirsi nell’ordinanza ex art. 50 cit., che, in carenza dei presupposti di contingibilità e di urgenza (che nel caso di specie, per l’appunto, difetterebbero), risulterebbe del tutto sproporzionato rispetto all’obiettivo da raggiungere”. In definitiva, non vi sarebbe spazio, nella fattispecie, per l’esercizio del potere ex art. 50, comma T.U.E.L., sicché la Prima Sezione del Collegio ha ritenuto fondata la censura dedotta dal ricorrente per difetto dei presupposti per l’esercizio del potere sindacale di ordinanza previsto dall’art. 50, comma 5, T.U.E.L., per l’effetto, disponendo l’annullamento dell’ordinanza sindacale impugnata con il ricorso. MB
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Inserito in data 05/11/2015 CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE PENALI, SENTENZA 27 ottobre 2015, n. 43264 Via libera alla particolare tenuità del fatto anche se la p.o. non compare davanti al G.P. “Nel procedimento avanti al giudice di pace, dopo l'esercizio dell'azione penale, la mancata comparazione in udienza della persona offesa - ritualmente citata ancorché irreperibile - non è di per sé di ostacolo alla dichiarazione di improcedibilità dell’azione penale per particolare tenuità del fatto, in presenza dei presupposti di cui all'art. 34 comma 3 d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274”, questo il principio di diritto espresso dalle Sezioni Unite nella sentenza in epigrafe, depositata il 27.10.2015. Le Sezioni Unite sono state chiamate a dirimere il contrasto giurisprudenziale esistente in ordine alla possibilità o meno di dichiarare l’improcedibilità dell’azione penale per la particolare tenuità del fatto - in base all’articolo 34, comma 1 Dlgs 274/2000 - quando la vittima del reato, dopo l’esercizio dell’azione penale (nulla quaestio per la fase precedente l’esercizio dell’azione penale), benché regolarmente citata o irreperibile, non compaia in udienza. La Corte – investita del quesito – ha precisato che, con riferimento alla questione, da tempo, si contendono il campo due contrapposti indirizzi giurisprudenziali: i) secondo un primo orientamento, “la mancata comparizione della persona offesa in udienza non può essere interpretata come una volontà di non opposizione rispetto ad una meramente eventuale valutazione del giudice circa la particolare tenuità del fatto, trattandosi di un fatto neutro, non espressivo di alcuna specifica volontà”; ii) a mente di un diverso filone ermeneutico, la decisione della persona offesa di non comparire in udienza implicherebbe invece “una volontà di rinuncia all’esercizio di tutte le facoltà processuali previste dalla legge, tra cui quella di opporsi all’esito del procedimento per particolare tenuità del fatto”. Le Sezioni Unite hanno quindi notato come, effettivamente, entrambi i richiamati orientamenti, pur pervenendo a soluzioni contrapposte, in realtà finiscano per definire la mancata comparizione in udienza della persona offesa “in termini indicativi, ora in senso negativo, ora in senso positivo, di una manifestazione di acquiescenza ad un esito del processo di improcedibilità per particolare tenuità del fatto, ai fini di quanto previsto dal comma 3 dell’art 34 d.lgs. n. 274/2000”. Tuttavia, entrambe le citate impostazioni muovono da un presupposto non corretto, ovvero “il presupposto secondo cui, dopo l’esercizio dell’azione penale, affinché possa pervenirsi ad un esito liberatorio, occorre accertare un’adesione – implicita od esplicita – della persona offesa” (che sia stata, beninteso, posta in grado di esprimere la propria eventuale opposizione). “Sennonché, la norma in esame non richiede da parte della persona offesa (come pure dell’imputato) un’adesione a un simile esito, stabilendo invece che esso sia escluso solo in presenza di una presa di posizione che abbia valore di una opposizione”. In altri termini, ai fini dell’operatività dell’istituto in esame, il citato art. 34, comma 3° prevede, nella fase successiva all’esercizio dell’azione penale, una condizione negativa - ovvero la non opposizione della persona offesa (o dell’imputato) - non già una condizione positiva. E proprio il tenore letterale della disposizione conduce a ritenere – hanno concluso le Sezioni Unite – che tale volontà di opposizione debba essere necessariamente espressa, in quanto l'opposizione prevista come condizione ostativa dall'art. 34 comma 3 d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, “non può essere desunta da atti o comportamenti che non abbiano il carattere di una formale ed inequivoca manifestazione di volontà in tal senso”. Al termine del lungo argomentare, il Collegio in seduta plenaria ha, quindi, concluso nel senso che la mancata comparizione all’udienza della persona offesa, sic, non possa impedire l’adozione, da parte del Giudice di Pace, della sentenza liberatoria per particolare tenuità del fatto. MB
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Inserito in data 04/11/2015 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 30 ottobre 2015, n. 4984 Deposito del ricorso a mezzo del servizio postale Avverso la dichiarazione dell’inammissibilità del ricorso pervenuto presso la Segreteria del T.a.r. tramite posta, anziché mediante consegna manuale, l’appellante sosteneva l’insussistenza di ragioni giuridiche fondanti l’invalidità o l’inefficacia della modalità formale di deposito seguita, e in via gradata il soccorso del principio di cui all’art. 156, comma terzo, c.p.c., concernente la sanatoria degli atti che, pur affetti da nullità, nondimeno raggiungano lo scopo cui erano destinati. Il giudice di prime cure aveva inferito le proprie conclusioni in considerazione dell’assenza di una disposizione che consentisse l’invio del ricorso avvalendosi del servizio postale. Diversamente opinando, il Consiglio di Stato desume dal richiamato art. 156, c.p.c., un principio generale di libertà, o equivalenza, delle forme degli atti processuali. In tale prospettiva, deve guardarsi alla concreta idoneità della forma adottata di realizzare il fine perseguito dall’ordinamento. Si sottolinea la non necessarietà di una norma autorizzativa della possibilità di compiere l’atto in un determinato modo; e anzi, una previsione espressa occorrerebbe soltanto ove si volesse interdire uno specifico modus agendi, ovvero si intendesse rendere obbligatoria una data condotta, vietando implicitamente tutte le altre. Il Collegio ritiene di non poter dedurre dall’art. 5 delle norme di attuazione del codice del processo amministrativo, un onere di consegna manuale del fascicolo direttamente da parte dell’interessato; non apparendo in linea con la prassi applicativa un’interpretazione della norma rigidamente letterale e restrittiva. La sentenza si sofferma anche sull’eventualità di un divieto dell’invio a mezzo posta motivato da esigenze di ordine pratico, quali gli “inconvenienti e disguidi che potrebbero derivare dall’impersonalità del mezzo e dalla mancanza di un incontro diretto fra la parte, o chi la rappresenta, e l’operatore che riceve il deposito”. I giudici di Palazzo Spada, pur assumendo la ragionevolezza di simili censure, ribadiscono l’inesistenza, allo stato, di una disciplina che escluda o regoli diversamente il fenomeno.
Aggiunge tuttavia il Collegio, che sono posti a carico di chi si avvale del mezzo postale i normali rischî ad esso connessi: “Non si può dunque estendere al deposito del ricorso giurisdizionale il principio che ai fini dei termini di decadenza vale la data di spedizione, non quella di ricevimento dell’atto”. FM
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Inserito in data 04/11/2015 CORTE DI CASSAZIONE - PRIMA SEZIONE CIVILE, ORDINANZA INTERLOCUTORIA 28 ottobre 2015, n. 22003 Interpretazione del combinato disposto degli artt. 114 c.p.p. e 684 c.p. Con riferimento a una richiesta risarcitoria, la prima sezione civile della Corte di cassazione rimette al Primo presidente, per l’eventuale assegnazione alle sezioni unite, la questione relativa all’interpretazione del combinato disposto degli artt. 114 c.p.p. (Divieto di pubblicazioni di atti e di immagini) e 684 c.p. (Pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale); chiedendo “se la valutazione del giudice di merito debba ritenersi vincolata al semplice rilievo della minima riproduzione di un atto non divulgabile ovvero possa essere orientata all’apprezzamento dei contenuti della riproduzione medesima”; e quale sia il bene giuridico effettivamente protetto dalla previsione normativa. La Corte rileva, nella fattispecie, la ricorrenza di orientamenti “non sempre armonici e collimanti”, tali da incidere sulla certezza del diritto, “in un contesto che vede implicati valori di rango costituzionale che attengono alla tutela della persona, alla libertà di stampa ed all’esercizio della giurisdizione”. In base a un primo canone ermeneutico, le disposizioni di cui all’art. 114, c.p.p., poste a integrazione del precetto penale dell’art. 684 c.p., conducono a “elidere ogni rilievo al dato quantitativo della limitatezza della trascrizione dell’atto non divulgabile”, e consentono di enunciare il principio di diritto in base al quale: “Fatta salva la possibilità di pubblicare il contenuto di atti non coperti dal segreto, non può derogarsi al divieto di pubblicazione di tali atti (mediante riproduzione integrale o parziale o estrapolazione di frasi), nei casi previsti dall’art. 114 c.p.p., in dipendenza del dato quantitativo della limitatezza della riproduzione, trattandosi di deroga non prevista dalla norma e non compatibile con le esigenze sottese alla disciplina relativa alla pubblicazione di atti di un procedimento penale” (cfr., ex multis, Cass. civ. n. 838/2015; e Cass. pen. n. 473/2013). Secondo altro orientamento, invece: “Non integra la contravvenzione di pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale la pubblicazione di una brevissima frase, riportata tra virgolette, dell’interrogatorio dell’indagato” (cfr., Cass. pen. n. 43479/2013). Sotto un diverso profilo, si riscontra un ulteriore elemento di incertezza valutativa, in ordine all’individuazione del bene giuridico tutelato dall’art. 684 c.p.. La giurisprudenza prevalente propende per il riconoscimento della natura plurioffensiva del reato, ritenendo che esso sia “volto a tutelare, nella fase istruttoria, la dignità e la reputazione di tutti coloro che, sotto differenti vesti, partecipano al processo, nonché l’interesse dello Stato al retto funzionamento dell’attività giudiziaria, al fine di garantire l’assenza di condizionamenti del giudice dell’eventuale futuro dibattimento”. La sezione rimettente rileva, tuttavia, la presenza di una recente pronuncia discordante, ad avviso della quale: “la tutela penale accordata dall’art. 684 c.p., non attiene alla sfera di riservatezza dell’indagato o dell’imputato, ma alla protezione delle esigenze di giustizia inerenti al processo penale nella delicata fase di acquisizione della prova” (cfr., Cass. civ. n. 19746/2014). Osservano, a tal proposito, i giudici di legittimità come l’interpretazione da ultimo richiamata, determinando uno spostamento dell’offensività verso il profilo pubblicistico della giurisdizione, “riproporrebbe il problema della legittimazione del privato a far valere una pretesa risarcitoria per la mera violazione dell’art. 684 c.p., in assenza, quindi, di un concreto pregiudizio alla sua reputazione”. FM
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Inserito in data 03/11/2015 TAR LOMBARDIA - MILANO, SEZ. III, 28 ottobre 2015, n. 2271 La Regione non può porre a totale carico degli assistiti il costo della PMA eterologa Il T.A.R. Milano ha annullato la delibera della Regione Lombardia che aveva posto a totale carico degli assistiti il costo delle prestazioni per la PMA di tipo eterologo, diversamente da quanto previsto per la PMA di tipo omologo, per la quale gli utenti sono tenuti al versamento del solo ticket. Ad avviso del Collegio, “Trattandosi … di prestazione riconducibile a una pluralità di beni costituzionali – libertà di autodeterminazione e diritto alla salute – né il legislatore né, a maggior ragione, l’autorità amministrativa possono ostacolarne l’esercizio o condizionarne in via assoluta, la realizzazione, ponendo a carico degli interessati l’intero costo della stessa, al di fuori di ogni valutazione e senza alcun contemperamento con l’eventuale limitatezza delle risorse finanziarie”. “In ogni caso, l’ipotizzata carenza di risorse non potrebbe comunque determinare il completo sacrificio delle posizioni giuridiche dei soggetti che, in possesso dei prescritti requisiti (cfr. il punto 11.1 del considerato in diritto della sentenza n. 162 del 2014 della Corte costituzionale), volessero ricorrere alla procedura di PMA eterologa, considerato che il nucleo essenziale di un diritto fondamentale, qual è quello alla salute, cui la predetta prestazione va ricondotta, non può giammai essere posto in discussione, pur in presenza di situazioni congiunturali particolarmente negative”. “Ad abundantiam va altresì evidenziato come il trattamento deteriore riservato alla PMA di tipo eterologo appare illegittimo anche per violazione del canone di ragionevolezza, attesa la riconducibilità di questa allo stesso genus della PMA di tipo omologo, assoggettata invece al pagamento del solo ticket”. TM
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Inserito in data 02/11/2015 CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 2 novembre 2015, n. 9 Sull’obbligatorietà dell’indicazione del subappaltatore già in sede di presentazione dell’offerta L’Adunanza Plenaria, nella sentenza in epigrafe, è stata chiamata a risolvere il contrasto giurisprudenziale riguardante, in primo luogo, la questione dell’obbligatorietà (o meno) dell’indicazione del nominativo del subappaltatore già nella fase di presentazione dell’offerta nei casi di cd. subappalto necessario, ossia quando l’impresa concorrente sia sprovvista di una qualificazione in una o più categorie scorporabili. Affermano i giudici dell’AP, operando una disamina della normativa di riferimento, che dal combinato disposto degli artt. 92, co. 7 e 109, co. 2, D.P.R. 207/2010 e 37, co. 11, d.lgs. 163/2006 risulta che il concorrente che non possiede la qualificazione per le opere scorporabili indicate all’art. 107, co. 2 (c.d. opere a qualificazione necessaria) non può eseguire direttamente le relative lavorazioni ma le deve subappaltare a un’impresa provvista della relativa, indispensabile qualificazione. L’art. 118 del d.lgs. citato occupandosi, a sua volta, di definire le modalità e le condizioni per il valido affidamento delle lavorazioni in subappalto, prevede quali condizioni indefettibili che il concorrente abbia indicato nella fase dell’offerta le lavorazioni che intende subappaltare e che abbia, poi, trasmesso alla stazione appaltante il contratto di subappalto almeno venti giorni prima dell’inizio dei lavori subappaltati. Ne deriva, dunque, che l’indicazione del nome del subappaltatore non è obbligatoria all’atto dell’offerta in quanto la normativa citata ha evidentemente inteso circoscrivere, in maniera tassativa ed esaustiva, le condizioni di efficacia del subappalto agli anzidetti presupposti (tra cui non compare l’obbligo di indicare il nome dell’impresa subappaltatrice), sicché ogni opzione ermeneutica che si risolvesse nell’aggiunta di un diverso ed ulteriore adempimento deve essere rifiutata in quanto finirebbe per far dire alla legge qualcosa che la legge non dice (e che, si presume, secondo il brocardo ubi lex voluit dixit ubi noluit tacuit, non voleva dire). Ragionando diversamente – afferma l’AP – in primo luogo, si avrebbe una vera e propria “eterointegrazione del bando mediante l’inammissibile inserzione automatica nella lex specialis di un obbligo non previsto da alcuna disposizione normativa cogente pretermessa nell’avviso (da valersi quale unica condizione legittimante della sua eterointegrazione)”, in secondo luogo, “la statuizione dell’adempimento in questione finirebbe per costituire una clausola espulsiva atipica”, in palese spregio del principio di tassatività delle cause di esclusione e, infine, la tesi favorevole all’affermazione dell’obbligo in questione comporterebbe una confusione tra avvalimento e subappalto, “nella misura in cui tale obbligo attrae il rapporto con l’impresa subappaltatrice nella fase della gara, anziché in quella dell’esecuzione dell’appalto, con ciò assimilando due istituti che presentano presupposti, finalità e regolazioni diverse”. I Giudici dell’AP sono stati, altresì, chiamati a pronunciarsi sulla questione riguardante la doverosità (o meno) dell’uso dei poteri di soccorso istruttorio nei casi in cui la fase procedurale di presentazione delle offerte si sia perfezionata prima della pubblicazione della decisione della stessa Adunanza Plenaria n.3/2015 con la quale è stato chiarito che l’obbligo, codificato all’art. 87, co. 4, d.lgs. 163/2006, di indicazione degli oneri di sicurezza aziendale si applica anche agli appalti di lavori. A tal proposito, l’AP ritiene di offrire una risposta negativa conformandosi alla recente decisione pocanzi richiamata in base alla quale è stata espressamente “esclusa la sanabilità con il soccorso istruttorio dell’omissione dell’indicazione degli oneri di sicurezza aziendale, che si risolverebbe in un’inammissibile integrazione postuma di un elemento essenziale dell’offerta”. A ben vedere – dice l’AP - se non fosse così si finirebbe con l’attribuire alla esegesi giurisprudenziale valore ed efficacia normativa in contrasto con la logica intrinseca della interpretazione e con il principio costituzionale della separazione dei poteri venendosi a porre in sostanza come una fonte di produzione del diritto. Richiamando l’orientamento della Suprema Corte (SS.UU. n. 15144/2011), l’AP chiarisce che l’unica ipotesi in cui si potrebbe legittimamente attribuire valore innovativo all’intervento nomofilattico è allorquando concorrono tre presupposti (nel caso di specie non sussistenti): a) che l’esegesi incida su una regola del processo; b) che si tratti di esegesi imprevedibile e susseguente ad altra consolidata nel tempo e tale, dunque, da ingenerare un ragionevole affidamento; c) che, infine, essa determini un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa. SS |
Inserito in data 31/10/2015 TAR SICILIA - CATANIA, SEZ. IV, ORDINANZA 23 ottobre 2015, n. 919 Condizioni di legittimità della valutazione meramente numerica delle prove d’esame Con l’ordinanza in esame, il T.A.R. Catania ha accolto la domanda cautelare di sospensione dell’efficacia del verbale della Commissione di esame di avvocato, nella parte in cui aveva giudicato insufficienti alcuni degli elaborati del ricorrente. Secondo il Giudice catanese, il giudizio numerico integra un’adeguata motivazione della valutazione della prova d’esame solo a certe condizioni, non rispettate nel caso di specie. In particolare, “nella fase di valutazione di prove d’esame (o di offerte in sede di gara d’appalto) da parte di una commissione di gara, l'attribuzione dei punteggi in forma soltanto numerica è sufficiente quando il numero delle sottovoci, con i relativi punteggi, entro le quali ripartire i parametri di valutazione di cui alle singole voci, è talmente analitica da delimitare il giudizio della commissione nell'ambito di un minimo e un massimo di portata tale da rendere di per sé evidente l'iter logico seguito nel valutare le singole prove d’esame, in applicazione di puntuali criteri predeterminati, essendo altrimenti necessaria una puntuale motivazione del punteggio attribuito”. Pertanto, il Collegio ha ordinato alla Commissione di procedere, in diversa composizione, entro 40 giorni, ad una nuova correzione degli elaborati giudicati insufficienti, assegnando un punteggio alle singole voci (ad es. esposizione, esauriente trattazione delle varie parti della traccia, ecc.) prima di procedere a calcolare il punteggio definitivo. TM
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Inserito in data 30/10/2015 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 30 ottobre 2015, n. 4890 Promozione del personale della PS: il parere della Commissione Centrale non è vincolante La vicenda portata all’attenzione della III Sezione del Consiglio di Stato attiene all’applicazione delle disposizioni relative alla ricompensa della promozione alla qualifica superiore per meriti straordinari e speciali del personale della Polizia di Stato, disciplinata dall’art. 71 del d.P.R. n. 335/1982 e dagli artt. 70-75-ter del regolamento emanato con d.P.R. n. 782/1985. Nel caso in esame, il ricorrente – destinatario, in un primo momento, di un decreto del Capo della Polizia con il quale era stata disposta, per meriti straordinari e speciali, la sua promozione alla qualifica di vice sovrintendente, successivamente annullata in “autotutela” e sostituita con un encomio solenne – aveva impugnato la sentenza resa dai Giudici Pugliesi con la quale era stata dichiarata l’illegittimità del decreto di promozione, in quanto unicamente fondato sull’errato presupposto che la Commissione Centrale per le ricompense avesse espresso parere conforme alla proposta del Questore, mentre in realtà si era espressa per la concessione di un encomio solenne. I Giudici di Palazzo Spada confermano la statuizione di primo grado e, pur ammettendo che - con riguardo al carattere vincolante o meno del parere della Commissione Centrale - effettivamente le disposizioni che disciplinano il procedimento per l’assegnazione delle ricompense non qualificano espressamente il parere della Commissione come vincolante e determinante ai fini del conferimento, osservano come “purtuttavia il sistema complessivo della normativa lascia intendere che la pronuncia della commissione sia il momento culminante e decisivo della procedura; l’ipotesi che il Capo della Polizia se ne discosti, pur se ammessa, si configura dunque come una eccezione, che richiederebbe un’esplicita motivazione”, nel caso di specie mai resa, anzi esclusa dal successivo annullamento in autotutela del provvedimento precedentemente emesso. A prescindere dalla vincolatività o meno del parere, nella fattispecie deve ritenersi “risolutiva la considerazione che il Capo della Polizia ha decretato la promozione basandosi sull’erroneo convincimento che in quel senso fosse il parere della commissione. Il Capo della Polizia non intendeva esercitare il suo (supposto) potere di decidere in modo difforme dal parere, al contrario intendeva uniformarvisi e tale vizio appare in sé sufficiente per giustificare l’annullamento in autotutela del provvedimento”. Ed invero – proseguono ulteriormente i Giudici della III Sezione – il giudizio in ordine al conferimento della ricompensa – caratterizzato, peraltro, da un’ampia discrezionalità - è affidato alla commissione centrale che assume altresì il compito di garantire un’equilibrata “proporzionalità nonché l’omogeneità dei criteri, laddove le proposte dei singoli Questori, proprio perché provengono da una pluralità di fonti, potrebbero risultare scoordinate fra loro”, non costituendo vizio del parere reso la circostanza che esso sia risultato difforme rispetto alla proposta del Questore. MB
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Inserito in data 29/10/2015 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 22 ottobre 2015, n. 4871 Interesse a ricorrere della terza graduata La pronuncia in epigrafe offre l’occasione per esaminare una questione di particolare rilievo, già oggetto di riflessione da parte dell’Adunanza Plenaria, ovvero l’individuazione delle condizioni per la valutazione della sussistenza dell’interesse a ricorrere della terza in graduatoria in una procedura di gara. La vicenda de qua scaturisce dall’impugnazione proposta dall’impresa aggiudicataria avverso la sentenza resa dal TAR Lazio – Roma con la quale era stato parzialmente accolto il ricorso proposto dalla terza graduata per l’annullamento dell’aggiudicazione definitiva in favore dell’aggiudicataria ed altresì disposta l’attivazione del sub procedimento di anomalia dell’offerta della seconda in graduatoria, sull’assunto che la posizione di terza graduata “non impedisce in assoluto l’impugnazione dell’esito sfavorevole della gara ove sia fatta valere l’illegittimità delle posizioni delle imprese collocate in posizione poziore”. I Giudici di Palazzo Spada accolgono le censure formulate dall’appellante, precisando che con riferimento alla sussistenza dell’interesse a ricorre della terza graduata, “l’utilità che essa ricorrente tiene a conseguire, sia essa finale o strumentale, deve derivare in via immediata e secondo criteri di regolarità causale dall’accoglimento del ricorso e non già in via mediata da eventi incerti e potenziali quali l’esito negativo di una verifica di anomalia”. Ebbene, nel caso in esame, la circostanza della presunta anomalia dell’offerta della seconda graduata – eccepita dalla ricorrente in primo grado - “costituisce una mera eventualità, di modo che l’esclusione per tale ragione (..) non rappresenta, dal punto di vista giuridico formale, una normale ed immediata conseguenza dell’annullamento dell’aggiudicazione originaria della prima graduata”. Quanto sopra rilevato – ricorda la V Sezione - è un principio consolidato in giurisprudenza e da ultimo confluito nella sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 8 del 3.02.2014 che ha affermato che “l’utilità o bene della vita cui aspira il ricorrente (..) deve porsi in rapporto di prossimità, regolarità ed immediatezza causale rispetto alla domanda di annullamento proposta e non restare subordinata ad eventi solo potenziali e incerti”. Alla luce di tali criteri ermeneutici, nel caso in questione – osserva la V Sezione del Consiglio di Stato - la terza graduata conseguirebbe il bene della vita solo nell’eventualità in cui, all’esito del giudizio di anomalia dell’offerta della seconda in classifica, questa risultasse incongrua, con conseguente esclusione dell’impresa dalla procedura di gara. La circostanza sopra dedotta non sarebbe di per sé sufficiente a radicare l’interesse e la legittimazione a ricorrere della ricorrente, poiché mancherebbe quel peculiare “rapporto di immediatezza causale, prossimità e regolarità” – invocato dalla citata Adunanza Plenaria - che consente la tutela della posizione della terza graduata. Sulla scorta di tali considerazioni, il Consiglio di Stato, in riforma parziale della sentenza impugnata, ha accolto l’appello proposto dall’impresa aggiudicataria, dichiarando, quindi, l’inammissibilità del ricorso in primo grado per difetto di interesse della terza in graduatoria. MB
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Inserito in data 28/10/2015 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 22 ottobre 2015, n. 4863 Validità della notifica del ricorso a mezzo p.e.c. L’amministrazione appellante eccepiva la nullità della notifica del ricorso introduttivo, avvenuta esclusivamente a mezzo posta elettronica certificata, in assenza dell’autorizzazione di cui al comma secondo dell’art. 52, c.p.a.. Nel dettaglio, sulla base di un’articolata serie di connessioni normative, si asseriva che non trovando applicazione di fronte alla giustizia amministrativa (ex art. 16 quater, comma terzo bis, l. n. 221/2012), le disposizioni di cui ai commi secondo e terzo dello stesso art. 16 quater (concernenti l’adeguamento del d.m. n. 44/2011, in ordine alle modifiche apportate, sempre dall’art. 16 quater, alla. l. n. 53/1994, nonché l’entrata in vigore delle stesse), la notificazione in via telematica, in quanto speciale, non potesse validamente avvenire se non a seguito dell’autorizzazione espressa dal presidente dell’organo giudicante investito del ricorso in primo grado. Il Consiglio di Stato, confermando l’orientamento già in precedenza espresso, esclude la nullità della notifica. I giudici di Palazzo Spada ribadiscono che i precetti di cui alla citata l. n. 53 del 1994 (relativa alle notificazioni di atti civili, amministrativi, e stragiudiziali, da parte di avvocati), trovano immediata applicazione nel processo amministrativo. Segnatamente, l’art. 1, come modificato dall’art. 25, comma terzo, lettera a, della l. n. 183/2011, stabilisce che l’avvocato possa eseguire la notificazione di atti in materia amministrativa a mezzo posta elettronica certificata. Non è pertanto “ostativa alla validità ed efficacia della notificazione”, l’omessa autorizzazione presidenziale di cui all’art. 52 c.p.a.. Il Collegio rileva infatti, anche sulla scorta dell’art. 13 delle norme di attuazione contenute nel secondo allegato al d.lgs. n. 104/2010, l’irreversibile transizione della giustizia amministrativa verso forme processuali tecnico-operative di tipo telematico. FM |
Inserito in data 28/10/2015 CORTE DI CASSAZIONE - TERZA SEZIONE CIVILE - SENTENZA 19 ottobre 2015, n. 21090 Spedalità: l’osservanza delle dotazioni e istruzioni non esclude la responsabilità La Corte di legittimità, pronunciandosi in ordine a una fattispecie di risarcimento del danno derivante da attività medico-chirurgica, ribadisce che “l’osservanza da parte di un nosocomio – pubblico o privato – delle dotazioni ed istruzioni previste dalla normativa vigente per le prestazioni di emergenza non è sufficiente ad escludere la responsabilità per i danni subiti da un paziente in conseguenza della loro esecuzione, essendo comunque necessaria l’osservanza delle comuni regole di diligenza e prudenza”. La Corte riscontra come i giudici di merito abbiano negato rilevanza al rispetto delle previsioni normative dettate in tema di gestione delle emergenze, sulla base dell’assunto che è comunque “onere della struttura assicurare all’utenza condizioni di massima sicurezza e prevedere diligentemente che l'emergenza da affrontare non sarà sicuramente nei casi concreti di entità lieve o tale da consentire tempi di attesa superiori ai minimi indispensabili”. La Corte osserva, ulteriormente, come le valutazioni compiute non tendano a “sindacare le modalità di organizzazione delle strutture erogatrici dell’assistenza sanitaria”, né tantomeno le regole, spesso di rango legislativo, che ne stabiliscono la dotazione, bensì a ribadire che “anche il pieno rispetto della normativa vigente (omissis) non esime affatto da responsabilità la struttura ospedaliera se, in relazione proprio a quelle condizioni di partenza pur non ottimali, le condotte degli operatori siano valutate comunque inadeguate”. “Non basta osservare le norme espressamente previste, dinanzi a regole generali e sussidiarie di obbligo di diligenza immanenti nell’ordinamento”. Oltre al rispetto delle disposizioni normative di carattere tecnico-organizzativo e gestionale, infatti, l’obbligo del nosocomio di eseguire la prestazione dovuta con la massima diligenza e prudenza implica la tenuta in concreto, da parte degli operatori, di “condotte adeguate alle condizioni disperate del paziente ed in rapporto alle precarie o limitate disponibilità di mezzi o risorse, benché conformi alle dotazioni o alle istruzioni previste dalla normativa vigente, adottando di volta in volta le determinazioni più idonee a scongiurare l’impossibilità del salvataggio del leso”. FM
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Inserito in data 27/10/2015 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 26 ottobre 2015, n. 4899 Sono legittimi i decreti prefettizi di annullamento delle trascrizioni dei matrimoni gay Intervenendo su una questione caldissima, la decisione de qua riconosce la legittimità dei provvedimenti prefettizi di annullamento delle trascrizioni di matrimoni omosessuali contratti all’estero da cittadini italiani. In primis, secondo la terza sezione, il matrimonio omosessuale contratto all’estero tra cittadini italiani non produce alcun effetto giuridico in Italia (a prescindere dalla individuazione del vizio che lo affligge, questione del tutto ininfluente in questo caso). Ciò in quanto l’art. 115 c.c. assoggetta i cittadini italiani alle disposizioni codicistiche che definiscono le condizioni necessarie per contrarre il matrimonio, anche quando l’atto viene celebrato all’estero; ai sensi degli artt. 107, 108, 143, 143bis e 156bis, la prima condizione di validità ed efficacia del matrimonio è proprio la diversità di sesso dei nubendi. In secundis, i Giudici di Palazzo Spada affermano la non trascrivibilità nei registri dello stato civile del matrimonio omosessuali contratto all’estero da cittadini italiani. Invero, catalogando i requisiti di trascrivibilità del matrimonio, l’art. 64 dpr 396/00 attribuisce all’ufficiale dello stato civile il potere-dovere di controllarne la presenza e di rifiutare la trascrizione dei matrimoni che ne risultino privi; segnatamente, nel caso di matrimonio gay, difetterebbe la condizione relativa alla “dichiarazione degli sposi di volersi prendere rispettivamente in marito e moglie”, prevista dall’art. 64, comma 1, lett. e), d.P.R cit. In terzo luogo, secondo il Consiglio di Stato, non può sostenersi la trascrivibilità dei matrimoni same sex sulla base di un’interpretazione costituzionalmente, convenzionalmente o comunitariamente orientata della normativa vigente. Da un canto, la Corte costituzionale ha affermato la coerenza dell’omessa assimilazione del matrimonio omosessuale a quello eterosessuale, atteso che solo il secondo trova riconoscimento nell’art. 29 Cost. D’altro canto, la Corte EDU (sentenza Oliari) ha ribadito che l’eventuale previsione del matrimonio omosessuale rientra nella discrezionalità riservata agli Stati, censurando lo Stato italiano perché non assicura alcuna protezione giuridica alle unioni omosessuali. D’altro canto ancora, il rispetto delle libertà di circolazione e soggiorno è imposto solo nelle materie rimesse al diritto europeo, tra cui non può annoverarsi la regolazione legislativa del matrimonio. Da ultimo, il Consiglio di Stato riconosce la legittimità dei provvedimenti prefettizi di annullamento delle trascrizioni dei matrimoni omosessuali. Infatti, il sindaco esercita le competenze statali in tema di registri dello stato civile quale ufficiale di governo, cioè delegato dello Stato, e, di conseguenza, resta soggetto ai poteri di direzione, sostituzione e vigilanza del Prefetto, tra cui va annoverato il potere di annullamento gerarchico degli atti illegittimi adottati dal sindaco. Né le norme che attribuiscono al giudice civile il potere di controllare, rettificare e cancellare gli atti dello stato civile costituiscono una preclusione all’esercizio del potere di autotutela del prefetto: difatti, tali norme riguardano le sole trascrizioni produttive di effetti giuridici, proteggono unicamente interessi privati e, in ultima analisi, non assicurano la rimozione in modo uniforme su tutto il territorio nazionale di atti apparenti ma che potrebbero legittimare istanze di prestazioni pubbliche connesse allo stato civile di coniugato. TM
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Inserito in data 27/10/2015 CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 22 ottobre 2015, n. 205 L’art. 72 d.lgs, 151/01 (indennità di maternità) viola gli artt. 3, 31 e 37 Cost.
La Corte costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità, per violazione degli artt. 3 c. 1, 31 c. 2 e 37 c. 1 Cost., della disciplina in tema di indennità di maternità (ossia l’art. 72 del d.lgs. 151/01, vigente fino al 24 giugno 2015), nella parte in cui non riconosce tale prestazione economica alla madre libera professionista che proceda all’adozione nazionale di un bambino di età superiore ai 6 anni.
Preliminarmente, la Consulta evidenzia la finalità dell’istituto. “Nell’indennità di maternità, all’originaria funzione di tutela della donna, scolpita nella stessa denominazione del beneficio, si affianca una finalità di tutela dell’interesse del minore […]. È proprio tale finalità che ispira, sul versante legislativo, la progressiva estensione del trattamento di maternità anche alle ipotesi di affidamento e adozione. […] Nel caso di affidamento e di adozione, tali esigenze si atteggiano come necessità di assistenza nella delicata fase dell’inserimento in un nuovo nucleo familiare. […] Inquadrato in tali coordinate, il beneficio dell’indennità di maternità costituisce attuazione del dettato costituzionale, che esige per la madre e per il bambino «una speciale adeguata protezione» (art. 37, primo comma, Cost.).”. Ciò premesso, secondo il Giudice delle Leggi, “Nel negare l’indennità di maternità soltanto alle madri libere professioniste che adottino un minore di nazionalità italiana, quando il minore abbia già compiuto i sei anni di età, la disciplina si pone in insanabile contrasto con il principio di eguaglianza e con il principio di tutela della maternità e dell’infanzia, declinato anche come tutela della donna lavoratrice e del bambino”. “Quanto al primo profilo, la normativa impugnata è foriera di una discriminazione arbitraria a danno della libera professionista che adotti un minore di nazionalità italiana. […] Soltanto per tale fattispecie la disciplina in esame continua a subordinare il godimento dell’indennità a un limite (i sei anni di età del minore), che è stato già superato dal legislatore per le madri lavoratrici dipendenti (art. 2, comma 452, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, […]) e da questa Corte, con la sentenza n. 371 del 2003, per le madri libere professioniste che privilegino l’adozione internazionale. La singolarità del trattamento riservato alla libera professionista che opti per l’adozione nazionale è carente di ogni giustificazione razionale, idonea a dar conto del permanere, soltanto per questa fattispecie, di un limite rimosso per tutte le altre ipotesi. […] e non è senza significato che, all’incongruenza segnalata, il legislatore abbia successivamente posto rimedio, con l’art. 20 del d.lgs. n. 80 del 2015”. Quanto al secondo profilo, “L’inserimento del minore nella nuova famiglia non è meno arduo e bisognoso di «una speciale adeguata protezione» se il minore è di nazionalità italiana e per il dato contingente, e legato a fattori imponderabili, che il minore abbia superato i sei anni di età. Nel limitare la concessione di un beneficio, che tutela il preminente interesse del minore, la norma censurata si traduce, in ultima analisi, in una discriminazione pregiudizievole non solo per la madre libera professionista che imbocchi la strada dell’adozione nazionale, ma anche e soprattutto per il minore di nazionalità italiana, coinvolto in una procedura di adozione”. TM |
Inserito in data 26/10/2015 CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA PER LA REGIONE SICILIANA - ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL'ADUNANZA PLENARIA, 22 ottobre 2015, n. 634 Ammissibilità della questione di giurisdizione sollevata per la prima volta in appello: rinvio ad AP Con l’ordinanza in epigrafe, i giudici del Consiglio di Giustizia Amministrativa, ai sensi dell’art. 99 c.p.a., hanno rimesso all’Adunanza Plenaria il punto di diritto controverso avente ad oggetto l’ammissibilità o meno di sollevare, per la prima volta, una questione di giurisdizione nel giudizio di secondo grado, quando a sollevarla sia l’appellante incidentale, ossia colui che nel giudizio di primo grado, con ricorso incidentale, non soltanto non aveva contestato la scelta della ricorrente principale di rivolgersi al TAR, ma anzi aveva espressamente evidenziato la sussistenza della giurisdizione amministrativa in relazione alla vicenda controversa. In primo luogo, il Consiglio ritiene di non potersi conformare a quella pur autorevole impostazione secondo la quale se la parte vittoriosa nel merito avanti al TAR solleva, con l’appello incidentale, una questione di giurisdizione il giudice potrà esaminarla “solo quando, per effetto dello sviluppo della sua decisione sull’appello principale, tale parte, già vittoriosa nel merito, diventi soccombente”. Infatti, come peraltro sostenuto dall’Adunanza Plenaria, la necessità di definire la controversia muovendo dall'esame delle questioni preliminari, “costituisce, oltre che una regola di giudizio da sempre pacificamente ritenuta applicabile, anche un’espressa previsione positiva, ora stabilita dal codice del processo amministrativo” all’art. 76, co. 4 c.p.a. che richiama espressamente l’art. 276, co. 2 c.p.c. In secondo luogo, il Consiglio ha chiarito che, nel caso di specie, la questione merita attento esame posto che trattasi di procedura di affidamento a terzi di spazi commerciali all’interno di un’aerostazione effettuata dalla concessionaria (vera e propria sub-concessione) e non di procedura di affidamento di un servizio. Ne deriva che, non essendo tale sub-concessione coessenziale al trasporto aereo propriamente detto ed essendo disposta autonomamente dalla concessionaria in base ai suoi poteri privatistici, le controversie ad essa relative rientrerebbero nella giurisdizione del giudice ordinario. In ordine al merito della questione, i giudici del CGARS hanno ritenuto non estensibili al caso di specie i percorsi evolutivi, intrapresi dalla giurisprudenza prevalente (in contrasto con l’originaria idea della giurisdizione come espressione inderogabile della sovranità statale), che hanno prediletto i principi di economia processuale e di ragionevole durata dei processi al fine di stigmatizzare l’utilizzo potenzialmente strumentale delle questioni di giurisdizione (cd. abuso del processo). Ritiene il Consiglio, da una parte, che la tesi dell’abuso del processo (benché elaborata per la posizione del ricorrente principale) “si attaglia anche al caso qui in esame in cui il ricorrente incidentale, in primo grado, ha affermato la sussistenza di quella giurisdizione amministrativa che ora, in appello (tra l’altro dopo essere risultato vincitore nel merito) nega venendo appunto contra factum proprium”; dall’altra parte, che tale tesi non è concretamente praticabile per una serie di considerazioni. a) La deduzione per la prima volta in appello della questione di giurisdizione non costituisce una novità vietata di per sé dalla legge processuale. Dal momento che il difetto di giurisdizione in primo grado è rilevabile d’ufficio, ne consegue che “non viola il divieto di novità la parte la quale impugni la sentenza di primo grado per il difetto di giurisdizione, ancorché non lo abbia appunto eccepito in prime cure”. b) “Non sembra che la nozione di abuso del diritto in sede processuale possa essere ricostruita partendo dalla violazione del dovere generale di comportarsi in giudizio con lealtà e probità” o, in generale, partendo dalla violazione di norme di rito (l’art. 96 c.p.c. dà sì luogo ad un abuso del processo ma ha come conseguenza una responsabilità aggravata e non un’inammissibilità della domanda e, in ogni caso, ha come presupposto indefettibile la soccombenza). c) L’abuso del processo, ostativo all’esame della domanda, può essere configurato “soltanto proiettando sul campo processuale quelle regole contrattuali di buona fede e correttezza in relazione al dovere inderogabile di solidarietà di cui all'art. 2 Cost.”. Nel caso delle questioni in esame – ritiene il CGARS – “non sembra potersi predicare l’estensione dell’operatività di un principio di buona fede sostanziale e negoziale”. Il vero è, in conclusione, che “nel diritto positivo l’unico caso in cui la questione di giurisdizione può ritenersi preclusa è il caso in cui sulla stessa si sia formato il giudicato implicito o esplicito”. “Ne consegue – come insegna la Suprema Corte – che, qualora chi agisce in giudizio, dopo avere adito un giudice, ne eccepisca in appello il difetto di giurisdizione, è legittimato a farlo”. Alla luce delle superiori considerazioni, rilevando il potenziale contrasto giurisprudenziale che deriverebbe dalla non applicazione del consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa, il CGARS rinvia la suindicata questione all’Adunanza Plenaria. SS |
Inserito in data 23/10/2015 CORTE DI APPELLO DI ROMA - TERZA SEZIONE PENALE, SENTENZA del 22 ottobre 2015 “WHY NOT”: la CdA di Roma assolve il sindaco De Magistris
Poche ore fa si è registrato il “tramonto” del “Caso De Magistris”, all'indomani della bocciatura – da parte della Consulta – del ricorso del Tar Campania sulla applicazione, al sindaco, della Legge Severino sulla eleggibilità degli amministratori condannati.
Invero, con la pronuncia in epigrafe, la terza Corte di appello di Roma ha assolto il sindaco di Napoli Luigi De Magistris – nonché il consulente Giocchino Genchi – dall'accusa di abuso d'ufficio con riferimento alla vicenda della acquisizione di tabulati telefonici di politici durante l'inchiesta “Why Not”, condotta dallo stesso nelle vesti di PM a Catanzaro, perché “il fatto non costituisce reato da tutti i capi d'imputazione”.
Ripercorrendo velocemente il fatto, dopo la condanna di primo grado a 15 mesi di carcere per abuso d'ufficio, nel settembre 2014, il sindaco de Magistris, era stato sospeso dalle sue funzioni dal Prefetto di Napoli, alla luce, e in applicazione, del d.lgs. 235 del 2012 ovvero legge Severino sulla sospensione degli amministratori locali nei casi di condanna. In seguito, il Tar Campania, ha successivamente disposto la “sospensione della sospensione”, chiedendo, dunque, alla Corte costituzionale, di pronunciarsi sulla natura di sanzione penale della sospensione dell'incarico, nonché sulla sua applicazione retroattiva, alla luce della considerazione secondo la quale de Magistris era già in carica ancor prima della entrata in vigore della norma de qua. Dunque, il rigetto del ricorso del g.a., dai giudici costituzionali, ha fatto sì di aprire la strada al ripristino della sospensione dell'incarico. Tuttavia, nonostante ciò, la Corte d'Appello, accogliendo la richiesta del Pg, ha eliminato completamente la causa della sospensione, decidendo per la prescrizione dei reati addebitati antecedentemente al sindaco. GMC
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Inserito in data 23/10/2015 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 20 ottobre 2015, n. 4796 Sul giudizio di “anomalia dell'offerta” Con la pronuncia in epigrafe, i Giudici di Palazzo Spada intervengono in merito al giudizio di anomalia dell'offerta, decidendo in merito alla infondatezza del motivo teso a contestare il difetto di motivazione, nonché la violazione delle regole di competenza che – riprendendo la pronuncia - “inficerebbero il giudizio di anomalia”. I Giudici, invero, ribadendo un pacifico insegnamento pretorio, chiariscono che il giudizio positivo di anomalia non richiede una “specifica motivazione”, mentre, incombe – su chi contesti l'aggiudicazione – l'onere (nel caso de quo non assolto) di individuare tutti gli specifici elementi volti a dimostrare che la valutazione tecnico – discrezionale della Pubblica Amministrazione sia stata manifestamente irragionevole, o, comunque, basata su fatti travisati o erronei (si consideri, ad esempio, CDS, sez. V, 17 luglio 2014, n. 3800). GMC |
Inserito in data 22/10/2015 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 15 ottobre 2015, n. 4764 Soccorso istruttorio e avvalimento di garanzia La V Sezione del Consiglio di Stato, con la sentenza in esame, si è espressa in merito al soccorso istruttorio, con riguardo alle irregolarità della polizza fideiussoria per il rilascio della cauzione, e all’avvalimento di garanzia. Con riferimento alla prima questione, il Collegio, richiamando pregressa e consolidata giurisprudenza del C.d.S. (Cons. Stato, sez. III, 5 dicembre 2013, n. 5781; sez. IV, 20 gennaio 2015, n. 147; sez. V, 10 febbraio 2015, n. 687; 22 maggio 2015, n. 2563), ha osservato come, in applicazione del principio di tassatività delle cause di esclusione, sancito dall’art. 46, comma 1 bis, del D, Lgs. n. 163 del 2006, debbano ritenersi emendabili mediante il potere di soccorso istruttorio le irregolarità concernenti la cauzione provvisoria comunque prestata nei termini previsti dalla lex specialis. Nel caso di specie – ha osservato il Collegio - se anche è vero che la polizza fideiussoria a rilasciare la cauzione definitiva per l’esecuzione del contratto di cui all’articolo 113 del D. Lgs. 163/2006 - allegata all’offerta presentata dal raggruppamento aggiudicatario - risultava sprovvista dell’apposita appendice recante la precisazione che l’impegno alla costituzione della garanzia era da intendersi a favore di ciascun ente aderente al contratto in sede di esecuzione, “tale mancanza, non incidendo sulla serietà e sulla certezza dell’offerta e sulla sua provenienza, né sulla validità ed effettività della polizza prodotta, non poteva determinare - come invece ritenuto dai primi giudici - l’esclusione di quell’offerta dalla gara, dovendo essere piuttosto considerata una mera irregolarità sanabile attraverso l’esercizio del soccorso istruttorio”. In ordine, invece, alla seconda censura formulata dall’appellante, relativa all’avvalimento di garanzia, il Collegio ha rilevato come la giurisprudenza, pur riconoscendo il carattere generale dell’istituto dell’avvalimento (interdetto soltanto per i requisiti di cui agli artt. 38 e 39 del D. Lgs n. 163/2006) – volto a massimizzare la partecipazione alle gare pubbliche ed a consentire alle imprese non munite dei requisiti di partecipazione di giovarsi delle capacità tecniche, economiche e finanziarie di altre imprese – ha tuttavia sottolineato che “la messa a disposizione del requisito mancante non può risolversi nel prestito di un valore puramente cartolare e astratto, essendo invece necessario che dal contratto risulti chiaramente l’impegno dell’impresa ausiliaria a prestare tutti quegli elementi che giustificano l’attribuzione del requisito partecipativo”. Per questa via, il Collegio ha ulteriormente ribadito, con riferimento all’avvalimento di garanzia, invocato dall’appellante, che esso “può spiegare la funzione di assicurare alla stazione appaltante un partner commerciale con solidità patrimoniale proporzionata ai rischi di inadempimento contrattuale, solo se rende palese la concreta disponibilità attuale delle risorse e dotazioni aziendali da fornire all’ausiliata”, ipotesi che, nel caso in esame, non risulta essersi affatto perfezionata. Pertanto, sulla scorta delle considerazioni svolte, la V Sezione del Consiglio ha respinto l’appello proposto dalla capogruppo mandataria del costituendo R.T.I., confermando la sentenza resa dal TAR Toscana – Firenze. MB
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Inserito in data 22/10/2015 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 20 ottobre 2015, n. 4794 Lotta alla ludopatia: i poteri dei Sindaci Con la sentenza in epigrafe, la V Sezione del Consiglio di Stato è intervenuta su una questione particolarmente significativa, soprattutto sotto il profilo sociale: la legittima limitazione, da parte dei Sindaci, degli orari di utilizzo delle sale da gioco e degli esercizi ove sono installate le relative apparecchiature. I Giudici di Palazzo Spada, nel caso in esame, hanno respinto l’appello proposto dagli esercenti di alcune rivendite di generi di monopolio avverso la sentenza di primo grado resa dal TAR Liguria con la quale era stata rilevata la competenza del Sindaco, ex art. 50, comma 7, del d. lgs. n. 267 del 2000, a regolamentare gli orari per l’utilizzo dei giochi leciti a pagamento, sul presupposto che la “libertà di iniziativa privata non può sovrapporsi al principio costituzionale della tutela della salute e che il Comune è tenuto a compiere un bilanciamento tra tali principi, con possibilità di introdurre vincoli”. Due i motivi di gravame formulati dai ricorrenti: a) l’asserita violazione e falsa applicazione del comma 2°, lett. h) dell’art. 117 della Costituzione; b) la presunta violazione e falsa applicazione dell’art. 50, comma 7 del d.lgs n. 267/2000. Con riguardo alla prima delle due censure, i ricorrenti, richiamando le sentenze della Consulta n. 237/2006 e n. 72/2010, hanno sostenuto che gli atti relativi alla gestione del «gioco lecito» sarebbero attratti nella competenza esclusiva dello Stato in materia di ordine e sicurezza, mentre la lotta alla ludopatia rientrerebbe nelle competenze dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli ex l. n. 189 del 2012. Il Collegio non ha, tuttavia, ritenuto condivisibile la tesi sostenuta dai ricorrenti, affermando che la normativa in materia di gioco d’azzardo non è riferibile alla competenza statale esclusiva in materia di ordine pubblico e sicurezza di cui all’art. 117, comma secondo, lettera h), Cost., bensì - come rilevato dalla Corte Costituzionale con le pronunce n. 300/2011 e n. 995/2015 - alla tutela del benessere psico-fisico dei soggetti maggiormente vulnerabili e della quiete pubblica, rientrante nelle attribuzioni del Comune ex artt. 3 e 5 del d.lgs. n. 267 del 2006. Ed invero – prosegue il Collegio – “la disciplina degli orari delle sale da gioco è infatti volta a tutelare in via primaria non l’ordine pubblico, ma la salute ed il benessere psichico e socio economico dei cittadini, compresi nelle attribuzioni del Comune ai sensi di dette norme. Pertanto, il potere esercitato dal Sindaco, nel definire gli orari di apertura delle sale da gioco, non interferisce con quello degli organi statali preposti alla tutela dell’ordine e della sicurezza, atteso che la competenza di questi ha ad oggetto rilevanti aspetti di pubblica sicurezza, mentre quella del Sindaco concerne in senso lato gli interessi della comunità locale, con la conseguenza che le rispettive competenze operano su piani diversi e non è configurabile alcuna violazione dell'art. 117, comma secondo, lett. h), della Costituzione”. Con riferimento alla seconda doglianza, i ricorrenti hanno dedotto che il comma 7, dell’art. 50 del d.lgs. n. 267 non attribuirebbe al Sindaco il potere di disciplinare gli orari degli esercizi commerciali senza vincoli di sorta, né tantomeno l’emanazione di provvedimenti in materia di giochi, ma solo per esigenze di tutela della salute pubblica e di contrasto ai turbamenti della pubblica quiete. Anche in questo caso il Collegio ha ritenuto non condivisibile la tesi secondo la quale l’art. 50, comma 7, del d.lgs. n. 267 del 2000 possa essere interpretato nel senso che la competenza del Sindaco non riguardi anche la materia dei giochi, atteso che la disposizione gli attribuisce espressamente il compito di coordinare e riorganizzare gli orari degli esercizi commerciali e dei pubblici esercizi, nella cui ampia nozione rientrano certamente le attività di intrattenimento espletate all’interno delle sale da gioco. Di talché – precisa il Collegio, richiamando quanto già affermato dalla medesima sezione con la pronuncia n. 3271/2014 – “il Sindaco può esercitare il proprio potere regolatorio, anche quando si tratti dell’esercizio del gioco d’azzardo, allorquando le relative determinazioni siano funzionali ad esigenze di tutela della salute e della quiete pubblica”. Alla luce dei rilievi svolti, deve quindi ritenersi che rientri nelle competenze del Comune – in persona del Sindaco - il potere, previsto art. 50, comma 7, del d. lgs. n. 267 del 2000, di limitazione degli orari di utilizzo delle sale da gioco, ciò allo scopo di arginare i fenomeni di patologia sociale connessi al gioco compulsivo, “poiché la moltiplicazione incontrollata della possibilità di accesso al gioco accresce il rischio di diffusione di fenomeni di dipendenza” con effetti pregiudizievoli per la comunità locale. MB
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Inserito in data 21/10/2015 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, ORDINANZA 20 ottobre 2015, n. 4793 Il requisito dell’attività prevalente nella definizione dell’ente in house: rinvio a CGUE Com’è noto, l’affidamento in house è un istituto delineato dalla Corte di Giustizia (a partire dalla cd. sentenza Teckal del 18 novembre 1999, C-107/98), mediante il quale si individuano dei soggetti cui è possibile affidare direttamente (cioè senza gara) i servizi pubblici. Recentemente, sono intervenute delle direttive che trattano degli elementi costitutivi delle società in house al fine di delimitare l’ambito applicativo delle direttive sugli appalti e sulle concessioni (cfr. direttive nn. 2014/23/UE, 2014/24/UE, 2014/25/UE). Non essendo ancora scaduto il termine per il loro recepimento, tali direttive non possono produrre il cd. effetto diretto, né l’obbligo di interpretazione conforme, ma dovrebbero imporre al giudice italiano di evitare qualsiasi forma di interpretazione o di applicazione del diritto nazionale da cui possa derivare, dopo la scadenza del termine di attuazione, la messa in pericolo del risultato voluto dalla direttiva. Tuttavia, osserva la Quinta sezione, nel caso di specie non si corre un tale rischio, poiché le disposizioni nazionali che richiamano la nozione di ente in house non ne enunciano la definizione, bensì rinviano all’ordinamento europeo per la sua corretta delimitazione (cfr., ad esempio, art. 149bis d.lgs. n. 152/06); ne consegue che il giudice deve ricostruire la nozione di ente in house e, segnatamente, il requisito dell’attività prevalente sulla base del diritto dell’Unione europea vigente al tempo dell’adozione dell’atto impugnato. Secondo la Corte di Giustizia, sussiste il requisito dell’attività prevalente quando l’ente controllato “realizzi la parte più importante della propria attività con l'ente o con gli enti locali che la controllano” (sentenza Teckal); per raggiungere la soglia della prevalenza, devono considerarsi gli affidamenti disposti direttamente dall’ente controllante, mentre non rileva né chi remunera le prestazioni dell’impresa, né su quale territorio sono erogate tali prestazioni (sentenza Carbotermo, 11 maggio 2006, in C-340/04). Poiché la giurisprudenza comunitaria non chiarisce alcuni profili della nozione di attività prevalente rilevanti nel caso de quo, il Consiglio di Stato rimette alla Corte di giustizia le seguenti questioni pregiudiziali ex art. 267 TFUE: a) “se, nel computare l’attività prevalente svolta dall’ente controllato, debba farsi anche riferimento all’attività imposta da un’amministrazione pubblica non socia a favore di enti pubblici non soci”. b) “se, nel computare l’attività prevalente svolta dall’ente controllato, debba farsi anche riferimento agli affidamenti nei confronti degli enti pubblici soci prima che divenisse effettivo il requisito del cd. controllo analogo”. TM
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Inserito in data 21/10/2015 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL'ADUNANZA PLENARIA, 21 ottobre 2015, n. 4799 Giurisdizione in tema di DURC e definitività dell’irregolarità contributiva: rinvio ad AP Rilevata l’esistenza di contrasti giurisprudenziali in tema di documento unico di regolarità contributiva (d’ora in poi DURC), il Consiglio di Stato ha rimesso all’Adunanza Plenaria, ai sensi dell’art. 99 c. 1 c.p.a., due quesiti di diritto, uno relativo a una questione di rito e l’altro relativo a una questione di merito. 1) In rito, è stato chiesto al Supremo Consesso di stabilire “Se rientri nella giurisdizione del giudice amministrativo, adito per la definizione di una controversia avente ad oggetto l'aggiudicazione di un appalto pubblico, ovvero al giudice ordinario, accertare la regolarità del documento unico di regolarità contributiva, quale atto interno della fase procedimentale di verifica dei requisiti di ammissione dichiarati dal partecipante ad una gara”. a) Infatti, secondo il primo orientamento, rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo, l’accertamento, senza efficacia di giudicato, della regolarità del documento di regolarità contributiva, poiché trattasi di uno dei requisiti che la normativa di settore richiede ai fini dell’ammissione alle gare di appalto. b) Per l’opposto indirizzo, invece, il giudice amministrativo non può valutare la regolarità del DURC. In tal senso, da un canto, si sottolinea che requisito di ammissione alle gare è il possesso del DURC e non la regolarità contributiva delle imprese partecipanti; d’altro canto, si sostiene che gli eventuali errori contenuti nel DURC incidono su posizioni di diritto soggettivo afferenti al sottostante rapporto contributivo; d’altro canto ancora, si nega rilevanza alla natura esclusiva della giurisdizione amministrativa in materia di affidamento di appalti pubblici, poiché l’ampiezza della cognizione finirebbe con l’allargarsi a fatti e diritti inerenti ad un accertamento fidefaciente, riservarti alla cognizione in via principale del g.o. 2) Relativamente al diritto sostanziale, l’Adunanza Plenaria è stata chiamata a chiarire “Se la norma di cui all'art. 31, comma 8, del d.l. 21 giugno 2013, n. 69, convertito con modificazioni, nella l. 9 agosto 2013, n. 98, sia limitata al rapporto tra impresa ed Ente preposto al rilascio del d.u.r.c. senza che lo svolgimento di tale fase riguardi la stazione appaltante (dovendo essa applicare comunque l’art. 38 del d. lgs. n. 163 del 2006, che richiede il possesso dei requisiti al momento della partecipazione alla gara), ovvero se la disposizione abbia sostanzialmente modificato, per abrogazione tacita derivante da incompatibilità, detto art. 38 e si possa ormai ritenere che la definitività della irregolarità sussista solo al momento di scadenza del termine di quindici giorni da assegnare da parte dell’Ente previdenziale per la regolarizzazione della posizione contributiva”. a) In effetti, secondo una parte della giurisprudenza amministrativa, le stazioni appaltanti possono sindacare il requisito della definitività della violazione della normativa fiscale. Nello specifico, la violazione della normativa fiscale può dirsi definitivamente accertata e legittimare l’esclusione dalle gare di appalto, solo laddove sia scaduto il termine assegnato dall’ente previdenziale ex art. 31 c. 8 d.l. 69/13 senza che il contribuente abbia proceduto alla regolarizzazione; viceversa, non può dirsi definitivamente accertata l’irregolarità in cui versa l’impresa, se, al momento di presentazione della domanda di partecipazione, ancora pende il termine per la regolarizzazione o se tale termine non è stato assegnato.
b) Diversamente, secondo altra parte della giurisprudenza, l’art. 31 c. 8 predetto concerne l’Ente previdenziale e non la stazione appaltante, che non può sindacare il DURC neppure sotto il profilo della definitività; ne consegue che il contribuente può procedere alla regolarizzazione entro e non oltre la scadenza dei termini per presentare la domanda di partecipazione alla gara, dovendosi altrimenti considerare la sua irregolarità definitivamente accertata. TM
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Inserito in data 20/10/2015 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 16 ottobre 2015, n. 4773 Costi addebitabili all’utente per l’esercizio del recesso Il Consiglio di Stato si è pronunciato sulla portata dell’art. 1, comma terzo, del decreto Bersani (d.l. n. 7/2007, convertito con modificazioni dalla l. n. 40/2007), nella parte in cui stabilisce che gli operatori di telefonia, reti televisive, e comunicazione elettronica, devono consentire il recesso dal contratto “senza spese non giustificate da costi dell’operatore”. L’emittente televisiva, ricorrente in appello, secondo una delibera dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (A.g.com.), confermata dal T.a.r. per il Lazio, sede di Roma, aveva considerato quali costi addebitabili agli utenti che esercitavano il diritto di recesso “spese non pertinenti, in violazione dei limiti imposti”. Osserva l’Avvocatura dello Stato, che la disposizione in esame “si inserisce in un contesto di liberalizzazioni del mercato delle comunicazioni elettroniche e contiene misure volte a promuovere la concorrenza e la tutela del (omissis) contraente più debole”. Le Linee guida pubblicate dall’A.g.com., per l’esercizio della propria attività di vigilanza, aggiungono che le finalità del provvedimento legislativo tendono a “rafforzare il diritto di scelta dei consumatori ed agevolare il passaggio fra i varî operatori, sancendo il divieto di previsioni contrattuali, che, in sostanza, potrebbero trasformarsi in barriere o deterrenti per gli utenti al momento della scelta concorrenziale”. All’utente non possono essere comminate penali, comunque denominate; possono, invece, essere poste a suo carico “le spese per cui sia dimostrabile un pertinente e correlato costo (omissis) sopportato (dall’operatore) per procedere alla disattivazione o al trasferimento”. La rete televisiva, eccepiva “di sostenere costi iniziali per l’instaurazione del rapporto contrattuale che non erano remunerati dall’utente né mediante il pagamento iniziale di un corrispettivo una tantum né mediante canoni corrisposti lungo l’arco del rapporto contrattuale, nonché costi finali connessi alla gestione del recesso. Doveva pertanto a suo avviso ritenersi legittima (omissis) la previsione di un recupero non solo dei costi di recesso in senso stretto, ma anche dei costi sostenuti per l’instaurazione del rapporto contrattuale e non recuperati”. L’appellante, segnatamente, sosteneva l’erroneità dell’interpretazione restrittiva dell’art. 1, comma terzo, citato. Ritenendo che il legislatore non potesse non riferirsi a “tutti i costi comunque sostenuti (dall’operatore) per il servizio”; e che, diversamente opinando si sarebbe verificato un intervento additivo sulla norma, peraltro in contrasto con i principî costituzionali posti a tutela dell’iniziativa economica, oltre che con l’autonomia contrattuale, svilendo l’attività d’impresa. Quest’ultima, infatti, “imporrebbe la remunerazione dei costi come presupposto per la realizzazione del giusto profitto concorrenziale”. I giudici di Palazzo Spada, confermano la sentenza del giudice di prime cure: l’art. 1, comma terzo, della l. n. 40/2007, nel riferirsi ai “costi sostenuti”, benché la dizione normativa non specifichi in tal senso, allude “alle (sole) spese effettivamente affrontate dal fornitore del servizio per la disattivazione dell’impianto ed in funzione della stessa”. Se così non fosse verrebbe frainteso “lo spirito della norma”, e “rimarrebbe sostanzialmente invariato il quadro precedente all’intervento legislativo”.
Parimenti infondate appaiono, ad avviso del Collegio, le censure concernenti l’asserita lesione dell’iniziativa economica di impresa, stante la piena disponibilità per l’operatore di fissare altrimenti legittime modalità contrattuali di recupero dei costi sostenuti per l’attivazione del servizio. “L’operatore può, quindi, legittimamente recuperare tutte le spese, sia quelle sostenute nella fase iniziale (ma facendole rientrare nel prezzo per l’attivazione dell’abbonamento o nel canone mensile), sia quelle direttamente affrontate per il recesso (facendole rientrare nel costo del recesso). Resta (omissis) a carico dell’operatore solo l’alea per il mancato guadagno conseguente ad un possibile recesso anticipato ma si tratta di un evento il cui avverarsi è incerto e che… rientra nel rischio d’impresa”. FM
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Inserito in data 20/10/2015 CORTE DI CASSAZIONE - PRIMA SEZIONE PENALE, SENTENZA 16 ottobre 2015, n. 41693 Stupefacenti: rielaborazione del rapporto tra reato base e reati satellite La Corte di cassazione ha affermato che, nel rideterminare la pena calcolata a titolo di continuazione tra reati di detenzione illecita di droghe c.d. pesanti e di droghe c.d. leggere, alla luce della più favorevole cornice edittale applicabile a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014, il giudice dell’esecuzione può rielaborare il rapporto tra reato base e reati satellite modificando l’individuazione del reato più grave. Nella fattispecie concreta, il giudice dell’esecuzione aveva respinto l’istanza di rideterminazione della pena – concordata ex art. 444, c.p.p. – con riferimento al reato di detenzione di sostanze stupefacenti, attenuato ai sensi del comma settimo dell’art. 73 del d.P.R. n. 309/1990, e al quale veniva applicato un aumento di pena a titolo di continuazione. I fatti, nella vigenza degli artt. 4 bis e 4 vicies ter, del d.l. n. 272/2005 (convertito con modificazioni dall’art. 1, comma primo, della l. n. 49/2006 – c.d. legge Fini-Giovanardi), concernevano, quale reato base, la detenzione di droghe c.d. leggere, e tra i reati satellite (per la minore quantità della sostanza interessata), anche la cessione di droghe c.d. pesanti. In conseguenza della declaratoria di illegittimità costituzionale dei citati artt. 4 bis e 4 vicies ter (sentenza n. 32/2014), la reviviscenza della distinzione tra droghe leggere e droghe pesanti, secondo il giudice dell’esecuzione, non avrebbe consentito al detenuto di ottenere alcun effetto migliorativo, essendo più favorevole, nello specifico, la cornice edittale di cui al decreto del 2005. Il ricorrente in Cassazione eccepiva, invece, la possibilità di una rimodulazione della pena alla luce della pronuncia degli Ermellini, rimarcando che alla definizione della sanzione penale avevano concorso più episodî di detenzione illecita di droghe leggere; e che in ordine alla cessione di droghe pesanti si sarebbe potuta applicare, in sede esecutiva, l’attenuante della lieve entità del reato (ai sensi del comma quinto dell’art. 73, del d.P.R. n. 309/1990). I giudici di legittimità ritengono fondato il ricorso avverso l’ordinanza del giudice dell’esecuzione. Viene richiamata la sentenza delle sezioni unite, n. 42858/2014, secondo la quale deve ritenersi superabile il limite dell’impermeabilità del giudicato, non soltanto nei casi in cui la Consulta si pronunci in merito all’abrogazione della norma incriminatrice, ma anche quando l’effetto prodotto dalle decisioni incida sul mero trattamento sanzionatorio. L’impianto argomentativo delle citate sezioni unite è incentrato sulla differenza che corre tra le pronunzie di illegittimità costituzionale e gli ordinarî interventi legislativi di riforma delle normative; le prime seguono, infatti, ad ipotesi di invalidità originaria delle disposizioni impugnate, e si proiettano retroattivamente, pur non potendo essere eliminati gli effetti irreversibili “perché già compiuti o del tutto consumati” (cfr. art. 30, comma quarto, l. n. 87/1953). Le sezioni unite affermano che il rapporto esecutivo che nasce dal giudicato, non può dirsi esaurito fino a quando la pena è in atto. “Viene (dunque) imposta al giudice dell’esecuzione una verifica di rilevanza del decisum della Corte costituzionale nel caso concreto”. L’illegittimità della pena, si osserva, costituisce un ostacolo al perseguimento degli obiettivi rieducativi di cui all’art. 27, comma terzo, della Costituzione, e ancòra: “Il diritto fondamentale alla libertà personale deve prevalere sul valore dell’intangibilità del giudicato”. Nell’applicare detti principî di diritto il giudice dell’esecuzione deve comunque rispettare il limite dei “fatti accertati” nella sentenza di cognizione, con conseguente “impossibilità di riconoscere una circostanza attenuante non ritenuta nel giudizio”. Dichiarata l’incostituzionalità della cornice edittale posta alla base del patteggiamento il giudice dell’esecuzione dovrà verificare “la fattibilità di un nuovo accordo tra le parti”, e “ove non si addivenga a tale accordo (egli) sarà funzionalmente competente a rideterminare la sanzione in via autonoma ed in applicazione dei criterî generali di cui agli artt. 132 e 133 c.p.”. Il decreto del 2005, superata la distinzione tra droghe pesanti e droghe leggere, prevedeva una pena edittale minima di anni sei, determinando in relazione alle droghe pesanti un sensibile effetto migliorativo rispetto al regime previgente, il cui minimo era stabilito in anni otto. In ordine a tale contesto, la stessa Corte costituzionale, con la citata sentenza n. 32/2014, dichiara che se la caducazione delle norme del 2005 spiega un immediato effetto favorevole in ipotesi di droghe leggere, con riferimento alle droghe pesanti, la disposizione di cui all’art. 2, comma quarto, c.p., dettata in materia di successioni di leggi nel tempo, impedisce l’estensione al reo degli effetti sfavorevoli: “Da ciò deriva che il limite edittale di anni sei resta intangibile per la detenzione a fini di spaccio della droga pesante ed è quest’ultimo il fatto-reato da porre – nella nuova determinazione – a base della continuazione, degradando tutte le ulteriori fattispecie a reato satellite, la cui incidenza andrà commisurata ai ʻrivissutiʼ parametri edittali”. FM
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Inserito in data 19/10/2015 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 19 ottobre 2015, n 4777 Giurisdizione in materia di acquisizioni di beni per pubblica utilità ex art. 42 bis D.P.R. 327/2001 Con la sentenza de qua, i giudici del Consiglio di Stato si sono imbattuti, mutando al riguardo il loro precedente orientamento, in una questione di giurisdizione concernente il decreto di acquisizione emesso dall’amministrazione ai sensi dell’art. 42 bis del D.P.R. 327/2001. Nel caso di specie, veniva impugnata la sentenza di primo grado in quanto ritenuta dagli appellanti erronea nella parte in cui dichiarava il difetto di giurisdizione dell’autorità giudiziaria amministrativa in materia di procedimento di acquisizione di beni per pubblica utilità. Afferma il Collegio che ogni valutazione concernente l’art. 42 bis, introdotto a seguito della declaratoria di incostituzionalità dell’art. 43 del citato D.P.R., deve essere effettuata alla luce della recente pronunzia della Corte Costituzionale n. 71/2015. Essa qualifica, in discontinuità con il passato, il nuovo istituto come una “sorta di procedimento espropriativo semplificato, che assorbe in sé sia la dichiarazione di pubblica utilità, sia il decreto di esproprio, e quindi sintetizza uno actu lo svolgimento dell’intero procedimento, in presenza dei presupposti indicati dalla norma”. La nuova acquisizione sanante ex art. 42 bis si caratterizza, secondo la Consulta, non solo per i significativi elementi di novità che la rendono compatibile con gli art. 3, 24, 42 e 117 Cost., ma anche per aver eliminato “quella situazione di défaillance structurelle” lamentata dalla Corte EDU riguardo al fenomeno italiano delle espropriazioni indirette, “in considerazione dell’efficacia ex nunc del provvedimento, della rinnovazione della valutazione di attualità e prevalenza dell’interesse pubblico all’acquisizione, nonché nello stringente obbligo motivazionale”. Dunque, ad avviso del Consiglio di Stato, il ristoro previsto dall’art. 42-bis del T.U. espropri “configura un indennizzo da atto lecito, sicché le controversie inerenti alla sua quantificazione devono essere devolute alla giurisdizione ordinaria ai sensi dell’art. 133, lett. g) c.p.a”. Infatti, a seguito dell’emanazione del decreto acquisitivo, la P.A. riprende a muoversi nell’alveo della legalità, pertanto – continua il Collegio respingendo, peraltro, l’appello – “appare non più percorribile l’opzione ermeneutica, accolta dalla più recente giurisprudenza di questa Sezione”, alla cui stregua si tratterebbe di questioni risarcitorie devolute alla giurisdizione del G.A. Invero, perseverare nell’impostazione che qualifica l’atto di acquisizione sanante come espressione di un potere meramente rimediale di un illecito, “significherebbe dare all’art. 42 bis una lettura contrastante con le conclusioni rassegnate dalla Consulta nella sentenza n. 71 del 2015”. SS
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Inserito in data 19/10/2015 CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA PER LA REGIONE SICILIANA - 13 ottobre 2015, n. 632 Tassatività delle cause di esclusione nelle procedure ad evidenza pubblica Il C.G.A.R.S. ha applicato, nella sentenza in epigrafe, l’orientamento consolidato della giurisprudenza amministrativa in materia di cause di esclusione dalla procedura di gara ex art. 46 comma 1 bis d.lgs. 163/2006. Secondo l’orientamento in questione, i bandi di gara possono prevedere l’esclusione dei concorrenti “qualora gli stessi non prestino adempimenti doverosi o essenziali, contemplati (anche senza comminatoria di esclusione) dal codice degli appalti e dal relativo regolamento, nonché da altre disposizioni di leggi statali vigenti”. Si trattava, nel caso di specie, da una parte, di omessa indicazione, nel plico contenente l’offerta economica, del piano di ripartimento del servizio tra i componenti di un raggruppamento professionale come richiesto a pena di esclusione da una clausola del disciplinare, dall’altra, di mancato rilascio, entro il termine di scadenza del bando, di autorizzazione da parte dall’ente pubblico di appartenenza nei confronti di uno dei professionisti del RTP, anche questa causa di esclusione dalla procedura di gara ex art. 53 d.lgs. 165/2001. In ordine alla prima causa di esclusione, il C.G.A.R.S., respingendo l’appello, ha evidenziato che, al riguardo, “il codice richiede soltanto la previa indicazione in sede di offerta delle parti del servizio che ciascun componente dovrà svolgere, ma non impone particolari modalità di dichiarazione” né d’altra parte l’inserimento di tale dichiarazione (solo e soltanto) all’interno dell’offerta economica “corrisponde ad un interesse della stazione appaltante il cui rilievo possa connotare di essenzialità il richiesto adempimento”. In ordine alla seconda causa di esclusione, il Consiglio, accogliendo l’appello, ha invece evidenziato che l’anzidetta autorizzazione, da un punto di vista sostanziale, “costituisce in generale condizione per il conferimento in concreto dell’incarico professionale ad un pubblico dipendente, e non requisito di partecipazione all’eventuale procedura selettiva finalizzata all’individuazione del soggetto da incaricare”. In altri termini, fatto salvo il caso in cui l’autorizzazione previa sia espressamente imposta dalla lex specialis, la necessità dell’autorizzazione emerge solo all’atto dell’accettazione dell’incarico o del conferimento dello stesso, e non nel segmento procedimentale, sia esso un concorso o una selezione di evidenza, che eventualmente precede l’instaurazione del rapporto. Ne consegue definitivamente – conclude il C.G.A.R.S. – che l’esibizione dell’autorizzazione rientrava nel novero degli adempimenti prodromici alla eventuale stipula del contratto in caso di aggiudicazione e non era invece necessaria ai fini della mera partecipazione alla selezione. SS |
Inserito in data 17/10/2015 TAR LAZIO - ROMA, SEZ. I, 12 ottobre 2015, n. 11600 Astreinte comminabile nel caso di decreto di condanna all’equa riparazione Con la sentenza de qua, i Giudici della Prima sezione del Tar Lazio – Roma si sono pronunciati sul ricorso proposto per l’esecuzione, da parte dell’Amministrazione, del giudicato formatosi sul decreto della Corte di Appello di Roma, sez. “equa riparazione, nonché in ordine al pagamento della c.d. penalità di mora ex art. 114, comma 1, lett. e, c.p.a. per l’ulteriore ritardo nell’esecuzione del giudicato. I Giudici Laziali preliminarmente ricordano che, ai sensi dell’art. 112, comma 2, lett. c, c.p.a., il ricorso per l’ottemperanza innanzi al giudice amministrativo è esperibile anche nei confronti dei decreti non opposti di condanna all’equa riparazione previsti dall’art. 3, l. 24 marzo 2001, n. 89 (c.d. legge Pinto), avendo essi natura decisoria su diritti soggettivi e idoneità ad assumere valore ed efficacia di giudicato. Inoltre - proseguono – l’istituto della penalità di mora di cui all’art. 114, comma 4, lett. e), c.p.a. – il quale assolve ad una finalità di natura essenzialmente sanzionatoria e non risarcitoria, in quanto finalizzato a sanzionare la disobbedienza alla statuizione giudiziaria - è comminabile anche nel caso di decreto di condanna all’equa riparazione. Per quanto concerne il profilo della quantificazione della astreinte, il TAR Lazio - Roma ritiene di poter assumere quale parametro di riferimento quello individuato dalla Corte E.D.U., ovvero “l’interesse semplice ad un tasso equivalente a quello delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea applicabile durante tale periodo, aumentato di tre punti percentuali”. Quindi, alla luce delle considerazioni svolte, non avendo, nel caso di specie, l’Amministrazione - alla quale il ricorso era stato correttamente notificato - smentito l’assunto del ricorrente in ordine alla mancata esecuzione del giudicato, il TAR Lazio ha ordinato all’Ente di dare piena e integrale esecuzione alla statuizione in epigrafe, altresì condannandolo al risarcimento del danno da ritardo in favore della parte ricorrente. MB
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Inserito in data 16/10/2015 TAR CAMPANIA, NAPOLI, SEZ. I, 7 ottobre 2015, n. 4705 Sul ricorso esperito avverso il silenzio inadempimento
Il TAR della Campania interviene, con la pronuncia de qua, in merito alla sussistenza della giurisdizione amministrativa per il ricorso esperito avverso il silenzio inadempimento serbato dalla Regione, in ordine all'atto di diffida alla copertura degli oneri relativi al servizio di trasporto pubblico locale. A ben vedere, quindi, la sussistenza del potere, in tal caso, esclude che la posizione giuridica azionata abbia natura di diritto soggettivo, nonostante, nell'ambito del potere di programmazione delle risorse, una quota di tali risorse finanziarie, sia stata destinata dalla legge dello Stato alla specifica copertura degli oneri derivanti dai rinnovi contrattuali. Viene precisato che la natura della posizione soggettiva, invero, non dipende dal carattere vincolato o discrezionale del potere pubblico esercitato, bensì dalla “configurazione del rapporto giuridico intercorrente tra i soggetti”. Nel caso in parola, la pretesa dedotta in giudizio, non deriva direttamente da un rapporto obbligatorio intercorrente tra le parti, bensì dal concreto esercizio del potere pubblico da parte dell'amministrazione regionale. Quest'ultimo, dovrebbe tener conto – in sede di programmazione delle risorse da destinare al trasporto pubblico – di una quota indisponibile già vincolata dallo Stato.
Alla luce di quanto chiarito dai giudici di merito, dunque, non si controverte della sussistenza di un diritto soggettivo al conseguimento di determinate somme, bensì di un interesse legittimo pretensivo al corretto esercizio del potere di programmazione finanziaria. GMC
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Inserito in data 16/10/2015 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 13 ottobre 2015, n. Sulla moralità professionale del concorrente: art. 38 D.lgs. 163/20016
Con la pronuncia de qua, i Giudici di Palazzo Spada intervengono in merito alla moralità professionale del concorrente e, nello specifico, circa la verifica sul possesso del suddetto requisito. La IV Sezione, chiarisce che:“Laddove l’esclusione dalla gara di cui al più volte citato art. 38, comma 1, lett. c), del D. Lgs. n. 163/2006, si facesse dipendere dalla mera sussistenza di una condanna penale, prescindendo da ogni valutazione circa la gravità del comportamento colpevole del soggetto, la norma si porrebbe in contrasto con l’articolo 45, par. 2 della direttiva 31/3/2004 n. 2004/18/CE, secondo cui può essere escluso dalla partecipazione alla gara ogni operatore economico quando il reato “incida” sulla sua moralità professionale (lett. c).”
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Inserito in data 15/10/2015 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 13 ottobre 2015, n. 4699 Costo del lavoro e giudizio di adeguatezza dell’offerta Il Consiglio di Stato, con la pronuncia in epigrafe, nell’accogliere l’impugnazione proposta avverso la sentenza resa dal Tar Lombardia – sez. dist. di Brescia, concernente l’aggiudicazione di una gara per l’affidamento e la gestione di servizi amministrativi, affronta la questione del giudizio di adeguatezza delle offerte economicamente più vantaggiose in relazione al costo lavoro. La principale censura formulata dall’appellante concerneva la non sostenibilità dell’offerta dell’aggiudicataria, atteso che un’offerta che preveda l’applicazione di un CCNL che introduce livelli retributivi e normativi insufficienti rispetto alle tabelle ministeriali, stipulato per di più da associazioni non comparativamente più rappresentative nell’ambito di un settore regolato da una contrattazione collettiva nel quale è invece presente un contratto, non sarebbe idonea a garantire una presunzione di adeguatezza, determinando, quindi, un’anomalia dell’offerta stessa. La Terza sezione del Collegio, nel valutare la fattispecie, richiama, anzitutto, gli artt. 86 e 87 del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, i quali prevedono che l’Amministrazione, prima di procedere all’aggiudicazione definitiva, deve, in presenza di sintomatici rilevatori automatici di anomalia, effettuare una valutazione sulla congruità complessiva dell’offerta ritenuta migliore: “l’offerta deve risultare nel suo complesso affidabile e conveniente al momento dell’aggiudicazione, ed in tale momento l’aggiudicatario deve dare garanzia di una seria esecuzione del contratto” (C. di St. n. 1487 del 27.03.14). Proprio in considerazione del rilievo che il costo del lavoro assume, nonché delle esigenze di tutela dei lavoratori, il legislatore ha aggiunto, all’art. 86, con l’art. 1, comma 909, lettera a) della legge 27 dicembre 2006, n. 296, il comma 3-bis che prevede che gli enti aggiudicatori verifichino «che il valore economico sia adeguato e sufficiente rispetto al costo del lavoro … il quale deve essere specificamente indicato e risultare congruo rispetto all’entità e alle caratteristiche dei lavori, dei servizi o delle forniture» e che, ai fini di tale disposizione, “il costo del lavoro è determinato periodicamente in apposite tabelle dal Ministero del Lavoro, sulla base dei valori economici previsti dalla contrattazione collettiva stipulata dai sindacati comparativamente più rappresentativi”. Alla luce di questi rilievi – osservano i Giudici di Palazzo Spada – “una determinazione complessiva dei costi basata su un costo del lavoro inferiore ai livelli economici minimi fissati normativamente (o in sede di contrattazione collettiva) per i lavoratori del settore può costituire indice di inattendibilità economica dell’offerta e di lesione del principio della par condicio dei concorrenti ed è fonte di pregiudizio per le altre imprese partecipanti alla gara che abbiano correttamente valutato i costi delle retribuzioni da erogare”. Ciononostante, l’anomalia dell’offerta non può, in automatico, essere desunta dal mancato rispetto delle tabelle ministeriali richiamate dall’art. 87, comma 2, lett. g) del codice dei contratti pubblici, in quanto i costi medi del lavoro, indicati nelle tabelle predisposte dal Ministero del Lavoro, non costituiscono parametri inderogabili, bensì indici tipologici del giudizio di adeguatezza dell’offerta, oggetto di valutazione dell’Amministrazione. Ed infatti – chiarisce ulteriormente il Collegio - ai fini di una valutazione della congruità e serietà dell’offerta, la stazione appaltante deve altresì tenere conto delle possibili economie che le singole imprese possono conseguire, con la conseguenza che una possibile differenza del costo del lavoro determinato nell’offerta rispetto all’indice ministeriale potrebbe essere giustificata dalla diversa capacità organizzativa delle imprese partecipanti alla gara, sempre che esse non si discostino in modo evidente dai valori medi formulati nelle tabelle predisposte dal ministero del Lavoro. Tuttavia, l’utilizzo, nel settore pubblico, di contratti collettivi di lavoro stipulati da sigle sindacali che non abbiano il sufficiente grado di rappresentatività costituisce un’evidente anomalia del sistema che avrebbe dovuto – diversamente da quanto accaduto nel caso di specie – essere sottoposta ad un rigoroso giudizio di accertamento, valutata non soltanto sulla scorta della ritenuta convenienza economica dell’offerta, ma anche della sua complessiva serietà ed affidabilità, tanto più in considerazione del fatto che in gare come quella in questione il bando ha espressamente previsto, in forza della c.d. clausola sociale, il passaggio dei lavoratori già occupati da un datore di lavoro ad un altro. In quest’ottica – afferma il Collegio - “se si ammettessero senza riserve offerte formulate facendo applicazione di costi del lavoro molto più contenuti, oggetto di contratti collettivi di lavoro sottoscritti da sindacati non adeguatamente rappresentativi, la competizione fra le imprese partecipanti alla gara si svolgerebbe non sulla base di una migliore o diversa articolazione del lavoro (e quindi sulle base di caratteristiche proprie dell’impresa) ma in base ai diversi costi del lavoro determinati dall’applicazione di diversi contratti collettivi anche eventualmente sottoscritti da sindacati non adeguatamente rappresentativi. Ciò conferma la necessità che il costo del lavoro debba avere come parametro di riferimento quello stabilito dalle tabelle ministeriali del settore interessato che sono calcolate sulla base della contrattazione collettiva stipulata dai sindacati comparativamente più rappresentativi”. Alla luce di queste considerazioni, la Terza sezione del Consiglio accoglie l’appello e, ad integrale riforma della appellata sentenza del T.A.R. per la Lombardia, Sezione staccata di Brescia, annulla l’aggiudicazione della gara. MB
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Inserito in data 14/10/2015 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 9 ottobre 2015, n. 4680 Dies a quo per la richiesta di equo indennizzo ex art. 2 D.P.R. n. 461/01 Il Consiglio di Stato si è pronunciato sulla decorrenza iniziale del termine, stabilito dall’art. 2 del D.P.R. n. 461/2001, per far accertare la dipendenza da causa di servizio delle lesioni o dell’infermità, dell’aggravamento delle stesse, ovvero del decesso, di un dipendente, nonché per ottenere un corrispondente equo indennizzo, a fronte della menomazione dell’integrità fisica o psichica o sensoriale, o della perdita della vita. La fattispecie concreta concerneva la domanda di accertamento della dipendenza da causa di servizio del decesso di un Ispettore superiore della Polizia di Stato, e la contestuale richiesta del riconoscimento dell’equo indennizzo, presentate dal coniuge superstite, oltre il termine di cui al comma quinto del citato art. 2, fissato in mesi sei dalla morte del de cuius. La parte ricorrente eccepiva la tempestività delle richieste, ritenendo che il menzionato termine semestrale non potesse decorrere dall’evento morte, bensì dalla conoscenza, o comunque dalla conoscibilità, dell’effettiva dipendenza dell’infermità letale da causa di servizio. Dipendenza della quale la ricorrente dichiarava di aver avuto conoscenza, solo dopo aver incaricato un medico legale di fiducia di indagare sulle cause del decesso. La ricorrente riteneva di poter dedurre la regola del decorso del termine dalla conoscenza dell’evento invocato, dalla formulazione del comma primo dell’art. 2 stesso; si osservava, infatti, come una simile previsione valesse esplicitamente per il dipendente e che, pertanto, la medesima condizione dovesse essere riconosciuta anche ai suoi eredi, interpretando in via analogica le disposizioni di cui al comma quinto, dell’art. 2. A sostegno delle proprie doglianze l’appallante invocava inoltre la giurisprudenza costituzionale. Con la sentenza n. 323/2008, il Giudice delle leggi dichiara l’illegittimità dell’art. 169, D.P.R. n. 1092/1973 “nella parte in cui non prevede che, allorché la malattia insorga dopo i cinque anni dalla cessazione dal servizio, il termine quinquennale di decadenza per l’inoltro della domanda di accertamento della dipendenza delle infermità o delle lesioni contratte, ai fini dell’ammissibilità della domanda di trattamento privilegiato, decorra dalla manifestazione della malattia stessa”. L’appellante, segnatamente, argomentava “in relazione al principio per cui un diritto non si può mai prescrivere prima di poter essere esercitabile”. Sempre ad avviso della ricorrente, infine, la conoscenza delle circostanze effettive della vicenda clinica, quale presupposto indispensabile per la decorrenza del termine, si evincerebbe anche dalla necessità di indicare specificamente nella domanda per il riconoscimento della causa di servizio “la natura dell’infermità o lesione, i fatti di servizio che vi hanno concorso e, ove possibile, le conseguenze sull’integrità fisica, psichica, o sensoriale e sull’idoneità al servizio, allegando ogni documento utile”. Il Consiglio di Stato dichiara l’appello infondato. Il Collegio, a seguito di un’attenta lettura del più volte citato art. 2, esclude “qualsiasi disarmonia” tra il regime normativo riservato al dipendente, e quello previsto per i suoi eredi: “In tutti i casi il termine decorre dal manifestarsi dell’evento dannoso o dalla conoscenza dell’infermità, della lesione o dell’aggravamento, tutte evenienze che in caso di richiesta da parte degli eredi connessa al decesso coincidono con quest’ultimo”. L’asserita insussistenza delle condizioni di conoscenza o conoscibilità, in capo all’interessato, del nesso eziologico intercorrente tra l’evento e la causa di servizio, spinta fino a quando non siano noti tutti gli elementi posti a corredo dalla domanda, “contrasta frontalmente con la normativa che richiede esplicitamente per la decorrenza solo la manifestazione dell’evento dannoso, e non il compimento da parte del soggetto interessato di un’indagine in merito ad esso, che spetta invece all’autorità amministrativa investita dall’istanza”. L’interpretazione sostenuta dalla ricorrente, osservano i giudici di Palazzo Spada, “vanificherebbe del tutto la funzione del termine”, “posto a presidio dell’interesse pubblico alla verificabilità, entro termini congrui e ragionevoli, della dipendenza (dell’evento dannoso) da causa di servizio ad opera dell’apposita commissione”. Ove la tesi in narrativa avesse trovato accoglimento, l’interessato, “fuori dei casi di eventi traumatici puntuali”, avrebbe potuto determinarsi, in via discrezionale, in ordine al momento in cui avviare, e soprattutto concludere, l’iter di accertamento personale, rendendo senz’altro incerta la decorrenza del termine. Il Collegio stesso, tuttavia, in un obiter dictum riscontra l’astratta attendibilità della tesi integrativa e costituzionalmente orientata sostenuta dall’appellante, nei casi in cui “la connessione con cause di servizio non sia percepibile e cioè non sia plausibile e nemmeno ipotizzabile al momento dell’evento dannoso e sorga quindi anche in termini ipotetici solo successivamente, per fatti sopravvenuti e non prevedibili. In tale caso sarebbe certamente invocabile il principio di buona fede e quello per il quale un diritto non si può mai prescrivere prima di essere esercitabile”. Soltanto in queste particolari ipotesi il termine contemplato ai commi primo e quinto dell’art. 2, D.P.R. n. 461/2001, decorre dal momento in cui viene acquistata dalla parte la “conoscenza minima e indispensabile” della connessione in parola. Vengono pienamente confermate le considerazioni conclusive del T.a.r.: “Era onere della ricorrente, piuttosto che indagare in proprio sulle cause del decesso incaricando un medico legale di fiducia, promuovere, entro sei mesi dalla morte del marito, l’apposito subprocedimento per il riconoscimento della causa di servizio rimesso alla competenza di una commissione medica ad hoc (art. 6 del D.P.R. n. 461/2001), a conclusione del quale ben avrebbe potuto domandare, entro ulteriori sei mesi, la concessione dell’equo indennizzo, senza incorrere in decadenza alcuna”. FM
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Inserito in data 14/10/2015 CORTE DI CASSAZIONE - SESTA SEZIONE PENALE, SENTENZA 7 ottobre 2015, n. 40320 Mobbing del superiore nei confronti del dirigente e abuso d’ufficio
I giudici di legittimità annullano e rinviano per nuova deliberazione la sentenza emessa dal g.u.p., con la quale veniva pronunciato, ai sensi dell’art. 425 c.p.p., il non luogo a procedere nei confronti di un direttore d’unità operativa ospedaliera per insussistenza dei fatti di abuso d’ufficio (art. 323 c.p.) e maltrattamenti contro familiari e conviventi (art. 572 c.p.). Il soggetto è imputato per avere, in qualità di superiore gerarchico “posto in essere iniziative discriminatorie tendenti ad un demansionamento di fatto nei confronti del proprio sottoposto (omissis), dirigente medico specializzato”. La condotta era, segnatamente, volta a emarginare progressivamente la parte civile, e a umiliarne la professionalità (c.d. mobbing), arrecandogli un danno ingiusto.
In ordine all’art. 572 c.p., la giurisprudenza da tempo adotta un canone di interpretazione estensivo, facendo rientrare nella previsione di legge i rapporti professionali o di lavoro, purché il soggetto persecutore occupi una posizione di supremazia, caratterizzata dall’esercizio di un potere direttivo o disciplinare che possa incidere, anche solo in prospettiva psicologica, nella sfera giuridica del sottoposto. Ai fini dell’applicabilità della norma nel senso ora esposto, il contesto di riferimento deve corrispondere a uno schema di tipo para-familiare, deve perciò presentare una “prossimità permanente, di abitudini di vita (anche lavorativa) (omissis), non ultimo per l’affidamento, la fiducia e le aspettative del sottoposto rispetto all’azione di chi ha ed esercita su di lui l’autorità con modalità, tipiche del rapporto familiare, caratterizzate da ampia discrezionalità ed informalità”. La condotta lesiva deve, invece, concretizzarsi in una “mirata reiterazione” di atteggiamenti “convergenti nell’esprimere ostilità verso la vittima e preordinati a mortificare e a isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro, aventi dunque carattere persecutorio e discriminatorio”. Il g.u.p., nel caso di specie, aveva ritenuto insussistente il requisito interpersonale della para-familiarità, trattandosi di “professionisti di elevata qualificazione, operanti in un’organizzazione di ampia dimensione”. La Corte, diversamente opinando, considera compatibile con la realtà concreta un vincolo di soggezione, in ragione dell’oggettiva autorità esercitata dal superiore. Si pensi alla capacità dei suoi provvedimenti organizzativi di incidere profondamente sulla situazione del collega, sia per quanto concerne le potenziali acquisizioni pratiche ulteriori, sia anche relativamente al semplice mantenimento delle proprie abilità. Parimenti censurabili, ad avviso della Corte, risultano essere le considerazioni formulate dal giudice di merito circa il parametro dimensionale dell’ente, rilevante ancora ai fini della para-familiarità. Non all’intera struttura ospedaliera dovrebbe farsi riferimento, ma il singolo reparto all’interno del quale i soggetti interessati prestano la propria attività. E comunque a prescindere da un dato “meramente quantitativo”, le dinamiche effettive del rapporto devono essere accertate alla luce di risultanze obiettive e qualitative. “Si potranno pertanto ravvisare gli estremi della para-familiarità allorché ci si trovi in presenza di una relazione interpersonale stretta e continuativa, connotata da un rapporto di soggezione e subordinazione del sottoposto rispetto al superiore, il quale si atteggi in modo da innestare la sopra descritta dinamica relazionale supremazia – subalternità”. Appare “del tutto illogico e irragionevole” il principio formulato dal primo giudice, secondo cui il reato in questione sarebbe “configurabile soltanto a condizione che la vittima accetti passivamente le vessazioni subite e che la successiva reazione della persona offesa, che abbia adito le vie legali per i fatti di cui sia stata vittima, sia suscettibile di esentare da penale rilevanza il comportamento criminale posto in essere, col che il reato di c.d. mobbing”. L’eventuale esperimento dei rimedî giuslavoristici posti a tutela del danneggiato, precisa il supremo collegio, non può determinare il venir meno della natura subordinata del rapporto instauratosi: “lo stato di subordinazione e di soggezione del lavoratore vittima rispetto al superiore, quale condicio sine qua non per la sussumibilità del c.d. mobbing nella fattispecie incriminatrice dei maltrattamenti in famiglia, deve sussistere all’atto delle condotte vessatorie ed oppressive e non può essere escluso – ex post – dal fatto che la vittima, dopo avere subito un sistematico e continuativo atteggiamento discriminatorio, abbia azionato tutti gli strumenti di reazione in suo potere per opporsi alla prevaricazione e denunciare i fatti affinché possano essere perseguiti”. Circa l’abuso d’ufficio, la sentenza del g.u.p. assumeva la “debole tassatività della norma penale integratrice” individuata nell’art. 13 d.P.R. n. 3/1957 (Statuto degli impiegati civili dello Stato), la quale impone ai dipendenti pubblici l’osservanza del principio di assidua e solerte collaborazione. La Corte di cassazione, ribadendo la correttezza del richiamo all’art. 13, comma terzo, d.P.R. n. 3/1957, introduttivo del dovere di collaborazione, chiarisce che la disposizione è ancora vigente per i dipendenti pubblici dirigenti medici (oltre che per il personale pubblico non contrattualizzato), non essendo stato diversamente stabilito dalla contrattazione collettiva (cfr. artt. 2, D.lgs. n. 3/1993, e 2, D.lgs. 165/2001): è dunque sussistente il reato di cui all’art. 323 c.p., per violazione di legge, nei casi in cui vengano posti in essere comportamenti di vessazione, emarginazione, e sostanziale demansionamento, di un professionista. Altrettanto fondata la Corte ritiene la censura del ricorrente avente ad oggetto l’applicabilità dell’art. 97 Cost.. Nonostante sia stata spesso negata la configurabilità dell’abuso d’ufficio per la violazione di tale norma, stante la sua genericità e valenza meramente programmatica, potenzialmente lesiva del principio di tassatività, il Collegio stabilisce, nondimeno, la possibilità di adoperarne il dispositivo, quale parametro di riferimento, “nella parte in cui esprime un carattere immediatamente precettivo, in relazione all’imparzialità dell’azione del funzionario pubblico, che, nel suo nucleo essenziale, si traduce nel divieto di favoritismi e, quindi nell’obbligo per l’amministrazione di trattare tutti i soggetti portatori di interessi tutelabili con la medesima misura”. Il già affermato principio “deve applicarsi anche al caso di vessazione, emarginazione e discriminazione motivata da ritorsione e finalizzata a procurare un ingiusto danno”. FM
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Inserito in data 13/10/2015 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 9 ottobre 2015, n. 4684 Principi in tema di lex specialis delle pubbliche gare d’appalto La pronuncia in esame desta interesse perché si sofferma, tra l’altro, sulla composizione della lex specialis delle gare d’appalto, sui criteri di risoluzione delle antinomie interne alla stessa e sulla sua interpretazione. La Quinta Sezione ci ricorda che il bando, il disciplinare di gara e il capitolato speciale d’appalto costituiscono la lex specialis della gara, vincolando tanto i concorrenti quanto l’amministrazione appaltante, in attuazione dei principi sanciti dall’art. 97 Cost. Ciascuno di essi ha una propria specifica funzione nell’economia della procedura, “il primo fissando le regole della gara, il secondo disciplinando in particolare il procedimento di gara ed il terzo integrando eventualmente le disposizioni del bando (con particolare riferimento – di norma – agli aspetti tecnici anche in funzione dell’assumendo vincolo contrattuale”. “Quanto agli eventuali contrasti (interni) tra le singole disposizioni della lex specialis ed alla loro risoluzione, è stato osservato che tra i ricordati atti sussiste nondimeno una gerarchia differenziata con prevalenza del contenuto del bando di gara […], laddove le disposizioni del capitolato speciale possono soltanto integrare, ma non modificare le prime”. “L’interpretazione della lex specialis soggiace, come per tutti gli atti amministrativi, alle stesse regole stabilite per i contratti dagli articoli 1362 e ss., tra le quali assume carattere preminente quella collegata all’interpretazione letterale, in quanto compatibile con il provvedimento amministrativo, fermo restando, per un verso, che il giudice deve in ogni caso ricostruire l’intento perseguito dall’amministrazione ed il potere concretamente esercitato sulla base del contenuto complessivo dell’atto (c.d. interpretazione sistematica) e, per altro verso, che gli effetti del provvedimento, in virtù del criterio di interpretazione di buona fede, ex 1366 c.c., devono essere individuati solo in base di ciò che il destinatario può ragionevolmente intendere”. Infine, si segnala che, nella presente pronuncia, il Consiglio di Stato effettua un’efficace sintesi dei principi elaborati dall’Adunanza Plenaria e dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea in tema di ordine di trattazione del ricorso principale e di quello incidentale. TM
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Inserito in data 13/10/2015 CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI - SENTENZA 5 ottobre 2015, n. 19787 L’eccesso di potere giurisdizionale e i limiti esterni della giurisdizione del GA Con la sentenza de qua, le Sezioni Unite forniscono dei chiarimenti sulla nozione di eccesso di potere giurisdizionale e sui limiti esterni della giurisdizione del giudice amministrativo. “La figura dell’eccesso di potere giurisdizionale, quale costruzione giurisprudenziale di una fattispecie generale di difetto di giurisdizione del giudice (amministrativo, nella specie) per superamento dei limiti esterni della sua giurisdizione, si atteggia diversamente nella giurisdizione di legittimità del giudice amministrativo …. e nella giurisdizione di merito del giudizio di ottemperanza. Nel primo caso il giudice amministrativo travalica i limiti esterni della giurisdizione quando, apparentemente esercitando l’ordinaria giurisdizione di legittimità, nella sostanza entra nel merito dell’atto amministrativo impugnato ed esercita una discrezionalità che appartiene all’Amministrazione…. Nel secondo caso, in cui la giurisdizione è prevista come di merito…. si ha eccesso di potere giurisdizionale quando il giudice amministrativo ritiene che ci siano i presupposti dell’ottemperanza anche in casi in cui tali presupposti in realtà non ricorrono (nel senso che non sussistono né violazione, né soprattutto, elusione del giudicato)… Anche in questo caso il giudice amministrativo finisce per esercitare un’attività amministrativa discrezionale sotto le vesti di una giurisdizione dichiaratamente di merito”. “Nell’ambito del giudizio di ottemperanza poi …una particolare ipotesi di travalicamento die limiti esterni della giurisdizione si ha allorché il giudice amministrativo conformi l’agire della pubblica amministrazione in un contenuto “impossibile” essendo la vicenda ormai “chiusa” con il definitivo accertamento dell’illegittimità del provvedimento annullato in sede di cognizione e non sussistendo più le condizioni perché la pubblica amministrazione possa provvedere ancora sicché la tutela dell’interesse legittimo violato, non più realizzabile nella forma (specifica) dell’ottemperanza, è indirizzata verso quella compensativa e risarcitoria”. “In riferimento a quest’ultima fattispecie, particolare è l’ipotesi di delibera del CSM di assegnazione di incarichi giudiziari a magistrati con procedura concorsuale e quindi nell’esercizio del potere di autogoverno della magistratura…. Con riguardo ad essa può ribadirsi il principio espresso dalla citata pronuncia di queste Sezioni Unite (Cass., sez. un., 9 novembre 2011, n. 23302): c’è eccesso di potere giurisdizionale se il giudice amministrativo, in sede di ottemperanza della pronuncia, passata in giudicato, di annullamento di una delibera del CSM, e quindi pur esercitando una giurisdizione di merito, “ordini” al CSM di attribuire, ora per allora, l’incarico giudiziario a magistrati che ormai non possono prendere possesso del posto” (perché già in quiescenza). Sempre con riguardo a quest’ultimo caso, le Sezioni Unite precisano che “la circostanza del sopravvenuto collocamento in quiescenza dei magistrati in competizione nella procedura concorsuale non esime il giudice amministrativo, investito della legittimità della delibera del CSM impugnata da uno dei magistrati concorrenti, dal pronunciarsi nel merito delle censure … anche se tale circostanza sopravvenuta non consentirà, in caso di accoglimento dell’impugnativa, un’ottemperanza in forma specifica con l’assegnazione, ora per allora, dell’incarico giudiziario”. In quest’ipotesi, in attuazione del giudicato amministrativo, il CSM potrà o confermare l’assegnazione del posto a chi era stato nominato con la delibera impugnata sulla base di una diversa e puntuale motivazione; oppure il CSM potrà adottare una delibera di non luogo a provvedere per mera acquiescenza al giudicato amministrativo, se non ravvisi più le ragioni giustificatrici dell’assegnazione dell’incarico al magistrato inizialmente assegnatario. Per completezza, si segnala che le Sezioni Unite trattano l’eccesso di potere giurisdizionale sotto altri due profili, enunciando i seguenti principi di diritto: “Non sussiste eccesso di potere giurisdizionale ove – in caso di duplice impugnativa dello stesso atto amministrativo sia con ricorso per ottemperanza sia con ordinario ricorso in sede di legittimità – il Consiglio di Stato, dopo essersi pronunciato, rigettandolo, sul ricorso per ottemperanza, si pronunci nuovamente in sede di appello avverso la sentenza di primo grado del TAR che abbia deciso il ricorso ordinario”. “In caso di concorso bandito dal Consiglio Superiore della magistratura per l’attribuzione di un incarico giudiziario travalica i limiti esterni della giurisdizione il Consiglio di Stato che, adito in grado d’appello avverso una pronuncia di primo grado avente ad oggetto la legittimità, o no, della delibera del CSM e quindi nell’esercizio dell’ordinaria cognizione di legittimità, operi direttamente una valutazione di merito del contenuto della delibera stessa e ne apprezzi la ragionevolezza, così sovrapponendosi all’esercizio della discrezionalità del CSM, espressione del potere, garantito dall’art. 105 Cost., di autogoverno della magistratura, invece di svolgere un sindacato di legittimità di secondo grado, anche a mezzo del canone parametrico dell’eccesso di potere quale possibile vizio della delibera stessa”. TM
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Inserito in data 12/10/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 6 ottobre 2015, n. 4652 I consorzi ordinari di concorrenti nelle procedure ad evidenza pubblica I Giudici del Consiglio di Stato, accogliendo il primo motivo d’appello, hanno ritenuto sussistere, nel caso di specie, una violazione degli artt. 34, co. 1 lett. e) e 37 del d.lgs. 163/2006 in materia di requisiti dei partecipanti alle procedure di affidamento di contratti pubblici. In particolare, alla procedura indetta per l’affidamento di un servizio di pulizia aveva partecipato e si era aggiudicata la gara la società consortile appellata costituente consorzio ordinario composto da due società. Essa aveva dichiarato di partecipare ed eseguire il servizio al 100% in nome proprio e per conto di una sola delle due imprese consorziate e, per tale motivo, in violazione dell’art. 34 pocanzi citato che, in merito ai consorzi ordinari, rimanderebbe integralmente alla disciplina delle associazioni temporanee d’impresa (ATI), nelle quali è necessario che tutte le imprese prendano parte alla gara ed alla relativa esecuzione del servizio. Il TAR Molise, in primo grado, aveva respinto il ricorso incidentale facendo una distinzione, priva di qualsivoglia dato positivo, tra consorzi ordinari costituiti nella “forma semplice” di cui agli art. 2602 e ss. c.c., e consorzi costituiti con la forma della società consortile ai sensi dell’art. 2615-ter c.c.. Il Consiglio di Stato, invece, precisa che la disciplina civilistica della società consortile e la personalità giuridica di cui è titolare “non comportano che essa sia esentata dagli adempimenti richiesti dalla disciplina in materia di contratti pubblici qualora la società consortile partecipi a gare d'appalto indette dalla pubblica amministrazione”. Infatti, così come richiamato dall’art. 34, co. 1 lett. e), si applica la disciplina prevista dall’art. 37 per le ATI, ossia quella prevista per i contratti associativi atipici fondati sul mandato collettivo speciale e gratuito conferito da parte delle associate ad una di esse (cd. capogruppo) la quale assume, nei confronti del committente, la rappresentanza esclusiva di tutte le mandanti. Le società consortili, infatti – motiva il Consiglio – “non sono imprese autonome, ma consorzi, per la natura e le finalità mutualistiche in favore delle imprese consorziate, con l'unica differenza che è loro consentito di operare in forma societaria, sicché la causa consortile del contratto permane e prevale sulla forma societaria assunta”. “La circostanza che tale soggetto abbia personalità giuridica e si presenti alla gara come impresa singola, in limine, rileva ai fini dell'assunzione della responsabilità nei confronti della stazione appaltante, ma non può esimere dagli obblighi posti dal codice dei contratti pubblici ai consorzi, qualunque sia la loro forma giuridica assunta”. SS
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Inserito in data 12/10/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III - 9 ottobre 2015, n. 4679 Sull’informativa interdittiva antimafia Con la sentenza de qua, i Giudici di Palazzo Spada sono tornati ad occuparsi di informativa interdittiva antimafia e hanno effettuato talune precisazioni in relazione a quello che è il suo ruolo di massima anticipazione dell’azione di prevenzione in ordine ai pericoli di inquinamento mafioso negli appalti pubblici. In primo luogo – afferma il Consiglio – il pericolo di infiltrazione dell’appellante può essere deducibile da elementi sintomatici ed indiziari che, nel loro insieme, “siano tali da fondare un giudizio di possibilità che l’attività d’impresa possa, anche in maniera indiretta, agevolare le attività criminali o esserne in qualche modo condizionata”. In secondo luogo, i legami di natura parentale possono assumere rilievo “qualora emerga un intreccio di interessi economici e familiari, dai quali sia possibile desumere la sussistenza dell’oggettivo pericolo che rapporti di collaborazione intercorsi a vario titolo tra soggetti inseriti nello stesso contesto familiare costituiscano strumenti volti a diluire e mascherare l’infiltrazione mafiosa nell’impresa considerata”. Tuttavia – continua il Collegio – il vincolo di parentela non può rappresentare di per sé l’unico elemento ostativo, ma deve essere considerato unitamente al ruolo svolto nell’impresa dal dipendente in passato e nell’attualità. Infine, in ogni caso, “la misura interdittiva antimafia non richiede il massimo grado di certezza dei suoi presupposti, né l'accertamento, in sede penale, di carattere definitivo in ordine all'esistenza della contiguità con organizzazioni malavitose ed al condizionamento in atto dell'attività di impresa, essendo sufficiente, al riguardo, la semplice dimostrazione del pericolo del pregiudizio, mediante il riferimento ad alcuni fatti sintomatici ed indizianti che, considerati e valutati nel loro complesso, inducano ad ipotizzare la sussistenza di un collegamento tra impresa e criminalità organizzata”. SS
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Inserito in data 09/10/2015 CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI - SENTENZA 5 ottobre 2015, n. 19785 Le Sezioni Unite in tema di leasing finanziario Le Sezioni Uniti della Suprema Corte, intervengono, con la sentenza de qua, in merito all'articolato tema della locazione finanziaria. In generale, com'è noto, il leasing è un tipo di contratto appartenente alla categoria dei c.d. “nuovi contratti”, risultando, infatti, dalla combinazione di due differenti schemi negoziali: quello della vendita con patto di riservato dominio, di cui all'art. 1523 c.c., nonché del contratto di locazione, così come espressamente previsto all'art. 1571 del codice civile. Nello specifico, il leasing c.d. finanziario, è contraddistinto, dalla presenza di un rapporto trilaterale, intervenendo tre differenti soggetti: il locatore, l'utilizzatore (o locatario) ed il fornitore. Scendendo nel merito della sentenza ivi in questione, gli Ermellini chiariscono che, ove i vizi della cosa siano emersi prima della consegna, il concedente dovrà sospendere il pagamento del prezzo in favore del fornitore, nei cui confronti può agire per la risoluzione del contratto di fornitura ovvero la riduzione del corrispettivo. Viene, inoltre, stabilito che se questi ultimi si siano rivelati dopo la consegna, l'utilizzatore avrà azione diretta verso il fornitore. Comunque, in ogni caso, il medesimo utilizzatore potrà agire contro il fornitore per il risarcimento dei danni e la restituzione dei canoni già pagati dal concedente. Dunque, a ben vedere, in tema di vizi della cosa concessa in locazione finanziaria – che la rendano “inidonea” all'uso – occorrerà, quindi, distinguere l'ipotesi in cui gli stessi siano emersi prima della consegna (rifiutata dall'utilizzatore), da quella, invece, in cui siano emersi successivamente alla stessa, perché nascosti o, comunque, taciuti in mala fede dal fornitore. Se, dunque, il primo caso in questione, dev'essere assimilato a quello della mancanza consegna, con la conseguenza, quindi, che il concedente – alla luce e nel rispetto del principio di buona fede – ha il dovere di sospendere il pagamento del prezzo in favore del fornitore, nel secondo caso, l'utilizzatore avrà – come premesso – azione diretta verso il fornitore, al fine di eliminare i vizi o sostituire la cosa. Tuttavia, in ogni caso, l'utilizzatore potrà agire contro il fornitore per il risarcimento dei danni, compresa la restituzione della somma corrispondente ai canoni già precedentemente pagati al concedente. GMC
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Inserito in data 09/10/2015 TAR ABRUZZO - L'AQUILA, SEZ. I, 8 ottobre 2015, n. 678 Sul diritto di accesso in materia ambientale: normative a confronto Con la pronuncia in epigrafe, i giudici di merito intervengono in merito al tema dell'accesso in materia ambientale ex art. 3 del d.lgs. n. 195/2005, differenziandolo dalla disciplina dettata dall'art. 22 del d.lgs. 241/1990. Invero, l'art. 3 del d.lgs. n. 195/2005 – con cui è stata data attuazione alla direttiva n. 2003/4/Ce sull'accesso del pubblico all'informazione ambientale – ha introdotto una fattispecie speciale di accesso in materia ambientale, che si caratterizza, rispetto a quella generale prevista nella l. n. 241/1990, per due peculiarità: l'estensione del novero dei soggetti legittimati all'accesso e il contenuto delle cognizioni accessibili. Esaminando il primo profilo ivi considerato, l'art. 3 del d.lgs. n. 195/2003, chiarisce che le informazioni ambientali spettano a chiunque le richieda, senza necessità (in deroga alla disciplina generale sull'accesso ai documenti amministrativi) di dimostrare un suo particolare e qualificato interesse. Analizzando il secondo punto, invece, la medesima disposizione estende il contenuto delle notizie accessibili alle "informazioni ambientali" – le quali implicano anche un'attività elaborativa da parte dell'amministrazione debitrice delle comunicazioni richieste – garantendo, in tal modo, al richiedente, una tutela più ampia di quella garantita dall'art. 22, l. n. 241/1990, di fatto circoscritta ai soli documenti amministrativi formati e nella disponibilità dell'amministrazione. Oltre a ciò, è bene chiarire, che le informazioni cui fa riferimento la normativa de qua, concernono esclusivamente lo stato dell'ambiente (aria, sottosuolo, siti naturali etc.) ed i fattori che possono incidere sull'ambiente (sostanze, energie, rumore, radiazioni, emissioni), sulla salute e sulla sicurezza umana, con esclusione, dunque, di tutti i fatti ed i documenti che non possiedono un “rilievo ambientale”. Da quanto chiarito emerge, quindi, che l'accesso alle informazioni ambientali è del tutto svincolato da motivazioni precise e dalla dimostrazione dell'interesse del singolo, poiché l'informazione ambientale consente, a “chiunque ne faccia richiesta”, di accedere ad atti o provvedimenti che possano incidere sull'ambiente - quale bene giuridico protetto dall'ordinamento - con l'unico limite delle richieste "estremamente generiche". GMC
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Inserito in data 08/10/2015 TAR SARDEGNA - CAGLIARI, SEZ. II, 2 ottobre 2015, n. 1057 “Fascia costiera” e vincoli paesaggistici
La II Sezione del T.A.R. Sardegna è intervenuta in ordine ai motivi aggiunti al ricorso proposto da una società di idrocarburi con cui era stato richiesto l’annullamento della determinazione regionale che aveva dichiarato l’improcedibilità dell’istanza di valutazione d’impatto ambientale (c.d. V.I.A.) per la realizzazione di un pozzo esplorativo finalizzato alla ricerca di idrocarburi solidi e liquidi nel sottosuolo di alcuni comuni della provincia di Oristano.
Nello specifico, l’attività di ricerca si era concentrata in un’area adiacente ad un sito di importanza comunitaria (S.I.C.) e rientrante altresì nella c.d. “fascia costiera” delimitata dal P.P.R., quest’ultima sottoposta a vincoli di tutela paesaggistica ai sensi dell’art. 143 del d.lgs. n. 42 del 22.01.2004 e degli artt. 17-20 delle NTA del PPR che, tuttavia, vi consentono, in via eccezionale, la realizzazione delle sole opere edilizie di cui al comma 1, dell’art. 12, e delle c.d. “infrastrutture puntuali (..)”. Nella pronuncia in esame, il Collegio ha osservato, in via generale, come seppur la sussistenza di vincoli paesaggistici, di norma, non valga ad esaurire la valutazione di impatto ambientale - rispetto alla quale costituisce solo un “parametro di riferimento” – il principio perda tuttavia efficacia qualora il regime di tutela del paesaggio sia assolutamente inderogabile e la realizzabilità dell’intervento non sia quindi neppure minimamente prospettabile. Punto di partenza – ha affermato la II Sez. T.A.R. – è, quindi, accertare se, nel caso di specie, ricorrano o meno i presupposti di applicabilità delle disposizioni “assolutamente preclusive” dettate dal PPR per la c.d. “fascia costiera”, ovvero se l’intervento in oggetto sia riconducibile ad una delle due categorie derogatorie all’immodificabilità dei vincoli paesaggistici previste dall’art. 20 delle NTA del PPR. Il Collegio ha escluso in radice la possibilità di ricondurre l’intervento in questione all’ipotesi prevista dal 1° co., lett. a) dell’art. 12, a sua volta richiamato dal 1° co. dell’art. 20, il quale ammette la realizzazione nella c.d. fascia costiera dei “volumi tecnici di modesta entità, strettamente funzionali alle opere e tali da non alterare lo stato dei luoghi”. Ed invero, l’opera di perforazione, per le sue intrinseche caratteristiche e materiali proporzioni – da valutare con riferimento non soltanto alla fase esplorativa ma anche a quella estrattiva – non potrebbe che comportare un’alterazione ictu oculi del sito, non compatibile con il concetto di “volume tecnico” di modesta entità cui fa riferimento la disposizione normativa. A ben vedere, il progetto di perforazione esplorativa – ha altresì precisato il Collegio - non risulta neppure riconducibile alla categoria derogatoria di cui al 2° comma dell’art. 20, n. 3, lett. b) che consente invece la realizzazione, in tutta la fascia costiera, di “infrastrutture puntuali o di rete, purché previste nei piani settoriali, preventivamente adeguati al P.P.R.”. E ciò in quanto l’attività energetica di ricerca di idrocarburi nel sottosuolo - oltre a comportare una rilevante alterazione del territorio – costituisce attività tipicamente mineraria, funzionale al rinvenimento di materie prime da utilizzare in separato ciclo produttivo, come tale non ascrivibile al novero delle “infrastrutture”, bensì a quello degli “insediamenti produttivi”, quindi riconducibile ad una tipologia di interventi ontologicamente e funzionalmente diversa dalle “infrastrutture”. Pertanto, accertata l’assoluta irrealizzabilità dell’intervento per vincolatività assoluta dei limiti paesaggistici della “fascia costiera”, il TAR Sardegna, con la pronuncia in esame, ha respinto i motivi aggiunti al ricorso proposto dalla società di idrocarburi, per l’effetto censurando gli ulteriori gravami. MB |
Inserito in data 08/10/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 2 ottobre 2015, n. 4620 Omessa dichiarazione ex art. 37 – 8’ c. DLgs. n. 163/06 comporta esclusione dalla gara Con la pronuncia in epigrafe, i Giudici di Palazzo Spada hanno confermato la sentenza, resa dal TAR Lazio–Roma, concernente la legittima esclusione dalla prosecuzione della gara della concorrente mandataria in costituendo R.T.I., stante la mancata allegazione della dichiarazione, ex art. 37, comma 8, D.LGS. n. 163/2006, attestante l’impegno delle imprese mandanti, in caso di aggiudicazione, a conferire mandato collettivo speciale con rappresentanza al soggetto designato quale mandatario. In particolare, il Collegio, confermando tutto quanto già affermato dal T.A.R. nella pronuncia appellata, ribadisce come l’omessa dichiarazione non possa essere “sanata” dal ricorso, da parte della stazione appaltante, al principio del c.d. soccorso istruttorio di cui al 1° co. dell’art. 46, D.LGS. n. 163/2006 - che consente l’integrazione e la specificazione della documentazione incompleta - in quanto la predetta dichiarazione non costituisce affatto una mera formalità la cui carenza sia ex post emendabile. Al contrario – conclude il Collegio - proprio la natura negoziale della dichiarazione – idonea, in caso di raggruppamento costituendo, a perfezionare in capo alle imprese mandanti il vincolo negoziale nei confronti della mandataria - fa sì che trovi applicazione il comma 1-bis del medesimo articolo, il quale, per l’appunto, commina l’esclusione dell’offerta del concorrente nell’ipotesi in cui la stazione appaltante abbia – come avvenuto nel caso di specie - rilevato il mancato adempimento alle prescrizioni previste dal Codice, dal Regolamento di attuazione e dalle altre disposizioni vigenti. MB
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Inserito in data 07/10/2015 CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA - QUINTA SEZIONE, SENTENZA 6 ottobre 2015, C - 61/14 Diritto ad un ricorso effettivo e tassazione per l’accesso alla giustizia La Corte di Lussemburgo, pronunciandosi sul rinvio pregiudiziale proposto ai sensi dell’art. 276 T.f.U.e. dal Tribunale regionale di giustizia amministrativa di Trento, ha affrontato l’importante questione interpretativa della compatibilità della legislazione italiana in materia di tassazione per l’accesso alla giustizia amministrativa nell’ambito degli appalti pubblici con l’ordinamento europeo, e segnatamente con l’art. 1 della Direttiva 89/665/CEE del Consiglio (come modificata dalla Direttiva 2007/66/CE del Parlamento europeo e del Consiglio), nonché con i principî di equivalenza ed effettività. La Direttiva 89/665 citata coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori. Essa trova applicazione con riferimento agli appalti di cui alla Direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio (relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizî), e sempre che tali appalti non siano esclusi, ai sensi degli artt. 10-18 della Direttiva stessa. Gli Stati membri devono garantire l’accessibilità a un ricorso efficace, e l’assenza di discriminazioni in ordine al trattamento delle situazioni giuridiche prodotte dall’ordinamento europeo, rispetto a quelle prodotte dall’ordinamento nazionale. Nell’ambito dei processi amministrativi, il regime italiano di tassazione degli atti giudiziarî, fondato sul pagamento di un contributo unificato, viene stabilito indipendentemente dal valore della controversia, e non è pertanto proporzionale a quest’ultimo (art. 13, comma 6 bis, D.P.R. n. 115/2002). In materia di appalti pubblici, il contributo è più elevato, e tuttavia quantificato in ragione di tre diversi indici di rilevanza economica del contratto. Ulteriori addizionali prevede il Decreto stesso relativamente a circostanze specifiche. Il valore della causa corrisponde non al margine di utile che si può trarre dall’esecuzione del contratto, bensì all’importo posto a base d’asta dell’appalto stesso. Il contributo unificato è versato non solo all’atto del deposito del ricorso introduttivo del giudizio, ma anche per il ricorso incidentale e i motivi aggiunti che introducono domande nuove. In una questione concernente gli oneri per l’accesso alla giustizia amministrativa, il ricorrente sollevava anche la questione di legittimità costituzionale del citato art. 13, comma 6 bis. Il giudice amministrativo, ritenendo sussistente la propria competenza, e non quella del giudice tributario, e considerando il potenziale effetto dissuasivo della tassazione in ordine all’accesso alla tutela giurisdizionale, rimette alla Corte di giustizia la seguente questione: “Se i principî fissati dalla Direttiva 89/665 (…) ostino ad una normativa nazionale (…) che [ha] stabilito elevati importi di contributo unificato per l’accesso alla giustizia amministrativa in materia di contratti pubblici”. In particolare, osserva il giudice del rinvio, “la normativa nazionale oggetto del procedimento principale limita il diritto di agire in giudizio, incide sull’effettività del controllo giurisdizionale, discrimina gli operatori che possiedono una debole capacità finanziaria (omissis) e li pone in una situazione svantaggiosa rispetto a coloro che, nell’ambito delle proprie attività, adiscono i giudici civili e commerciali”. Lo stesso giudice rileva come il costo dell’esercizio della giustizia amministrativa in materia di appalti pubblici non giustifichi un tanto più elevato onere finanziario a carico del ricorrente. La Corte conferma, ancora una volta, il principio di autonomia processuale degli Stati membri, consistente in un potere discrezionale di scelta delle garanzie procedurali e delle relative formalità. Salvo, naturalmente, il rispetto dei principî di equivalenza (o non discriminazione) e di effettività. L’indagine ermeneutica dei Giudici di Lussemburgo muove in due direzioni: ci si sofferma, da un lato, sull’importo del contributo unificato da versare per la proposizione di un ricorso in procedimenti giurisdizionali amministrativi in materia di appalti pubblici, e dall’altro, sull’ipotesi di cumulo di tali contributi versati nel contesto di una stessa procedura. Con riferimento al primo profilo, quanto al diritto a un ricorso effettivo, emerge che gli importi fissi di contributo unificato “non sono tali da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione in materia di appalti pubblici”. Inoltre, relativamente all’applicazione del contributo unificato a svantaggio degli operatori economici che possiedono una debole capacità finanziaria, occorre rilevare che il “sistema non crea una discriminazione tra gli operatori che esercitano nel medesimo settore di attività”. Si consideri anche che le disposizioni delle direttive in materia d’appalti pubblici, stabiliscono ai fini della partecipazione di un’impresa ad una gara il possesso di opportuni requisiti di capacità economica e finanziaria. Quanto al principio di equivalenza, la previsione di un contributo considerevolmente più elevato, per le procedure di aggiudicazione di appalti pubblici, non consente di ravvisare, rispetto alle altre controversie amministrative e ai procedimenti civili, una violazione del precetto europeo. Questo impone, infatti, la parità di trattamento “tra i ricorsi fondati su una violazione del diritto nazionale” e “quelli, simili, fondati su una violazione del diritto dell’Unione, e non l’equivalenza delle norme processuali nazionali applicabili a contenziosi di diversa natura”. Con riferimento al secondo profilo, concernente il cumulo dei contributi versati nel contesto di una medesima procedura giurisdizionale, il giudice del rinvio rileva che “solo l’introduzione di atti procedurali autonomi rispetto al ricorso introduttivo del giudizio e intesi ad estendere considerevolmente l’oggetto della controversia dà luogo al pagamento di tributi supplementari”. La Corte ritiene che la previsione in esame non contrasti con l’ordinamento dell’Unione, e che la ratio legis tende al “buon funzionamento del sistema”, costituendo “una fonte di finanziamento dell’attività giurisdizionale degli Stati membri” dissuadendo “l’introduzione di domande che siano manifestamente infondate” o meramente dilatorie. La Corte precisa ulteriormente che: “Tali obiettivi possono giustificare un’applicazione multipla di tributi giudiziari (omissis) solo se gli oggetti dei ricorsi o dei motivi aggiunti sono effettivamente distinti e costituiscono un ampliamento considerevole dell’oggetto della controversia già pendente”. Ove così non fosse, l’obbligo aggiuntivo si porrebbe in contrasto con le garanzie di accessibilità al ricorso. La Corte di giustizia conclude, pertanto, che: “L’articolo 1 della Direttiva 89/665 nonché i principî di equivalenza e di effettività devono essere interpretati nel senso che essi non ostano a una normativa nazionale che impone il versamento di tributi giudiziarî, come il contributo unificato oggetto del procedimento principale, all’atto di proposizione di un ricorso in materia di appalti pubblici dinanzi ai giudici amministrativi”; ed inoltre, le stesse disposizioni “non ostano né alla riscossione di tributi giudiziarî multipli nei confronti di un amministrato che introduca diversi ricorsi giurisdizionali relativi alla medesima aggiudicazione di appalti pubblici né a che tale amministrato sia obbligato a versare tributi giudiziarî aggiuntivi per poter dedurre motivi aggiunti relativi alla medesima aggiudicazione di appalti pubblici, nel contesto di un procedimento giurisdizionale in corso. Tuttavia, nell’ipotesi di contestazione di una parte interessata, spetta al giudice nazionale esaminare gli oggetti dei ricorsi presentati da un amministrato o dei motivi dedotti dal medesimo nel contesto di uno stesso procedimento. Il giudice nazionale, se accerta che tali oggetti non sono effettivamente distinti o non costituiscono un ampliamento considerevole dell’oggetto della controversia già pendente, è tenuto a dispensare l’amministrato dall’obbligo di pagamento di tributi giudiziari cumulativi”. FM
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Inserito in data 07/10/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 2 ottobre 2015, n. 4617 Indicazione sintetica dei requisiti morali ex art. 38, let. c), Codice appalti Con la sentenza in epigrafe i Giudici di Palazzo Spada, rigettano il motivo di doglianza concernente l’asserita violazione e falsa applicazione dell’art. 38, comma primo, lettera e) (rectius, c), del D.lgs. n. 163/2006, nel caso di una dichiarazione “espressa con formula sintetica ed omnicomprensiva”. Nella fattispecie sub iudice l’impresa aggiudicataria attestava l’assenza, in capo ad essa, “di qualsiasi reato grave che incida sulla moralità e sulla capacità professionale”, senza ulteriormente specificare. Il ricorrente, successivamente appellante, lamentava la “incompletezza” della dichiarazione. Le motivazioni del Collegio giudicante pongono innanzitutto l’accento su una considerazione di “carattere logico-linguistico”, di evidenza icastica, fondata sul detto proverbiale secondo il quale “nel più sta il meno”: l’espressione adoperata dal dichiarante contiene in sé, implicitamente, anche l’affermazione della mancanza di condanne, passate in giudicato, per le tassative fattispecie di reato che comportano l’automatica esclusione del partecipante alla gara. Il Consiglio di Stato rileva, inoltre, che anche a prescindere da tali deduzioni, nella fattispecie concreta, una formulazione omnicomprensiva della dichiarazione in parola era comunque consentita dallo stesso disciplinare di gara, essendo sufficiente “una pericope attestante la inesistenza di tutte le cause di esclusione previste dalla norma”. La sentenza si sofferma anche sulla questione dell’asserita invalidità o inefficacia delle dichiarazioni rese dai soggetti che hanno ceduto all’aggiudicataria rami della propria azienda, ritenendo che non costituisca “alcun reale intralcio all’aggiudicazione”. In altro giudizio attinente al contratto di cessione d’azienda, l’Adunanza plenaria, in considerazione dalla “non univocità della normativa (ingenerante incertezza in ordine alla sussistenza dell’obbligo a carico dei suddetti ‘soggetti cedenti’)”, aveva ritenuto che “finanche la totale omissione della dichiarazione (condotta più grave di quella dedotta in giudizio, consistente nell’aver formulato la dichiarazione in maniera asseritamente troppo generica) non giustifica l’esclusione dalla gara”. In tali circostanze “l’esclusione va disposta non già per il fatto (puramente formale) della mera omissione della dichiarazione, ma solamente in ragione ed a cagione dell’acclarata assenza (fatto rilevante e dirimente in quanto sostanziale) dei requisiti di moralità” (Adunanza plenaria 16 ottobre 2013, n. 23). Il Consiglio di Stato uniforma dunque il proprio canone ermeneutico a un criterio di giustizia sostanziale, che la sentenza ora in esame ritiene di poter estendere a tutte le fattispecie: non appare “giusto né equo che un soggetto che possa dimostrare - eventualmente anche mediante strumenti procedimentali di c.d. ‘soccorso istruttorio’ - di avere tutti i prescritti requisiti morali (oltre agli altri richiesti dal bando), e che abbia inteso dichiarare in buona fede di esserne in possesso, sia escluso da una procedura concorsuale per il solo e semplice fatto di aver errato nella esposizione delle sue affermazioni al riguardo (o per il semplice fatto di essersi discostato dalla pedissequa e formale riproduzione del modello di dichiarazione prescritto nel bando)”. “Ovvero - ciò che è peggio - che venga escluso dalla gara (lo si ribadisce: non ostante il possesso di tutti i requisiti) per il solo e semplice fatto di aver reso una dichiarazione che pur se sostanzialmente ‘omnicomprensiva’ delle informazioni richieste dalla PA, sia stata espressa in forma sintetica (ma - si badi - non per questo linguisticamente e sintatticamente meno completa) anziché in forma analitica”. FM
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Inserito in data 06/10/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 1 ottobre 2015, n. 4585 Violazione del termine di “stand still” e declaratoria di inefficacia del contratto Il Consiglio di Stato, nella sentenza indicata, ha ripercorso il substrato normativo e giurisprudenziale in materia di annullamento giudiziale dell’aggiudicazione di una pubblica gara e di mantenimento o meno dell’efficacia del contratto nel frattempo stipulato. In particolare, la società appellante - classificatasi prima nella graduatoria relativa alla procedura di gara ma esclusa a causa della mancata indicazione nella propria offerta degli oneri per la sicurezza – si doleva del fatto che, nonostante fosse intervenuta sentenza di annullamento della sua precedente esclusione, la stazione appaltante avesse proceduto alla stipula del contratto con altra società in violazione del termine di cui all’art. 11, comma 10 d.lgs. 163/2006 (cd. termine di stand still). Essa pretendeva, inoltre, la declaratoria di inefficacia del contratto e il suo automatico subentro nel medesimo senza però impugnare la sentenza di primo grado nella parte in cui non effettuava alcuna statuizione in ordine all’annullamento dell’impugnata aggiudicazione definitiva. In primo luogo – afferma il Collegio - tale impugnazione costituisce “il presupposto che legittima il potere del giudice di dichiarare l’inefficacia del contratto” ed è tale che non può essere esaminato d’ufficio dal giudice d’appello. In secondo luogo – continua il Consiglio - “l’annullamento dell’esclusione della società appellante non determina l’automatica aggiudicazione della gara in favore di quest’ultima, ma impone piuttosto all’amministrazione di rinnovare il procedimento di verifica della congruità dell’offerta, a nulla rilevando che lo stesso fosse stato già precedentemente espletato con esito favorevole, trattandosi evidentemente di una fase procedimentale travolta e resa inutilizzabile dal successivo accertamento della mancata indicazione degli oneri di sicurezza, fase di cui in ogni caso solo l’amministrazione con apposita e nuova dichiarazione di volontà (provvedimentale) può far rivivere, confermandola ai fini della legittima individuazione della ditta definitivamente aggiudicataria della fornitura” (tanto più che non risulta mai pronunciata nei confronti dell’appellante la definitiva aggiudicazione dell’appalto in questione). Infine, i Giudici di Palazzo Spada, respingendo l’appello, escludono che la sola violazione del termine di stand still possa legittimare la declaratoria di inefficacia del contratto in quanto l’art. 121, comma 1 lett c) c.p.a. subordina tale declaratoria, non solo, all’accertamento che la violazione di quel termine abbia impedito all’interessato di avvalersi dei mezzi di ricorso prima della stipulazione del contratto, ma soprattutto, al fatto che tale violazione, aggiungendosi a vizi propri dell’aggiudicazione definitiva, abbia influito sulle possibilità del ricorrente di ottenere l’affidamento. Entrambe le circostanze – afferma il Consiglio - non ricorrono nel caso di specie: la prima in quanto “la stipulazione del contratto era avvenuta in esecuzione del provvedimento giurisdizionale di primo grado, non sospeso, che aveva ritenuto legittima l’esclusione dell’interessata dalla gara”; la seconda in quanto “nessun vizio proprio dell’aggiudicazione definitiva era stato fatto valere se non quello della violazione della clausola di stand still, mentre il mancato affidamento dell’appalto era stato determinato dall’esclusione della gara, che per effetto della sentenza di primo grado, non sospesa, risultava essere legittimo al momento dell’aggiudicazione definitiva disposta in favore della controinteressata”. SS
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Inserito in data 06/10/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 1 ottobre 2015, n. 4604 Sulla conversione delle azioni cumulativamente proposte nello stesso giudizio Il Consiglio di Stato, adito in funzione di Giudice dell’ottemperanza, respingeva il ricorso dopo avere effettuato un’ampia disamina di ciò che costituisce violazione e di ciò che costituisce elusione del giudicato non ritenendone sussistenti i presupposti né dell’una né dell’altra. Conseguentemente, si occupava della subordinata istanza di conversione dell’azione formulata dalla ricorrente avendo quest’ultima optato per l’attribuzione al Consiglio di Stato, nella medesima impugnativa, di un’azione di ottemperanza e di una di legittimità. Fermo restando che ciò è ammesso ex art. 32 c.p.a. – afferma il Collegio – “il giudice adito è chiamato innanzitutto a qualificare le domande prospettate, distinguendo quelle attinenti propriamente all’ottemperanza da quelle che invece hanno a che fare con il prosieguo dell’azione amministrativa che non impinge nel giudicato, traendone le necessarie conseguenze quanto al rito ed ai poteri decisori”. In particolare, deve precisarsi che la ‘conversione del rito’ prevista dal citato art. 32 presuppone evidentemente che il giudice adito sia competente su entrambe le azioni in quanto essa si sostanzia nella cancellazione del ricorso per ottemperanza dal ruolo degli affari in camera di consiglio e nella contestuale fissazione dell’udienza pubblica per giudizio di merito della domanda di impugnazione, al fine di osservare le forme tassativamente previste dall’art. 87 c.p.a. per le diverse tipologie di azioni esperibili davanti al giudice amministrativo. Conclude il Consiglio - e con ciò dichiara la propria incompetenza – che, nel caso di specie, “la possibilità di emanare un simile provvedimento di carattere ordinatorio è impedito dall’assenza di un presupposto processuale quale la competenza”, pacificamente non sussistente in capo a questo Consiglio di Stato in relazione all’ordinaria domanda di annullamento svolta in via subordinata dalla ricorrente, e “non derogabile al di fuori dei casi tassativamente previsti dall’art. 13, comma 4-bis c.p.a., tra i quali non rientra in tutta evidenza quello del cumulo dell’azione di ottemperanza con quello di cognizione”. SS
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Inserito in data 05/10/2015 TAR CAMPANIA - NAPOLI, SEZ. I, 23 settembre 2015, n. 4595 Lesione dei diritti del medico da parte delle USL: la giurisdizione è del G.O. Con la pronuncia in esame, la Sezione I del T.A.R. Campania interviene su una questione estremamente delicata, concernente i confini, talvolta controversi, tra giurisdizione amministrativa e giurisdizione ordinaria in materia di rapporti di lavoro, alla luce dell’intervenuto fenomeno di privatizzazione del rapporto di pubblico impiego. La vicenda de qua trae origine dal ricorso proposto da un medico operante come pediatra di libera scelta e specialista ambulatoriale in regime di convenzionamento con il S.S.R., con il quale sono stati impugnati - sulla base del presunto contrasto dell'accordo integrativo regionale con quello nazionale - il D.C.A. del 29/5/2015 per la prosecuzione del piano di rientro del settore sanitario della Regione Campania, nonché la nota n. 590/PR1149 del 10/07/2015 con cui la stessa Regione Campania aveva imposto, in conformità al nuovo massimale previsto per il cumulo di attività, la riduzione del numero di assistiti. I Giudici Campani hanno dichiarato l’inammissibilità, per difetto di giurisdizione amministrativa, del ricorso proposto dal medico, affermando che l’oggetto della controversia rientra, per le ragioni presto chiarite, nella cognizione del giudice civile, in funzione di giudice del lavoro. In particolare, richiamando l’orientamento espresso in materia dalla più autorevole giurisprudenza del Consiglio di Stato e della Corte Cassazione, i Giudici Campani hanno ricordato come seppur i rapporti tra medici operanti in regime di convenzionamento e le U.S.L. siano costituiti e regolamentati in funzione del primario soddisfacimento di un interesse tipicamente istituzionale - la salute pubblica, per l’appunto - essi “corrispondono a rapporti libero-professionali "parasubordinati" che si svolgono su un piano di parità, non esercitando l'ente pubblico, nei confronti del medico convenzionato alcun potere autoritativo, all'infuori di quello di sorveglianza, né potendo incidere unilateralmente, limitandole o degradandole ad interessi legittimi, sulle posizioni di diritto soggettivo nascenti, per il professionista, dal rapporto di lavoro autonomo”. L’effetto immediato di questa impostazione è rappresentato dal fatto che le controversie aventi ad oggetto la presunta compromissione, da parte dell’ente pubblico, delle posizioni giuridiche soggettive del professionista operante in regime di convenzionamento – come quella, nel caso di specie, denunciata dal pediatra a seguito della riduzione del massimale degli assistiti in caso di cumulo di attività – incidendo su rapporti di natura sostanzialmente paritetica, libero-professionale tra le parti, sono integralmente riconducibili alla cognizione del giudice ordinario, non essendo ammessa, per esse, alcuna deroga in favore della giurisdizione del giudice amministrativo, neppure quando il medico abbia censurato “quale mezzo al fine della tutela dei diritti scaturenti dal detto rapporto, l'illegittimità di atti regolamentari o provvedimenti emessi dalla p.a”. In considerazione di ciò, il T.A.R. Campania, pronunciandosi sul ricorso proposto, ne ha quindi, correttamente, dichiarato l’inammissibilità per difetto di giurisdizione amministrativa in favore del giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro. MB
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Inserito in data 05/10/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL'ADUNANZA PLENARIA, 29 settembre 2015, n. 4540 DURC negativo e concetto di definitività dell’accertamento Con l’ordinanza in esame, il Collegio della Sezione IV è chiamato a pronunciarsi in ordine alla riforma di una sentenza del TAR Lazio - relativa all’affidamento del servizio luce e dei servizi connessi per le pubbliche amministrazioni - con la quale era stata confermata l’esclusione dalla gara dell’impresa appellante, stante: i) la non veridicità dell’attestazione resa dal l.r. in ordine ai requisiti di moralità professionale posseduti dal preposto alla gestione tecnica di una società consorziata alla società offerente; ii) la risultanza negativa dei documenti unici di regolarità contributiva (DURC) rilasciati ad alcune delle imprese consorziate della partecipante. I Giudici di primo grado avevano, infatti, respinto il ricorso proposto dell’impresa esclusa dalla gara, affermando che il concetto di violazione definitivamente accertata “nell'ambito delle gare pubbliche dev’essere esaminato alla data di scadenza del termine di presentazione dell'offerta”. Il Collegio, prima di entrare nel cuore del dibattito, effettua un breve excursus normativo per delimitare i confini della questione e ricorda che, a mente dell’art. 38, comma 1, lettera i) del codice dei contratti pubblici, «sono esclusi dalla partecipazione alle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti di lavori, forniture e servizi, (…), e non possono stipulare i relativi contratti i soggetti: i) che hanno commesso violazioni gravi, definitivamente accertate, alle norme in materia di contributi previdenziali e assistenziali, secondo la legislazione italiana o dello Stato in cui sono stabiliti»; richiama poi il D.M. del 24 ottobre 2007 che definisce le infrazioni ostative al rilascio del DURC e che, all’art. 7, comma 3, prevede l’obbligo per gli Enti, in caso di mancanza dei requisiti di regolarità contributiva - prima che venga rilasciato un DURC negativo - di invitare “l’interessato a regolarizzare la propria posizione entro un termine non superiore a quindici giorni”. Quindi, i Giudici del gravame si soffermano sulla spinosa questione relativa all’ipotesi in cui la dichiarazione sostitutiva resa dall’impresa partecipante alla gara, sulla base di un DURC in corso di validità, si sia poi rivelata in contrasto con le risultanze negative del DURC richiesto dalla stazione appaltante in sede di controllo e, con riferimento a tale aspetto, hanno notato come sul tema sia, da tempo, in atto un contrasto esegetico fra le Sezioni, che richiede l’intervento chiarificatore dell’Adunanza Plenaria, alla quale, con l’ordinanza de qua, essi hanno per l’appunto rimesso la questione. Si condividono il campo – precisa il Collegio - due contrapposti orientamenti: il primo, più risalente nel tempo ma maggiormente consolidato, secondo il quale, ai fini dell’accertamento del “requisito, oggetto di dichiarazioni sostitutive degli offerenti, debba aversi riguardo al DURC richiesto dalla stazione appaltante in sede di controllo, con riferimento, all’esatta data della domanda di partecipazione, con conseguente insufficienza, ai fini della prova, di eventuali DURC in possesso degli offerenti ed ancora in corso di validità” e sempre secondo il quale, il cd. preavviso di DURC negativo non si applica quando il DURC sia richiesto dalla stazione appaltante, con la conseguenza che l’eventuale regolarizzazione postuma non sarebbe comunque idonea a rimuovere l’irregolarità alla data della presentazione dell’offerta. Secondo un più recente ma meno diffuso orientamento, al contrario, “l’obbligo degli Istituti previdenziali di invitare l’interessato alla regolarizzazione sussiste anche ove la richiesta sia fatta in sede di verifica dalla stazione appaltante”. La questione sembrerebbe, per il futuro, superata alla luce dall’entrata in vigore del Decreto Ministeriale 30.01.2015, rubricato «Semplificazioni in materia di Documento Unico di Regolarità Contributiva», a mente del quale, la nozione di “definitivo accertamento” sarebbe subordinato all’invito, da parte dell’Ente di previdenza, rivolto al contribuente, di provvedere a regolarizzare la propria posizione previdenziale e fiscale, anche quando l’interrogazione sia compiuta dalla stazione appaltante in funzione di controllo. Tuttavia, il problema persiste ed è tutt’altro che superato con riguardo al periodo antecedente all’entrata in vigore del D.M. Nell’ordinanza in esame, i Giudici rimettenti sembrerebbero aderire all’orientamento secondo il quale l’obbligo del previo avviso di regolarizzazione debba ritenersi sussistente anche nell’ipotesi in cui la richiesta provenga dalla stazione appaltante, in quanto, in difetto, si finirebbe con il violare il principio - costituzionalmente garantito - di affidamento dei privati, finendo, per questa via, per attribuirsi carattere di “definitività” ad una violazione contributiva mai previamente comunicata al contribuente. Pertanto, alla luce delle considerazioni svolte, il Collegio, al fine di sciogliere i nodi interpretativi che hanno alimentato il dibattito esegetico, ha rimesso la questione all'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, frattanto sospendendo, in via cautelare, la provvisoria efficacia della sentenza gravata, nonché la successiva stipula del contratto. MB
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Inserito in data 02/10/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 1 ottobre 2015, n. 4594 Giurisdizioni a confronto: G.A. e Tribunale Superiore Acque Pubbliche
I Giudici di Palazzo Spada, con la pronuncia de qua, intervengono in merito alla giurisdizione del g.a., chiarendo che la stessa prevalga su quella del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche (TSAP), in tutte quelle controversie concernenti atti “solo strumentalmente” inseriti in procedimenti finalizzati ad incidere sul regime delle acque pubbliche. Urge sottolineare che, onde evitare la probabile insorgenza di dubbi, tale nozione, è stata chiarita dalla giurisprudenza delle magistrature superiori e, in particolare, delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione e del Consiglio di Stato. In particolare, l'ambito della giurisdizione del TSAP, è stato individuato in relazione a tutti i provvedimenti aventi “incidenza diretta e immediata” di tali atti sul regime delle acque pubbliche, inteso come regolamentazione del loro decorso e della loro utilizzazione. La V Sezione del Consiglio di Stato, ha, inoltre, specificamente chiarito che la giurisdizione del TSAP ha ad oggetto i provvedimenti che, pur se promananti da autorità diverse da quelle specificamente preposte alla tutela delle acque, siano caratterizzati dall'incidenza diretta sulla materia delle acque pubbliche e concorrano, in concreto, a disciplinare “la realizzazione, la localizzazione, la gestione e l'esercizio delle opere idrauliche, ivi compresi pure i provvedimenti espropriativi o di occupazione d'urgenza delle aree occorrenti per la realizzazione dell'opera idraulica, oltre agli atti comunque influenti sulla sua localizzazione sul suo spostamento.” A ben vedere, dunque, restano, invece, sottratte alla giurisdizione del TSAP, tutte quelle controversie nelle quali i provvedimenti impugnati incidono sulla materia e sul regime delle acque pubbliche in via – come premesso – meramente strumentale ed indiretta. Nello stesso senso, alla luce di quanto anticipato, è la giurisprudenza della Suprema Corte, che utilizza lo stesso criterio esegetico dell'immediata incidenza dell'atto sull'utilizzo delle acque. Si consideri, a tal proposito, Cass, Sez. Un., 25 ottobre 2013, n. 24154, che ha ritenuto sussistente la giurisdizione del TSAP nel caso di impugnazione dell'atto di approvazione, da parte della P.A., con deliberazione contenente anche la dichiarazione di pubblica utilità ai fini ablatori, di un progetto per la realizzazione di un serbatoio di accumulo di acque pubbliche. Alla luce di quanto mostrato, appare pacifico sottolineare che la giurisdizione del g.a. prevalga, su quella del TSAP, in quelle controversie concernenti atti “solo strumentalmente inseriti in procedimenti finalizzati ad incidere sul regime delle acque pubbliche, in cui rileva esclusivamente l'interesse al rispetto delle norme di legge nelle procedure amministrative volte all'affidamento di concessioni o di appalti di opere relative a tali acque”. GMC
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Inserito in data 02/10/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 28 settembre 2015, n. 4510 Sulla natura di una società affidataria in house del servizio pubblico
Il Consiglio di Stato, con la sentenza in epigrafe, si occupa degli indici che devono sussistere per stabilire la natura pubblica o privata di una società affidataria in house del servizio pubblico.
Alla luce di quanto disposto con tale sentenza, al fine di stabilire la natura pubblica o privata di una società – affidataria in house del servizio pubblico svolto in precedenza dal Consorzio dei Comuni – si deve aver riguardo al “regime giuridico che conforma l'attività degli organi societari, gli atti adottati e, per quel che qui più rileva nel caso di specie, il rapporto di impiego con i dipendenti”. Dunque, valutando preliminarmente tali indici, la società rientra nel genus delle società di diritto privato, come, peraltro, già pacificamente mostrato dal fatto che il rapporto d'impiego, intrattenuto col ricorrente de quo, non è soggetto alle regole di cui al d.lgs. 165 del 2001, bensì interamente assoggettato al diritto del lavoro privato. Valutando quanto chiarito, ne consegue che è infondata la censura che lamenta “l'errata valutazione” della Commissione concernente un bando di concorso pubblico, per soli titoli, per la copertura del posto di segretario generale dell'autorità di bacino Regionale, che ha esattamente ascritto la società, presso la quale il ricorrente ha svolto l'attività lavorativa de qua, tra le strutture private di cui trattasi. GMC |
Inserito in data 01/10/2015 TAR LOMBARDIA - MILANO, SEZ. III, 29 settembre 2015, n. 2037 Trascrizione unioni same sex nei registri stato civile: giurisdizione e validità La pronuncia dei Giudici lombardi è particolarmente significativa, giacchè interviene in un ambito, quale quello relativo ai profili di validità dei matrimoni tra soggetti omosessuali ed ai connessi risvolti in punto di riparto di giurisdizione, di estrema attualità. Nel caso in esame, il Collegio è chiamato a valutare la legittimità di un Decreto prefettizio di annullamento della trascrizione – sui registri di stato civile – di un’unione contratta in Francia tra i ricorrenti, appartenenti allo stesso sesso, effettuata dal Sindaco del Comune italiano di residenza degli stessi. La pronuncia si snoda in due parti, intervenendo riguardo ai profili di giurisdizione e, in seguito, sul merito. In primo luogo il Collegio declina la giurisdizione amministrativa rispetto ai ricorrenti originari. Questi, infatti, in quanto persone fisiche, non possono veder degradati o compressi i propri diritti per il tramite di un provvedimento amministrativo – quale quello contestato. Si ricorda, infatti, l’assoluta carenza di potere del Prefetto il quale non ha alcun potere di integrazione o rettifica in un ambito, invero, in cui il Legislatore riconosce potere di intervento esclusivo all’Autorità giurisdizionale ordinaria – unico Giudice naturale dei diritti. Infatti, ricordano i Giudici, dall’esame dell’ordinamento dello stato civile – da considerare quale ordinamento settoriale, in sé completo (cfr. art. 2, commi 12 e 14, della legge n. 127 del 1997) – emerge che non è possibile effettuare annotazioni sugli atti già registrati se non per disposto legislativo o per ordine dell’autorità giudiziaria (art. 453 c.c.) e che, in seguito alla chiusura della registrazione, tramite la firma dell’ufficiale dello stato civile, non è possibile effettuare alcuna variazione di quanto registrato (art. 12, comma 6, del D.P.R. n. 396 del 2000). Pertanto, l’atto prefettizio qui impugnato è stato emesso in assoluta carenza di potere e, richiamando il disposto di cui all’articolo 21-septies della legge n. 241 del 1990 che classifica come nullo tale tipo di atto, è conseguente ed immediata la devoluzione delle relative controversie al giudice ordinario (Cfr. Consiglio di Stato, VI, 27 gennaio 2012, n. 372; T.A.R. Calabria, Reggio Calabria, 11 febbraio 2015, n. 142). Quindi, rispetto ai ricorrenti iniziali il ricorso è dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione del G.A. ed i Giudici dichiarano necessaria la prosecuzione dinanzi all’A.G.O. – ex articolo 11, 2’ co. C.p.A. Il Collegio è di differente avviso, invece, in merito alla posizione giuridica paventata dall’Amministrazione comunale che, intervenuta con motivi aggiunti, contesta del pari l’atto prefettizio di annullamento della trascrizione. Il Sindaco, infatti, nella qualità di Ufficiale di stato civile, è incaricato di provvedere alla corretta gestione dei registri e, come tale, esplica una potestà di tipo pubblicistica. Così inquadrato, egli risponde del proprio operato rispetto ad altri soggetti pubblici e, in un contrasto di competenze quale quella oggi esaminata, non può che profilarsi la giurisdizione amministrativa, in assenza della quale potrebbe configurarsi un vuoto di tutela contrastante con il disposto di cui all’art. 113 Cost. (Cfr. T.A.R. Abruzzo, L’Aquila, I, 3 dicembre 2014, n. 860). Pertanto, confermando in tal caso la giurisdizione originariamente adita, il Consesso lombardo interviene sul merito. Esso accoglie la doglianza del Sindaco e dell’Ente tutto, atteso che in materia di stato delle persone non può ammettersi un intervento atipico dell’Autorità amministrativa, ma attribuire la sua definitiva conformazione solo ad un organo indipendente.
Tanto non ricorreva nel caso di specie e, pertanto, va annullato l’intervento prefettizio teso all’annullamento della trascrizione del matrimonio contratto dai ricorrenti. CC
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Inserito in data 30/09/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 30 settembre 2015, n. 4582 Sull’inquadramento della nozione di controinteressato in materia edilizia I Giudici di Palazzo Spada confermano la pronuncia resa dal Collegio di primo grado. In particolare, intervenendo riguardo ad un’impugnazione di un annullamento in autotutela di permesso di costruire in sanatoria, essi ricordano e chiariscono la nozione di controinteressato, con particolare riguardo alla materia edilizia. In primo luogo, il Collegio ricorda che la qualifica di controinteressato in senso processuale richiede un requisito formale, dato dall’indicazione del nominativo nel provvedimento amministrativo, ed un requisito sostanziale, costituito dalla“sussistenza di un interesse favorevole al mantenimento della situazione attuale definita dal provvedimento stesso”. Entrando nel caso in oggetto e richiamando anche giurisprudenza pregressa, il Collegio ricorda che il vicino assume la veste di controinteressato quando – come nella vicenda all’esame - l'adozione del provvedimento sanzionatorio, recante comunque il nominativo del controinteressato, sia stata “non solo sollecitata da un esposto del vicino medesimo, ma anche preceduta da atto prodromico (comunicazione di avvio di procedimento, a’ sensi dell’art. 7 e ss. della L. 7 agosto 1990 n. 241) parimenti comunicante il nominativo del controinteressato predetto, dovendosi comunque distinguere tra la posizione di colui che è titolare di un generico interesse a mantenere efficace il provvedimento impugnato e la posizione di colui che dal provvedimento medesimo viceversa riceve un vantaggio diretto e immediato (nel caso di specie, il ripristino delle distanze d’obbligo tra il proprio edificio e quello dell’attuale appellante), con la conseguente individuazione della posizione obbligatoriamente inclusa nel contraddittorio sia procedimentale che processuale”. (Cons. Stato, sez. VI, n. 3553/2015, Cons. St., sez. VI, 29 maggio 2012, n. 3212) Tanto non è accaduto nella vicenda odierna in cui il ricorrente, non avendo provveduto a notificare il proprio ricorso al vicino – autore dell’esposto a suo carico – ha inciso sulla relativa efficacia, procurandone l’inammissibilità - ex articolo 41, comma 2, del C.p.A. Una simile posizione, già assunta dai Giudici territoriali, viene confermata in sede di gravame, ove si riconosce posizione di controinteressato al soggetto/vicino confinante, dietro il cui impulso si è avviato l’annullamento in autotutela da parte dell’Amministrazione interessata. In considerazione di ciò, è respinto l’appello e confermata la pronuncia del Tar Lazio. CC
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Inserito in data 29/09/2015 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 28 settembre 2015, n. 4512 Sull’esclusione dalle gare d’appalto per negligenza nei precedenti contratti L’art. 38 del d.lgs. 163/2006 disciplina le cause di esclusione dalla partecipazione alle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti di lavori, forniture e servizi, nonché di subappalti e dalla stipula dei relativi contratti prevedendo tra queste, alla lett. f), l’esclusione di quei soggetti che, “secondo motivata valutazione della stazione appaltante, hanno commesso grave negligenza o malafede nell'esecuzione delle prestazioni affidate dalla stazione appaltante che bandisce la gara; o che hanno commesso un errore grave nell'esercizio della loro attività professionale, accertato con qualsiasi mezzo di prova da parte della stazione appaltante”. Sulla base del dettato normativo appena indicato è stato presentato ricorso avverso il provvedimento di affidamento in concessione del servizio di gestione dei parcheggi di proprietà comunale, nonché di pulizia delle spiagge e di salvamento dei bagnanti, adducendo come motivazione la mancata o erronea valutazione del comportamento dell’impresa mandataria nel precedente rapporto contrattuale (caratterizzato da una negligenza tale da comportare la risoluzione del contratto da parte dell’amministrazione). In particolar modo, a parere dell’appellante, il contratto di affidamento prevedeva la responsabilità solidale del raggruppamento nei confronti dell’amministrazione concedente e non già, come ritenuto con la sentenza impugnata, la divisione dell’obbligazione e la responsabilità parziaria in capo a ciascuna delle società in cui si componeva il raggruppamento di tipo verticale. Il Consiglio di Stato, peraltro, richiamando l’indirizzo giurisprudenziale formatosi sul significato ermeneutico dell’art. 38, comma 1, lett. f) d.lgs. n. 163/2006 sopra citato, che rimette all’amministrazione la dichiarazione della sussistenza della suddetta causa ostativa a seguito di una valutazione discrezionale del comportamento censurato, rileva come il sindacato di legittimità sulla scelta dell’amministrazione procedente debba mantenersi entro i margini della verifica della manifesta illogicità ed irrazionalità dell’opzione attinta (C.d.S. 5063/ 14). Nel merito il Supremo Consesso ha dichiarato l’infondatezza del ricorso attesa l’assenza dei vizi sopra indicati facendo così proprie le osservazioni mosse dalla convenuta. Più precisamente, nel valutare i profili di responsabilità della contro interessata si deve tenere in debita considerazione la particolare struttura dell’ATI verticale e la conseguente <<dicotomia fra il regime di responsabilità gravante sulla mandataria, che è ad un tempo personale per le prestazioni proprie e solidale per assunte dalle imprese raggruppate, e la responsabilità invece incombente sulla impresa mandante, circoscritta all’esecuzione delle prestazioni assunte in proprio>> (C.d.S. 6614/12), nonché la natura della responsabilità di cui all’art. 38 citato. La norma in questione, invero, <<non fa affatto riferimento alla nozione civilistica di responsabilità da inadempimento di cui all’art. 1218 c.c. […] dove l’affermazione della responsabilità civile per inadempimento dell’obbligazione è sganciata dal giudizio sulla (imputabilità a) colpa del debitore, che rileva nel solo ambito della valutazione della causa di esonero dalla responsabilità per impossibilità sopravvenuta della prestazione>>. Di contro, invece, l’art. 38, comma 1, lett. f) <<incentra il compito demandato alla stazione appaltante nella valutazione “della grave negligenza o mala fede nell’esecuzione delle prestazioni affidate” all’impresa partecipante alla procedura di gara>> a prescindere dall’inadempimento o inesattezza della prestazione ex art. 1218 c.c. VA
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Inserito in data 29/09/2015 CORTE DI CASSAZIONE - QUINTA SEZIONE PENALE, SENTENZA 24 settembre 2015, n. 38914 Dissenso del paziente e scriminanti putative La Suprema Corte, con la sentenza in commento, ha confermato la responsabilità penale di un infermiere per aver costretto un paziente a subire l’applicazione di un catetere vescicale nonostante l’espresso dissenso da quest’ultimo manifestato. Il Collegio, infatti, ha ritenuto che il comportamento censurato configuri una violazione dei principi sanciti dalla nostra Costituzione ed in particolare dall’art. 32 ai sensi del quale nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario, se non per disposizione di legge. La norma in questione, tuttavia, deve essere correlata all’art. 33 della l. 833/78 che fa salvi i presupposti di necessità ed urgenza di cui all’art. 54 c.p.. La Corte di Cassazione, tuttavia, ha affermato che nel caso di specie non possono trovare applicazione gli artt. 51 e 54 c.p., neppure a livello putativo. Con riferimento all’art. 54 c.p., l’imputato, infatti, aveva ancorato la ritenuta sussistenza del requisito della necessità esclusivamente ad un criterio soggettivo, senza alcun riferimento a fatti concreti che avrebbero potuto indurlo ad una erronea valutazione, la scriminante prevista dall’art. 51 c.p., invece, non potrebbe trovare applicazione in caso di un esplicito dissenso validamente espresso. Il Collegio, pertanto, ha correttamente ritenuto che <<non potendo equipararsi la situazione dell'assenza di consenso al trattamento terapeutico al rifiuto espresso dal paziente, la presenza di quest'ultimo avrebbe dovuto far desistere l'imputato dall' apporre il catetere, sicché l'aver provveduto a tale trattamento, ricorrendo a violenza fisica (…), per vincere la resistenza della p.o., integra le ipotesi di reato all'imputato attribuite. VA
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Inserito in data 28/09/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI - 24 settembre 2015, n. 4485 Il riparto di giurisdizione in materia di graduatorie ad esaurimento (GAE) La sesta Sezione del Consiglio di Stato, in accoglimento dell’appello proposto, ha messo fine al conflitto di giurisdizione fra giudice amministrativo e giudice ordinario in materia di GAE. Così facendo ha, inoltre, fornito un’interpretazione delle sentenze delle SS.UU. n. 3031/2011 e dell’Ad.Pl. n. 11/2011 che si erano pronunciate al riguardo e su cui si era basata la sentenza di primo grado. In particolare, il Tar Lazio aveva ritenuto sussistere la giurisdizione del giudice amministrativo solo con riferimento alla parte del ricorso in cui la ricorrente si doleva della legittimità della regolamentazione delle GAE (in particolare, del D.M. n.235/2014), mentre aveva ritenuto rientrante nella giurisdizione del giudice ordinario la parte relativa all’accertamento del diritto al collocamento in graduatoria della ricorrente e alla possibilità di modificare le GAE. Afferma il Collegio che il procedimento di adozione e pubblicazione delle GAE “va colto nella sua unitarietà, costituita da fasi predeterminate e tra di esse connesse e articolate in funzione dell'emanazione di un provvedimento finale, fasi che si realizzano in successione di tempo, una dopo l'altra, come è avvenuto nella specie, laddove la conclusione si è realizzata con la pubblicazione della graduatoria definitiva avvenuta a seguito di una valutazione discrezionale dell' interesse legittimo in capo alla ricorrente all'inclusione nelle GAE”. Dunque, confermando il proprio precedente orientamento, il C.d.S. precisa che, una volta dichiarata la illegittimità della regolamentazione della graduatoria, lo stesso giudice amministrativo avrà anche il potere di dichiarare l’illegittimità della GAE definitiva nella parte in cui non ha ricompreso la ricorrente e conseguentemente ammettere definitivamente la stessa nella suddetta graduatoria. “In altri e conclusivi termini, la stretta correlazione tra le domande azionate non consente una ripartizione della potestas iudicandi tra il giudice ordinario e quello amministrativo, essendo concentrata dinanzi a quest’ultimo la tutela invocata da parte ricorrente”. SS
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Inserito in data 28/09/2015 CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA PER LA REGIONE SICILIANA - 25 settembre 2015, n. 618 Può una legge regionale prevedere la nullità dell’atto amministrativo? Il C.G.A.R.S., in riforma della sentenza di primo grado che aveva dichiarato la nullità di un bando di gara per violazione dell’art. 2 della l.r. Sicilia n. 15/2008 in materia di tracciabilità dei flussi finanziari, si è pronunciato sulla questione riguardante la possibilità che una legge regionale sancisca la nullità dell’atto amministrativo. La soluzione della questione dipende – dice il C.G.A. – da come venga interpretata la lettera l) dell’art. 117 della Costituzione nella parte in cui riserva al legislatore statale la materia “giustizia amministrativa”, se cioè essa “si riferisca esclusivamente alle norme processuali o se essa presenti un significato più ampio che va oltre le norme processuali estendendosi a tutte quelle disposizioni che contribuiscono a delineare il complessivo livello di giustizia nel settore amministrativo”. Seguendo la prima opzione – continua il Consiglio – si avrà che “le regioni sarebbero autorizzate non solo a dettare le norme sostanziali ma anche ad individuare il regime di validità dell’atto con evidenti riflessi sull’attività del giudice statale e con pregiudizio per lo standard unitario di tutela che ci deve essere nell’intero territorio nazionale”. Ragionando diversamente, invece, “sarà escluso che le regioni nelle materie di loro competenza possano dettare, oltre alle norme sostanziali, anche quelle afferenti al regime di validità dell’atto amministrativo perché si realizzerebbe un’indebita invasione di campo”. In totale riforma del proprio precedente orientamento nel quale aveva optato per la nullità del bando non conforme alla legge regionale e per la rilevabilità d’ufficio dell’invalidità disciplinata dagli artt. 21 septies l. 241/1990 e 31, comma 4, c.p.a ed in conformità all’accoglimento da parte della Consulta della q.l.c. da lui stesso formulata in ordine al citato art. 2 l.r. 15/2008, il Consiglio ha dichiarato, per un verso, la caducazione ex tunc della legge regionale, e, per altro verso, la riconducibilità della materia della tracciabilità dei flussi finanziari alla disciplina statale che non contempla la nullità del bando; conseguentemente ha affermato che il bando di gara non è nullo e nel caso di specie deve considerarsi pienamente valido. SS |
Inserito in data 25/09/2015 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 23 settembre 2015, n. 4456 Basi normative e ratio dell’esigenza di determinatezza del contratto di avvalimento I Giudici di Palazzo Spada ci ricordano che l’oggetto del contratto di avvalimento deve essere puntualmente individuato, indicando non solo il requisito prestato, bensì le specifiche risorse materiali (mezzi, personale…) e immateriali (prassi…) messe a disposizione da parte dell’impresa ausiliaria. L’esigenza che l’oggetto del contratto de quo sia determinato o determinabile discende, innanzitutto, dal combinato disposto dell’art. 49 del Codice dei contratti pubblici e degli artt. 1346 e 1418 c.c.; sul piano teleologico, tale esigenza si ricollega al rilievo che l’avvalimento, traducendosi in una deroga al principio del possesso dei requisiti di partecipazione da parte del concorrente, altrimenti consentirebbe l’agevole aggiramento del sistema dei requisiti di partecipazione alle gare pubbliche. TM
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Inserito in data 24/09/2015 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL'ADUNANZA PLENARIA 21 settembre 2015, n. 4374 La giurisdizione del G.A. in tema di sostegno scolastico è piena? Rinvio ad AP
Con l’ordinanza in esame, il Collegio ha chiesto all’Adunanza Plenaria di “valutare se, in tema di sostegno scolastico, la giurisdizione del giudice amministrativo possa ritenersi piena, o, come avviene in linea di principio per altri settori (come quello dei contratti ad evidenza pubblica), limitata alla fase procedurale che si completa con la formazione del P.E.I., con devoluzione al giudice ordinario delle controversie riferite alla successiva fase esecutiva del Piano stesso”.
Invero, sul punto sono recentemente intervenute le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sentenza n. 25011/14), modificando il loro precedente costante indirizzo. Ad avviso delle Sezioni Unite, il riparto di giurisdizione andrebbe delineato attraverso il riferimento al Piano educativo individualizzato (P.E.I.), indicante il numero di ore di sostegno necessarie per il singolo allievo disabile: dopo la formazione del P.E.I., non residuerebbe alcun margine di apprezzamento discrezionale per l’Amministrazione - autorizzata ad assumere insegnanti di sostegno anche in deroga ai rapporti numerici prefissati - con conseguente giurisdizione del giudice ordinario. Diversamente, per il Giudice rimettente, il giudice amministrativo dovrebbe conoscere non solo delle controversie precedenti all’adozione del P.E.I., ma anche di quelle susseguenti a tale momento. In tal senso si evidenzia come tutte le controversie in esame potrebbero rientrare nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, in quanto riconducibili alla fattispecie di cui all’art. 133, c. 1, c.p.a. (“controversie in materia di pubblici servizi […] relative a provvedimenti adottati dalla pubblica amministrazione o dal gestore di un pubblico servizio in un procedimento amministrativo”). Secondariamente, si rammenta che da tempo la giurisprudenza (Cfr. Corte cost. 140/07) ammette la configurabilità di interessi legittimi anche in rapporto ad atti vincolati, ovvero la coesistenza di provvedimenti autoritativi e diritti soggettivi perfetti (nella specie, tra il provvedimento che determina la concreta erogazione del servizio e il diritto al sostegno scolastico del disabile contemplato nel P.E.I.). Inoltre, la Sesta Sezione sottolinea come le più frequenti censure investano la formazione e non l’esecuzione del piano, vale a dire profili rispetto ai quali il giudice amministrativo presenta una maggiore specializzazione. Da ultimo, il Collegio adduce i principi di semplificazione e concentrazione delle competenze giudiziarie in settori unitari, stante l’esistenza nella procedura in esame di una stretta interdipendenza tra momento valutativo e momento vincolato. TM |
Inserito in data 23/09/2015 TAR PUGLIA - LECCE, SEZ. III, 17 settembre 2015, n. 2816 Sulla proroga di un termine in materia di gare pubbliche Il TAR Lecce, con la pronuncia de qua, interviene in merito al tema della proroga dei termini in materia di gare pubbliche. I giudici di merito specificano, invero, che la proroga in questione possa essere accordata solamente “in pendenza” del termine stesso, e non già successivamente alla scadenza di quest'ultimo. È bene specificare, infatti, che, per principio generale – valevole a fortiori in materia di pubbliche gare a tutela della par condicio dei concorrenti medesimi – la proroga di un termine, definito, altresì, “perentorio” dalla stessa lex specialis, può esser accordata, come premesso, solamente in pendenza del termine in parola. Nel caso de quo, la Società in questione, a sostegno della impugnativa interposta, deduce, essenzialmente, “l'illegittimità della disposta proroga dei termini per la presentazione delle offerte, in quanto assunta a termine ormai scaduto (non essendo configurabile la proroga di un termine – peraltro perentorio, come previsto dal bando stesso – ormai spirato)”. Oltre a ciò, e riprendendo quanto chiarito in tale sede dai giudici di merito, “lamenta, inoltre, comunque, la pretestuosità delle giustificazioni poste a base della (prima) proroga […]” e “deduce, infine, la violazione della par condicio, in quanto la predetta proroga consentirebbe ad imprese “terze” di presentare domanda oltre il termine perentorio fissato inizialmente dal bando”. Alla luce della disposta “revoca”, il Collegio, come emerge dalla sentenza ivi trattata, dichiara tale ricorso improcedibile per cessazione della materia del contendere, pur non mancando di evidenziare (ai fini, come specificato, della “soccombenza virtuale”), la fondatezza delle censure proposte, in quanto: “1) per principio generale, la proroga di un termine può essere accordata soltanto in pendenza del termine stesso [...]”. GMC
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Inserito in data 22/09/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 7 settembre 2015, n. 4139 Inquadramento dipendenti già in servizio e principio della priorità concorso pubblico
Il Collegio della Quinta Sezione, censurando l’operato del TAR calabrese, conferma ancora una volta il principio del concorso pubblico quale mezzo ordinario di accesso al pubblico impiego.
Nel caso in esame, i Giudici intervengono riguardo ad un ricorso presentato da un dipendente dell’Amministrazione resistente il quale lamentava il proprio mancato inserimento nelle dotazioni organiche degli uffici regionali e postulava, frattanto, l’espletamento di regolare procedura concorsuale in vista di tale nuovo assetto. A fronte della decisione di primo grado, con cui si statuiva la carente legittimazione del ricorrente e la necessità di procedere esclusivamente per mezzo di reclutamento interno, i Giudici di Palazzo Spada ne riconoscono, invece, la fondatezza. Essi sostengono, infatti, richiamando giurisprudenza costituzionale ed amministrativa ormai salda, che il concorso pubblico costituisce la modalità ordinaria di accesso nei ruoli delle pubbliche amministrazioni, in coerenza con i principi costituzioni di uguaglianza (art. 3) ed i canoni di imparzialità e di buon andamento (art. 97) e che pertanto i concorsi interni sono da considerare come eccezione al principio dell’ammissione in servizio per il tramite del pubblico concorso. In tal senso anche la facoltà del Legislatore di introdurre deroghe al predetto principio deve essere delimitata in senso rigoroso, potendo tali deroghe considerarsi legittime soltanto allorquando siano funzionali al buon andamento dell’amministrazione e ricorrano altresì peculiari e straordinarie esigenze di interesse pubblico idonee a giustificarle. (Cfr. Corte Costituzionale sentenze n. 227 del 2013, n. 90 e n. 62 del 2012, n. 310 e n. 299 del 2011) Pertanto, con maggiore attenzione al caso di specie, posta la carente motivazione dei Decreti dirigenziali con cui era stato disposto il ricorso ad una procedura interamente riservata per la copertura di posti vacanti, i Giudici del gravame ne statuiscono l’illegittimità. Si tratta, infatti, di una deroga al principio del necessario concorso pubblico per l’accesso a posti di pubblico impiego che non è sorretta da alcuna ragione di pubblico interesse, né finalizzata ad un rafforzamento di nessuna organizzazione interna. E’ prioritario, semmai, insistono i Giudici del gravame, conferire alla selezione per il tramite del concorso pubblico, “…un ambito di applicazione ampio, tale da non includere soltanto le ipotesi di assunzione di soggetti precedentemente estranei alle pubbliche amministrazioni, ma anche i casi di nuovo inquadramento di dipendenti già in servizio e quelli di trasformazione di rapporti non di ruolo, e non istaurati ab origine mediante concorso, in rapporti di ruolo” (Cfr. Corte Cost. 12 aprile 2012, n. 90). Ciò, insiste il Collegio, implica che la valutazione delle necessità eccezionali, tali da escludere il ricorso alle procedure ordinarie, può essere giustificata solo in collegamento con altre esigenze di pari rango costituzionale (come ha sottolineato Cons. St., sez. IV, 25 giugno 2013, n. 3438). Tanto non ricorre nel caso in esame, in cui non si è ravvisata motivazione alcuna, tale da sovvertire la priorità del concorso pubblico – valutato quale unico criterio selettivo, trasparente e meritocratico, tanto da estenderne l’applicazione anche nelle ipotesi di progressioni verticali – quale quella oggi in esame. Le doglianze del candidato escluso, pertanto, vengono accolte e, per l’effetto, nel ricordare la priorità della selezione pubblica, si dispone la riforma della pronuncia di primo grado. CC |
Inserito in data 21/09/2015 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL'ADUNANZA PLENARIA - 18 settembre 2015, n. 4352 Competenza a sanzionare pratiche commerciali scorrette, dopo il DLgs 21/14: rinvio ad AP Com’è noto, l’Adunanza plenaria (sentenze nn. 11-16 2012) aveva individuato nel principio di specialità il criterio di riparto di competenza tra l’AGCM e le altre Autorità, in merito all’adozione di provvedimenti sanzionatori di pratiche commerciali scorrette. Segnatamente, la disciplina generale doveva trovare applicazione nei casi in cui quella speciale presentasse lacune di tutela e non fosse esaustiva, in modo da garantire un minimo essenziale di tutela; altrimenti, in base al principio di specialità, la disciplina generale (e la competenza dell’AGCM) avrebbe dovuto recedere rispetto ad una norma speciale che offrisse una maggior tutela. Sul punto è intervenuto l’art. 1, c. 6, lett. a, D.lgs. n. 21/14, che ha aggiunto il comma 1bis all’art. 27 del Codice del consumo; la nuova disposizione prevede che “Anche nei settori regolati, ai sensi dell'articolo 19, comma 3, la competenza ad intervenire nei confronti delle condotte dei professionisti che integrano una pratica commerciale scorretta, fermo restando il rispetto della regolazione vigente, spetta, in via esclusiva, all'Autorità garante della concorrenza e del mercato, che la esercita in base ai poteri di cui al presente articolo, acquisito il parere dell'Autorità di regolazione competente. Resta ferma la competenza delle Autorità di regolazione ad esercitare i propri poteri nelle ipotesi di violazione della regolazione che non integrino gli estremi di una pratica commerciale scorretta. Le Autorità possono disciplinare con protocolli di intesa gli aspetti applicativi e procedimentali della reciproca collaborazione, nel quadro delle rispettive competenze”. Con l’ordinanza in esame, la Sesta sezione del Consiglio di Stato si interroga su come tale nuova disposizione abbia inciso sul riparto di competenza tra AGCM e le altre Autorità in tema di pratiche commerciali scorrette e, temendo l’insorgere di un contrasto giurisprudenziale sul punto, rimette all’Adunanza plenaria ex art. 99 CPA la soluzione dei seguenti quesiti: a) “se l’articolo 27, comma 1-bis, del Codice del consumo, sia da interpretarsi come norma attributiva di una competenza esclusiva ad AGCM in materia di pratiche commerciali scorrette, anche a fronte di condotte disciplinate da specifiche norme settoriali di derivazione europea (ritenute idonee a reprimere il comportamento sia con riguardo alla completezza ed esaustività della disciplina, sia con riguardo ai poteri sanzionatori, inibitori e conformativi attribuiti all’Autorità di regolazione)”; b) “in caso affermativo, se la circostanza che lo jus superveniens abbia attribuito ad AGCM la competenza all’esercizio del potere sanzionatorio in materia di pratiche commerciali scorrette comporti il venir meno dell’interesse alla decisione in ordine alla censura di incompetenza – formulata con riguardo alla sanzione adottata da tale Autorità nel precedente regime - anche nell’ipotesi in cui la nuova norma abbia aggravato il procedimento di irrogazione della sanzione con la previsione della necessaria acquisizione del parere dell’Autorità di regolazione”. TM
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Inserito in data 07/08/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 1 agosto 2015, n. 3778 Sale pubbliche da gioco: incompetenza sindacale ed eccesso di potere
Una S.p.A., concessionaria del servizio di gestione telematica del gioco, mediante slot machines e video-lotterie, impugnava avanti al TAR Campania un’ordinanza, che, nel disciplinare gli orari degli esercizi commerciali e di pubblici esercizi, aggiungeva all’elenco gli orari di apertura e chiusura delle sale pubbliche da gioco e, con successivi motivi aggiunti, l’ordinanza del 24 marzo 2011, integrativa della precedente, nella parte in cui il Sindaco di Salerno aveva “ridisciplinato, in senso più restrittivo, gli orari di apertura delle sale pubbliche da gioco e di scommesse, aggiungendo anche l’ulteriore limite degli orari di utilizzo dei video-giochi e slot-machine, posti all’interno di altri esercizi commerciali e pubblici esercizi, prescindendo dagli orari di apertura di questi ultimi”.
Il T.A.R. Campania respingeva il ricorso, riconoscendo la sussistenza di una competenza sindacale in ordine all’adozione dei provvedimenti impugnati ai sensi dell’art. 50, comma 7, del D.lgs. n. 267/2000. L’appellante ha, dunque, proposto appello avverso la suddetta sentenza, deducendo la violazione della riserva di legge in materia dei giochi, l’inapplicabilità degli artt. 50, comma 7, e 54, comma 4, del D.Lgs. n. 267/2000 nella fattispecie in esame, l’incompetenza del Comune e la competenza del Questore ai sensi dell’art. 88 TULPS in ordine ad attività svolte con concessionarie statali, la violazione dello stesso artt. 50, comma 7, del D.Lgs. n. 267/2000 sotto l’ulteriore profilo della carenza degli indirizzi da parte del consiglio comunale e della Regione, nonché l’eccesso di potere per carenza di motivazione, di proporzionalità e disparità di trattamento.
Oltre a quanto disposto, in ragione dell'esigenza di garantire un livello di tutela dei consumatori particolarmente elevato e di padroneggiare i rischi connessi a questo settore, la giurisprudenza europea ha ritenuto legittime restrizioni all'attività (anche contrattuale) di organizzazione e gestione dei giochi pubblici affidati in concessione, purché ispirate da motivi imperativi di interesse generale, quali sono certamente quelli evocati dall'art. 1, comma 77, della legge n. 220 del 2010 (contrasto della diffusione del gioco irregolare o illegale in Italia; tutela della sicurezza, dell'ordine pubblico e dei consumatori, specie minori d'età; lotta contro le infiltrazioni della criminalità organizzata nel settore), e a condizione che esse siano proporzionate (sentenza della Corte di giustizia dell'Unione europea, 30 giugno 2011, in causa C-212/08).
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Inserito in data 06/08/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 6 agosto 2015, n. 3867 Valutazione delle anomalie delle offerte e discrezionalità tecnica Il Collegio ha respinto i motivi di appello presentati avverso la sentenza confermativa della legittimità dell’aggiudicazione di un bando di gara. Il Consesso, infatti, con riferimento alle capacità tecnico-finanziarie dell’aggiudicataria, e più precisamente all’asserita mancanza della seconda referenza bancaria prevista dal disciplinare di gara, ha ribadito la preminente rilevanza del raggiungimento dello scopo di un atto ritenendo sufficientemente dimostrata l’assenza di anomalie di cassa e la solidità finanziaria dell’impresa anche attraverso una <<lettura interpretativa autentica>> della richiesta presentata dall’aggiudicataria alla banca. Parimenti infondato è stato considerato il secondo motivo inerente l’anomalia dell’offerta dovuta anche alla mancata contabilizzazione del canone di leasing. La Pubblica Amministrazione, infatti, in materia di valutazione delle anomalie delle offerte gode di discrezionalità tecnica. Ne consegue l’insindacabilità della suddetta valutazione da parte del giudice amministrativo,<<salva la necessità di una motivazione rigorosa ed analitica, e salva la regola per cui in sede di presentazione delle giustificazioni l’offerta economica deve comunque rimanere immodificabile, mentre possono essere invece modificate e integrate le giustificazioni, sino a consentire compensazioni fra sovrastime e sottostime, sempre nel quadro di un’offerta complessivamente coerente ed affidabile al momento dell’aggiudicazione>>. VA
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Inserito in data 05/08/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 4 agosto 2015, n. 3854 Responsabilità extracontrattuale della PA e nesso di causalità Ai fini dell’accertamento della sussistenza e della misura dell’obbligo risarcitorio ex art. 2043 cc occorre stabilire una relazione di causalità tra la condotta della PA ed il danno ingiusto. Occorre muovere dall’applicazione dei principi penalistici, di cui agli art. 40 e 41 cp, per cui un evento è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria della condicio sine qua non). Più precisamente, in conformità alla struttura bipolare dell’illecito extracontrattuale, bisogna accertare un duplice nesso causale: in primo luogo, quello tra condotta ed evento, nel senso di lesione di un interesse giuridicamente protetto (c.d. causalità materiale) e, in secondo luogo, quello tra evento e conseguenze dannose, sotto forma di pregiudizi (nel caso) di carattere patrimoniale (c.d. causalità giuridica). CDC
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Inserito in data 04/08/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V - 4 agosto 2015, n. 3485 Nel ricorso elettorale devono essere indicati in modo specifico i motivi, ma non le prove
In applicazione dei principi fissati dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (sentenza 20 novembre 2014, n.32), i Giudici di Palazzo Spada hanno affermato che l’onere di specifica indicazione dei motivi su cui si fonda il ricorso, previsto dall’art. 40, c. 1, lett. d), c.p.a., trova applicazione anche nelle impugnazioni elettorali; in tale contesto, il predetto onere s’intende osservato quando “l’atto introduttivo indichi la natura dei vizi denunziati, il numero delle schede contestate e le sezioni cui si riferiscono le medesime”. Per contro, nei giudizi elettorali, sono consentiti temperamenti in ordine al diverso ed ulteriore onere concernente l’offerta di mezzi di prova a sostegno di censure comunque ritualmente introdotte nell’atto introduttivo del giudizio. TM
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Inserito in data 03/08/2015 TAR CAMPANIA-NAPOLI, SEZ. IV, 29 luglio 2015, n. 4099 Sul combinato disposto di cui agli artt. 79 D. Lgs. 163/06 e 120 c. 5 C.P.A. La questione posta all’esame del Collegio è quella, più volte esaminata in giurisprudenza, del combinato – disposto degli artt. 79 co. 2 lett. c) d.lgs. 163/06 (le stazioni appaltanti inoltre comunicano …ad ogni offerente che abbia presentato un'offerta selezionabile, le caratteristiche e i vantaggi dell'offerta selezionata e il nome dell'offerente cui è stato aggiudicato il contratto o delle parti dell'accordo quadro) e 120 co. 5 c.p.a. (per l'impugnazione degli atti di cui al presente articolo il ricorso, principale o incidentale e i motivi aggiunti, anche avverso atti diversi da quelli già impugnati, devono essere proposti nel termine di trenta giorni, decorrente, per il ricorso principale e per i motivi aggiunti,dalla ricezione della comunicazione di cui all'articolo 79 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, o, per i bandi e gli avvisi con cui si indice una gara, autonomamente lesivi, dalla pubblicazione di cui all'articolo 66, comma 8, dello stesso decreto; ovvero, in ogni altro caso, dalla conoscenza dell'atto), “la cui compatibilità con le Direttive comunitarie e con il diritto di difesa in giudizio, garantito dalla Costituzione, è stata messa in discussione da vari tribunali amministrativi regionali nonché dal Consiglio di Stato, la cui Sesta Sezione aveva rimesso la questione all’Adunanza Plenaria” (sez. VI, ord. 11 febbraio 2013 n. 790). È noto che “quest’ultima, con la sentenza 14/2013, ha ritenuto di non doversi pronunciare in attesa della decisione della Corte di giustizia CE, cui nel frattempo era stata rimessa la questione dal Tar Puglia- Bari, con ordinanza 427/2013”. Sul punto, infatti, la Sez. V, 8 maggio 2014, causa C-161/13, ha precisato che “in base al diritto comunitario non può essere messo in discussione il diritto dell’offerente, al quale non è stato aggiudicato un appalto, di conoscere il risultato della procedura di aggiudicazione di tale appalto e dei motivi che ne sono alla base, e anche di chiedere informazioni dettagliate al riguardo” (art. 49, paragrafo 2, della direttiva 2004/17) (par. 34 sentenza). Tuttavia (par. 35) “il principio della certezza del diritto impone che le informazioni così ottenute e quelle che si sarebbero potute ottenere non possano più servire come fondamento per la proposizione di un ricorso da parte dell’offerente dopo la scadenza del termine previsto dal diritto nazionale.” Orbene, la Corte ha verificato “la compatibilità con il diritto dell’Unione dell’art. 120 co. 5 c.p.a., che fa decorrere il termine di impugnazione dell’aggiudicazione dalla sua comunicazione, con riferimento a due fattispecie distinte”: la prima, quando l’amministrazione aggiudicatrice “abbia adottato, dopo la scadenza del termine di ricorso, una decisione che possa incidere sulla legittimità di tale decisione di aggiudicazione”; la seconda quando l’aggiudicazione sia inficiata da “circostanze precedenti la medesima decisione di aggiudicazione” ma conosciute in un momento successivo. Invero, nel primo caso è consentito proporre un ricorso efficace “soltanto se i termini imposti dal diritto nazionale per proporlo comincino a decorrere dalla data in cui il ricorrente è venuto a conoscenza o avrebbe dovuto essere a conoscenza della pretesa violazione di dette disposizioni; pertanto, il termine per contestare l’aggiudicazione deve ricominciare a decorrere dal momento in cui il soggetto partecipante venga a conoscenza della nuova decisione afferente un elemento essenziale dell’aggiudicazione precedentemente intervenuta”. Con riguardo alla seconda ipotesi (aggiudicazione inficiata da circostanze precedenti la decisione ma conosciute in un momento successivo), invece, “un offerente è legittimato a proporre un ricorso di annullamento contro la decisione di aggiudicazione soltanto entro il termine specifico previsto a tal fine dal diritto nazionale, avendo il diritto di chiedere e pretendere dalla stazione appaltante informazioni dettagliate sui contenuti della gara”. Il diritto italiano, secondo la Corte, “è conforme, anzi, più completo di quello comunitario laddove prevede, all’art. 79 co. 5 e ss., un sistema informativo che impone, già all’atto della comunicazione della decisione, la trasmissione del provvedimento e della relativa motivazione contenente almeno gli elementi di cui al co. 2 lett. c) della medesima disposizione (le caratteristiche e i vantaggi dell’offerta selezionata e il nome dell’offerente cui è stato aggiudicato il contratto), salve le ragioni ostative alla diffusione di informazioni riservate e salva la possibilità di assolvere all’onere motivazionale tramite la trasmissione dei verbali di gara o il richiamo all’aggiudicazione definitiva già comunicata ove l’oggetto della informativa sia la data dell’avvenuta stipula del contratto (art. 79, co. 5-bis)”. Il comma 5-quater, poi, prevede “un accesso facilitato agli atti del procedimento, che deve essere garantito dall’ente aggiudicatore nei dieci giorni successivi la singola comunicazione”. Ciò detto, si ritiene che la circostanza che l’Amministrazione non abbia consentito l’accesso facilitato “nulla toglie al dato oggettivo che la comunicazione dell’aggiudicazione vi sia stata, con allegato il decreto di aggiudicazione contenente i requisiti di legge”. Tale comunicazione, anche per la Corte di Giustizia come per la giurisprudenza nazionale, “rappresenta dunque la condizione sufficiente per realizzare la piena conoscenza del provvedimento lesivo ed è idonea a far decorrere il termine decadenziale, a nulla rilevando che l’impresa concorrente ignori in tutto o in parte i documenti interni del procedimento, configurandosi a suo carico un onere di immediata impugnazione dell’esito della gara entro trenta giorni, salva la proposizione di motivi aggiunti in relazione ad eventuali vizi di legittimità divenuti conoscibili in un momento posteriore” (cfr., in questo senso, Cons. Stato, sez. III, 27 gennaio 2015 n. 380; id., 24 aprile 2012 n. 2407; Id., sez. V, 1 settembre 2011 n. 4895). D’altra parte, “diversamente opinando e attribuendo al successivo comportamento della stazione appaltante - in relazione al diritto di accesso – un ruolo troppo significativo, si rischierebbe l’utilizzo strumentale delle istanze di accesso al fine di procrastinare sine die il termine di impugnazione di ogni aggiudicazione”. Sulla questione è, altresì, chiara la posizione assunta dal Consiglio di Stato che, da ultimo, con la sentenza 20 gennaio 2015 n. 143, ha seguito il consolidato e maggioritario indirizzo giurisprudenziale secondo cui, “poiché il procedimento di scelta del privato contraente si conclude con l’aggiudicazione, relativamente alla quale il termine per proporre l’impugnazione decorre dalla conoscenza degli elementi essenziali di tale atto (quali la sua esistenza, l’autorità emanante, il contenuto dispositivo ed il suo effetto lesivo), non può assumere alcun rilievo la conoscenza sopravvenuta di nuovi vizi, la quale semmai può giustificare la proposizione di motivi aggiunti, ma non consente la riapertura dei termini per proporre l’impugnazione in via principale (cfr. ex plurimis Cons. Stato, sez. IV, 21 maggio 2004, n. 3298; id., sez. V, 2 aprile 1996, n. 381; id., 4 ottobre 1994, n. 1120; C.g.a.r.s., 20 aprile 1998, n. 261).” Non vi è dubbio, infatti, che l’art. 120 co. 5 c.p.a., letto in combinato disposto con l’art. 79 d.lgs. 163/06, presenti una evidente finalità acceleratoria, individuando “una presunzione legale di conoscenza alla data della comunicazione dell’aggiudicazione definitiva e la concentrazione della successiva fase dell’accesso in tempi e modalità tali da assicurare il rispetto del consequenziale termine di decadenza sicchè il riferimento fatto dal comma 5 dell’art. 120 c.p.a. alla possibilità di impugnativa in ogni altro caso, dalla conoscenza dell’atto deve intendersi come riferito esclusivamente all’ipotesi in cui gli avvisi di cui all’art. 79 siano stati omessi dalla stazione appaltante” (così ancora Cons. St., 143/2015, cit.). EF
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Inserito in data 03/08/2015 TAR CAMPANIA-NAPOLI, SEZ. IV, 29 luglio 2015, n. 4099 Sul combinato disposto di cui agli artt. 79 D. Lgs. 163/06 e 120 c. 5 C.P.A. La questione posta all’esame del Collegio è quella, più volte esaminata in giurisprudenza, del combinato – disposto degli artt. 79 co. 2 lett. c) d.lgs. 163/06 (le stazioni appaltanti inoltre comunicano …ad ogni offerente che abbia presentato un'offerta selezionabile, le caratteristiche e i vantaggi dell'offerta selezionata e il nome dell'offerente cui è stato aggiudicato il contratto o delle parti dell'accordo quadro) e 120 co. 5 c.p.a. (per l'impugnazione degli atti di cui al presente articolo il ricorso, principale o incidentale e i motivi aggiunti, anche avverso atti diversi da quelli già impugnati, devono essere proposti nel termine di trenta giorni, decorrente, per il ricorso principale e per i motivi aggiunti,dalla ricezione della comunicazione di cui all'articolo 79 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, o, per i bandi e gli avvisi con cui si indice una gara, autonomamente lesivi, dalla pubblicazione di cui all'articolo 66, comma 8, dello stesso decreto; ovvero, in ogni altro caso, dalla conoscenza dell'atto), “la cui compatibilità con le Direttive comunitarie e con il diritto di difesa in giudizio, garantito dalla Costituzione, è stata messa in discussione da vari tribunali amministrativi regionali nonché dal Consiglio di Stato, la cui Sesta Sezione aveva rimesso la questione all’Adunanza Plenaria” (sez. VI, ord. 11 febbraio 2013 n. 790). È noto che “quest’ultima, con la sentenza 14/2013, ha ritenuto di non doversi pronunciare in attesa della decisione della Corte di giustizia CE, cui nel frattempo era stata rimessa la questione dal Tar Puglia- Bari, con ordinanza 427/2013”. Sul punto, infatti, la Sez. V, 8 maggio 2014, causa C-161/13, ha precisato che “in base al diritto comunitario non può essere messo in discussione il diritto dell’offerente, al quale non è stato aggiudicato un appalto, di conoscere il risultato della procedura di aggiudicazione di tale appalto e dei motivi che ne sono alla base, e anche di chiedere informazioni dettagliate al riguardo” (art. 49, paragrafo 2, della direttiva 2004/17) (par. 34 sentenza). Tuttavia (par. 35) “il principio della certezza del diritto impone che le informazioni così ottenute e quelle che si sarebbero potute ottenere non possano più servire come fondamento per la proposizione di un ricorso da parte dell’offerente dopo la scadenza del termine previsto dal diritto nazionale.” Orbene, la Corte ha verificato “la compatibilità con il diritto dell’Unione dell’art. 120 co. 5 c.p.a., che fa decorrere il termine di impugnazione dell’aggiudicazione dalla sua comunicazione, con riferimento a due fattispecie distinte”: la prima, quando l’amministrazione aggiudicatrice “abbia adottato, dopo la scadenza del termine di ricorso, una decisione che possa incidere sulla legittimità di tale decisione di aggiudicazione”; la seconda quando l’aggiudicazione sia inficiata da “circostanze precedenti la medesima decisione di aggiudicazione” ma conosciute in un momento successivo. Invero, nel primo caso è consentito proporre un ricorso efficace “soltanto se i termini imposti dal diritto nazionale per proporlo comincino a decorrere dalla data in cui il ricorrente è venuto a conoscenza o avrebbe dovuto essere a conoscenza della pretesa violazione di dette disposizioni; pertanto, il termine per contestare l’aggiudicazione deve ricominciare a decorrere dal momento in cui il soggetto partecipante venga a conoscenza della nuova decisione afferente un elemento essenziale dell’aggiudicazione precedentemente intervenuta”. Con riguardo alla seconda ipotesi (aggiudicazione inficiata da circostanze precedenti la decisione ma conosciute in un momento successivo), invece, “un offerente è legittimato a proporre un ricorso di annullamento contro la decisione di aggiudicazione soltanto entro il termine specifico previsto a tal fine dal diritto nazionale, avendo il diritto di chiedere e pretendere dalla stazione appaltante informazioni dettagliate sui contenuti della gara”. Il diritto italiano, secondo la Corte, “è conforme, anzi, più completo di quello comunitario laddove prevede, all’art. 79 co. 5 e ss., un sistema informativo che impone, già all’atto della comunicazione della decisione, la trasmissione del provvedimento e della relativa motivazione contenente almeno gli elementi di cui al co. 2 lett. c) della medesima disposizione (le caratteristiche e i vantaggi dell’offerta selezionata e il nome dell’offerente cui è stato aggiudicato il contratto), salve le ragioni ostative alla diffusione di informazioni riservate e salva la possibilità di assolvere all’onere motivazionale tramite la trasmissione dei verbali di gara o il richiamo all’aggiudicazione definitiva già comunicata ove l’oggetto della informativa sia la data dell’avvenuta stipula del contratto (art. 79, co. 5-bis)”. Il comma 5-quater, poi, prevede “un accesso facilitato agli atti del procedimento, che deve essere garantito dall’ente aggiudicatore nei dieci giorni successivi la singola comunicazione”. Ciò detto, si ritiene che la circostanza che l’Amministrazione non abbia consentito l’accesso facilitato “nulla toglie al dato oggettivo che la comunicazione dell’aggiudicazione vi sia stata, con allegato il decreto di aggiudicazione contenente i requisiti di legge”. Tale comunicazione, anche per la Corte di Giustizia come per la giurisprudenza nazionale, “rappresenta dunque la condizione sufficiente per realizzare la piena conoscenza del provvedimento lesivo ed è idonea a far decorrere il termine decadenziale, a nulla rilevando che l’impresa concorrente ignori in tutto o in parte i documenti interni del procedimento, configurandosi a suo carico un onere di immediata impugnazione dell’esito della gara entro trenta giorni, salva la proposizione di motivi aggiunti in relazione ad eventuali vizi di legittimità divenuti conoscibili in un momento posteriore” (cfr., in questo senso, Cons. Stato, sez. III, 27 gennaio 2015 n. 380; id., 24 aprile 2012 n. 2407; Id., sez. V, 1 settembre 2011 n. 4895). D’altra parte, “diversamente opinando e attribuendo al successivo comportamento della stazione appaltante - in relazione al diritto di accesso – un ruolo troppo significativo, si rischierebbe l’utilizzo strumentale delle istanze di accesso al fine di procrastinare sine die il termine di impugnazione di ogni aggiudicazione”. Sulla questione è, altresì, chiara la posizione assunta dal Consiglio di Stato che, da ultimo, con la sentenza 20 gennaio 2015 n. 143, ha seguito il consolidato e maggioritario indirizzo giurisprudenziale secondo cui, “poiché il procedimento di scelta del privato contraente si conclude con l’aggiudicazione, relativamente alla quale il termine per proporre l’impugnazione decorre dalla conoscenza degli elementi essenziali di tale atto (quali la sua esistenza, l’autorità emanante, il contenuto dispositivo ed il suo effetto lesivo), non può assumere alcun rilievo la conoscenza sopravvenuta di nuovi vizi, la quale semmai può giustificare la proposizione di motivi aggiunti, ma non consente la riapertura dei termini per proporre l’impugnazione in via principale (cfr. ex plurimis Cons. Stato, sez. IV, 21 maggio 2004, n. 3298; id., sez. V, 2 aprile 1996, n. 381; id., 4 ottobre 1994, n. 1120; C.g.a.r.s., 20 aprile 1998, n. 261).” Non vi è dubbio, infatti, che l’art. 120 co. 5 c.p.a., letto in combinato disposto con l’art. 79 d.lgs. 163/06, presenti una evidente finalità acceleratoria, individuando “una presunzione legale di conoscenza alla data della comunicazione dell’aggiudicazione definitiva e la concentrazione della successiva fase dell’accesso in tempi e modalità tali da assicurare il rispetto del consequenziale termine di decadenza sicchè il riferimento fatto dal comma 5 dell’art. 120 c.p.a. alla possibilità di impugnativa in ogni altro caso, dalla conoscenza dell’atto deve intendersi come riferito esclusivamente all’ipotesi in cui gli avvisi di cui all’art. 79 siano stati omessi dalla stazione appaltante” (così ancora Cons. St., 143/2015, cit.). EF
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Inserito in data 30/07/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V - 30 luglio 2015, n. 3756 Il principio “chi inquina paga” impedisce di presumere la responsabilità del proprietario
Il Consiglio di Stato si sofferma su uno dei principi generali in materia di ambiente, il principio “chi inquina paga”, ora contenuto nell’art. 3-ter del Testo Unico dell’Ambiente.
Tale principio implica l’imputazione dei costi ambientali al soggetto che ha causato in tutto o in parte la compromissione ecologica, tramite un proprio comportamento commissivo od omissivo, legato all’inquinamento da un preciso nesso di causalità. In applicazione di tale principio, l’art. 244 del TUA impone di compiere le opportune indagini al fine di accertare il responsabile dell’evento di contaminazione ambientale in precedenza individuato. Correlativamente, gli artt. 242 c.1, 244 c. 2 e l’allegato 4 del TUA stabiliscono che, riscontrato un fenomeno di potenziale contaminazione di un sito, gli interventi di caratterizzazione, messa in sicurezza (d’emergenza o definitiva), di bonifica e di ripristino ambientale possono essere imposti dalla pubblica amministrazione solamente ai soggetti “responsabili dell’inquinamento”. Ne consegue che tali obblighi non gravano su altri possibili soggetti coinvolti o interessati dal fenomeno di inquinamento ambientale e, segnatamente, sul proprietario delle aree contaminate (salvo che quest’ultimo abbia a sua volta tenuto un comportamento colpevole, doloso o colposo). Pertanto, non essendo configurabile una sorta di responsabilità oggettiva facente capo al proprietario o al possessore dell’immobile in ragione di tale sola qualità, risulta necessario individuare il comportamento che ha generato la contaminazione e, di conseguenza, il responsabile dell’inquinamento; a tal fine occorre compiere una adeguata istruttoria, ricercando prove certe e inequivoche, non potendo l’accertamento basarsi su mere presunzioni. TM |
Inserito in data 29/07/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI - 28 LUGLIO 2015, n. 3743 Accesso alla documentazione relativa ad una procedura di amministrazione straordinaria Costituiscono documentazione amministrativa, suscettibile di accesso, gli atti anche di natura privatistica, coinvolti in una procedura di amministrazione straordinaria, effettuata nell’interesse pubblico al sostegno delle imprese. Inoltre, sussiste il diritto di accesso anche rispetto a documentazione archiviata, nella misura in cui concerne documenti anche non formati dalla PA, ma comunque dalla stessa stabilmente detenuti. Il soggetto da ritenere investito dell’attività idonea a soddisfare la richiesta di accesso è da individuare nel Ministero dello sviluppo economico. Esso, infatti, svolge la funzione di vigilanza sulla procedura di amministrazione straordinaria, alla quale afferiscono i documenti oggetto di accesso. Del resto, il Ministero ha compiti istituzionali nel campo di tali procedure e quindi ha titolo a detenere o a costituire la detenzione della relativa documentazione o, comunque, a svolgere ogni azione idonea a reperirla per consentirne l’accesso. CDC
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Inserito in data 28/07/2015 CORTE COSTITUZIONALE - SENTENZA 23 luglio 2015, n. 185 La recidiva obbligatoria ex art. 99 c 5 cp viola gli artt. 3 e 27 Cost. La Corte costituzionale è stata chiamata a valutare la costituzionalità dell’art. 99, c.5, c.p. Quest’ultima disposizione prevede la recidiva c.d. obbligatoria, in quanto stabilisce un aumento di pena automatico al riscontro formale della precedente condanna e dell’essere il nuovo reato compreso nell’elenco dell’art. 407, c. 2, lett. A, c.p.p., senza che il giudice sia tenuto (o legittimato) ad accertare in concreto se, in rapporto ai precedenti, il nuovo episodio delittuoso sia indicativo di una più accentuata colpevolezza e di una maggiore pericolosità del reo. Ad avviso del Giudice delle Leggi, la disposizione impugnata è irragionevole (e, quindi, viola l’art. 3 Cost.), perché introduce un rigido automatismo sanzionatorio basato sul dato formale del titolo del nuovo reato commesso, sebbene: per un verso, altri elementi (es. natura e tempo di commissione dei precedenti reati) potrebbero rivelare la non particolare colpevolezza e pericolosità del recidivo ex art. 99, c.5, c.p.; per altro verso, l’elenco ex art. 407, c.2, lett. a, c.p.p. dei delitti che comportano l’obbligatorietà comprende reati eterogenei, collegati dal legislatore solo in funzione di esigenze processuali e in particolare del termine di durata massima delle indagini preliminari, e quindi inidonei ad esprimere un comune dato significativo ai fini dell’applicazione della recidiva. Introducendo un rigido automatismo sanzionatorio, l’art. 99, c.5, c.p., viola anche l’art. 27, c. 3, Cost., poiché non assicura la proporzione tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e offesa, dall’altra. Infine, l’art. 99, c.5, c.p. contrasta con l’art. 27, c. 3, Cost., proprio perché l’applicazione obbligatoria della recidiva può rendere la pena sproporzionata per eccesso, e, dunque, tale da essere avvertita come ingiusta dal condannato e, di conseguenza, inidonea a svolgere la finalità rieducativa. In conclusione, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità per violazione degli artt. 3 e 27, Cost., dell’art. 99, c. 5, c.p., come sostituito dalla L. 251/05, limitatamente alle parole “è obbligatorio e,”. Pertanto, dopo questo arresto giurisprudenziale, pure la recidiva ex art. 99, c.5, c.p. deve essere ricompresa nell’alveo delle recidive facoltative. TM
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Inserito in data 27/07/2015 TAR CALABRIA - CATANZARO, SEZ. I, 25 luglio 2015, n. 1272 Sulla valutazione discrezionale della stazione appaltante Con la pronuncia in esame, il Collegio osserva, in primis, che “il giudizio comparativo operato nelle gare pubbliche d'appalto, caratterizzate dalla complessità delle discipline specialistiche di riferimento e dall'opinabilità dell'esito della valutazione, sfugge al sindacato intrinseco del giudice, se non vengono in rilievo specifiche contestazioni circa la plausibilità dei criteri valutativi o circa la loro manifesta violazione, non essendo ammissibile che l'impresa ricorrente vi contrapponga le proprie valutazioni di parte sulla qualità dei rispettivi progetti tecnici” (T.A.R. Torino (Piemonte), sez. II 27/05/2015 n. 866). In secondo luogo, i Giudici sostengono che “a mente dell’art. 38 lett. c) D.Lgs. n.163/2006, solo ed esclusivamente i reati di partecipazione ad un’organizzazione criminale, frode o riciclaggio, danno luogo all’esclusione senza alcuna valutazione discrezionale da parte della stazione appaltante in ordine alla gravità dei reati e in ordine alla incidenza sulla moralità professionale; negli altri casi la disposizione consente alla stazione appaltante l’esercizio del potere discrezionale volto a valutare i suddetti requisiti. D’altronde, “per giurisprudenza consolidata, mentre la motivazione della stazione appaltante deve essere particolarmente approfondita nel caso in cui l’amministrazione si determini nel senso di escludere il concorrente non ravvisando il requisito di idoneità morale, nel caso contrario non è tenuta ad esplicitare in maniera analitica le ragioni per le quali non ritiene il precedente penale incisivo della moralità professionale (ex plurimis T.A.R. Milano, sez. III, 3.11.2014 n.2626)”. In particolare, le “valutazioni in ordine alla gravità delle eventuali condanne riportate dai concorrenti e la loro incidenza sulla moralità professionale spettano esclusivamente all'Amministrazione appaltante, la quale, qualora non ritenga il precedente penale incisivo della moralità professionale, non è tenuta ad esplicitare in maniera analitica le ragioni di siffatto convincimento, potendo la motivazione di non gravità del reato risultare anche implicita o per facta concludentia, ossia con l'ammissione alla gara dell'impresa, mentre è la valutazione di gravità che richiede l'assolvimento di un particolare onere motivazionale” (T.A.R. Lombardia Milano, Sez. III, sent. 03/11/2014, n. 2626). Inoltre, per quanto concerne la valutazione delle offerte, è pacifico che la Commissione può mostrare il proprio apprezzamento per una determinata offerta senza particolari esternazioni nei verbali essendo sufficiente una mera indicazione numerica, infatti: “In sostanza, è compito della commissione esaminatrice rendere percepibile l'iter logico seguito nell'attribuzione del punteggio: all'uopo non sono necessarie diffuse esternazioni verbali, bastando che siano segnalati gli elementi che concorrono ad integrare e chiarire la valenza del punteggio, attraverso l'esternazione delle ragioni dell'apprezzamento sinteticamente espresso con l'indicazione numerica (Consiglio di Stato, Sez. VI, 8 luglio 2009, n. 4384)” (T.A.R. Bari 3 maggio 2011 n. 678). EF
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Inserito in data 24/07/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 23 luglio 2015, n. 3652 L’attività tecnico-discrezionale non può dar luogo alla ponderazione di interessi Alla funzione di tutela del paesaggio (nel caso esercitata dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali attraverso un parere obbligatorio nell’ambito del procedimento di compatibilità ambientale) è estranea ogni forma di attenuazione della tutela paesaggistica determinata dal bilanciamento o dalla comparazione con altri interessi, ancorché pubblici. Tale attenuazione, infatti, condurrebbe illegittimamente e paradossalmente a dare minor tutela, malgrado l’intensità del valore paesaggistico del bene, quanto più intenso e forte sia o possa essere l’interesse pubblico alla trasformazione del territorio. Il parere del MiBAC in ordine alla compatibilità paesaggistica non può che essere un atto strettamente espressivo di discrezionalità tecnica, dove l’intervento progettato va messo in relazione con i valori protetti ai fini della valutazione tecnica della compatibilità fra l’intervento medesimo e il tutelato interesse pubblico paesaggistico. Tale valutazione è istituzionalmente finalizzata ad evitare che sopravvengano alterazioni inaccettabili del preesistente valore protetto. Ciò applica il principio fondamentale dell’art. 9 Cost, il quale fa eccezione a regole di semplificazione a effetti sostanziali altrimenti praticabili. La norma costituzionalizza e al massimo rango la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione – e questo richiede, a opera della PA appositamente preposta, che si esprimano valutazioni tecnico-professionali e non già comparative di interessi, quand’anche pubblici e da altre amministrazioni stimabili di particolare importanza. Perciò, in tal caso, le valutazioni di comparazione e ponderazione di interessi, proprie della discrezionalità amministrativa, restano del tutto estranee alla fattispecie e, ove di fatto introdotte, rendono l’atto viziato per eccesso di potere. Infatti, la discrezionalità tecnica, a differenza di quella amministrativa, si concentra su un unico interesse (nel caso, quello paesaggistico), attraverso la verifica in fatto della sua configurazione e trasformazione nel caso concreto. Diversamente dalla discrezionalità amministrativa, la discrezionalità tecnica non può dar luogo ad alcuna forma di comparazione e valutazione eterogenea. In altre parole, l’interesse che va preso in considerazione è solo quello circa la tutela paesaggistica, il quale non può essere aprioristicamente sacrificato in considerazione di altri interessi pubblici la cui cura esula dalle attribuzioni del MiBAC. CDC
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Inserito in data 23/07/2015 CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI - SENTENZA 22 luglio 2015, n. 15350 Non è possibile risarcire il danno da perdita della vita
Con la sentenza in questione le Sezioni Unite hanno posto fine al contrasto giurisprudenziale innescato dalla sentenza delle S.U. 1361/14 che, con il proprio revirement, aveva ammesso la risarcibilità jure hereditatis del danno derivante dalla perdita della vita, verificatasi immediatamente dopo le lesioni riportate, ponendo in evidenza la diversità ontologica dei beni giuridici dell’integrità fisica e del bene della vita, e sancendo la preminenza di quest’ultimo e la conseguente irragionevolezza dell’esclusione del suo risarcimento.
La pronuncia in commento, tuttavia, si pone in linea con il precedente e costante indirizzo giurisprudenziale che ammetteva esclusivamente il <<riconoscimento, pro quota, dei diritti entrati nel patrimonio del de cuius, e quindi, nel caso di morte che si verifica immediatamente o a breve distanza di tempo dalla lesione (…) solo il risarcimento del danno da lesione del diritto alla salute della vittima, ma non quello del diverso bene giuridico della vita, che, per il definitivo venir meno del soggetto, non entra nel suo patrimonio e può ricevere tutela solo in sede penale>>. Non sono state rinvenute, infatti, argomentazioni in grado di superare quel principio secondo cui, nel sistema della responsabilità civile, riveste importanza primaria l’esigenza di riparazione del danno cagionato. Nel caso di morte immediata o a brevissima distanza, tuttavia, la lesione ha ad oggetto il bene della vita che, costituendo un bene autonomo, può essere goduto dal soggetto leso solo in natura e, pertanto, non è suscettibile di reintegrazione per equivalente. Parimenti prive di ogni fondamento sono state considerate le critiche mosse a tale soluzione, facenti leva esclusivamente su principi di ordine morale (sulla base dei quali, come già accennato, sarebbe ingiusto ed irragionevole ammettere il risarcimento del danno da lesione dell’integrità psicofisica ed escluderlo, invece, per la più grave lesione del bene primario della vita). La Suprema Corte, infatti, oltre a rilevare come la coscienza morale non possa costituire una base sufficiente alla creazione del diritto positivo, mette in evidenza l’assenza di un vuoto di tutela in quanto si produrrebbero conseguenze diverse e ben più gravi nei confronti di quanti, con la propria condotta illecita, abbiano cagionato la perdita della vita, conseguenze che si esplicano sul piano penale. Il Supremo Consesso sottolinea, inoltre, l’assenza di una norma che prescriva il necessario accompagnamento della tutela risarcitoria a quella penale, e l’intento di locupletazione di quanti sostengano il contrario. VA
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Inserito in data 23/07/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 21 luglio 2015, n. 3594 Sulla revisione dei prezzi: finalità, natura imperativa e operatività Con la pronuncia de qua, i giudici di Palazzo Spada intervengono in merito al tema della revisione dei prezzi.
Stando a quanto deciso “Il Collegio rileva, in primo luogo, che il contratto d’appalto in esame è stato stipulato sotto la vigenza della L. n. 537-93 il cui art. 6 comma 4, prevedeva che “tutti i contratti ad esecuzione periodica o continuativa debbono recare una clausola di revisione periodica del prezzo. La revisione viene operata sulla base di una istruttoria condotta dai dirigenti responsabili dell’acquisizione di beni e servizi sulla base dei dati di cui al comma 6”.
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Inserito in data 22/07/2015 CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL'UOMO - CASE OF E. O. AND OTHERS v. ITALY - SEZ. IV, SENTENZA 21 luglio 2015 - Cause nn. 18766/11 e 36030/11 Riconoscimento unioni gay, la CEDU condanna l'Italia
Il vuoto normativo italiano è divenuto oramai inaccettabile.
Con la pronuncia de qua, la Corte europea dei diritti dell'uomo condanna lo Stato italiano alla introduzione del riconoscimento legale per le coppie dello stesso sesso.
I giudici di Strasburgo, invero, hanno condannato l'Italia per la violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare di tre coppie omosessuali che, da vari anni, vivono una relazione stabile, prevedendo che lo Stato dovrà versare, a ognuno di questi, cinquemila euro per i danni morali patiti. Nello specifico, la condanna concerne la violazione dell'art. 8 CEDU, ossia il diritto al rispetto per la vita privata e familiare. La Corte, sul punto, precisa che le coppie omosessuali “hanno le stesse necessità di riconoscimento e di tutela della loro relazione al pari delle coppie eterosessuali. Per questo l'Italia e gli Stati firmatari della Cedu devono rispettare il loro diritto fondamentale ad ottenere forme di riconoscimento che sono sostanzialmente allineate con il matrimonio”, oltre a ciò, come premesso, si precisa che “l'Italia è l'unica democrazia occidentale a mancare a questo impegno ed è stata quindi condannata per violazione dell'art.8 della Convenzione”. La Corte ha così deciso alla unanimità, ritenendo, altresì, che “la tutela legale attualmente disponibile” nel nostro Paese “per le coppie omosessuali non solo fallisce nel provvedere ai bisogni chiave di due persone impegnate in una relazione stabile, ma non è nemmeno sufficientemente affidabile”. I giudici di Strasburgo, dunque, pur non imponendo dei vincoli sullo strumento da utilizzare a tal fine (non trattando, specificamente, di matrimonio), richiede di trovare, tuttavia, una forma istituzionalmente definita al fine di riconoscere le unioni tra persone dello stesso sesso, alla luce della considerazione secondo la quale in Italia, ancora, non esiste una legge sulle unioni civili. GMC |
Inserito in data 21/07/2015 CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 21 luglio 2015, n. 8 Attestazioni SOA prorogate ex DPR 207/10: verifica triennale solo per le categorie invariate Con la sentenza de qua, l’Adunanza Plenaria ha risolto due differenti quesiti interpretativi in ordine alla disciplina in tema di appalti pubblici. Innanzitutto, il Supremo Consesso amministrativo è stato chiamato a stabilire se, nel regime transitorio dettato dall’art. 357 del D.P.R. n. 207/10 e, in particolare, rispetto ai bandi di gara pubblicati precedentemente alla data di entrata in vigore del predetto regolamento, sia comunque necessario, per usufruire della proroga dell’efficacia delle attestazioni SOA rilasciate secondo la previgente normativa di cui al D.P.R. n. 34/2000, il requisito della verifica triennale, come prescritta prima dall’art. 15-bis del d.P.R. n. 34/2000 e poi dall’art. 76 del d.P.R. n. 207/2010. Dall’esame della normativa coinvolta, l’Adunanza Plenaria deduce che la risposta al primo quesito merita una soluzione differenziata, a seconda che si tratti della disciplina transitoria dettata per le categorie non variate o di quella prevista per le categorie variate ad opera del d.P.R. 207/2010. Invero, quanto alle categorie invariate, la conferma di validità delle attestazioni in corso ai sensi dell’art. 357, c. 12, primo periodo, D.P.R. 207/10 (“le attestazioni rilasciate nella vigenza del decreto del Presidente della Repubblica n. 34 del 2000 nelle categorie non modificate dal presente regolamento hanno validità fino alla naturale scadenza prevista per ciascuna di esse …” ) vale anche a configurare un’implicita, ma inequivoca, applicabilità dell’onere di verifica triennale, che medio tempore maturi, richiesto sia dalla normativa previgente (art. 15-bis del d.P.R. n. 34/2000), che dal nuovo regolamento (art. 77 del d.P.R. n. 207/2010). Relativamente alle categorie modificate, la proroga legale della scadenza delle attestazioni SOA deve individuarsi invece nell’art. 357, c. 16, secondo periodo, D.P.R. 207/10 (“Per trecentosessantacinque giorni successivi alla data di entrata in vigore del presente regolamento, ai fini della partecipazione alle gare riferite alle lavorazioni di cui alle categorie OG 10, OG 11, OS 7, OS 8, OS 12, OS 18, OS 20, OS 21, di cui all' allegato A del decreto del Presidente della Repubblica 25 gennaio 2000, n. 34, e OS 2 individuata ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 25 gennaio 2000, n. 34, e rilasciata ai sensi del D.M. 3 agosto 2000, n. 294 , come modificato dal D.M. 24 ottobre 2001, n. 420 , la dimostrazione del requisito relativo al possesso della categoria richiesta avviene mediante presentazione delle attestazioni di qualificazione rilasciate dalle SOA in vigenza del decreto del Presidente della Repubblica 25 gennaio 2000, n. 34 , purché in corso di validità alla data di entrata in vigore del presente regolamento anche per effetto della disposizione di cui al comma 13”). Ad avviso del Collegio, questa disposizione deve essere interpretata nel senso che, per le categorie “variate” non sussiste, durante il regime di proroga, l'obbligo di verifica triennale, di cui agli artt. 15-bis del d.P.R. n. 34 del 2000 e 77 del d.P.R. n. 207 del 2010. TM
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Inserito in data 21/07/2015 CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 21 luglio 2015, n. 8 Nelle gare di appalto i requisiti devono essere posseduti senza soluzione di continuità Con la sentenza de qua, l’Adunanza Plenaria ha risolto due differenti quesiti interpretativi in ordine alla disciplina in tema di appalti pubblici. Segnatamente, col secondo quesito, è stato domandato all’Adunanza Plenaria di stabilire “se il principio del possesso continuativo dei requisiti di qualificazione debba essere interpretato e declinato nel senso che anche una temporanea interruzione, nel corso della procedura, della titolarità delle attestazioni prescritte comporti necessariamente l’esclusione dell’impresa che l’ha temporaneamente perduta e anche se la possedeva nei momenti della presentazione della domanda, del controllo dei requisiti e dell’aggiudicazione” Ribadendo la costante giurisprudenza, pure della medesima Adunanza Plenaria (cfr. A.P. 7 aprile 2011, n. 4), espressione di evidenti esigenze di certezza e di funzionalità del sistema di qualificazione obbligatoria, il Collegio ha statuito che “nelle gare di appalto per l’aggiudicazione di contratti pubblici i requisiti generali e speciali devono essere posseduti dai candidati non solo alla data di scadenza del termine per la presentazione della richiesta di partecipazione alla procedura di affidamento, ma anche per tutta la durata della procedura stessa fino all’aggiudicazione definitiva ed alla stipula del contratto, nonché per tutto il periodo dell’esecuzione dello stesso, senza soluzione di continuità”. TM
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Inserito in data 20/07/2015 TAR LOMBARDIA - MILANO, SEZ. IV, 16 luglio 2015, n. 1708 Il diritto di accesso può indirizzarsi anche sugli atti di natura privatistica Con la pronuncia in esame, il Collegio richiama il costante orientamento della giurisprudenza amministrativa, in base al quale: “Ai sensi dell'art. 13, d.lg. 12 aprile 2006 n. 163 nelle gare pubbliche il diritto di accesso agli atti delle procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici è sottoposto ad un limite generale che è quello della necessaria sussistenza di un interesse differenziato, concreto ed attuale, il quale deve trovarsi in evidente collegamento con la tutela giurisdizionale di una determinata posizione giuridica dell'istante; inoltre il diritto all'accesso ai documenti amministrativi oppure alla documentazione privata d'interesse amministrativo, soprattutto per questa ultima, deve essere sempre comparato con il diritto alla riservatezza e comunque si deve ritenere prevalente ove connesso al riconoscimento di una determinata situazione in sede giurisdizionale” (cfr. Cons. Stato, sez. V, 27 aprile 2015, n. 2096). Deve, inoltre, escludersi “che la titolarità del diritto d'accesso risieda soltanto in una situazione funzionale all'esercizio di un interesse giuridicamente protetto e suscettibile di tutela giurisdizionale; ed invero la richiesta di accesso, pur non potendo configurarsi quale forma di preventivo e generalizzato controllo dell'intera attività dell'Amministrazione, si può basare su un interesse anche non funzionalmente connesso ad un'immediata tutela in via giudiziale, purché concreto ed attuale; in altri termini, la nozione di «interesse giuridicamente rilevante», che fonda il diritto di accesso, è più ampia rispetto a quella di «interesse all'impugnazione»” (Cons. Stato, sez. V, 17 marzo 2015, n. 1370). In particolare, “il diritto di accesso non è stato configurato dal legislatore con carattere meramente strumentale rispetto alla difesa in giudizio, avendo un carattere autonomo, nel senso che il collegamento tra l'interesse giuridicamente rilevante del soggetto che richiede l'accesso e la documentazione oggetto della relativa istanza va inteso in senso ampio, poiché la documentazione richiesta deve essere considerata mezzo utile per la difesa e non come strumento di prova diretta della lesione dell'interesse tutelato” (Cons. Stato, sez. VI, 10 febbraio 2015, n. 714). Deve, infine, precisarsi che: “Ai sensi dell'art. 22 comma 1 lett. b), l. 7 agosto 1990 n. 241 e successive modificazioni, il diritto di accesso si indirizza ai documenti amministrativi detenuti dall'Amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale; quindi è strutturato al fine di consentire la conoscenza di atti rappresentativi dell'attività della Pubblica amministrazione finalizzata alla cura e al perseguimento di scopi di interesse pubblico o che si configurino essenziali all'esercizio dell'attività stessa, indipendentemente dal fatto che essa sia espressione di poteri autoritativi o di autonomia negoziale dell' ente; nel documento deve quindi sostanziarsi l'esercizio della funzione amministrativa, ovvero deve costituire strumento per l'esercizio della potestà di amministrazione” (Cons. Stato, sez. III, 22 dicembre 2014, n. 6352). Alla luce di quanto suddetto, deve ritenersi possibile l’ostensione “anche di atti di natura privatistica, perché connessi all’esercizio della potestà autoritativa dell’amministrazione”. EF
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Inserito in data 17/07/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 14 luglio 2015, n. 3517 Sull'omessa indicazione degli oneri di sicurezza aziendali Con la pronuncia de qua, il Consiglio di Stato interviene in materia di omessa indicazione degli oneri di sicurezza aziendali o “da rischio specifico” negli appalti di servizi o di forniture.
I giudici di Palazzo Spada chiariscono che “lamenta anzitutto l’appellante il mancato scorporo matematico, da parte dell’aggiudicataria, degli oneri per la sicurezza da rischio specifico in offerta, per vero non avvenuto, ancorché non consti un obbligo specifico nella lex specialis di gara.
La ragione va rinvenuta appunto nell’art. 87, c. 4 del Dlg 163/2006, laddove «… nella valutazione dell’anomalia la stazione appaltante tiene conto dei costi relativi alla sicurezza, che devono essere specificamente indicati nell’offerta e risultare congrui rispetto all’entità e alle caratteristiche dei servizi o delle forniture…». Il dato testuale non conclude nel senso dell’obbligo d’uno scorporo matematico specifico a pena di esclusione in sede d’offerta, ché, invece, detti oneri sono elementi dell’offerta stessa che vanno specificati e verificati ai soli fini del giudizio d’anomalia. Ebbene, la Sezione ha chiarito che l’eterointegrazione della lex specialis si ha solo con riguardo ed in presenza di norme imperative che già in sé rechino in modo rigoroso, evidente e predefinito l’elemento che si deve sostituire alla clausola difforme, e non quando alle parti spetti di definire in via autonoma il quantum del corrispettivo e dei relativi elementi. GMC
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Inserito in data 16/07/2015 TAR VENETO - VENEZIA, SEZ. III, 15 luglio 2015, n. 801 Le ordinanze sindacali non possono svolgere funzione sussidiaria Il Tar Veneto ha annullato l’ordinanza sindacale con la quale era stato prescritto il divieto di dimora, anche occasionale, presso le strutture di accoglienza per quanto risultassero privi di regolare documento di identità e certificato medico, nonchè l'obbligo, da parte dei suddetto soggetti, individuati nel corso di accertamenti da parte della Polizia Locale, di sottoporsi entro tre giorni a visite mediche presso le competenti ULSS fino all’adozione da parte del ministero della salute di specifici provvedimenti. Il pericolo sanitario determinato dalla fuga degli immigrati dai centri di accoglienza, infatti, costituisce un’emergenza nazionale e non locale. Non sussisterebbe, pertanto, una situazione emergenziale richiedente l’intervento sindacale mediante provvedimenti contingibili e urgenti. La sussistenza dei presupposti necessari all’emanazione dei suddetti provvedimenti, infatti, deve essere <<suffragata da una istruttoria adeguata e da una congrua motivazione, in ragione delle quali si giustifica la deviazione dal principio di tipicità degli atti amministrativi e la possibilità di derogare alla disciplina vigente, stante la configurazione residuale, quasi di chiusura, di tale tipologia provvedimentale >> (C.d.S. 3077/12) in quanto <<la contingibilità deve essere intesa come impossibilità di fronteggiare l’emergenza con i rimedi ordinari, in ragione dell’accidentalità, imprescindibilità ed eccezionalità della situazione verificatasi» e l’urgenza come «l’assoluta necessità di porre in essere un intervento non rinviabile (C.d.S. 926/94). L’accertamento di tali presupposti, inoltre, deve involgere anche la limitazione territoriale necessaria alla diversificazione della posizione dei cittadini residenti in un dato comune, sì da giustificare l’adozione delle misure straordinarie previste dagli artt. 50 e 54 del d.lgs. 267/00, <<ciò in particolare quando difettino accurati ed efficaci controlli sanitari da parte delle altre autorità preposte, non risultando tuttavia sufficiente una sorta di funzione sussidiaria a legittimare l’adozione di provvedimenti del tipo di quello adottato>>. VA
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Inserito in data 15/07/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 14 luglio 2015, n. 3513 Controversie in tema di diritto alla mobilità e riparto di giurisdizione La controversia in tema di diritto alla mobilità, come quella relativa al diritto allo scorrimento di una graduatoria concorsuale, non attiene alla fase della procedura di concorso ovvero al controllo giudiziale sulla legittimità della scelta discrezionale operata dell'Amministrazione, la cui tutela è demandata al giudice amministrativo, ma alla connessa fase successiva relativa agli atti di gestione del rapporto di lavoro, facendosi valere il "diritto all'assunzione" al di fuori dell'ambito della procedura concorsuale, donde la sussistenza della giurisdizione civile. Ove invece l’eventuale riconoscimento del suddetto diritto sia consequenziale alla negazione degli effetti del provvedimento di indizione di diverse procedure per la copertura dei posti resisi vacanti, la controversia ha in realtà ad oggetto diretto il controllo giudiziale sulla legittimità della scelta discrezionale operata dell'amministrazione, a fronte della quale la situazione giuridica privata dedotta in giudizio appartiene alla categoria degli interessi legittimi, la cui tutela è demandata al giudice amministrativo. CDC
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Inserito in data 14/07/2015 CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, ORDINANZA 14 luglio 2015, n. 7 Solleva qlc ex art 117 Cost dell’art. 50 L. 388/00 ove travolge i DPR divenuti inoppugnabili Con l’ordinanza in esame, l’Adunanza Plenaria ha dichiarato “rilevante e non manifestamente infondata, in relazione agli articoli 3, 97 e 117, primo comma, della Costituzione, la questione di costituzionalità dell’articolo 50, comma 4, penultimo e ultimo periodo della legge 23 dicembre 2000, nl. 388 […], nella parte in cui tale norma, sancendo la portata retroattiva dell’abrogazione dell’articolo 4, nono comma, della legge 6 agosto 1984, n. 425, prevede che detta abrogazione possa travolgere anche posizioni individuali già riconosciute mediante decisioni definitive su ricorsi straordinari”. In particolare, in forza della norma sospettata di incostituzionalità, risulterebbero travolte le decisioni del Capo dello Stato che avevano affermato l’obbligo per l’Amministrazione di determinare i trattamenti economici dei ricorrenti conformemente all’art. 4 c. 9 L. 425/84, ossia considerando il superiore trattamento spettante ai colleghi (magistrati) collocati in ruolo in posizione successiva ai ricorrenti medesimi. I) Relativamente al contrasto con l’art. 117 Cost., l’Adunanza Plenaria si sofferma su tre questioni principali: 1) il rango delle norme Cedu; 2) il momento a partire dal quale la decisione del ricorso straordinario ha assunto rango di giudicato; 3) il rapporto tra norme interpretative e legittimo affidamento della parte vittoriosa nel giudicato. 1) A giudizio del Collegio, le norme della Convenzione EDU non sono assimilabili alle norme comunitarie self-executing ai fini della disapplicazione delle norme interne contrastanti con le stesse, ma assumono rilevanza nell’ordinamento italiano quali norme interposte ex art. 117, c.1, Cost. Infatti, in primis, le norme CEDU non determinano alcuna limitazione della sovranità nazionale e, pertanto, non trovano fondamento nell’art. 11 Cost. In secundis, “L'art. 117, primo comma, Cost., nel testo introdotto nel 2001 con la riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione, ha confermato il citato orientamento giurisprudenziale della Corte Costituzionale. La disposizione costituzionale ora richiamata distingue infatti, in modo significativo, i vincoli derivanti dall'«ordinamento comunitario» da quelli riconducibili agli «obblighi internazionali».” “Si tratta di una differenza non soltanto terminologica, ma anche sostanziale”. Contrariamente ai Trattati comunitari, “La Convenzione EDU […] non crea un ordinamento giuridico sopranazionale e non produce, quindi, norme direttamente applicabili negli Stati contraenti”. Inoltre, “Va ribadita anche l'esclusione delle norme CEDU, in quanto norme pattizie, dall'ambito di operatività dell'art. 10, primo comma, Cost., in conformità alla costante giurisprudenza della Consulta”. Ad avviso dell’Adunanza Plenaria, neppure l’art. 6 del Trattato di Lisbona, nel prevedere l’adesione dell’UE alla Convezione CEDU, ha modificato la posizione delle norme CEDU nel sistema delle fonti. Infine, il Supremo Consesso amministrativo puntualizza che le norme CEDU, quali interpretate dalla Corte di Strasburgo, sono soggette al controllo di legittimità costituzionale. “Proprio perché si tratta di norme che integrano il parametro costituzionale, ma rimangono pur sempre ad un livello sub-costituzionale, è necessario che esse siano conformi a Costituzione […]. La particolare natura delle stesse norme, diverse sia da quelle comunitarie sia da quelle concordatarie, fa sì che lo scrutinio di costituzionalità non possa limitarsi alla possibile lesione dei principi e dei diritti fondamentali […] o dei principi supremi […], ma debba estendersi ad ogni profilo di contrasto tra le “norme interposte” e quelle costituzionali.” 2) Ricostruito in modo puntuale l’iter normativo che ha portato a riconoscere natura sostanzialmente giurisdizionale al ricorso al Presidente della Repubblica, l’Adunanza Plenaria accede alla tesi secondo cui solo le decisioni su ricorsi straordinari emesse dopo la riforma del 2009 (che ha reso vincolante il parere del Consiglio di Stato) esibirebbero carattere giurisdizionale e, quindi, sarebbero dotate di una forza resistente all’intervento caducatorio del legislatore. “Si deve infatti convenire che non viene in rilievo una revisione interpretativo di portata retroattiva, ma una riforma sostanziale ontologicamente inidonea a incidere in senso modificativo sulla natura giuridica di decreti presidenziali adottati in un contesto normativo in cui la decisione, pur esibendo nel suo nucleo essenziale la connotazione di statuizione di carattere giustiziale, non poteva ancora considerarsi espressione di 'funzione giurisdizionale' nel significato pregnante dell'art. 102 Cost., comma 1, e art. 103 Cost., comma 1. A sostegno dell’assunto della portata non retroattiva della novella si pone, quindi, la decisiva considerazione che la valenza sostanzialmente giurisdizionale del decisum è ora fondata sulla riconduzione, già in astratto, della paternità esclusiva della decisione all’autorità giurisdizionale”. 3) Ciò premesso, il Collegio reputa non manifestamente infondata la q.l.c. sollevata per violazione dell’art. 117, c.1, Cost., in quanto l’art. 50 summenzionato “produce il travolgimento di una decisione alternativa di giustizia che, pur non avendo carattere schiettamente giurisdizionale, risolve in modo definitivo e inoppugnabile una controversia”; così disponendo, tale norma contrasta con gli orientamenti comunitari e della Corte EDU (artt. 6 e 13 CEDU) che tutelano il legittimo affidamento del ricorrente vittorioso in merito all’intangibilità dell’assetto di interessi sancito da una decisione favorevole “sostanzialmente” giurisdizionale e, conseguentemente, vietano l’emanazione di norme retroattive sfavorevoli che estendano l’applicabilità di una norma interpretativa a precedenti decisioni irrevocabili. II) “La normativa in questione pone anche dubbi di compatibilità con gli articoli 3 e 97, Cost, in quanto, alla stregua delle coordinate interpretative tracciate dalla Consulta […], con la legge provvedimento non è possibile esercitare un potere, atipico rispetto al novero dei poteri amministrativi tipizzati, diretto a incidere in via retroattiva e in senso sfavorevole sulle posizioni consolidatesi per effetto di decisioni irreversibili. Più in generale la cancellazione degli effetti di singole decisioni ai danni dei ricorrenti vittoriosi rischia di arrecare un vulnus, non giustificato da idonee ragioni di interesse generale, al principio di eguaglianza e al canone di ragionevolezza”. TM
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Inserito in data 13/07/2015 TAR PIEMONTE - TORINO, SEZ. I, 10 luglio 2015, n. 1170 Sulla mancata indicazione degli oneri di sicurezza aziendali Per quanto attiene alla mancata indicazione nell’offerta economica della società aggiudicataria degli oneri della sicurezza “aziendali”, il Collegio non può che richiamare i principi affermati dalla Sezione in altre fattispecie analoghe, secondo cui “E' legittima l'aggiudicazione di una gara di appalto di lavori in favore di una impresa che non ha indicato specificamente, nell'offerta economica, gli oneri per la sicurezza aziendale; infatti, il combinato-disposto degli artt. 86-comma 3-bis, d.lg. 12 aprile 2006 n. 163 e 26 comma 6, d.lg. 9 aprile 2008 n. 81 non impone alle imprese partecipanti a procedure di affidamento di contratti pubblici di lavori l'obbligo, a pena di esclusione dalla gara, di indicare gli oneri per la sicurezza aziendale ed in nessuna parte di tali disposizioni è previsto che per gli appalti di lavori pubblici si debbano indicare nell'offerta i costi per la sicurezza aziendale; invero, gli artt. 86 e 87, cit. d.lg. n. 163 del 2006 regolano la verifica dell'anomalia dell'offerta, con la conseguenza che è in quella sede che l'obbligo di indicare (e giustificare) i costi per la sicurezza viene in rilievo, mentre risulta eccedente, rispetto al fine di consentire nella stessa sede tale verifica, pretendere che l'impresa provveda ad indicare i costi in questione già nella propria offerta” (T.A.R. Piemonte, sez. I 12 dicembre 2014 n. 2000). Del resto, “Nell'ipotesi in cui la "lex specialis" nulla abbia specificato in ordine all'onere che certezza del diritto, di tutela dell'affidamento e del "favor partecipationis", i concorrenti che hanno presentato un'offerta perfettamente conforme alle prescrizioni stabilite dal bando e dall'allegato modulo d'offerta; legittimamente, pertanto, la stazione appaltante, in osservanza del suddetto principio del "favor partecipationis", ammette a partecipare alla procedura di evidenza pubblica la medesima ditta” (TAR Piemonte, sez. I, 22 novembre 2013 n. 1254; T.A.R. Piemonte sez. I 21 dicembre 2012 n. 1376). Tali principi sono stati, peraltro, ribaditi dal Consiglio di Stato, il quale ha avuto modo di affermare che “La mancata indicazione nel bando di gara pubblica del formale scorporo dei costi di sicurezza aziendali non può comportare ex se l'esclusione dalla gara, essendo rimandata alla fase di verifica della congruità dell'offerta la valutazione dell'idoneità della stessa a soddisfare anche gli oneri connessi alla salvaguardia delle condizioni di sicurezza del lavoro” (Cons. Stato, sez. III, 13 maggio 2015 n. 2388; Cons. Stato, sez. V, 23 febbraio 2015 n. 884). Deve, infine, rammentarsi che il “diverso principio affermato dall’Adunanza Plenaria dello stesso Consiglio di Stato con sentenza 20 marzo 2015, n. 3 non è pertinente alla fattispecie in esame perché relativo ad appalto di lavori”. EF
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Inserito in data 11/07/2015 CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 9 luglio 2015, n. 139 In caso di contestazione tardiva di un’aggravante si può chiedere l’abbreviato La Corte costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità ex artt. 3 e 24 Cost. dell’art. 517 c.p.p., nella parte in cui non riconosce all’imputato la facoltà di richiedere al giudice del dibattimento il rito abbreviato nel caso di contestazione “tardiva” (ossia che già risultava dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale e non immediatamente contestata per un errore del p.m.) di una circostanza aggravante, rispetto al reato cui questa si riferisce. In tale ipotesi, “infatti, si riscontra il pregiudizio al diritto di difesa, connesso all’impossibilità di rivalutare la convenienza del rito alternativo in presenza di una variazione sostanziale dell’imputazione, intesa ad emendare precedenti errori od omissioni del pubblico ministero nell’apprezzamento dei risultati delle indagini preliminari. Così come si riscontra la violazione del principio di eguaglianza, correlata alla discriminazione cui l’imputato si trova esposto a seconda della maggiore o minore esattezza e completezza di quell’apprezzamento”.
“Emergono, inoltre, non giustificabili sperequazioni di trattamento rispetto all’assetto complessivo della materia, conseguente ai precedenti interventi di questa Corte: da un lato, nel confronto con la facoltà, di cui l’imputato fruisce a seguito della sentenza n. 333 del 2009, di richiedere il giudizio abbreviato nel caso – non dissimile – di contestazione “tardiva” del fatto diverso; dall’altro, nel confronto con la possibilità, di cui l’imputato beneficia in forza della sentenza n. 184 del 2014, di accedere al “patteggiamento” nella medesima ipotesi della contestazione “tardiva” di una circostanza aggravante”. TM
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Inserito in data 10/07/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 10 luglio 2015, n. 3485 Il commissario ad acta non adempie al mandato? Nuovo ricorso al giudice dell’ottemperanza
La pronuncia segnalata desta interesse per l’interpretazione estensiva che fornisce dell’art. 114, comma 6, primo periodo, c.p.a., a mente del quale, “Il giudice conosce di tutte le questioni relative all’ottemperanza, nonché, tra le parti nei cui confronti si è formato il giudicato, di quelle inerenti agli atti del commissario ad acta”.
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Inserito in data 09/07/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 9 luglio 2015, n. 3433 L’interesse a ricorrere per contestare la destinazione urbanistica di aree altrui
Nell’accertare la complessiva legittimità delle scelte pianificatorie dell’Amministrazione comunale, il Consiglio di Stato si sofferma, tra l’altro, sulla questione dell’interesse all’impugnazione degli atti di pianificazione urbanistica da parte del ricorrente che contesti la disciplina urbanistica di aree estranee a quelle di sua proprietà.
In tale ipotesi, infatti, il consolidato orientamento del Consiglio di Stato reputa non sufficiente il criterio della vicinitas al fine di integrare il requisito dell’interesse al ricorso, esigendo invece che il ricorrente fornisca “un’adeguata dimostrazione circa i danni patrimoniali subiti e, in generale, circa il deterioramento delle condizioni di vita generati dalla nuova destinazione urbanistica assegnata ad un’area viciniore rispetto a quella di sua proprietà”. “In tal modo viene esclusa l’ammissibilità di ricorsi strumentali o con finalità meramente ostruzionistiche e dilatorie, agevolando la speditezza dell’azione di pianificazione urbanistica dell’Amministrazione”. TM |
Inserito in data 08/07/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 8 luglio 2015, n. 3415 Rientra nella giurisdizione del GO l’atto di esclusione dalle graduatorie degli insegnanti Con la sentenza in commento, i Giudici di Palazzo Spada si allineano all’orientamento, già consolidato presso le Sezioni Unite della Corte di Cassazione e l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, secondo cui le controversie concernenti la collocazione degli insegnanti nelle graduatorie (permanenti o ad esaurimento) per l’assegnazione degli incarichi di insegnamento rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario. Inoltre, respingendo la tesi dell’appellante, la Sesta Sezione del Consiglio di Stato precisa che tali considerazioni riguardano “non solo gli atti che determinano i punteggi e la conseguente collocazione all’interno della graduatoria, ma anche gli atti volti a verificare la sussistenza dei requisiti per l’inserimento nella graduatoria medesima”. “In entrambi i casi, l’aspirante candidato fa valere un diritto soggettivo (o, comunque, una situazione di natura privatistica) che si sostanzia nella pretesa di essere inserito in graduatoria e di essere esattamente collocato al suo interno”. “Del resto, la verifica dei requisiti per l’inserimento non richiede alcun esercizio di discrezionalità amministrativa, trattandosi al contrario di attività vincolata alla sussistenza dei presupposti di legge, rispetto alla cui verifica possono venire eventualmente in considerazione giudizi tecnico-valutativi, ma non scelte di opportunità amministrativa o, comunque, atti di esercizio di discrezionalità amministrativa”.
“Né rileva l’eventuale natura amministrativa del decreto ministeriale che prevede le modalità di inserimento nella graduatoria […]. Il decreto ministeriale viene in rilievo in via incidentale, ma non è la causa diretta della lesione lamentata. Di esso il giudice ordinario può occuparsi, incidenter tantum, nel valutare la legittimità dell’atto privatistico esclusione, esercitando il potere di disapplicazione”. TM
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Inserito in data 07/07/2015 TAR EMILIA ROMAGNA - BOLOGNA, SEZ. II, 6 luglio 2015, n. 637 Carattere eccezionale della normativa relativa all’affidamento diretto Il Tribunale di merito di Bologna, chiamato ad annullare l’affidamento diretto ad una cooperativa sociale di alcuni servizi da parte della stazione appaltante, costituita da una società a totale partecipazione pubblica (in specie partecipata da una pluralità di comuni) ha accolto il ricorso presentato da un’impresa operante nei settori oggetto degli affidamenti diretti. Invero, sebbene l’art. 5 l. 381/91 preveda la possibilità per gli enti pubblici, anche economici, e per le società di capitali a partecipazione pubblica di derogare alla disciplina prevista per i contratti della pubblica amministrazione <<stipulando convenzioni con le cooperative che svolgono attività agricole, industriali, commerciali o di servizi per la fornitura di beni e servizi diversi da quelli sociosanitari ed educativi il cui importo stimato al netto dell'IVA sia inferiore agli importi stabiliti dalle direttive comunitarie in materia di appalti pubblici, purché tali convenzioni siano finalizzate a creare opportunità di lavoro per le persone svantaggiate>> la normativa, nella parte in cui prescrive che debba trattarsi di appalti di fornitura e servizi, implica che le prestazioni siano rivolte all’Amministrazione <<per soddisfare una sua specifica esigenza al fine di ottenere, quale corrispettivo, il pagamento di una determinata somma e non fa riferimento all’affidamento di servizi pubblici locali quale quello in esame>>. Nel caso di specie, tuttavia, le prestazioni oggetto dell’affidamento rientravano nella categoria dei servizi pubblici locali, trattandosi di servizi di <<spazzamento manuale, svuotamento dei cestini, raccolta domiciliare di rifiuti ingombranti, pulizia a chiamata, raccolta di sporte di rifiuti abbandonati ed altri simili>> e, pertanto, di prestazioni svolte direttamente a favore dei cittadini (v. C.d.S. 911/13). Ne consegue che, dato il carattere eccezionale della normativa relativa all’affidamento diretto, che deroga ai principi generali della concorrenza ed alla relativa disciplina delle gare ad evidenza pubblica, dovendosi procedere ad una sua interpretazione restrittiva , non era possibile estenderne la portata applicativa al di là dei contratti specificamente indicati (C.d.S. 2829/10 e 2342/13). VA
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Inserito in data 06/07/2015 CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 6 luglio 2015, n. 6 Sull’applicazione retroattiva del termine decadenziale ex art. 30 comma 3 c.p.a. L’Adunanza Plenaria è stata chiamata a risolvere il contrasto interpretativo in merito all’applicabilità del termine decadenziale previsto dall’articolo 30 comma 3 c.p.a., ai sensi del quale <<la domanda di risarcimento per lesione di interessi legittimi è proposta entro il termine di decadenza di centoventi giorni decorrente dal giorno in cui il fatto si è verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da questo>>, anche agli illeciti consumati anteriormente all’entrata in vigore della suddetta normativa. Da tempo, infatti, si contrapponevano sul punto due diversi orientamenti: il primo, maggioritario, contrario all’applicabilità retroattiva del termine in questione, il quale faceva leva sull’effetto limitativo del diritto di azione; il secondo che, di contro, richiamando il principio processuale del “tempus regit actum”, abbracciava la conclusione opposta. Il Collegio, avallando il primo degli orientamenti sopra esposti, ha affermato che << Il termine decadenziale di centoventi giorni previsto, per la domanda di risarcimento per lesione di interessi legittimi, dall’articolo 30, comma 3, del codice del processo amministrativo, non è applicabile ai fatti illeciti anteriori all’entrata in vigore del codice>>. La determinazione dell’Adunanza Plenaria si fonda sulla portata innovativa del termine decadenziale rispetto al regime prescrizionale quinquennale operante in precedenza (art. 2947 c.c.) avendo l’introduzione normativa comportato una forte compressione del potere di azione nei confronti della Pubblica Amministrazione da parte dei soggetti danneggiati dal suo comportamento illecito e la conseguente anticipazione dell’estinzione della pretesa risarcitoria. Sulla base di queste considerazioni il Collegio ha ritenuto che <<i principi generali stabiliti dalle preleggi, in materia di efficacia delle leggi nel tempo (art. 11) e di portata applicativa di norme eccezionali (articolo 14), impediscono, in assenza di una prescrizione esplicita in tal senso, l’applicazione retroattiva di una reformatio in peius a fattispecie sostanziali anteriori, senza che assuma rilievo l’epoca della proposizione del ricorso>>. Nell’ipotesi in questione, infatti, il termine decadenziale avrebbe natura mista e non già prettamente processualistica non potendosi, pertanto, applicare il principio del tempus regit actum. Argomentando in senso contrario, inoltre, verrebbero lese le aspettative di tutela ed il legittimo affidamento del danneggiato che ha orientato il proprio comportamento sulla base della normativa vigente all’epoca dei fatti con conseguente violazione del principio di effettività della tutela sancito a livello costituzionale, comunitario ed europeo. La soluzione adottata dall’Adunanza Plenaria, inoltre, appare corroborata dell’articolo 2 dell’Allegato 3 al Codice, secondo cui <<per i termini che sono in corso alla data di entrata in vigore del codice continuano a trovare applicazione le norme previgenti>>. VA
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Inserito in data 03/07/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 2 luglio 2015, n. 3290 Revoca autorizzazione SOA e violazione dei requisiti di autonomia ed indipendenza Il Supremo Consesso ha confermato la legittimità del provvedimento di revoca dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività di attestazione emesso dall’Autorità Nazionale Anticorruzione in applicazione dell’art. 73, comma 4 del d.P.R. 207/10 (Regolamento di esecuzione ed attuazione del Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE). Nel caso di specie la revoca era avvenuta a seguito di un accertamento per mezzo del quale era stato possibile dimostrare che i fondi utilizzati per il ripianamento delle perdite sociali provenivano da soggetti estranei alla compagine sociale, con conseguente violazione dei principi di cui agli artt. 7,8 3 12 del d.P.R. 34/2000 attinenti i caratteri di indipendenza ed assenza di interessi, nonché di trasparenza e corretta gestione, (oggi confluiti negli artt. 64, 66 e 70 del d.P.R. n. 207 del 2010). Più precisamente i fondi utilizzati dalla società appellante provenivano da conti intestati ai familiari di due soci. Il Collegio, tuttavia, ha precisato che <<la circostanza che il finanziatore esterno sia un familiare delle azioniste non pregiudica la correttezza delle conclusioni cui è giunta l’Autorità>>, invero, <<ciò che giustifica il provvedimento di revoca adottato dall’Autorità non è tanto la impossibilità di identificare il finanziatore o l’esistenza, in quanto tale, di un finanziamento. La revoca trova il suo fondamento nel venir meno dei requisiti di indipendenza della SOA come conseguenza dell’accertata carenza in capo ai suoi azioni dei necessari requisiti di capacità patrimoniale e reddituale>>. Inoltre, sebbene i Giudici di Palazzo Spada abbiano precisato che non ogni forma di finanziamento esterno possa essere considerata, di per sé, un sintomo dell’insufficienza della capacità patrimoniale della società, la vicenda oggetto della controversia presentava ulteriori e peculiari indici della suddetta carenza: in particolare veniva fatto riferimento all’assenza di una capacità reddituale autonoma di uno dei due soci e all’ammontare del credito il quale aveva consentito l’integrale ripianamento delle perdite sociali. Alla luce di quanto detto il Consiglio di Stato ha rigettato il ricorso presentato dalla società ed ha confermato il provvedimento di revoca. VA
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Inserito in data 02/07/2015 TAR PIEMONTE-TORINO, SEZ. II, 1 luglio 2015, n. 1114 Tutela del terzo alla luce delle modifiche in materia di s.c.i.a. e d.i.a. L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con sentenza n. 15 del 2011, si era espressa in merito alla natura della denuncia di inizio attività ed agli strumenti di tutela del terzo che si ritenga leso dal relativo intervento edilizio. Con la suddetta pronuncia l’Adunanza Plenaria limitava temporalmente il potere di controllo della pubblica amministrazione. Il mancato esercizio del potere inibitorio, infatti, implicava la fine del procedimento amministrativo (in quanto si sarebbe formato un silenzio significativo a contenuto negativo). Data l’esistenza di un provvedimento amministrativo, seppur tacito, la tutela del terzo si sarebbe dovuta esplicare attraverso l’azione di annullamento e la conseguente condanna dell’amministrazione ad esercitare i poteri inibitori. Il Tar Piemonte, con la sentenza in commento, si è interrogato sull’attualità delle statuizioni sopra esposte alla luce delle modifiche introdotte, nel corpo dell’art. 19 L. 241/90, prima dai DD.LD. 70/2011 e 138/2011, e poi dal D.L. 133/2014. Invero, uno dei presupposti logici sui quali si regge la suddetta pronuncia è costituito dalla affermazione secondo la quale <<il decorso del termine assegnato dalla legge alla Amministrazione per esercitare il potere di inibire l’intervento oggetto di d.i.a. consuma il potere stesso e perciò conclude, ipso facto, il procedimento […] venendo meno il potere della Amministrazione di determinarsi sia pure tardivamente - il silenzio mantenuto dalla Amministrazione a seguito della presentazione di una d.i.a. non può essere qualificato come silenzio-inadempimento, poiché tale istituto presuppone la sopravvivenza del potere della Pubblica Amministrazione di provvedere>>. L’art. 19 della L. 241/90, infatti, prima dell’intervento della riforma, prevedeva il termine di 60 giorni dal ricevimento della S.C.I.A. per l’esercizio da parte dell’Amministrazione del poter di adottare provvedimenti motivati di divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione degli eventuali effetti dannosi della stessa, salva la possibilità per l’interessato di conformare la propria attività alla normativa vigente ed il potere della Amministrazione di adottare determinazioni in via di autotutela ai sensi degli artt. 21 quinquies e 21 nonies della L. 241/90. La norma in questione, inoltre, prevedeva che, decorso il predetto termine, l’Amministrazione potesse intervenire solo in particolari ipotesi quali la presenza di un danno per il patrimonio artistico e culturale, per l’ambiente, per la salute, per la sicurezza pubblica o la difesa nazionale e comunque previo motivato accertamento della impossibilità di tutelare tali interessi mediante conformazione dell’attività dei privati alla normativa vigente. Con il D.L. 70/2011 nel corpo dell’art. 19 è stato introdotto il comma 6 bis il quale ha ridotto il termine di 60 giorni a 30 giorni, facendo salva l’applicazione delle disposizioni di cui al comma 4 ed al comma 6 e le disposizioni relative alla vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia, alle responsabilità ed alle sanzioni previste con d.p.r. 380/11. Il successivo D.L. 138/2011 ha modificato l’art. 19 comma 4 al fine di coordinarlo con il termine ridotto di trenta giorni nelle S.c.i.a. in materia edilizia. Lo stesso, inoltre, ha introdotto il comma 6 ter, con il quale ha stabilito che “La segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e la dichiarazione di inizio attività non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili. Gli interessati possono sollecitare l’esercizio di verifiche spettanti all’amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l’azione di cui all’art. 31 commi 1 e 2 del decreto legislativo 2 luglio 2010 n. 104”. Già in passato i Tribunali amministrativi hanno affermato che il decorso del termini di cui ai commi 3 e 6-bis dell’art. 19, sì come modificato dalle riforme del 2011 non consuma il potere amministrativo (si veda in tal senso la sentenza 4799/14 del TAR Milano la quale afferma che se “E’ ben vero che, secondo l’orientamento recentemente espresso dalla giurisprudenza e condiviso dal collegio, il consolidarsi della d.i.a. determina - di regola – l’impossibilità per il Comune di intervenire oltre il termine, se non esercitando i propri poteri di autotutela (…) Tale regola, tuttavia, contempla almeno due eccezioni, stabilite dallo stesso legislatore. (…) ai sensi dell’art. 19, comma 4, della legge n. 241 del 1990, “(…) In secondo luogo, l’intervento inibitorio è doveroso laddove la presenza dei presupposti della d.i.a. sia denunciata dal terzo, titolare di una posizione giuridica qualificata e differenziata, ai sensi del richiamato comma 6-ter del medesimo articolo 19”. Sebbene, infatti, le modifiche apportate all’art. 19 della L. 241/90 sono ispirate da un intento di liberalizzazione e semplificazione di alcune attività, dove assume un’importanza centrale la tutela dell’affidamento del privato sulla legittimità della propria attività, queste devono confrontarsi con altri interessi meritevoli di tutela. Il mancato richiamo ad un termine per l’esercizio del potere sollecitatorio da parte del terzo, dunque, deve essere interpretato come tacita volontà del legislatore di non circoscriverlo entro un determinato lasso temporale. Ne consegue che <<Nella misura in cui il terzo può, ai sensi del comma 6-ter dell’art. 19 L. 241/90, sollecitare senza limiti di tempo le Amministrazioni queste possono (…) esercitare i poteri inibitori, o comunque assumere determinazioni coerenti con la rilevata illegittimità di una S.c.i.a. o di una D.i.a. e della attività intrapresa sulla base di essa, e ciò parimenti senza limiti di tempo. E questo significa, più in generale, che con il D.L. 138/2011 il legislatore è andato chiaramente (…) disconoscendo che l’inerzia mantenuta dalle Amministrazioni a fronte di tali atti possa integrare una qualsiasi ipotesi di silenzio significativo>>. Questa interpretazione risulta coerente anche con la scelta del mezzo di tutela posto a disposizione del terzo il quale, in assenza di un provvedimento amministrativo (anche tacito) non può adire direttamente l’autorità giudiziaria dovendo, viceversa, sollecitare previamente l’attività di controllo della Pubblica Amministrazione e solo successivamente potrà impugnare il provvedimento amministrativo o agire ai sensi dell’art. 31 c.p.a. Il Collegio, dunque, esaminato l’art.19 della L. 241/90, sì come modificato, ha preso atto della mutata disciplina sostanziale dell’istituto (applicabile solo alle d.i.a. e s.c.i.a. successive all’entrata in vigore dei suddetti provvedimenti normativi). VA
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Inserito in data 01/07/2015 CORTE COSTITUZIONALE - SENTENZA 25 giugno 2015, n. 119 Servizio civile e discriminazioni: illegittima l’esclusione degli stranieri La Consulta, con la pronuncia de qua, interviene in merito all’illegittimità dell’esclusione, dal Servizio civile, degli stranieri. Invero, la Corte Costituzionale, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, del d.lgs. del 5 aprile 2002 n. 77, nella parte in cui prevede il requisito della cittadinanza italiana ai fini dello svolgimento del servizio civile. È bene rilevare che, con ordinanza del 1° ottobre 2014, le Sezioni Unite civili della Corte di cassazione, hanno sollevato − in riferimento agli artt. 2, 3 e 76 della Costituzione − questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, del decreto legislativo 5 aprile 2002, n. 77 (Disciplina del Servizio civile nazionale a norma dell’articolo 2 della L. 6 marzo 2001, n. 64), nella parte in cui − prevedendo il requisito della cittadinanza italiana − esclude i cittadini stranieri regolarmente soggiornanti in Italia dalla possibilità di essere ammessi a prestare il servizio civile. La Corte di cassazione, premette che la questione di legittimità costituzionale, è sorta nell’ambito di un giudizio promosso, ai sensi dell’art. 44 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), da un cittadino pachistano, unitamente a due enti non lucrativi, al fine di denunciare la natura discriminatoria del bando per la selezione di volontari da impiegare in progetti di servizio civile. L’art. 3 del bando in parola, in applicazione della disposizione censurata, richiede − tra i requisiti e le condizioni di ammissione − il possesso della cittadinanza italiana. La natura discriminatoria di tale art. 3, è, invero, stata dichiarata dal Tribunale ordinario di Milano, sezione lavoro, con la quale è stato, inoltre, ordinato alla Presidenza del Consiglio dei ministri di sospendere le procedure di selezione e di modificare il bando, consentendo, per tale via, l’accesso anche agli stranieri regolarmente soggiornanti in Italia. Tuttavia, ciò premesso, le Sezioni Unite rilevano che il successivo acquisto della cittadinanza italiana da parte del ricorrente, e l’integrale svolgimento degli effetti del bando, hanno determinato la sopravvenuta perdita di ogni utilità derivabile alle parti dall’accoglimento o dal rigetto del ricorso. Inoltre, con la prestazione del servizio civile da parte dei volontari selezionati, la vicenda concreta appare del tutto esaurita, né vi sarebbe spazio per l’accertamento dell’illegittimità del bando a fini risarcitori, non avendo i ricorrenti avanzato domanda in tal senso. La Corte di cassazione “ritiene quindi che in tale contesto siano venute meno le condizioni per pronunciare sul ricorso, il quale appare destinato alla definizione con una sentenza, in rito, di inammissibilità per sopravvenuto difetto di interesse”. La Corte Costituzionale, provvede a chiarire che “l’istituto del servizio civile ha subito una rilevante trasformazione a seguito dei ripetuti interventi legislativi che ne hanno modificato i contorni”, invero “dall’originaria matrice di prestazione sostitutiva del servizio militare di leva, che trovava il suo fondamento costituzionale nell’art. 52 Cost., esso si qualifica ora come istituto a carattere volontario, al quale si accede per pubblico concorso”. Pertanto, l’ammissione al servizio civile, consente oggi di realizzare i doveri inderogabili di solidarietà e di rendersi utili alla propria comunità, il che corrisponde, allo stesso tempo, ad un diritto di chi ad essa appartiene. Il dovere di difesa della Patria, non si risolve soltanto in attività finalizzate a contrastare o prevenire un’aggressione esterna, ma può comprendere anche attività di impegno sociale non armato. Viene precisato che “accanto alla difesa militare, che è solo una delle forme di difesa della Patria, può dunque ben collocarsi un’altra forma di difesa, che si traduce nella prestazione di servizi rientranti nella solidarietà e nella cooperazione a livello nazionale ed internazionale (sentenza n. 228 del 2004)”. Dunque, alla luce di quanto esposto, l’esclusione dei cittadini stranieri, che risiedono regolarmente in Italia, dalle attività alle quali tali doveri si riconnettono, appare di per sé irragionevole. GMC
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Inserito in data 30/06/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 26 giugno 2015, n. 3243 Sulla giurisdizione del G.O. nel caso di irrogazione della sola sanzione accessoria Secondo consolidata giurisprudenza, “in considerazione del «carattere accessorio» dell'irrogazione della sanzione pecuniaria, sussiste la giurisdizione del giudice civile nel caso di impugnazione dei provvedimenti comunali adottati ai sensi dell'art. 23, comma 13, del decreto legislativo 30 aprile 1992 n. 285, con cui è disposta la rimozione di impianti pubblicitari abusivamente posizionati” (Cass. Civ., Sez Un., 19 agosto 2009, n. 18357; 23 giugno 2010 n. 15170; 14 gennaio 2009, n. 563; 18 novembre 2008, n. 27334; 6 giugno 2007, n. 13230; 17 luglio 2006, n. 16129; 19 novembre 1998, n. 11721; Cons. Stato, Sez. V, 31 ottobre 2012, n. 5556; 27 giugno 2012, n. 3786 e 3787; 27 marzo 2013, n. 1777).
Alla luce di tali pronunce, dunque, “l'art. 211, comma 7, del D.Lgs. n. 285 del 1992 va interpretato nel senso che la giurisdizione del giudice civile sussiste non solo in caso di ordinanza-ingiunzione congiuntamente irrogativa della sanzione pecuniaria e di quella accessoria, ma anche in caso di ordinanza-ingiunzione irrogativa della sola sanzione accessoria” (sul punto, cfr. Cass., Sez. Un., 25 maggio 2001, n. 223; 23 luglio 2002, n. 10790). EF
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Inserito in data 29/06/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 26 giugno 2015, n. 3236 Gestione del servizio idrico e difetto di legittimazione del Comune Con la pronuncia in epigrafe, il Consiglio di Stato afferma il difetto di legittimazione attiva di un Comune, “le cui funzioni in materia di gestione del servizio idrico sono devolute all’ATO”. Sul punto, la giurisprudenza costituzionale ed amministrativa ha da tempo chiarito che “l’ATO è una struttura organizzativa dotata di una distinta soggettività giuridica” (cfr. Cons. Stato, Sez. V, n. 5243 del 2009; Sez. VI, n. 2948 del 2007 quest’ultima relativa proprio agli Ato disciplinati dalla l.r. Lazio n. 6/1996). Le autorità d'ambito, infatti, “erano già previste dagli artt. 8 e 9 della legge n. 36 del 1994 e dagli articoli da 24 a 26-bis della legge 8 giugno 1990, n. 142 (Ordinamento delle autonomie locali), che ne consentivano l'istituzione, da parte delle Regioni, con strutture e forme giuridiche diverse alle quali pure partecipavano necessariamente gli enti locali, come le convenzioni, i consorzi, le unioni di comuni, l'esercizio associato delle funzioni. Tali disposizioni sono state attuate dalla legislazione regionale mediante l'adozione di moduli organizzativi scelti tra quelli consentiti dalle disposizioni stesse, seppure diversamente denominati (agenzie, consorzi, autorità)”. Così, Corte cost., n. 246/2009 ha chiarito che “l'art. 148 D.Lgs. n. 152/2006, ha razionalizzato il suddetto quadro normativo, superando la frammentazione della gestione del servizio idrico, nel rispetto delle preesistenti competenze degli enti territoriali ed unificando le modalità di esercizio della gestione delle risorse idriche, prevedendo espressamente il trasferimento delle relative competenze dagli enti locali all'autorità d'àmbito; autorità della quale - come visto - gli enti locali necessariamente fanno parte”. Invero, “la necessità di attribuire le funzioni ad un autonomo soggetto giuridico è rimasta ferma anche all’indomani dell’abrogazione del citato art. 148”. A tal proposito è intervenuta la pronuncia della Corte costituzionale, n. 50/2013, secondo la quale: “Per quanto riguarda le Autorità d'ambito, preposte alla programmazione ed alla gestione del servizio idrico integrato nel territorio delle Regioni, l'art. 2, c. 186-bis, della legge 23 dicembre 2009, n. 191 (l. finanziaria 2010), nel sopprimere le Autorità d'ambito territoriale, di cui agli artt. 148 e 201 del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152(Codice dell'ambiente), ha stabilito che "le regioni attribuiscono con legge le funzioni già esercitate dalle Autorità, nel rispetto dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza". Con la modifica del 2009, la legislazione statale ha inteso realizzare, mediante l'attuazione dei principi di cui sopra, una razionalizzazione nella programmazione e nella gestione del servizio idrico integrato, superando la precedente frammentazione. Perché ciò avvenga, è innanzitutto necessario che i soggetti cui sono affidate le funzioni abbiano una consistenza territoriale adeguata, ma è anche indispensabile che i piani d'ambito abbiano natura integrata e unitaria, in modo da realizzare l'efficienza, l'efficacia e l'economicità del servizio. Il rispetto dei principi di sussidiarietà, di differenziazione e di adeguatezza, richiamati dal sopra citato art. 2, c. 186-bis, della legge n. 191/2009 , implica che non possa essere trascurato, nella prefigurazione normativa regionale della struttura e delle funzioni dei soggetti tributari dei servizi, il ruolo degli enti locali e che debba essere prevista la loro cooperazione in vista del raggiungimento di fini unitari nello spazio territoriale che il legislatore regionale reputa ottimale. Si deve ritenere, pertanto, che un organismo come l'assemblea dei sindaci (ASSI) ben si inserisca nell'organizzazione dell'ente regionale unitario, allo scopo di mantenere un costante rapporto tra programmazione e gestione del servizio su scala regionale ed esigenze dei singoli territori compresi nell'ambito complessivo dell'ERSI”. In conclusione, spetta all’Ato, cui appartiene l’amministrazione comunale, assumere iniziative per garantire l’efficacia delle convenzioni. EF
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Inserito in data 26/06/2015 CORTE COSTITUZIONALE - UFFICIO STAMPA, COMUNICATO del 24 giugno 2015 Illegittimità del blocco dei trattamenti economici dei dipendenti pubblici La Consulta, con un comunicato stampa, ha anticipato la propria decisione con la quale, dando risposta ai dubbi di legittimità costituzionale sollevati con le ordinanze nn. r.o. 76/14 e 125/14, ha dichiarato <<l’illegittimità costituzionale sopravvenuta del regime del blocco della contrattazione collettiva per il lavoro pubblico, quale risultante dalle norme impugnate e da quelle che lo hanno prorogato>>. Sebbene, infatti, ai sensi dell’art. 81 della Costituzione - lo Stato “assicura l’equilibrio fra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conte delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico”, la spending review non può incidere sugli stipendi dei lavoratori. Inoltre, quello che formalmente doveva limitarsi ad essere un mero blocco degli aumenti degli stipendi dei dipendenti pubblici, a seguito dell’imponente aumento della tassazione e del prelievo fiscale, si è tradotto, di fatto, in una riduzione degli stessi. Un siffatto intervento sarebbe ammissibile solo in ipotesi straordinarie e per un circoscritto lasso temporale, non essendone ammissibile l’automatica rinnovazione con cadenza annuale. Verosimilmente, dunque, il provvedimento normativo sarebbe stato giudicato dal Collegio sproporzionato rispetto allo scopo perseguito. Tuttavia, contrariamente a quanto avvenuto con la precedente decisione con la quale la Consulta ha dichiarato l’illegittimità del blocco dell’adeguamento Istat previsto per le pensioni, è stato scongiurato il rischio per il bilancio pubblico derivante da un’applicazione retroattiva della decisione in commento. Il Collegio, infatti, ha espressamente affermato che gli effetti della propria decisione si produrranno dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza. Si attende il deposito delle motivazioni per capire coma la Consulta abbia giustificato una tale disparità di trattamento. VA
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Inserito in data 26/06/2015 CORTE DI CASSAZIONE - PRIMA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 15 giugno 2015, n. 12316 Contratti di diritto privato stipulati da una P.A. e forma ad substantiam La Suprema Corte, con la sentenza in commento, ha rigettato il ricorso presentato avverso la sentenza della Corte d’Appello che aveva dichiarato la nullità di un contratto di fornitura intercorso tra una Pubblica Amministrazione e una società per mancanza della forma scritta richiesta dall’art. 17 del r.d. 2240/23 e dall’art. 1326 c.c.. A parere della Corte di Cassazione, infatti, dall’art. 16 del regio decreto sopra citato si può desumere che <<i contratti stipulati con la Pubblica Amministrazione devono essere redatti, a pena di nullità, in forma scritta con la sottoscrizione di un unico documento, rappresentando essa uno strumento indefettibile di garanzia del regolare svolgimento dell’attività negoziale della Pubblica Amministrazione>>. Questa regola può essere derogata solo nelle ipotesi previste nel successivo art. 17 r.d. 2240/23. Anche in questo caso, tuttavia, la corrispondenza commerciale attraverso la quale si può addivenire alla conclusione di un contratto tra le parti deve manifestarsi attraverso uno scambio tra proposta ed accettazione ex art. 1326 c.c., in mancanza del quale il contratto non può dirsi perfezionato. Nel caso di specie, pertanto, avendo l’impresa fornitrice adempiuto all’offerta commerciale senza manifestare previamente il proprio consenso, il contratto sarebbe stato affetto da nullità, non rilevando la produzione in giudizio delle fatture relative alla consegna della merce. Queste ultime, infatti, sono del tutto insufficienti ad integrare la forma scritta ad substantiam richiesta per la conclusione dei contratti con le pubbliche amministrazioni, anche nelle ipotesi in cui queste ultime agiscano “iure privatorum”. VA
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Inserito in data 25/06/2015 TAR LIGURIA - GENOVA, SEZ. II, 22 giugno 2015, n. 598 Tempi impugnazione bando di gara, clausole escludenti e diritto alla restrizione candidati
I Giudici genovesi, con la pronuncia in esame, respingono il ricorso di una ditta partecipante ad una gara che, lamentando la violazione – da parte della stazione appaltante - degli artt. 41, 42 e 64 del Codice dei contratti pubblici, non avrebbe specificato negli atti di gara né i requisiti di capacità economica e finanziaria, né quelli di capacità tecnica e professionale richiesti ai concorrenti ai fini dell’ammissione alla procedura.
In tal modo, ad avviso dell’odierno ricorrente, verrebbe leso il proprio interesse alla restrizione del numero di candidati possibili.
Il Collegio, non ritenendo l’intento di limitare la platea dei partecipanti – come paventato dall’odierno istante – un interesse meritevole di tutela, sancisce l’inammissibilità della censura per carenza di interesse attuale a ricorrere.
Si ricorda, infatti, che clausole del tenore di quelle impugnate, non avendo natura escludente, né imponendo oneri manifestamente incomprensibili o del tutto sproporzionati per eccesso rispetto ai contenuti della procedura concorsuale, non rientrano tra quelle per cui è necessaria ed imprescindibile un’impugnazione immediata del bando – come la giurisprudenza costantemente afferma (Cfr. Cons. di St., V, 26.5.2015, n. 2637; id., III, 14.5.2015, n. 2413).
Si tratta, semmai, di clausole non impeditive della partecipazione – a fronte delle quali il candidato dovrà attendere l’eventuale lesione del proprio patrimonio giuridico solo all’atto di approvazione della graduatoria.
Solo allora, infatti, ricordano i Giudici, sarà possibile individuare in concreto il soggetto leso dal provvedimento, rendendo attuale e concreta la lesione della situazione soggettiva e vagliare, eventualmente, doglianze simili a quelle di oggi, invece prospettate prematuramente. CC |
Inserito in data 25/06/2015 CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL'UOMO, GRANDE CAMERA - CASO D. contro Estonia, SENTENZA 16 giugno 2015 - n. 64569/09 Offese on line: responsabile il portale Il massimo Organo giurisdizionale di Strasburgo interviene, con la pronuncia in esame, riguardo al primo episodio di responsabilità di un portale di news. Infatti, a seguito di commenti sgradevoli ed offensivi, persino incitanti all’odio, pubblicati sul sito ad opera di soggetti terzi, i Giudici della Grande Camera dichiarano responsabile la società che gestisce il portale, che consentiva simili pubblicazioni senza alcun controllo o senza alcuna, previa registrazione. La conclusione, cui giunge il Collegio, è conforme ai principi della Convenzione. Ricorda la Corte, infatti, che – nel caso di specie - non si configura alcuna violazione della libertà di espressione, garantita dall'articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, da parte dello Stato che, attraverso i tribunali nazionali, procede così ad applicare una sanzione al portale che non blocca i commenti. CC
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Inserito in data 24/06/2015 TAR LIGURIA - GENOVA, SEZ. II, 22 giugno 2015, n. 602 Diritto di accesso: ribaditi i presupposti Il Collegio ligure interviene riguardo all’impugnazione di un diniego di accesso, ritenendone fondati i motivi di impugnativa e delimitando i presupposti ai fini dell’ostensibilità di documenti. Si tratta, infatti, di un’istanza avente ad oggetto una denuncia – esposto pendente sulla parte ricorrente, la quale chiede di conoscerne gli estremi subendo, tuttavia, un diniego da parte dell’Amministrazione competente. Censurando tale provvedimento negativo, i Giudici genovesi ricordano come l’interesse richiesto dall’art. 22 L. 241/90 sia diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento del quale è chiesto l'accesso. Con riguardo al caso di specie, non è dubitabile che sussista l’interesse della ricorrente alla conoscenza della denuncia, quale che possa essere stato l’esito della stessa. Questa, infatti, sottolinea il Collegio - potrebbe condurre ad un procedimento sanzionatorio, onde la sussistenza dell’interesse sotto specie del diritto di difesa; oppure potrebbe, ove infondata, spingere la società istante a voler comunque conoscerne e valutarne gli estremi – in vista di una tutela più ampia in sede giurisdizionale. Il Collegio disattende, altresì, il dubbio circa la genericità del documento della cui ostensione si tratta: infatti, trattandosi della richiesta di copia di una denuncia, è indubbiamente un atto specifico e ben determinato. In considerazione di ciò, i Giudici accolgono il ricorso, con conseguente annullamento del diniego di accesso oggi impugnato. CC
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Inserito in data 23/06/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 18 giugno 2015, n. 3118 Tutela dell’ambiente: il singolo può agire giudizialmente
I Giudici di Palazzo Spada, con la pronuncia de qua, intervengono in tema di tutela dell’ambiente, chiarendone alcuni profili concernenti, principalmente, la possibilità, riservata ad un singolo, di agire in giudizio contro un provvedimento amministrativo esplicante effetti sull’ambiente.
Secondo quanto da essi chiarito, se è pur vero che la tutela dell’ambiente – lungi dal costituire un “autonomo” settore di intervento dei pubblici poteri – assuma il ruolo unificante di distinte tutele giuridiche, volte in favore di diversi beni nella vita che si collocano nell’ambiente e, altresì, considerando che l’ambiente sia un bene pubblico, non affatto suscettibile di appropriazione individuale, indivisibile, unitario, non attribuibile, deve ammettersi pacificamente, tenendo in considerazione gli artt. 24 e 113 della Carta costituzionale, che un singolo soggetto possa agire in sede giurisdizionale contro un provvedimento amministrativo che esplichi i suoi effetti sull’ambiente in cui vive. Il singolo, in tale circostanza, sarà tenuto ad indicare quale sia il bene della vita suscettibile di essere pregiudicato dalla Pubblica Amministrazione (ad esempio, il suolo o l’acqua), dimostrando, altresì, che non si tratti di un bene che pervenga indivisibilmente ad una pluralità più o meno vasta di soggetti (nessuno dei quali ne ha tuttavia la esclusiva disponibilità) e che, rispetto ad esso, egli vanti una posizione differenziata. GMC |
Inserito in data 23/06/2015 CORTE DI CASSAZIONE - TERZA SEZIONE CIVILE - SENTENZA 19 giugno 2015, n. 12722 Danno catastrofale: brevità del periodo di sopravvivenza alle lesioni Con la pronuncia in questione, gli Ermellini intervengono in tema di danno catastrofale. I Giudici della Suprema Corte, infatti, chiariscono che in caso di morte della vittima a seguito di sinistro stradale, la brevità del periodo di sopravvivenza alle lesioni, se esclude l’apprezzabilità, ai fini risarcitori, del deterioramento della qualità della vita in ragione del pregiudizio della salute, ostando alla configurabilità di un danno biologico risarcibile, non esclude, invece, che la medesima abbia potuto percepire le conseguenze catastrofiche delle lesioni subite e patire sofferenza. Il diritto al risarcimento, dunque, sotto il profilo del danno morale, risulta, quindi, già entrato a far parte del suo patrimonio al momento della morte, e può essere pertanto fatto valere “iure hereditatis”. GMC
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Inserito in data 22/06/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 18 giugno 2015 n. 3090 L’autorizzazione alla detenzione ed al porto d’armi è ampiamente discrezionale
Per giurisprudenza pacifica, “l'autorizzazione alla detenzione ed al porto d'armi richiedono che il beneficiario osservi una condotta di vita improntata alla piena osservanza delle norme penali e di quelle poste a tutela dell'ordine pubblico, nonché delle regole di civile convivenza” (da ultimo, Consiglio di Stato, Sezione III, n. 1270 dell’11 marzo 2015).
In particolare, la valutazione che compie l'Autorità di Pubblica Sicurezza in materia è caratterizzata “da ampia discrezionalità e persegue lo scopo di prevenire, per quanto possibile, l’abuso di armi da parte di soggetti non pienamente affidabili”. Si è, pertanto, affermato che il giudizio di "non affidabilità" è giustificabile “anche in situazioni che non hanno dato luogo a condanne penali o misure di pubblica sicurezza”, ma genericamente non ascrivibili a "buona condotta" (Consiglio di Stato, Sez. III, n. 1270 dell’11 marzo 2015, cit.; Sez. III, n. 5398 del 14 ottobre 2014). La licenza di porto d'armi può essere poi negata o revocata anche “in assenza di pregiudizi e controindicazioni connessi al corretto uso delle armi, potendo l'Autorità amministrativa valorizzare, nella loro oggettività, sia fatti di reato, sia vicende e situazioni personali che non assumono rilevanza penale (e non attinenti alla materia delle armi), da cui si possa, comunque, desumere la non completa "affidabilità" del soggetto interessato all'uso delle stesse” (Consiglio di Stato, Sez. III, n. 1270 dell’11 marzo 2015, cit.; Consiglio di Stato, Sez. III, n. 3979 del 29 luglio 2013). EF |
Inserito in data 22/06/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 18 giugno 2015 n. 3126 Sulla legittimazione al ricorso del concorrente escluso dalla gara Con la sentenza in esame, il Consiglio di Stato afferma che “…la situazione legittimante costituita dalla partecipazione alla procedura costituisce la condizione necessaria per acquisire la legittimazione al ricorso”. Invero, “la posizione sostanziale differenziata che radica la legittimazione al ricorso non è instaurata dal solo fatto storico della iniziale partecipazione alla gara, indipendentemente dalla successiva esclusione, oppure dall’accertamento della sua illegittimità”. La legittimazione del concorrente che abbia partecipato alla gara può, quindi, “essere impedita dall’inoppugnabilità dell’atto di esclusione perché non impugnato, o perché giudicato immune dai vizi denunciati dalla parte interessata”. Da ciò discende che “la mera partecipazione di fatto alla gara non è sufficiente per attribuire la legittimazione al ricorso: la situazione legittimante costituita dall’intervento nel procedimento selettivo deriva infatti, secondo l’Adunanza Plenaria (n.4/2011), da una qualificazione di carattere normativo, che postula il positivo esito del sindacato sulla ritualità dell’ammissione del soggetto ricorrente alla procedura selettiva”. Pertanto, “si deve concludere che non spetta alcuna legittimazione a contestare gli esiti della gara o comunque il suo svolgimento al concorrente escluso dalla gara, per il quale l’atto di esclusione non sia stato in qualche modo rimosso” (Sez. V n. 3994/2012 del 9.7.2012). EF
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Inserito in data 19/06/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 16 giugno 2015, n. 2980 Sulla realizzazione di lavori abusivi alla luce del D.P.R. 380/2001 Il Consiglio di Stato, con la sentenza in esame, chiarisce che la realizzazione di lavori abusivi, tali da comportare utilizzabilità, a fini residenziali, di un volume inutilizzabile secondo i titoli edilizi rilasciati e, quindi, da imprimere a tutta la superficie utile una destinazione urbanistica diversa rispetto a quella assentita, giustifica il procedimento di calcolo della sanzione pecuniaria basato sull’integrale volume della predetta superficie. Invero, a tal proposito, viene precisato che, alla luce dell’art. 34, comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001, la sanzione dev’essere calcolata sulla parte dell’opera realizzata in difformità dal permesso di costruire e, dunque, nella ipotesi ivi evidenziata, su tutta la superficie, nel caso de quo costituita da un sottotetto. GMC |
Inserito in data 19/06/2015 CORTE DI CASSAZIONE - TERZA SEZIONE CIVILE - SENTENZA 18 giugno 2015, n. 12598 Estensione automatica della domanda al terzo chiamato Con la pronuncia de qua, gli Ermellini intervengono in tema di estensione automatica della domanda al terzo chiamato. Viene chiarito che nell'ipotesi in cui la parte convenuta in un giudizio di responsabilità civile chiami in causa un terzo in qualità di corresponsabile dell'evento dannoso, chiedendone – in caso di affermazione della propria responsabilità – la condanna a garantirla e manlevarla, l'atto di chiamata, indipendentemente dalla formula adottata, dev’essere inteso come chiamata del terzo responsabile, e non come “chiamata in garanzia impropria”, dovendosi privilegiare l'effettiva volontà della chiamante in relazione alla finalità, in concreto perseguita, di attribuire al terzo la corresponsabilità dell'evento dannoso. Dunque, in tal caso, essendo, altresì, unico il fatto generatore della responsabilità prospettata con la domanda principale e con la chiamata dei terzi, si verifica, come anticipato, l'estensione automatica della domanda al terzo chiamato. Nel caso de quo, il giudice – secondo quanto prospettato dai giudici di Piazza Cavour – potrà, direttamente, emettere nei confronti di quest’ultimo una pronuncia di condanna, anche nel caso in cui l'attore non ne abbia fatto richiesta, senza, peraltro, incorrere nel vizio di extrapetizione. GMC
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Inserito in data 18/06/2015 CORTE COSTITUZIONALE - ORDINANZA 15 giugno 2015, n. 111 Sul controllo di costituzionalità delle leggi della Regione siciliana
I Giudici della Consulta, intervenendo in un nuovo giudizio promosso dal Commissario dello Stato per la Regione siciliana, richiamano una propria pronuncia - n. 255 del 2014 – particolarmente significativa in tema di controllo sugli atti normativi della Regione a Statuto speciale.
Con la pronuncia anzidetta, infatti, il Collegio costituzionale aveva già dichiarato costituzionalmente illegittimo l’articolo 31, comma 2, della legge 11 marzo 1953, n. 87, recante «Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale» (come sostituito dall’art. 9, comma l, della legge 5 giugno 2003, n. 131, recante «Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3»), limitatamente alle parole «Ferma restando la particolare forma di controllo delle leggi prevista dallo statuto speciale della Regione siciliana», ritenendolo presuntivamente in contrasto con l’articolo 10 della legge costituzionale 18 ottobre 200l n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione).
La declaratoria di incostituzionalità, nella specie, era fondata sul fatto che – data la natura preventiva del controllo effettuato sulle leggi siciliane – si riteneva di conferire un minor grado di garanzia dell’autonomia rispetto a quello previsto dall’articolo 127 della Costituzione - a fronte di una clausola di maggior favore prevista dall’art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 200l, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione) a garanzia delle autonomie speciali.
A seguito di tale pronuncia, ricorda la Consulta, deve pertanto estendersi anche alla Regione siciliana il sistema di impugnativa [successiva] delle leggi regionali, previsto dal riformato art. 127 Cost.» e devono ritenersi «non più operanti le norme statutarie relative alle competenze del Commissario dello Stato nel controllo delle leggi siciliane, alla stessa stregua di quanto affermato da questa Corte con riguardo a quelle dell’Alta Corte per la Regione siciliana (sentenza n. 38 del 1957), nonché con riferimento al potere del Commissario dello Stato circa l’impugnazione delle leggi e dei regolamenti statali (sentenza n. 545 del 1989)» (sentenza n. 255 del 2014). In forza di ciò, una volta esteso alla Regione siciliana il controllo successivo previsto dagli articoli 127 della Costituzione e 31 della legge n. 87 del 1953 per le Regioni a statuto ordinario, anche l’odierno giudizio deve essere dichiarato improcedibile – stante la raggiunta impossibilità per questa Corte di esercitare il proprio sindacato sulla delibera legislativa siciliana - prima che quest’ultima sia stata promulgata e pubblicata e, quindi, sia divenuta legge in senso proprio. CC
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Inserito in data 17/06/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI - 15 giugno 2015, n. 2913 Diritto di prelazione della P.A. su edifici di interesse storico-artistico
Il Supremo Consesso ha confermato la sentenza di primo grado con la quale il Tribunale di merito ha respinto il ricorso proposto avverso una delibera della giunta comunale relativa all’esercizio del diritto di prelazione su immobili di interesse culturale (ex art. 62 comma 2 d.lgs. 41/2004).
Argomentando la propria decisione il Collegio ha affermato che <<l’acquisizione di un bene di interesse storico-artistico non necessita di particolare motivazione>> dovendosi, pertanto, ritenere sufficiente l’esternazione della Pubblica amministrazione della sussistenza di interessi di rilievo pubblico che giustifichino l’esercizio del suddetto diritto e l’opportunità dell’acquisizione. Inoltre, nel caso di specie, sebbene, come già detto, non fosse necessario un particolare rigore nella <<puntuale definizione degli scopi cui il bene stesso è destinato (C.d.S. 6350/04; 3209/12), dal momento che la prelazione stessa, essendo prevista in un'ottica di tutela del patrimonio storico-artistico nazionale, presuppone che l'acquisizione del bene al patrimonio statale ne consenta una migliore tutela, e in particolare, una migliore valorizzazione e fruizione del pregio>> (Cons. St., VI, 21 febbraio 2001, n. 923) l’amministrazione deliberante, contrariamente a quanto affermato dalla ricorrente, non si era limitata ad una motivazione generica, ma aveva esplicitato le esigenze pubbliche che avevano condotto alla determinazione all’acquisizione del bene (esigenze che si concretavano nella necessità di assicurare adeguati spazi da destinare alla pubblica istruzione, ai quali l’immobile era già adibito). La motivazione fornita, dunque, appariva assolutamente congrua. VA |
Inserito in data 16/06/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI - 15 giugno 2015, n. 2917 Carattere interinale dell’ammissione con riserva ad una selezione concorsuale Il Consiglio di Stato, accogliendo il ricorso presentato avverso la sentenza di conferma di un provvedimento di estromissione dalla graduatoria concorsuale del vincitore, emanato a seguito dell’ottemperanza al provvedimento cautelare di ammissione con riserva in favore di altri concorrenti, ne ha dichiarato l’illegittimità. A parere del Supremo Consesso, infatti, <<l’ammissione con riserva ad una pubblica selezione concorsuale di un candidato non può produrre altro effetto, per la sua natura interinale, incidentale e cautelare, che quello di impedire, nelle more del giudizio, il protrarsi della lesione lamentata dal ricorrente, - consentendogli la partecipazione alle prove ovvero di essere inserito nella graduatoria- , ma ogni ulteriore effetto non può che conseguire dal passaggio in giudicato della pronuncia di merito favorevole>>. Il Collegio, inoltre, sottolinea come l’estromissione del soggetto collocato in posizione utile non costituisca una conseguenza automatica della decisione di merito definitiva. La decisione, infatti, rientra nel potere discrezionale della pubblica amministrazione che potrà essere esercitato a seguito delle opportune valutazioni degli interessi in gioco (ivi comprese le esigenze finanziarie della stessa). VA
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Inserito in data 15/06/2015 TAR EMILIA ROMAGNA - BOLOGNA, SEZ. I, 8 giugno 2015, n. 565 Pubblici dipendenti e pagamento delle ore di straordinario Per costante giurisprudenza del giudice amministrativo in materia di retribuzione di ore di lavoro straordinario prestate da pubblici dipendenti, ma non pagate dall’amministrazione, “l’incontestata prestazione dello straordinario è condizione necessaria ma non sufficiente ai fini dell’insorgenza dell’obbligo di pagamento da parte del datore di lavoro pubblico, occorrendo anche la previa formale autorizzazione a tale prestazione, oltre l’ordinario orario d’ufficio, da parte dell’organo superiore competente a rilasciarla”. Invero, “tale indispensabile autorizzazione svolge una pluralità di funzioni, tutte riferibili alla concreta attuazione dei principi di legalità, imparzialità e buon andamento ai quali, ai sensi dell’art. 97 della Carta Costituzionale, deve essere improntata l’azione della pubblica amministrazione” (v. Cons. Stato sez. III, 24/11/2012 n. 5953; T.A.R. Emilia – Romagna –BO- sez. I, 19/11/2012 n. 696; T.A.R. Emilia – Romagna –BO- sez. II, 27 marzo 2014 , n. 594).
L'autorizzazione, in definitiva, ”più che un mero atto di consenso, rappresenta il momento finale ed attuativo d'un processo di programmazione e di ripartizione delle risorse finanziarie a disposizione del Corpo per la gestione delle risorse umane (cfr. Cons. St., sez. V, 29 agosto 2006 n. 5057) e, come per tutto il pubblico impiego, rappresenta una concreta applicazione del principio costituzionale di buona amministrazione di cui all'art. 97 Cost.” (Cons. Stato sez. IV, n. 2620 del 2009; TAR Lazio –RM- sez. II, n. 22071 del 2010; T.A.R. Emilia – Romagna –BO- sez. I, n. 96 del 2012 cit.). EF
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Inserito in data 15/06/2015 TAR CALABRIA - CATANZARO, SEZ. II, 11 giugno 2015, n. 1026 Sul diritto di accesso alla cartella esattoriale Con la pronuncia in epigrafe, il Collegio afferma che “il potere di verifica fiscale è istituzionalmente esercitabile in funzione strumentale all'accertamento tributario e la relativa attività - avendo ontologicamente una funzione preparatoria del futuro provvedimento definitivo - non fa sorgere, di norma, il diritto di accesso nel caso in cui non si sia stato ancora emanato alcun avviso di accertamento, con la conseguenza che tale causa di esclusione opera con riguardo agli atti propedeutici alla emanazione del provvedimento terminale, ma non dopo che - conclusosi il procedimento tributario- sia stato adottato l'atto impositivo, potendo quest'ultimo essere, in astratto, immediatamente lesivo di posizioni giuridiche e, quindi, impugnabile, ancor prima che in sede giudiziaria” (ex plurimis: Cons. Stato, Sez. IV, 9 luglio 2002 n. 3825 e 21 ottobre 2008 n. 5144 Cons. Stato, Sez. IV, 21 ottobre 2008 n. 5144). Diversamente opinando, infatti, si perverrebbe alla singolare conclusione secondo cui, in uno Stato di diritto, il cittadino possa essere inciso dalla imposizione tributaria - pur nella più lata accezione della "ragion fiscale" - senza neppure conoscere il perché della imposizione e della relativa “quantificazione". In particolare, “l'art. 24 della legge 19.7.1990 n. 241, nella parte in cui esclude il diritto di accesso con riferimento ai procedimenti tributari - per i quali restano ferme le particolari norme che li regolano- va interpretato nel senso che la inaccessibilità agli atti relativi deve essere ritenuta temporalmente limitata alla fase di mera “pendenza” del procedimento tributario, in quanto non sussistono esigenze di segretezza nella fase che segue la conclusione del procedimento con l'adozione del procedimento definitivo di accertamento dell'imposta dovuta, sulla base degli elementi reddituali che conducono alla quantificazione del tributo”. Tale interpretazione “appare coerente con i principi espressi dalla nota sentenza della Corte Cost. n. 477 del 26 novembre 2002, le cui statuizioni sono state poi recepite, in via legislativa, dall'art. 2 comma 1 lett. e), della legge 28 dicembre 2005 n. 263, con cui è stato stabilmente introdotto nell'ordinamento giuridico il principio della scissione soggettiva degli effetti della notificazione, di guisa che essa si intende perfezionata, per il notificante, al momento della consegna del plico all'ufficiale giudiziario e, per il notificatario, soltanto al prodursi della legale conoscenza dello stesso” (ex plurimis: Cons. Stato Sez. V, 9 marzo 2009, n. 1365). Pertanto, deve riconoscersi il diritto di accesso” qualora l'Amministrazione abbia concluso il procedimento con l'emanazione del provvedimento finale”. Del resto, “l’interesse del contribuente alla ostensione degli atti propedeutici a procedure di riscossione è riconosciuto anche in via legislativa, mediante la previsione di obblighi in capo al concessionario alla riscossione”. Invero, “l’art. 26 del D.P.R. n. 602 del 1973, al comma 4°, nel disporre che il concessionario di esattoria deve conservare per cinque anni la matrice o la copia della cartella con la relazione dell'avvenuta notificazione o l'avviso di ricevimento ed ha l'obbligo di farne esibizione su richiesta del contribuente o dell'amministrazione, introduce due obblighi per la società concessionaria, quali: a) la conservazione per cinque anni e b) l'obbligo di esibizione a richiesta del contribuente” Ne consegue che, “in relazione alla cartella esattoriale, la richiesta di accesso, ai sensi degli artt. 22 ss., l. n. 241 del 1990, si pone come strumentale rispetto alla tutela dei diritti del contribuente in tutte le forme consentite dall'ordinamento giuridico ritenute più rispondenti ed opportune”. EF
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Inserito in data 13/06/2015 CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 9 giugno 2015, n. 106 Provvedimenti di confisca preventivi e motivi di ricorso in Cassazione La Corte di legittimità, tornando sull’annosa questione dei provvedimenti preventivi di confisca ha dichiarato infondata la questione di legittimità sollevata con riferimento all’art. 4 comma 11 della legge 1423/1956 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità) e dell’art. 3-ter comma 2 della legge 575/1965, n. 575, recante «Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche straniere», (ora artt. 10, comma 3, e 27, comma 2, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, recante «Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136»), per violazione degli artt. 3 e 24 Cost., «nella parte in cui limitano alla sola violazione di legge la proponibilità del ricorso per cassazione avverso i provvedimenti di confisca adottati nell’ambito dei procedimenti di prevenzione». Il dubbio di legittimità era stato sollevato nel corso di un giudizio all’interno del quale il ricorrente aveva dedotto il vizio di inesistenza e mera apparenza della motivazione sulla pericolosità sociale anche con riferimento all’applicazione della misura di prevenzione patrimoniale (art. 606, comma 1, lettera b) c.p.p.). La dichiarazione di infondatezza è avvenuta a dispetto delle modifiche normative introdotte dall’art. 2-bis comma 6-bis della legge n. 575 del 1965, con il quale si ammette la possibilità di applicare le misure di prevenzione personali e patrimoniali in maniera disgiunta e, limitatamente alle misure di prevenzione patrimoniali, a prescindere dalla pericolosità sociale dal soggetto proposto al momento della richiesta della misura di prevenzione e nonostante i presupposti per la loro applicazione abbiano carattere più debole di quelli richiesti dall’art. 12-sexies del d.l. n. 306 del 1992 ai fini della confisca avverso il quale, di contro, è ammesso ricorso per Cassazione anche per vizio di motivazione. Secondo il Supremo Consesso, infatti, le modifiche legislative che hanno interessato la confisca a scopo di prevenzione, sganciandola dalle misure personali, non hanno intaccato la loro natura giuridica che, continuando ad essere quella “preventiva”, deve essere applicata attraverso il relativo procedimento (Cassazione S.U. 4880/2015). Ne consegue che alle impugnazioni contro i provvedimenti relativi al sequestro e alla confisca si applica la disciplina cui rinvia l’art. 3-ter della legge n. 575 del 1965 (introdotto dalla legge n. 646 del 1982) e <<per effetto di questo rinvio, è ammesso ricorso in cassazione per violazione di legge anche nei confronti del provvedimento della Corte d’appello relativo alle misure di prevenzione patrimoniali>> rimanendo, pertanto, esclusi i vizi di motivazione previsti dall’art. 606 comma 1 lett. e) c.p.p.. Argomentando la propria decisione la Corte Costituzionale, infatti, ha ribadito la possibilità che procedimenti aventi caratteristiche differenti, quali il processo penale e quello finalizzato all’applicazione delle misure di sicurezza, possano consentire forme di difesa differenziate, senza che tale circostanza possa ritenersi lesiva dei principi di uguaglianza e del diritto di difesa. VA
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Inserito in data 13/06/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI - 12 giugno 2015, n. 2893 Sulla possibilità di applicare le ulteriori proroghe delle graduatorie alle Università Il Collegio ha respinto il ricorso promosso avverso la sentenza del Tribunale di merito che aveva considerato decorso il termine di validità dell’idoneità conseguita per l’insegnamento. Sebbene, infatti, le Università siano delle amministrazioni pubbliche e, pertanto, soggette al limite dell’assunzione mediante procedure concorsuali ed alle relative norme che le disciplinano, la procedura di valutazione comparativa per il conferimento dell’idoneità a professore universitario presenta delle peculiarità rispetto alle ordinarie procedure concorsuali, essendo volta ad assicurare che una conoscenza specialistica più aggiornata ed attuale possibile, esigenza che si ripercuote anche sulla disciplina relativa alla durata dell’idoneità e/o abilitazione all’insegnamento. Ne consegue lì impossibilità di applicare le eventuali ulteriori proroghe rispetto al termine quinquennale ( l. 230/05 e l. 240/10) in assenza di un espresso richiamo da parte del legislatore.
Seguendo l’iter logico sopra esposto i Giudici di Palazzo Spada hanno ritenuto che <<a sostegno della tesi dell’appellante da quanto dispone il comma 101 dell’art. 1 della legge 30 dicembre 2004, n. 311 (legge finanziaria 2005), che, nell’individuare le disposizioni dei commi precedenti non applicabili alle Università, ha indicato solo quelle in tema di divieto di assunzioni (commi 95 e 96) e non il comma 100 che ha prorogato di tre anni le graduatorie per le assunzioni del personale presso le pubbliche amministrazioni>>. VA
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Inserito in data 12/06/2015 CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 5 giugno 2015, n. 96 PMA e diagnosi genetica preimpianto La Corte costituzionale interviene, in materia di fecondazione, su uno dei temi più delicati dell’attuale scenario giuridico e non. Con la pronuncia de qua, infatti, ha dichiarato la illegittimità degli artt. 1, commi 1, 2, 4, comma 1, della Legge del 19 febbraio 2004, n. 40, nella parte in cui non consentono il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita alle coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili, rispondenti ai criteri di gravità che consentono l’accesso all’aborto terapeutico (art. 6, Legge n. 194 del 1978), accertate da apposite strutture pubbliche. La Corte, con il deposito delle motivazioni, accoglie in toto le ragioni dei ricorrenti e riconduce a piena “coerenza e unitarietà il sistema”, raccordando la Legge n. 40 del 2004 con la Legge n. 194 del 1978. Quanto al fatto, la pronuncia in questione, nasce nell’ambito di due procedimenti civili cautelari promossi da due coppie di coniugi che chiedevano di essere ammessi alla procreazione medicalmente assistita con diagnosi preimpianto, al fine di evitare il rischio di trasmettere ai figli la malattia genetica di cui sono portatori. In tutti e due i casi, le coppie avevano dovuto interrompere una precedente gravidanza, ricorrendo all’aborto terapeutico, poiché il feto era risultato affetto da tale patologia, la quale evinceva dagli esiti degli esami diagnostici prenatali effettuati anteriormente. Il Tribunale di Roma, aveva, dunque, sollevato due separate – seppur, tuttavia, identiche – questioni di legittimità costituzionale della norma che vieta l’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita alle coppie portatrici di malattie generiche per contrasto con gli artt. 2, 3, 32 e 117, comma 1, della Carta costituzionale, in riferimento agli artt. 8 e 14 CEDU. La Corte, ribadendo la impossibilità di percorrere la via della disapplicazione della norma interna per contrasto con le norme CEDU (tenendo, quindi, in considerazione la propria giurisprudenza), nonché di individuare una interpretazione costituzionalmente orientata delle disposizioni oggetto della censura de qua, dichiara la incostituzionalità delle disposizioni per violazione delle norme di cui agli artt. 3 e 32 della Costituzione. Nello specifico, per quanto concerne il primo profilo (art. 3), chiarisce “l’insuperabile aspetto di irragionevolezza dell’indiscriminato divieto” per le coppie affette da malattie geneticamente trasmissibili di accedere alle tecniche di PMA, con possibilità di procedere anche a “diagnosi preimpianto”. L’irragionevolezza, conformemente al percorso argomentativo proposto dalla Corte EDU nel caso Costa e Paven contro Italia, risiede nella “palese antinomia normativa” con quanto previsto dalla legge 194/1978, la quale consente alle coppie “l’interruzione volontaria (anche reiterata) di gravidanze naturali” al fine di “perseguire l’obiettivo di procreare un figlio non affetto dalla specifica patologia ereditaria di cui sono portatrici”. Specifica la Corte, altresì, che tale approccio, “non consente di far acquisire “prima” alla donna una informazione che le permetterebbe di assumere “dopo” una decisione ben più pregiudizievole per la sua salute” e “comporta anche la violazione del diritto alla salute della donna fertile portatrice di grave malattia genetica ereditaria (ex art. 32 Cost.): la compressione di tale diritto, inoltre, non trova – secondo la Corte – “un positivo contrappeso, in termini di bilanciamento, in una esigenza di tutela del nascituro, il quale sarebbe comunque esposto all’aborto”. Il divieto, dunque, secondo quanto chiarito dalla Corte, risulta colpito da irragionevolezza in termini di bilanciamento degli interessi coinvolti, nonché da irrazionalità alla luce di quanto previsto dalla Legge n. 194, provocando la violazione del diritto alla salute della donna, poiché non consente alle coppie affette da gravi malattie geneticamente trasmissibili di ricorrere alla procreazione assistita. Specificamente, la Corte costituzionale, nell’affermare l’incostituzionalità del divieto, richiama il criterio della “gravità” previsto dalla Legge n. 194 in riferimento al secondo trimestre, proponendo un parallelismo nelle condizioni di accesso che riprende l’identità di ratio degli strumenti già in precedenza richiamata. Dichiarando, dunque, la incostituzionalità del divieto, la Corte riconosce la necessità di un intervento normativo, il quale spetta al Legislatore, nei limiti che la discrezionalità legislativa incontra nel disciplinare l’attività medico – scientifica, alla luce di una consolidata giurisprudenza (sent. n. 282 del 2002), la quale rappresenta una condizione di legittimità di cui il Legislatore deve necessariamente tener in considerazione.
Alla luce di quanto esposto, gli artt. 1, commi 1 e 2, e 4, comma 1, della Legge del 19 febbraio 2004, n. 40 sono dichiarati incostituzionali, nella parte in cui non prevedono la possibilità di accedere alla procreazione medicalmente assistita con diagnosi genetica preimpianto alle coppie fertili, portatrici di malattie geneticamente trasmissibili rispondenti ai criteri di gravità – i quali dovranno essere accertati da strutture pubbliche – che consentono l’accesso all’aborto terapeutico. GMC
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Inserito in data 12/06/2015 CORTE DI CASSAZIONE - PRIMA SEZIONE PENALE, SENTENZA 8 giugno 2015, n. 24431 Natura “penalistica” dei social networks: la diffamazione è a “mezzo stampa” Con la pronuncia de qua, gli Ermellini intervengono chiarendo che offendere una persona scrivendo un “post” sulla sua bacheca di Facebook, integri il reato di diffamazione aggravata, come se l’offesa venisse portata dalle colonne di un quotidiano.
La prima sezione penale della Suprema Corte, con la sentenza n. 24431 in questione, è, invero, tornata ad esprimersi su un tema di notevole interesse nell'era odierna, cioè quello della diffamazione a mezzo Facebook.
La Suprema Corte, richiamando la giurisprudenza che avvalora la possibilità di diffamazione via internet, ha rilevato che l'aggravante rileva “nella potenzialità, nella idoneità e nella capacità del mezzo utilizzato per la consumazione del reato a coinvolgere e raggiungere una pluralità di persone (...) con ciò cagionando un maggiore e più diffuso danno alla persona offesa”. Alla luce di ciò, la Corte ha ritenuto che la rete di amicizie di Facebook abbia “potenzialmente la capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone e, pertanto, di amplificare l'offesa in ambiti sociali allargati e concentrici”. GMC
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Inserito in data 11/06/2015 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 8 giugno 2015, n. 2794 Società per azioni di diritto privato, reclutamento del personale e profili di giurisdizione Il Collegio della Quinta Sezione conferma la posizione del Giudice di primo grado riguardo al riconosciuto difetto di giurisdizione amministrativa e la conseguente, necessaria devoluzione dell’odierna controversia al Giudice ordinario. Si tratta, infatti, di un ricorso proposto da un candidato escluso da una selezione per la formazione di nove graduatorie per l'eventuale assunzione con contratto di lavoro a tempo indeterminato in merito ad un determinato profilo – indetta da una società per azioni operante nel settore dei trasporti in seno alla Regione Lazio. Conformemente a quanto addotto dal Giudice di prime cure, si ribadisce anche in questa sede l’appartenenza, di controversie simili, all’Autorità giurisdizionale Ordinaria. Infatti, sottolinea la Quinta Sezione, posto che l’azienda - odierna appellata - non svolge attività strumentale all’esercizio di funzioni amministrative proprie della Regione Lazio, non è attratta nell’alveo del Giudice amministrativo – in linea con quanto affermato dalle Sezioni Unite n. 28330 del 2011. La resistente, infatti, pur essendo interamente partecipata con capitali pubblici ed essendo soggetta a forme di controllo ed indirizzo pubblici, è comunque una società per azioni, soggetta a regole privatistiche e i cui dipendenti sono assunti con contratto di lavoro privato. Di contro, ricorda il Collegio, ciò che è essenziale per radicare la giurisdizione del giudice amministrativo in materia di procedure concorsuali per l’assunzione di personale è la riconducibilità dell’atto o del comportamento all’esercizio di pubblici poteri e come tale circostanza, nel caso che occupa, debba escludersi, dal momento che la azienda resistente svolge attività di trasporto e non funzioni amministrative proprie della Regione. Né, tantomeno, acquisisce pregio alcuno il fatto che la selezione indetta dalla società per l’assunzione di personale sia stata ispirata al rispetto di principi di trasparenza, pubblicità ed imparzialità all’atto del reclutamento del personale e, in genere, ai dettami di cui al comma 3 dell’articolo 35 del D. lgs. n. 165 del 2001, che individua i principi cui si conformano le procedure di reclutamento nelle pubbliche Amministrazioni. Tale aspetto, ricorda il Collegio, non è di per sé idoneo ad incardinare la relativa procedura nell’ambito della giurisdizione del giudice amministrativo in materia concorsuale. Occorre, pertanto, che si escluda, alla stregua di quanto accaduto in primo grado, la giurisdizione del giudice amministrativo e, ricordando la natura privatistica del rapporto controverso, la necessaria devoluzione al Giudice Ordinario. CC
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Inserito in data 11/06/2015 CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 8 giugno 2015, n. 11770 Attività consolare errata, danno all’immagine e G.A. La pronuncia in esame è significativa poiché interviene in un ambito importante, quale quello relativo alla risarcibilità del danno all’immagine. Infatti, a seguito dell’errata cancellazione – da parte di un Console - dei dati telematici riguardanti – in particolare – l’elenco dei Legali iscritti in apposita sezione web del sito del Consolato - destinati alla difesa ed alla cura degli interessi dei connazionali, sarà possibile agire in sede risarcitoria. Ricorda il Massimo Consesso, infatti, che quanto accaduto rientra nell’ordinaria attività amministrativa rimessa alla totale discrezionalità dell’Autorità consolare. Di conseguenza, le controversie risarcitorie conseguenti all’errato esercizio della stessa – come nel caso sottoposto all’odierno scrutinio - sono devolute alla giurisdizione del Giudice amministrativo. CC
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Inserito in data 10/06/2015 CORTE COSTITUZIONALE - SENTENZA 9 giugno 2015, n. 108 Contratti pubblici: deferibilità arbitrato, parità delle armi e certezza del diritto Il Collegio della Consulta interviene su una questione di legittimità costituzionale di estremo interesse ed attualità, quale quello relativo all’articolo 1, comma 25, della legge 6 novembre 2012, n. 190 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione) - nella parte in cui non esclude dall’applicazione delle disposizioni di cui all’articolo 1, comma 19, della stessa legge, che ha sostituito l’art. 241, comma 1, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE), anche gli arbitrati che, come quello oggetto dell’odierna censura, sono stati «conferiti» dopo l’entrata in vigore della legge n. 190 del 2012, sulla base di clausole compromissorie pattuite anteriormente. In particolare, oggetto delle doglianze sarebbe, tra le tante, la presunta applicazione retroattiva della norma suddetta che, statuendo – ai fini dell’ammissibilità dell’arbitrato - la previa, necessaria autorizzazione motivata da parte dell’organo di governo dell’amministrazione, parrebbe inficiare la validità delle precedenti clausole di bandi di gara che non contemplavano una simile previsione. Si tratterebbe, ad avviso del Rimettente, di una limitazione ingiustificata ed iniqua dell’autonomia negoziale delle parti, unitamente a conseguenze gravanti sul piano della parità delle armi in sede processuale, della libertà di iniziativa economica oltrechè del buon andamento della Pubblica Amministrazione. Il Collegio costituzionale, invece, respinge acutamente le numerose censure prospettate, sostenendo la condivisibilità della previsione normativa contestata. In primo luogo, infatti, non verrebbe inciso alcun principio di certezza del diritto – posto che il divieto di deferire le controversie ad arbitri senza una preventiva e motivata autorizzazione non ha l'effetto di rendere nulle in via retroattiva le clausole compromissorie originariamente inserite nei contratti, ma “solo” quello di sancirne l'inefficacia per il futuro. Ne consegue, quindi, l’infondatezza della censura riguardante una presunta retroattività della normativa contestata, con conseguente caducazione delle doglianze ad essa connessa, quale la disparità di trattamento tra concorrenti delle numerose gare pubbliche, frattanto bandite, ed il conseguente vulnus al diritto di difesa delle stesse – costituzionalmente siglato all’articolo 24. Parimenti infondata, prosegue la Consulta, la doglianza circa un potenziale privilegio processuale della posizione della P.A. riguardo alla facoltà di scelta ad essa conferita dalla norma oggetto dell’odierno scrutinio – con conseguente incisione dei parametri costituzionali di cui agli articoli 3 e 111; così come, del resto, è negato rilievo all’ulteriore censura – quella relativa al fatto che il potere di autorizzare ogni singolo arbitrato sia stato deferito all’organo di governo dell’amministrazione, piuttosto che alla dirigenza, intaccando – di conseguenza - il tenore letterale dell’articolo 97 della Costituzione. I Giudici costituzionali, infatti, riguardo alla posizione processuale delle parti, affermano che il requisito introdotto dal legislatore, a pena di nullità della clausola compromissoria, si inserisce in una fase che precede l’instaurazione del giudizio – e la stessa scelta del contraente – e non determina pertanto alcuno squilibrio di facoltà processuali a favore della parte pubblica. Al contrario, lo stesso art. 241 prevede, nel successivo comma 1-bis, un adeguato meccanismo di tutela della libertà contrattuale della parte privata qualora l’autorizzazione sia concessa, stabilendo che l’aggiudicatario «può ricusare la clausola compromissoria, che in tale caso non è inserita nel contratto, comunicandolo alla stazione appaltante entro venti giorni dalla conoscenza dell’aggiudicazione». Del pari, intervenendo in merito alla discussa distribuzione di competenze tra organi di governo e dirigenza in seno alla P.A. ed al conseguente vulnus al buon andamento della P.A., il Collegio della Consulta – ricordando un proprio costante orientamento, evidenzia come la separazione tra funzioni di indirizzo politico-amministrativo e funzioni di gestione amministrativa costituisce «un principio di carattere generale, che trova il suo fondamento nell’art. 97 Cost. L’individuazione dell’esatta linea di demarcazione tra gli atti da ricondurre alle funzioni dell’organo politico e quelli di competenza della dirigenza amministrativa, però, spetta al legislatore. Di conseguenza, prosegue il Collegio, la scelta operata dal legislatore, di affidare all’organo di governo il compito di autorizzare motivatamente il ricorso all’arbitrato nei contratti pubblici, non è irragionevole. L’ampia discrezionalità di cui gode l’amministrazione nel concedere o negare l’autorizzazione, non solo non è riducibile alla categoria dei semplici apprezzamenti tecnici, involgendo essa valutazioni di carattere politico-amministrativo sulla natura e sul diverso rilievo degli interessi caso per caso potenzialmente coinvolti nelle controversie derivanti dall’esecuzione di tali contratti, ma, per il suo stesso oggetto, si esprime in giudizi particolarmente delicati, in quanto connessi all’esigenza perseguita dalla disposizione censurata di prevenire e reprimere corruzione e illegalità nella pubblica amministrazione, e dunque non inopportunamente affidati all’organo di governo. Così statuendo, la Corte Costituzionale salva la legittimità della previa autorizzazione circa la deferibilità a collegi arbitrali, inquadrando un nuovo, significativo ambito in seno alla disciplina dei contratti pubblici. CC
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Inserito in data 10/06/2015 CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 8 giugno 2015, n. 11769 Calcolo pensione errata ed azione di rivalsa: giurisdizione Corte dei Conti
Il Massimo Collegio di piazza Cavour, intervenendo in un regolamento di giurisdizione, delimita e traccia l’intervento del Giudice contabile.
In particolare, pronunciandosi riguardo ad un caso di errato calcolo pensionistico, gli Ermellini ricordano come l’Ente erogatore possa agire in rivalsa, per gli importi ultronei eventualmente versati in favore del dipendente, dinanzi al Giudice contabile.
Rientrano, infatti, nel quadro della giurisdizione esclusiva della Corte dei Conti in materia pensionistica anche le controversie relative all’azione di rivalsa intrapresa ai sensi dell’art. 8 d.P.R. n. 538/1986. CC
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Inserito in data 09/06/2015 TAR TOSCANA - FIRENZE, SEZ. II BIS, 4 giugno 2015, n. 859 Improseguibilità degli affidamenti in essere La questione posta al vaglio del Tar Firenze investe la legittimità della decisione di prolungare la proroga di un servizio fino alla definitiva individuazione del gestore “a regime” del servizio stesso da parte dell’A.T.O.. A tal proposito, una decisione della Prima Sezione del T.A.R. (che la Sezione condivide e decide di fare propria) ha rilevato “come, in ogni caso, le proroghe previste dalla normativa statale e regionale poste a base della presente vicenda (l’art. 13, 1° comma del d.l. 30 dicembre 2013, n. 150, convertito in l. 27 febbraio 2014 n. 15 e l’art. 68 della l.r. 24 dicembre 2013 n. 77) non possano <<essere interpretate nel senso di imporre la prosecuzione degli affidamenti in essere>>”. Invero, tale interpretazione “condurrebbe a risultati contrastanti con le sovraordinate normative sia comunitaria, sia costituzionale. Appare, infatti, difficilmente compatibile con la normativa comunitaria in materia di contratti pubblici una seconda proroga degli affidamenti vigenti e se le suddette norme fossero interpretate nel senso di obbligare le Amministrazioni in tal senso, potrebbe emergere un’elusione da parte dello Stato italiano dei vincoli derivanti dall’appartenenza all’Unione Europea. Sotto il profilo della compatibilità costituzionale apparirebbe poi difficilmente armonizzabile con il principio di libera iniziativa economica, ex art. 41 Cost., l’imposizione alle imprese attualmente affidatarie del servizio di gestione dei rifiuti urbani di una obbligatoria proroga contrattuale, alle condizioni in essere>> (T.A.R. Toscana, sez. I, 3 giugno 2014 n. 991)”. In applicazione di quanto rilevato da T.A.R. Toscana, sez. I, 3 giugno 2014 n. 991, deve pertanto ritenersi che non si possa imporre, “in mancanza della necessaria adesione della controparte contrattuale, una proroga disposta in via unilaterale e chiaramente imposta, in violazione del principio di libertà di impresa ex art. 41 Cost (oltre che dei principi comunitari in materia di obbligatorietà della gara pubblica)”. EF
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Inserito in data 09/06/2015 TAR LAZIO - ROMA, SEZ. II TER, 3 giugno 2015, n. 7777 Sul diritto di accesso in materia di appalti pubblici Con la sentenza in esame, il Collegio si sofferma sull’interpretazione dell’art. 13, comma 1, del codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 163 del 2006), secondo cui "Salvo quanto espressamente previsto nel presente codice, il diritto di accesso agli atti delle procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici, ivi comprese le candidature e le offerte, è disciplinato dalla legge 7 agosto 1990, n. 241 e successive modificazioni". Pertanto, “per gli aspetti non regolati diversamente dal Codice dei Contratti Pubblici, trovano applicazione anche in materia di appalti pubblici i principi dettati dalla legge n. 241 del 1990 e dal relativo regolamento di attuazione per quanto concerne i soggetti legittimati, i documenti oggetto del diritto di accesso, il contenuto di tale diritto e la disciplina procedimentale”. Sul punto, “il Consiglio di Stato (Sez. VI, 30 luglio 2010, n. 5062) ha osservato come vi sia un rapporto di complementarietà, non di differenziazione, tra la normativa generale in tema di accesso e quella dettata in tema di contratti pubblici”. Dunque, “la legge sul procedimento amministrativo si deve ritenere applicabile in tutti i casi in cui non si rinvengono disposizioni derogatorie nel Codice dei Contratti Pubblici e, quindi, in tutti quei casi non rientranti all'interno delle fattispecie, espressamente previste dall'art. 13, comma 6, di esclusione dal diritto di accesso e ogni forma di divulgazione”. EF
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Inserito in data 08/06/2015 CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE CIVILI, ORDINANZA 27 maggio 2015, n. 10879 Occupazione e dichiarazione di pubblica utilità inefficace: giurisdizione del G.A. In caso di controversia concernente l’occupazione di un fondo di proprietà privata sulla base di una dichiarazione di pubblica utilità divenuta inefficace per l’inutile decorso dei termini previsti per l’esecuzione dell’opera e per l’emissione del decreto di esproprio, sussiste giurisdizione del giudice amministrativo. Si tratta, infatti, di uno di quei comportamenti “mediatamente” riconducibili all’esercizio di un pubblico potere, che radicano la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. g, cpa. Infatti la riconducibilità all’esercizio di un pubblico potere sussiste anche quando l’occupazione inizia, dopo la dichiarazione di pubblica utilità, in virtù di un decreto di occupazione d’urgenza, e prosegue anche dopo la sopravvenuta inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità. Anche in questo caso si ha il concreto esercizio del potere ablatorio, riconoscibile per tale in base al procedimento svolto e alle forme adottate, in consonanza con le norme che lo regolano, pur se poi l’ingerenza nella proprietà privata e la sua utilizzazione siano avvenute senza alcun titolo che le consentiva. CDC
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Inserito in data 08/06/2015 CONSIGLIO DI STATO, sez. V, 8 giugno 2015, n. 2810 Contratti esclusi: non operano tassatività cause di esclusione e soccorso istruttorio Il principio di tassatività delle cause di esclusione e il principio della doverosità del soccorso istruttorio, sanciti dall’art. 46 d.lgs. 163/2006, sono derogatori dell’ampia potestà discrezionale della PA di determinare i contenuti della legge di gara e della disciplina generale dettata dall’art. 6 l. 241/1990 in materia di regolarizzazione procedimentale. Pertanto, essi trovano applicazione alle sole fattispecie rientranti nell’ambito applicativo oggettivo del d.lgs. 163/2006 e successive all’entrata in vigore del d.l. 70/2011 e, non integrando alcuno dei principi generali richiamati dagli artt. 27, comma 1, e 30, comma 3, d.lgs. 163/2006, non sono applicabili ai c.d. contratti esclusi, salvi i casi di autovincolo della stazione appaltante. CDC
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Inserito in data 05/06/2015 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL'ADUNANZA PLENARIA - 3 giugno 2015, n. 2707 Sull’obbligo di indicazione del subappaltatore e degli oneri di sicurezza Il Supremo Consesso, interrogato sulla legittimità dell’esclusione di un’impresa da una gara d’appalto a causa della mancata indicazione del subappaltatore, ha deferito la questione all’Adunanza Plenaria. Più precisamente, l’Adunanza Plenaria dovrà stabilire: a) se il nominativo del subappaltatore, ai sensi dell’art. 118 del d.lgs. nr. 163/2006 e delle norme connesse, debba essere obbligatoriamente indicato già in sede di presentazione dell’offerta, quantomeno nelle ipotesi di c.d. subappalto necessario (cioè quando il concorrente non possieda i necessari requisiti di qualificazione per la partecipazione alla gara d’appalto); b) in caso di risposta affermativa se, laddove attenga a procedure la cui fase di presentazione delle offerte si sia esaurita in epoca anteriore alla pronuncia della Plenaria, si possa ovviare all’omissione ricorrendo al c.d. soccorso istruttorio; c) se il ricorso al c.d. soccorso istruttorio possa essere applicato in relazione all’obbligo di indicazione in sede di offerta dei costi per gli oneri di sicurezza aziendale. Negli ultimi anni, infatti, l’indirizzo unanime ha avallato quell’orientamento giurisprudenziale secondo il quale, ai sensi dell’art. 118 comma 2 d. lgs. 163/06, << la dichiarazione deve contenere anche l’indicazione del subappaltatore, unitamente alla dimostrazione del possesso in capo al medesimo dei requisiti di qualificazione, ogniqualvolta il ricorso al subappalto si renda necessario in conseguenza del mancato autonomo possesso, da parte del concorrente, dei necessari requisiti di qualificazione (cd. subappalto necessario)>>, in quanto la ratio della norma sarebbe quella di assicurare che la partecipazione alle gare venga limitata ai concorrenti i quali risultino in possesso della qualificazione richiesta dalla lex specialis per tutte le prestazioni oggetto dell’appalto. In tal caso, dunque, l’esclusione dalla procedura selettiva conseguirebbe dal mancato possesso dei necessari requisiti di qualificazione per parte delle prestazioni oggetto dell’appalto, risultando del tutto irrilevante la carenza di una specifica previsione nell’art. 118. Permane, tuttavia, un opposto orientamento secondo cui <<la normativa vigente non pone l’obbligo d’indicare i nominativi dei subappaltatori in sede di offerta, a differenza di quanto previsto dall’art. 49 del d.lgs. 12 aprile 2006, nr. 163 per l’impresa ausiliaria, ma soltanto l’onere di dichiarare preventivamente le lavorazioni che il concorrente intenda subappaltare, qualora privo della necessaria qualificazione (…)>>. A parere di questo secondo indirizzo, pertanto, l’esclusione dalla gara per mancata indicazione del subappaltatore comporterebbe una violazione del principio di tassatività delle clausole di esclusione. Inoltre, come osservato in sede di ricorso, l’offerta era stata presentata in un momento in cui era il contrasto di indirizzi sopra descritto era ancora molto acceso, pertanto, <<in diretta applicazione del principio di diritto comunitario che preclude l’esclusione del concorrente da una procedura selettiva per la violazione di una regola non connotata da chiarezza, precisione e univocità al momento in cui sono stati posti in essere i relativi adempimenti, la stazione appaltante avrebbe dovuto ammettere l’impresa interessata al c.d. soccorso istruttorio, consentendole di integrare la dichiarazione carente>>. VA
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Inserito in data 04/06/2015 TAR TOSCANA - FIRENZE, SEZ. II, 1 giugno 2015, n. 843 Sulla sospensione licenza di un bar per esigenze di tutela dell’ordine pubblico Il Tribunale amministrativo, rigettando il ricorso, ha dichiarato legittimo il provvedimento amministrativo con il quale era stata disposta la sospensione delle licenze di un bar ai sensi dell’art. 100 T.U.L.P.S. Il suddetto provvedimento, infatti, era stato emanato a seguito di vari esposti e segnalazioni che avevano messo in luce numerose problematiche di ordine e sicurezza pubblica causati dall’attività del predetto esercizio. Secondo il Tribunale di merito, infatti, a dispetto delle censure mosse dalla parte ricorrente, secondo cui << il Questore, con i decreti impugnati, avrebbe inteso tutelare l’incolumità personale, la quiete pubblica, la sicurezza stradale e il transito veicolare facendo un’applicazione distorta dell’ipotesi residuale contemplata dall’art. 100 T.U.L.P.S.>> (beni già oggetto di tutela da parte di specifiche normative), la norma in commento rappresenta una clausola di chiusura, potenzialmente applicabile anche in assenza di gravi disordini o dalla frequentazione dei locati da parte di pregiudicati. Ai sensi del comma 1 della norma sopra citata, infatti, <<oltre i casi indicati dalla legge, il questore può sospendere la licenza di un esercizio nel quale siano avvenuti tumulti o gravi disordini, o che sia abituale ritrovo di persone pregiudicate o pericolose o che, comunque, costituisca un pericolo per l'ordine pubblico, per la moralità pubblica e il buon costume o per la sicurezza dei cittadini>>. Ne consegue che la sospensione della licenza, purché adeguatamente motivata (sì come avvenuto nel caso sottoposto all’attenzione del Tar Torino), può essere legittimamente disposta, a prescindere dalla presenza di profili di colpa a carico del titolare dell’esercizio, laddove ricorrano <<situazioni tali da configurare una fonte di pericolo concreto ed attuale per la collettività>>, trattandosi di un provvedimento cautelare, manifestazione di un potere ampiamente discrezionale della pubblica amministrazione. VA
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Inserito in data 03/06/2015 CORTE DI CASSAZIONE - PRIMA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 28 maggio 2015, n. 11035 Disposizioni in materia di condominio non estensibili al consorzio Gli Ermellini, con la pronuncia de qua, intervengono in merito ai rapporti esistenti tra comunione e condominio. I Giudici di Piazza Cavour chiariscono, invero, che le disposizioni in materia di condominio, non sono estensibili al consorzio costituito tra proprietari d'immobili per la gestione delle parti e dei servizi comuni di una zona residenziale, nonostante i due istituti giuridici, anche se vi sono numerose analogie, presentano tuttavia caratteristiche diverse che non ne permettono, dunque, una completa parificazione concettuale. Viene sottolineato che il condominio di edifici è una forma di proprietà plurima, derivante dalla struttura stessa del fabbricato e regolata interamente da norme che rimangono nel campo dei diritti reali, con la conseguenza che il carattere di immobile condominiale è una “qualitas fundi”, che inerisce al bene e lo segue, con i relativi oneri, presso qualsiasi acquirente.
Il consorzio, che presenta un livello di organizzazione più elevato, appartiene, invece, alla categoria delle associazioni, con la conseguente rilevanza della volontà del singolo di partecipare o meno all'ente sociale, pur potendo tale volontà essere ricavata (se non esiste una contraria norma di statuto o di legge) da presunzioni o da fatti concludenti, quali la consapevolezza di acquistare un immobile compreso in un consorzio, oppure l'utilizzazione concreta dei servizi messi a disposizione dei partecipanti.
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Inserito in data 03/06/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 28 maggio 2015, n. 2682 Notifica a mezzo PEC nel processo amministrativo Con la pronuncia in questione, i Giudici di Palazzo Spada intervengono in merito alla validità della notifica a mezzo PEC nel processo amministrativo. Viene chiarito che la mancata autorizzazione presidenziale, ex art. 52, comma 2, del Codice del Processo Amministrativo (c.p.a.), non può considerarsi ostativa alla validità e alla efficacia della notificazione del ricorso a mezzo PEC poiché, nel processo amministrativo, trova applicazione immediata la Legge n. 53 del 1994 (e, in particolare, per quanto qui più interessa, gli articoli 1 e 3 bis della legge stessa), nel testo modificato dall’art. 25 comma, 3, lett. a) della Legge 12 novembre 2011, n. 183, secondo cui l’avvocato “può eseguire la notificazione di atti in materia civile, amministrativa e stragiudiziale […] a mezzo della posta elettronica certificata”. Nel processo amministrativo telematico (PAT) – previsto dall’art. 13 delle norme di attuazione di cui all’Allegato 2 al cod. proc. amm. – è ammessa la notifica del ricorso a mezzo PEC anche in mancanza dell’autorizzazione presidenziale ex art. 52, comma 2, del c.p.a. , disposizione che concerne le “forme speciali” di notifica. GMC
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Inserito in data 01/06/2015 CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE PENALI, SENTENZA 28 maggio 2015, n. 22471 Aumento di pena a titolo di continuazione per reati satellite relativi a droghe leggere La sentenza affronta la seguente questione: se l’aumento di pena irrogato a titolo di continuazione per i delitti previsti dall’art. 73 DPR 309/1990 in relazione a droghe leggere, quando gli stessi costituiscono reati satellite, debba essere oggetto di specifica rivalutazione, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014, che ha fatto rivivere una più favorevole cornice edittale per i reati relativi a droghe leggere. La sentenza respinge l’orientamento negativo, secondo il quale la reviviscenza di un trattamento meno afflittivo non comporta la riformulazione del trattamento sanzionatorio, quando i delitti di cui all’art. 73 DPR 309/1990 rivestano il ruolo di reati satellite, dato che all’interno del reato continuato i reati “minori” perdono la loro autonomia sanzionatoria. Piuttosto, si aderisce all’orientamento opposto, in base al quale l’aumento di pena applicato a titolo di continuazione per i reati satellite deve essere oggetto di specifica rivalutazione da parte del giudice di merito. È vero, infatti, che nella determinazione della pena complessiva i reati meno gravi perdono la loro autonomia sanzionatoria, dato che il relativo trattamento sanzionatorio confluisce nella pena unica irrogata per tutti i reati concorrenti. Tuttavia, nella determinazione in concreto del quantum di pena da apportare per i singoli reati satellite, deve comunque procedersi ad una valutazione della loro gravità ex art. 133 cp. Infatti, il momento sanzionatorio segue quello valutativo, e dunque lo presuppone. In tal senso depone l’art. 533, comma 2, cpp, che impone al giudice una procedura bifasica: dapprima si stabilisce la pena per ciascun reato e poi si determina la pena da applicare per il reato unitariamente considerato. Ed ancora, se lo scopo dell’istituto della continuazione è la mitigazione del trattamento sanzionatorio, tale mitigazione non può che avere come termine di paragone la pena astrattamente prevista per i singoli reati. CDC
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Inserito in data 01/06/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 29 maggio 2015, n. 2694 Sulla sindacabilità della discrezionalità amministrativa da parte del G.A.
La sentenza in esame concerne i limiti alla sindacabilità della discrezionalità amministrativa da parte del Giudice Amministrativo.
Com’è noto, l’amministrazione deve agire per il soddisfacimento di interessi pubblici primari, tenuto conto, altresì, degli interessi pubblici secondari e degli interessi collettivi e privati presenti nella fattispecie concreta che, di volta in volta, le si prospetta dinanzi.
L’esercizio del potere discrezionale rappresenta, pertanto, la scelta circa la soluzione più opportuna che consenta ai pubblici poteri di contemperare i diversi interessi che vengono in rilievo nel caso concreto.
Dunque, mentre l’assetto sostanziale degli interessi rientra nell’alveo del merito amministrativo che non può essere oggetto di sindacato ad opera del Giudice Amministrativo, le modalità tramite cui la PA procede nell’esercitare il proprio potere può formare l’oggetto di un controllo di legittimità da parte del giudice, unicamente nell’ipotesi di macroscopici vizi logici, o travisamento dei fatti. In sostanza, il giudice deve limitarsi a verificare la logicità, la congruità, la ragionevolezza e l’adeguatezza del provvedimento e della sua motivazione, la regolarità del procedimento e la completezza dell’istruttoria, l’esistenza e l’esattezza dei presupposti di fatto posti a fondamento della deliberazione. CDC |
Inserito in data 29/05/2015 CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI - SENTENZA 26 maggio 2015, n. 10798 Sull’ingiustificato arricchimento della P.A. Con la pronuncia in esame, gli Ermellini sciolgono il contrasto sorto in merito all’ingiusto arricchimento della Pubblica Amministrazione. Viene chiarito, infatti, che il riconoscimento della utilità dell’opera, non rappresenta un requisito per l’azione di indebito arricchimento, bensì è affidato al giudice il compito di valutare la prova fornita dal privato sull’incremento patrimoniale. La Pubblica Amministrazione, inoltre, dal canto proprio, non può limitarsi a non riconoscerlo, ma dovrà dimostrare che questo non fu voluto o tuttavia avvenne ma inconsapevolmente. È da chiarire che la regola di carattere generale, secondo cui non sono ammessi arricchimenti ingiustificati, né spostamenti patrimoniali ingiustificabili, trova una applicazione paritaria nei confronti del soggetto privato come dell’ente pubblico; e, poiché, il riconoscimento dell’utilità non costituisce requisito dell’azione di indebito arricchimento, il privato attore ex art. 2041 c.c. nei confronti della Pubblica Amministrazione, deve provare il “fatto oggettivo” dell’arricchimento, senza che l’Amministrazione – come sopra anticipato – possa opporre il mancato riconoscimento dello stesso, potendo, quest’ultima, piuttosto, eccepire e dimostrare che l’arricchimento non fu voluto o non fu tuttavia consapevole. GMC
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Inserito in data 29/05/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 25 maggio 2015, n. 2595 Sull’omessa dichiarazione di alcune condanne penali Una s.r.l. partecipava ad una gara di forniture di stampati di varie tipologie indetta da una s.p.a. ed articolata per lotti, aggiudicandosene provvisoriamente uno. Tuttavia, veniva, in seguito, esclusa dalla gara poiché erano state rese dichiarazioni omissive in ordine a due precedenti penali a carico dell’Amministrazione. La prima decide di impugnare l’esclusione de qua davanti al TAR Lazio, deducendo, essenzialmente, che il modello di dichiarazione predisposto dalla stazione appaltante precedeva la dichiarazione – così come si legge dalla pronuncia – “delle sole condanne ostative e non già di qualsivoglia ininfluente condanna”. Specificamente, nel caso de quo, le condanne erano una risalente agli inizi degli anni Novanta, per omesso versamento di ritenute operate come sostituto di imposta (reato in seguito depenalizzato), ed una risalente ai primi anni del Duemila, per pubblicazione arbitraria degli atti di un procedimento penale. I Giudici del Supremo Consesso amministrativo, con la pronuncia in esame, chiariscono che l’omessa dichiarazione di alcune condanne penali, può essere sanzionata con l’esclusione dalla gara solo in presenza di un obbligo stringente imposto dal bando, mentre, in caso contrario, il concorrente può ritenersi esonerato dal dichiarare l’esistenza di condanne per infrazioni penalmente rilevanti, ma di lieve entità. Oltre a ciò, qualora la dichiarazione sia resa sulla scorta di modelli predisposti dalla stazione appaltante, ed il concorrente incorre in errore indotto dalla formulazione ambigua o equivoca del modello, non può determinarsi l’esclusione dalla gara per l’incompletezza della dichiarazione resa. GMC
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Inserito in data 28/05/2015 Arrecato vulnus al diritto soggettivo di elettorato passivo: giurisdizione ordinaria Con l’ordinanza emessa in data odierna, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione civile intervengono nella nota vicenda relativa alla cessazione dalla carica di sindaco del primo cittadino partenopeo – Luigi De Magistris. Il massimo Collegio, esprimendosi in merito ai confini della giurisdizione, attribuisce alla potenziale lesione – lamentata dal ricorrente – natura e rango di diritto soggettivo, poiché consistente in un vulnus alla capacità di elettorato passivo e, proprio perché tale, tutelabile dinanzi al Giudice Ordinario. Di conseguenza, tracciata la giurisdizione, le parti sono tenute a rimettere il giudizio dinanzi alla giusta sede, nel rispetto dei termini di legge. CC
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Inserito in data 28/05/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 28 maggio 2015, n. 2637 Prove selettive ed annullamento quesiti: autotutela e conservazione atti Il Collegio della Sesta Sezione accoglie l’appello dell’Amministrazione competente che, ritenendo insussistente l’affidamento presuntivamente vantato da parte appellata, chiede la riforma della pronuncia emessa dal Giudice di prime cure. Questi, infatti, aveva riconosciuto all’originario ricorrente il diritto ad ottenere l’annullamento della prova selettiva e la ripetizione della stessa – sostenuta per l’accesso al corso di laurea in Medicina e Chirurgia, ritenendola viziata a causa dell’avvenuta correzione sulla base della decurtazione di due quesiti che l’Amministrazione aveva ravvisato come erronei. I Giudici, conformandosi ad un orientamento già saldo, evidenziano come l'annullamento in questione, operato in via di autotutela, debba essere vagliato sulla base dei canoni dell'interesse pubblico concreto e attuale, del ragionevole lasso di tempo per l'esercizio della autotutela e della valutazione dei contrapposti interessi. Infatti, recita il Collegio, dinanzi ad un quesito illegittimo, accertato mentre la procedura era in corso, l'Amministrazione nella sua discrezionalità che non può essere oggetto di sindacato giurisdizionale, ha ritenuto sussistere l'interesse pubblico a rimuovere l'illegittimità e, con immediatezza, ha valutato, legittimamente e ragionevolmente, di annullare il quesito inesatto e di evitare di procedere similmente riguardo al l'intera prova concorsuale.
Tutto ciò, evidentemente, risulta coerente con il principio di conservazione degli atti, di buon andamento dell'Amministrazione e di tutela dell'affidamento dei candidati che hanno superato le prove, affidamento – sottolineano i Giudici - su cui non può contare l'attuale appellato ed originario ricorrente. CC
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Inserito in data 27/05/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 26 maggio 2015, n. 2615 Non contraddizione delle prescrizioni della P.A. e modifiche migliorative La controversia sottoposta all’attenzione del consiglio di stato concerne l’aggiudicazione di un appalto di esecuzione di lavori, da valutarsi con il sistema dell’offerta economicamente più vantaggiosa, la cui lex specialis di gara specificava la necessaria non contraddittorietà delle eventuali proposte migliorative con le prescrizioni rilasciate in sede di conferenza di servizi dai soggetti interferenti con le opere di progetto. Il Collegio, dopo aver preliminarmente ricordato che l’insindacabilità delle valutazioni della pubblica amministrazione attiene solo a quelle operazioni caratterizzate da discrezionalità amministrativa, salve le ipotesi in cui sussistano illogicità macroscopiche o le suddette valutazioni siano manifestamente irragionevoli, irrazionali, arbitrarie o travisino i fatti, potendo, pertanto, formare oggetto di accertamento giudiziale il dato fattuale sul quale è stato esercitato il potere discrezionale e che ne costituisce il presupposto, ha ritenuto fondato il motivo di appello promosso avverso la sentenza che aveva annullato il provvedimento di aggiudicazione (concernente il mancato rispetto delle suddette prescrizioni). Il Supremo Consesso, infatti, ha rilevato che <<le prescrizioni formulate dalle amministrazioni intervenute nella conferenza dei servizi, benché non fossero delle mere raccomandazioni (…), non davano vita neppure a necessarie modifiche al progetto esecutivo dei lavori posto a base di gara (ciò non essendo imposto ai concorrenti), costituendo piuttosto delle direttive operative, stringenti e vincolanti, in ordine alle modalità di esecuzione dei lavori, che non dovevano incidere negativamente sulle interferenze, danneggiando le infrastrutture esistenti ovvero impedire o ritardare o comunque incidere negativamente sui servizi resi dagli enti proprietari delle infrastrutture interferite>>. La possibilità di apportare modifiche (migliorative), infatti, era prevista dallo stesso bando di gara costituendo, anzi, un criterio di valutazione dell’offerta stessa. VA
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Inserito in data 27/05/2015 CORTE COSTITUZIONALE, ORDINANZA 26 maggio 2015, n. 92 Irrilevanza del difetto di motivazione nel giudizio pensionistico La Corte Costituzionale ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale sollevata sull’art. 21-octies, comma 2, primo periodo, della l. 241/90 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), per violazione degli artt. 3, 97, 24, 113 e 117, primo comma, della Costituzione. Più precisamente viene contestata la legittima costituzionale della norma sopra citata nella parte in cui si consente, in corso di un giudizio, l’integrazione delle motivazioni del provvedimento amministrativo anche nel caso in cui sia intercorso un considerevole lasso di tempo, <<costituendo, l’obbligo di motivazione dei provvedimenti amministrativi, un corollario dei principi di buon andamento e di imparzialità dell’amministrazione, in quanto consente al destinatario del provvedimento che ritenga lesa una propria situazione giuridica di far valere la relativa tutela giurisdizionale, senza che assuma alcuna rilevanza al riguardo la natura discrezionale o vincolata dell’atto>>. Tuttavia, attesa la particolarità della materia del contendere, i giudici di legittimità hanno affermato che, avendo il giudizio pensionistico (all’interno del quale era stata sollevata la questione di legittimità costituzionale) natura meramente ricognitiva, come più volte affermato dalla stessa giurisprudenza, la violazione di norme meramente procedurali, comprese quelle dettate dalla L. 241/90, o dei precetti di buona fede e correttezza non inciderebbe in alcun modo sul rapporto obbligatorio. Il Collegio, inoltre, ricorda quella giurisprudenza contabile che <<sul presupposto che il giudizio pensionistico, ancorché promosso formalmente con ricorso contro un atto della pubblica amministrazione, ha per oggetto il completo riesame del rapporto obbligatorio di quiescenza nella sua globalità (…), ha affermato che non sono dirimenti le censure formali, includendo in esse anche quelle relative alla illegittimità del provvedimento per violazione dell’art. 3 della legge n. 241 del 1990 (Corte dei conti – 167/08) rilevando come il giudice rimettente non abbia adeguatamente motivato come superare questo orientamento giurisprudenziale, né abbia esperito il tentativo di un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma censurata, comportando così l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale sollevata. VA
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Inserito in data 26/05/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 26 maggio 2015, n. 2660 Nozione di ente pubblico, rapporto in house e partecipazione di capitali privati Con la sentenza in esame è stato escluso che il consorzio Cineca possa essere qualificato come soggetto in house. L’argomento centrale consiste nel fatto che manca uno dei requisiti necessari dell’in house, cioè la partecipazione pubblica totalitaria. Infatti, al consorzio Cineca partecipano anche Università private e, secondo la pronuncia, le Università private non possono essere qualificate come enti pubblici nel caso in esame. Sul punto, si premette che la nozione di ente pubblico non può ritenersi fissa ed immutevole; dunque, il fatto che alle Università private sia stata riconosciuta natura pubblicistica a certi fini non implica automaticamente ed in modo immutevole l’integrale sottoposizione alla disciplina pubblicistica. Al contrario, l’ordinamento si è orientato verso una nozione funzionale e cangiante di ente pubblico, per cui uno stesso soggetto può avere la natura di ente pubblico a certi fini e rispetto a certi istituti, e può, invece, non averla ad altri fini. Il criterio da utilizzare per tracciare il perimetro del concetto di ente pubblico non è dunque sempre uguale a se stesso, ma muta a seconda dell’istituto o del regime normativo che deve essere applicato e della ratio ad esso sottesa. Occorre allora di volta in volta domandarsi quale sia la funzione di un certo istituto, quale sia la ratio di un determinato regime “amministrativo” previsto dal legislatore, per poi verificare, tenendo conto delle caratteristiche sostanziali del soggetto della cui natura si controverte, se quella funzione o quella ratio richiedono l’inclusione di quell’ente nel campo di applicazione della disciplina pubblicistica. Nel caso, deve evidenziarsi che alla base dell’istituto dell’in house c’è la considerazione che il soggetto in house ha un rapporto di immedesimazione con la PA affidante, essendo equiparabile ad un suo organo interno. Questo non si realizza nell’ipotesi della partecipazione, anche minima di privati: infatti, qualsiasi investimento di capitale privato obbedisce a considerazioni proprie degli interessi privati e l’attribuzione diretta di un appalto pubblico ad un soggetto partecipato da privati pregiudicherebbe l’obiettivo di una concorrenza libera. Per tale ragione, la giurisprudenza comunitaria richiede la partecipazione pubblica totalitaria. Ed allora, la nozione di ente pubblico nell’in house deve essere ricostruita in modo particolarmente rigoroso e restrittivo, con esclusione del rapporto in house in presenza della partecipazione di soggetti formalmente privati, come le Università private. Tale conclusione non è smentita dalle nuove direttive in materia di in house (direttive n. 23, 24 e 25 del 2014), che consentono, a certe condizioni, forme di partecipazione di capitali privati nei soggetti in house. Infatti, queste direttive non sono self executing, non essendo ancora scaduto il termine per la loro attuazione da parte dello Stato. E non rileva l’obbligo per il giudice di astenersi da qualsiasi forma di interpretazione o applicazione del diritto nazionale da cui possa derivare la messa in pericolo del risultato voluto dalla direttiva. Infatti, le regole sull’in house che potrebbero contrastare con le nuove regole provengono proprio dall’ordinamento europeo. Non può quindi ritenersi che la mera pubblicazione della direttiva determini il superamento automatico e immediato di una disciplina preesistente di derivazione comunitaria, univoca nell’escludere la compatibilità dell’in house con la partecipazione di privati. Ma soprattutto, l’in house rappresenta una deroga alle regole della concorrenza, cioè un istituto eccezionale, del quale il legislatore può, ma non deve, avvalersi, essendo legittimo configurare sul piano del diritto interno una possibilità di ricorso all’in house in termini più restrittivi. In altre parole, l’in house aperto ai privati rappresenta non un obbligo, ma una facoltà della quale il legislatore italiano potrebbe decidere di non avvalersi, scegliendo di attuare un livello di tutela della concorrenza più elevato rispetto a quello prescritto a livello comunitario. CDC |
Inserito in data 26/05/2015 CORTE DI CASSAZIONE, SECONDA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 19 maggio 2015, n. 10202 Quietanza tipica e superamento della vincolatività della dichiarazione Con la sentenza in esame sono stati confermati i principi di diritto espressi dalle Sezioni Unite della Cassazione, con la sentenza n. 19888 del 2014, in tema di quietanza tipica, quietanza di favore e quietanza atipica. In particolare, si ribadisce che, con riferimento alla quietanza tipica, non è sufficiente, per superare la vincolatività della dichiarazione, provare di non avere ricevuto il pagamento. Piuttosto, il creditore è ammesso ad impugnare la quietanza non veridica soltanto attraverso la dimostrazione - con ogni mezzo - che il divario esistente tra realtà e dichiarato è conseguenza di errore di fatto o di violenza. Al di fuori di questi casi, vale il principio di autoresponsabilità, che vincola il quietanzante alla contra se pronuntiatio asseverativa del fatto dell'intervenuto pagamento, seppure non corrispondente al vero. CDC
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Inserito in data 25/05/2015 TAR LAZIO - ROMA, SEZ. I TER, 20 maggio 2015, n. 7314 Gare d’appalto e congruità delle offerte economiche presentate Con la sentenza in esame, il Collegio afferma che, “in sede di valutazione di anomalia delle offerte presentate nelle gare di appalto, non è possibile fissare una quota rigida di utile al di sotto della quale l’offerta deve considerarsi per definizione incongrua, dovendosi invece avere riguardo alla serietà della proposta contrattuale, atteso che anche un utile apparentemente modesto può comportare un vantaggio importante, in termini, per esempio, di maturazione di requisiti di capacità tecnica ed economica per la partecipazione a successive gare; solo un utile pari a zero o l’offerta in perdita rendono ex se inattendibile l’offerta economica” (cfr.: Cons. St. - sez. IV, 26.2.2015, n. 963; sez. III, 9.7.2014, n. 3492; T.a.r. Sicilia – Catania, 10.4.2014, n. 1059). EF
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Inserito in data 25/05/2015 TAR LAZIO - ROMA, SEZ. III BIS, 21 maggio 2015, n. 7322 Sul trasferimento di studenti universitari in altro Paese dell’U.E. Con la pronuncia in epigrafe, il Tar Lazio rammenta che “i contrasti giurisprudenziali sulla vicenda dei trasferimenti da Università di Paesi appartenenti all’Unione Europea ed in particolare sulla tematica relativa alla precisa individuazione dei presupposti richiesti nell’ordinamento vigente per il trasferimento di studenti iscritti in università straniere a corsi di laurea dell’area medico-chirurgica (v. ord. 454/2014 C.G.A.R.S. di remissione della questione all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato), sono stati appianati dalla sentenza resa dall’Adunanza Plenaria il 28.01.2015 n. 1, che ha confermato quanto già divisato da questa Sezione con le sentenze nn. 255 e 256 del 2013”. Invero, “sebbene l’indirizzo rigoroso prescelto dal Ministero trovi certamente una giustificazione di opportunità nell’esigenza di evitare da parte di taluni studenti i veri e propri aggiramenti dell’obbligo preselettivo, mediante l’iscrizione al primo anno e il superamento di pochi e a volte più semplici esami in altre università straniere, è lo stesso ordinamento interno a non prevedere, almeno allo stato attuale, disposizioni tali da precludere agli studenti comunitari il trasferimento ad anni successivi al primo presso Atenei italiani, seppur a “numero chiuso” senza necessità di espletare un test preselettivo, neppur quando nelle università di provenienza sia previsto un test iniziale di accesso”. Infatti, la legge 2 agosto 1999, n. 264 recante “Norme in materia di accessi ai corsi universitari” nel disciplinare il cd. accesso mediante numero programmato ad alcuni corsi di laurea ha riguardo soltanto alle iscrizioni al primo anno di corso. Lo stesso art. 4, nel prevedere il contenuto degli esami “di ammissione ai corsi”, peraltro, non può essere interpretato se non con riferimento all’accesso iniziale, sia in quanto conforme alla ratio complessiva della normativa (espressamente rivolta a disciplinare “l’accesso” e non la “frequenza” per gli anni successivi al primo), sia in virtù dell’espresso riferimento contenuto nel comma 2, ai sensi del quale: “I requisiti di ammissione alle tipologie di corsi e titoli universitari, da istituire con le procedure di cui all'articolo 17, comma 95, della L. 15 maggio 1997, n. 127, e successive modificazioni, in aggiunta o in sostituzione a quelli previsti dagli articoli 1, 2, 3, comma 1, e 4, comma 1, della L. 19 novembre 1990, n. 341, sono determinati dai decreti di cui al citato articolo 17, comma 95, della legge n. 127 del 1997, i quali comunque non possono introdurre fattispecie di corsi ad accesso programmato ulteriori rispetto a quanto previsto dalla presente legge”. Tale impostazione, oltre che pienamente rispettosa della normativa nazionale, ad avviso del Collegio “appare inoltre la più conforme al rispetto dell’apicale principio di libertà di circolazione e soggiorno nel territorio degli Stati comunitari, suscettibile di applicazione non irrilevante nel settore dell’istruzione e trova nelle norme del Trattato una tutela e una rilevanza applicativa autonoma, anche rispetto al principio espresso dall’art. 149, n. 1, CE - divenuto art. 165 della Convenzione di Lisbona che, per quanto riguarda il contenuto dell’insegnamento e l’organizzazione dei rispettivi sistemi di istruzione, esclude qualunque forma di (necessaria) armonizzazione delle disposizioni nazionali in tema di "percorsi formativi", demandando alla Comunità il limitato compito di promuovere azioni di incentivazione e raccomandazioni”. EF
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Inserito in data 24/05/2015 CORTE DI CASSAZIONE - TERZA SEZIONE PENALE - SENTENZA 21 maggio 2015, n. 21044 Responsabilità penale del rappresentante fiscale Gli Ermellini, con la pronuncia de qua, pubblicata dalla Terza Sezione Penale, chiariscono che il rappresentante fiscale per l’Italia della società estera, può rispondere dei reati di cui agli artt. 3 e 4 del D.Lgs. n. 74/2000, a titolo di concorso, senza che rilevi la predisposizione da parte di terzi delle dichiarazioni da lui firmate.
Invero, i Giudici di Piazza Cavour, hanno confermato il sequestro preventivo dei beni di un quarantenne campano, accusato dei reati di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, dichiarazione infedele e truffa ai danni dello Stato, con l’aggravante della transnazionalità.
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Inserito in data 24/05/2015 TAR LIGURIA - GENOVA, SEZ. I, 15 maggio 2015, n. 492 Ordinanza contingibile, autotutela e cessazione materia del contendere Il Collegio ligure interviene, con la pronuncia in esame, in tema di obbligo per il Giudice amministrativo di dichiarare la cessazione della materia del contendere – ex art. 34 – 5’ co. C.p.A. Si tratta, infatti, di un ricorso giurisdizionale incoato avverso un’ordinanza sindacale, originariamente emessa per lo smaltimento di rifiuti, ma poi oggetto di revoca in autotutela – da parte dell’Amministrazione competente – stante la pendenza di un procedimento penale in capo al medesimo ricorrente per gli stessi fatti contestati dall’Amministrazione. Il Comune, infatti, uniformandosi alla Difesa di controparte, ha ritenuto che fosse stato raggiunto il risultato pratico perseguito attraverso il ricorso giurisdizionale. Di conseguenza il Giudice è chiamato a dichiarare l’avvenuta cessazione della materia del contendere, ai sensi dell’art. 34, comma 5, c.p.a. Nel provvedere in tal senso, il Collegio sottolinea che l’avvenuta rimozione in autotutela del provvedimento sindacale ha fatto venir meno la lesione sulla quale si era innestato l’interesse a ricorrere, cosicché risulta pienamente soddisfatta, come riconosciuto dalla stessa parte ricorrente, la pretesa sostanziale azionata in giudizio. CC
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Inserito in data 21/05/2015 CORTE DI CASSAZIONE - SECONDA SEZIONE PENALE, SENTENZA 19 maggio 2015, n. 20606 Appropriazione indebita e mancata consegna delle spese legali Il Supremo Consesso ha affermato che <<non commette il reato di appropriazione indebita la parte vincitrice di una causa civile – a cui favore il giudice abbia liquidato una somma a titolo di spese legali – che si rifiuti di consegnarla al proprio avvocato che reclami come propria la suddetta somma>>. La condotta, infatti, non presenterebbe gli elementi oggettivi e soggettivi richiesti dalla norma incriminatrice. L’art. 646 c.p. richiede, ai fini della configurabilità del reato di appropriazione indebita: a) l’altruità della cosa; b) la legittima detenzione; c) l’interversione nel possesso; d) l’ingiusto profitto. Tuttavia, nel caso in cui il giudice liquidi le somme per le spese giudiziarie direttamente al cliente, queste non possono dirsi di proprietà dell’avvocato. Il rapporto intercorrente tra avvocato e cliente, infatti, deve essere ricondotto all’interno della categoria delle obbligazioni. Ne consegue che, stante l’esistenza di un diritto alla percezione di quanto dovuto a titolo di parcella, l’avvocato non vanta un diritto reale sulla somma assegnata. Alla luce di quanto detto, attesa la carenza del presupposto dell’appropriazione indebita (la proprietà del terzo sul bene detenuto), deve escludersi che il rifiuto opposto dal cliente alla consegna della suddetta somma possa integrare il reato di cui all’art. 646 c.p. VA
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Inserito in data 21/05/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 19 maggio 2015, n. 2539 Sulla indicazione dei requisiti dell’impresa ausiliaria Il Supremo Consesso ha accolto il ricorso presentato avverso la sentenza di primo grado, con la quale era stata dichiarata l’illegittimità del provvedimento di aggiudicazione di una gara per l’affidamento del servizio di pulizia e sanificazione di un ente ospedaliero, per mancanza dei requisiti richiesti dal bando di gara. Con la decisione in commento il Consiglio di Stato, infatti, dopo un excursus della normativa di settore, ha escluso la genericità dell’indicazione delle risorse messe a disposizione dall’impresa ausiliaria. Il Collegio, richiamando l’articolo 49 del d.lgs. n. 163 del 2006, ha ricordato come l’impresa ausiliaria deve impegnarsi a mettere a disposizione il requisito del quale l’impresa aggiudicataria è priva non «quale mero valore astratto» ma <<indicando chiaramente con quali proprie risorse può far fronte alle esigenze per le quali si è impegnata a sopperire ai requisiti dei quali l’impresa ausiliata è carente, a seconda dei casi, con mezzi, personale o risorse economiche>>. L’esigenza di tale puntualizzazione trova la propria giustificazione funzionale nella necessità di evitare aggiramenti del sistema dei requisiti di ingresso alle gare pubbliche (C.d.S. 412/14 e 3310/13). Ne consegue che <<la pratica della mera riproduzione, nel testo dei contratti di avvalimento, della formula legislativa della messa a disposizione delle risorse necessarie di cui è carente il concorrente (o di simili espressioni) è stata ritenuta tautologica e, come tale, indeterminata e quindi inidonea a permettere un sindacato, da parte della Stazione appaltante, sull’effettiva messa a disposizione dei requisiti>>. I principi sopra esposti sono stati, infine, trasfusi anche nell’art. 88 comma 1 lett. a), del d.p.r. 207/10 con il quale si stabilisce che <<il contratto di avvalimento deve riportare in modo compiuto, esplicito ed esauriente (…) le risorse e i mezzi prestati in modo determinato e specifico>>. I Giudici di Palazzo Spada, inoltre, hanno affermato che la suddetta normativa, com’è avvenuto nel caso di specie, dev’essere applicata anche nel cd. avvalimento di garanzia (volto a garantire la solidità patrimoniale dell’impresa aggiudicataria e, conseguentemente, l’attuazione dell’appalto). Ciò posto, come già detto, il Collegio ritenute esaustive le indicazioni dell’impresa ausiliaria, ha accolto il ricorso in parte qua. VA
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Inserito in data 20/05/2015 CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONE SESTA CIVILE - 2 - SENTENZA 19 maggio 2015, n. 10233 Procedura fallimentare complessa e diritto ad un equo indennizzo La pronuncia in esame è degna di nota poiché con essa si inquadra un ulteriore tassello in seno all’operatività delle Legge Pinto – nelle ipotesi, cioè, di irragionevole durata del processo. La Suprema Corte, infatti, afferma che la durata di una procedura fallimentare particolarmente complessa possa oscillare tra i 5/7 anni di durata, ma non oltre i limiti di questi. Ove, quindi, fosse superato tale margine temporale, i Giudici ritengono sia congruo far scattare, in favore dei soggetti interessati da una Procedura così gravosa, l’equa riparazione di cui alla legge Pinto – n. 89/01. CC
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Inserito in data 20/05/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 18 maggio 2015, n. 2531 Esclusione dalle elezioni, ufficio competente, autenticazione e territorialità Il Collegio della quinta Sezione interviene in riforma della pronuncia di primo grado, a seguito della esclusione dalla competizione elettorale, deliberata ed autenticata da Funzionari appartenenti ad altra circoscrizione territoriale, parzialmente diversa da quella entro la quale avrebbe dovuto concorrere l’odierno appellante. Più nel dettaglio, i Giudici di secondo grado specificano che il requisito della territorialità debba essere inteso non soltanto con riguardo al luogo in cui l’attività certificativa viene svolta, ma anche in relazione agli effetti che essa produce. Pertanto, a dispetto di quanto addotto dai Giudici di prime cure, i funzionari incaricati dal sindaco non possono svolgere funzioni i cui effetti si producano al di fuori dell’Ente nel quale essi stessi sono incardinati. In questo modo, infatti, ritiene il Giudice del gravame, si verificherebbe una sostanziale delocalizzazione del procedimento elettorale rispetto all’ambito territoriale da esso interessato.
Tanto sarebbe avvenuto se si fosse dato seguito alla pronuncia oggi, invece, oggetto di censura e di susseguente riforma. CC
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Inserito in data 19/05/2015 CORTE DI CASSAZIONE, PRIMA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 12 maggio 2015, n. 9636 Responsabilità precontrattuale della PA ex art. 1338 cc e ignorantia legis non excusat 1) La responsabilità precontrattuale della PA, anche nell'ambito della procedura pubblicistica di scelta del contraente, non è responsabilità da provvedimento, ma da comportamento e presuppone la violazione dei doveri di correttezza e buona fede nella fase delle trattative e della formazione del contratto. Pertanto, non rileva la legittimità dell'esercizio della funzione pubblica espressa nel provvedimento amministrativo di aggiudicazione e in altri provvedimenti successivi (anche emessi in autotutela), ma la correttezza del comportamento complessivamente tenuto dalla PA durante il corso delle trattative e della formazione del contratto, poiché tutte le fasi della procedura ad evidenza pubblica si pongono quale strumento di formazione progressiva del consenso contrattuale.
2) Nel caso in cui, all'esito della procedura di evidenza pubblica, sia stipulato il contratto la cui efficacia sia condizionata all'approvazione da parte dell'autorità di controllo, la PA committente ha l'obbligo di comportarsi secondo buona fede e correttezza, cioè di tenere informato l'altro contraente delle vicende attinenti al procedimento di controllo e di fare in modo che non subisca i pregiudizi connessi agli sviluppi e all'esito del medesimo procedimento. La PA è quindi responsabile qualora, avendo preteso l'anticipata esecuzione della prestazione, abbia accettato il rischio del successivo mancato avveramento della condizione di efficacia del contratto a causa della mancata registrazione del decreto di approvazione, in tal modo frustrando il legittimo e ragionevole affidamento del privato nella eseguibilità del contratto.
3) L’art. 1338 cc tutela l’affidamento di una delle parti non nella conclusione del contratto, ma nella sua validità. Pertanto, di solito si afferma che non è configurabile una responsabilità precontrattuale della PA ove l’invalidità del contratto derivi da norme generali, da presumersi note alla generalità dei consociati e quindi tali da escludere l’affidamento incolpevole della controparte. Occorre però comprendere cosa si intenda per norme generali, da presumersi note alla generalità dei consociati. Infatti, estendendo eccessivamente il dovere di diligenza a carico della parte che dovrebbe ricevere l’informazione circa la causa di invalidità o inefficacia del contratto, sarebbe compromessa l’utilità dell’art. 1338 cc. Deve allora ritenersi che il principio ignorantia legis non excusat non ha, in materia contrattuale, un valroe generale e assoluto, dovendosi piuttosto indagare caso per caso sulla diligenza e, quindi, sulla scusabilità dell’affidamento del contraente. In sintesi, il giudice di merito deve verificare in concreto se la norma di relazione violata dalla PA sia conosciuta o facilmente conoscibile da qualunque cittadino mediamente avveduto, tenuto conto della univocità dell'interpretazione della norma e della conoscenza e conoscibilità delle circostanze di fatto cui la legge ricollega l'invalidità. Invece, in presenza di norme di azione che la PA è tenuta istituzionalmente a conoscere ed applicare in modo professionale (es: quelle che disciplinano il procedimento di scelta del contraente), essa ha l'obbligo di informare il privato delle circostanze che potrebbero determinare la invalidità o inefficacia e, comunque, incidere negativamente sulla eseguibilità del contratto, pena la propria responsabilità per culpa in contraendo, salva la possibilità di dimostrare in concreto che l'affidamento del contraente sia irragionevole, in presenza di fatti e circostanze specifiche. CDC
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Inserito in data 19/05/2015 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 18 maggio 2015, n. 2495 Principio di precauzione e obblighi di prevenzione Il principio di precauzione fa obbligo alle Autorità competenti di adottare provvedimenti appropriati al fine di prevenire i rischi potenziali per la sanità pubblica, per la sicurezza e per l'ambiente, ponendo una tutela anticipata rispetto alla fase dell'applicazione delle migliori tecniche proprie del principio di prevenzione. L'applicazione del principio di precauzione comporta che, ogni qual volta non siano conosciuti con certezza i rischi indotti da un'attività potenzialmente pericolosa, l'azione dei pubblici poteri debba tradursi in una prevenzione anticipata rispetto al consolidamento delle conoscenze scientifiche, anche nei casi in cui i danni siano poco conosciuti o solo potenziali. CDC
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Inserito in data 18/05/2015 CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 15 maggio 2015, n. 83 Q.l.c. dell’imposta di consumo sulla commercializzazione delle sigarette elettroniche
Con la pronuncia in epigrafe, la Corte Costituzionale “dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 62-quater del decreto legislativo 26 ottobre 1995, n. 504 (Testo unico delle disposizioni legislative concernenti le imposte sulla produzione e sui consumi e relative sanzioni penali e amministrative), nel testo originario, antecedente alle modifiche apportate dall’art. 1, comma 1, lettera f), del decreto legislativo 15 dicembre 2014, n. 188 (Disposizioni in materia di tassazione dei tabacchi lavorati, dei loro succedanei, nonché di fiammiferi, a norma dell’articolo 13 della legge 11 marzo 2014, n. 23), nella parte in cui sottopone ad imposta di consumo, nella misura pari al 58,5 per cento del prezzo di vendita al pubblico, la commercializzazione dei prodotti non contenenti nicotina, idonei a sostituire il consumo dei tabacchi lavorati, nonché i dispositivi meccanici ed elettronici, comprese le parti di ricambio, che ne consentono il consumo”.
In particolare, l’art. 11, comma 22, del decreto- legge 28 giugno 2013, n. 76, come emerge dall’esame dei lavori preparatori, “trova primaria giustificazione nell’esigenza fiscale, di recupero di un’entrata erariale − l’accisa sui tabacchi, con particolare riguardo alle sigarette − la quale ha subito una rilevante erosione, per effetto dell’affermazione sul mercato delle sigarette elettroniche”. Ciò premesso, il Giudice delle Leggi osserva che “anche in materia tributaria, il principio della discrezionalità e dell’insindacabilità delle opzioni legislative incontra il limite della manifesta irragionevolezza, che nel caso in esame risulta varcato dalla indiscriminata sottoposizione ad imposta di qualsiasi prodotto contenente «altre sostanze», diverse dalla nicotina, purché idoneo a sostituire il consumo dei tabacchi lavorati, nonché dei dispositivi e delle parti di ricambio, che ne consentono il consumo, e in definitiva di prodotti che non hanno nulla in comune con i tabacchi lavorati”. Ne consegue, pertanto, la violazione del parametro di cui all’art. 3 Cost., “attesa nell’intrinseca irrazionalità della disposizione che assoggetta ad un’aliquota unica e indifferenziata una serie eterogenea di sostanze, non contenenti nicotina, e di beni, aventi uso promiscuo”. Infatti, “mentre il regime fiscale dell’accisa con riferimento al mercato dei tabacchi, trova la sua giustificazione nel disfavore nei confronti di un bene riconosciuto come gravemente nocivo per la salute e del quale si cerca di scoraggiare il consumo, tale presupposto non è ravvisabile in relazione al commercio di prodotti contenenti «altre sostanze», diverse dalla nicotina, idonee a sostituire il consumo del tabacco, nonché dei dispositivi e delle parti di ricambio che ne consentono il consumo”. Appare, quindi, “del tutto irragionevole l’estensione, operata dalla disposizione censurata, del regime amministrativo e tributario proprio dei tabacchi anche al commercio di liquidi aromatizzati e di dispositivi per il relativo consumo, i quali non possono essere considerati succedanei del tabacco”. D’altronde, la sola indicazione dell’idoneità a sostituire il consumo dei tabacchi lavorati − riferita ai prodotti non contenenti nicotina, e ai dispositivi che ne consentono il consumo – evidenzia “l’indeterminatezza della base imponibile e la mancata indicazione di specifici e vincolanti criteri direttivi, idonei ad indirizzare la discrezionalità amministrativa nella fase di attuazione della normativa primaria. Discende da ciò il contrasto della disposizione in esame con la riserva di legge in materia di prestazioni patrimoniali imposte, di cui all’art. 23 Cost.”. Ed invero, se è indubbio che la riserva di legge di cui all’art. 23 della Costituzione, abbia carattere relativo, nel senso che lascia all’autorità amministrativa consistenti margini di regolazione delle fattispecie, va rilevato – in conformità al consolidato orientamento di questa Corte − che ciò «non relega tuttavia la legge sullo sfondo, né può costituire giustificazione sufficiente per un rapporto con gli atti amministrativi concreti ridotto al mero richiamo formale ad un prescrizione normativa “in bianco”, genericamente orientata ad un principio-valore, senza una precisazione, anche non dettagliata, dei contenuti e modi dell’azione amministrativa limitativa della sfera generale di libertà dei cittadini» (sentenza n. 115 del 2011). Questa Corte ha inoltre ritenuto, sin dalle sue prime pronunce, che «l’espressione “in base alla legge”, contenuta nell’art. 23 della Costituzione», si deve interpretare «in relazione col fine della protezione della libertà e della proprietà individuale, a cui si ispira tale fondamentale principio costituzionale»; questo principio «implica che la legge che attribuisce ad un ente il potere di imporre una prestazione non lasci all’arbitrio dell’ente impositore la determinazione della prestazione» (sentenza n. 4 del 1957). Lo stesso orientamento è stato ribadito in tempi recenti, quando la Corte ha affermato che, per rispettare la riserva relativa di cui all’art. 23 Cost., è quanto meno necessaria la preventiva determinazione di «sufficienti criteri direttivi di base e linee generali di disciplina della discrezionalità amministrativa» (sentenze n. 350 del 2007 e n. 105 del 2003), richiedendo in particolare che «la concreta entità della prestazione imposta sia desumibile chiaramente dagli interventi legislativi che riguardano l’attività dell’amministrazione» (sentenze n. 190 del 2007 e n. 115 del 2011). Viceversa, “la norma dell’art. 62-quater del d.lgs n. 504 del 1995, affida ad una valutazione soggettiva ed empirica − la idoneità di prodotti non contenenti nicotina alla sostituzione dei tabacchi lavorati – l’individuazione della base imponibile e nemmeno offre elementi dai quali ricavare, anche in via indiretta, i criteri e i limiti volti a circoscrivere la discrezionalità amministrativa nella definizione del tributo. Né l’elasticità delle indicazioni legislative è accompagnata da forme procedurali partecipative, già indicate da questa Corte come possibile correttivo” (sentenze n. 180 e n. 157 del 1996; n. 182 del 1994; n. 507 del 1988). La disposizione in esame costituisce, quindi, “violazione della riserva di legge prevista dall’art. 23 Cost., che impone al legislatore l’obbligo di determinare preventivamente i criteri direttivi e le linee generali di disciplina della discrezionalità amministrativa”. EF |
Inserito in data 18/05/2015 TAR SICILIA - CATANIA, SEZ. I, 13 maggio 2015, n. 1302 Il privato può impugnare il silenzio della P.A. in materia di pianificazione urbanistica Con la sentenza in esame, il Collegio etneo, nel confermare i propri numerosi precedenti, ricorda che “in Sicilia trova applicazione la disciplina del termine quinquennale di durata dei vincoli preordinati all'esproprio e che alla scadenza di tale termine sorge l'obbligo dell'amministrazione a provvedere in merito alla nuova destinazione, ferma restando, nelle more l’applicazione della disciplina delle c.d. “zone bianche” (in tal senso, T.A.R. Sicilia, Catania, sez. I, n. 4366/2010 e, più recentemente, idem, n. 3282/2014). Del resto, è altrettanto incontroverso che “la configurazione di tale obbligo trovi la sua radice nel fatto che l'esercizio del potere di pianificazione urbanistica del Comune sia obbligatorio nell’“an” (restando, ovviamente, largamente discrezionale nel “quomodo”, sia pure nei limiti posti dalle regole urbanistiche contenute nel D.M. n. 1444 del 1968 e, più in generale, nella legislazione di settore) e che, in caso di suo inadempimento, il privato maturi il diritto ad agire, ai sensi degli artt. 31 e 117 cod. proc. amm., avverso il silenzio serbato dall’amministrazione” (ex multis, T.A.R. Sicilia, Catania, sez. I, n. 984/2007). EF
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Inserito in data 13/05/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 4 maggio 2015, n. 2211 Proprietario incolpevole delle violazioni edilizie commesse dall'inquilino Il Consiglio di Stato, con la pronuncia in epigrafe, interviene in materia di abusivismo, trattando, specificamente, del caso in cui il proprietario sia incolpevole delle violazioni edilizie commesse dal proprio inquilino. Il Supremo Consesso amministrativo, partendo dalla considerazione secondo la quale sia possibile che il proprietario di un bene immobile nulla sappia circa la commissione dell’abuso de quo, si domanda in che modo possa evitarsi che l’immobile venga acquisito al patrimonio comunale ai sensi di legge. Occorre premettere, anzitutto, che in materia di repressione di abusi edilizi, l’ordine di demolizione è – in tutti i casi di locazione – legittimamente notificato anche al proprietario, il quale, fino a prova contraria, è corresponsabile dell’abuso, almeno dal momento in cui ne sia venuto a conoscenza (si consideri, a tal proposito, CdS, sez. V, 31 marzo 2010, n. 1878). Invero, se, da parte di costui, può ammettersi la completa estraneità e ignoranza, nel momento della realizzazione dell’abuso e anche nel momento iniziale del primo procedimento di accertamento dell’abuso, non può, invece, negarsi la conoscenza da un dato momento e, quindi, la sussistenza di doveri del proprietario, i quali rinascono nel momento in cui vi è la conoscenza “certa” dell’abuso compiuto. Occorre precisare, a tal proposito, che non vale ad escludere l’incombenza dei doveri di gestione dominicale, la circostanza della stipulazione del contratto di locazione: orbene, tale contratto, se è pur vero che comporti il trasferimento, al conduttore, della “disponibilità materiale” nonché del godimento dell’immobile, non fa venir meno, in capo al proprietario, tutti i poteri e doveri di controllo, cura e vigilanza che spettano al proprietario locatore. Anche la Suprema Corte, sotto tale profilo, ha rilevato che il proprietario conserva un effettivo potere “fisico” sulla entità immobiliare concessa in locazione, avendo altresì un obbligo di vigilanza sul medesimo immobile (Cass. , sez. III, 27 luglio 2011, n. 16422). Alla luce di quanto chiarito dai Giudici di Palazzo Spada, il proprietario incolpevole di abuso edilizio commesso da altri, che voglia sfuggire all’effetto sanzionatorio di cui all’art. 31 del T.U. dell’edilizia e della demolizione o dell’acquisizione – come effetto della inottemperanza all’ordine di demolizione – deve provare la intrapresa di iniziative che, oltre a rendere palese la sua estraneità, siano però anche “idonee” a costringere il responsabile dell’attività illecita a ripristinare lo stato dei luoghi nei sensi e nei modi richiesti dall'Autorità amministrativa. GMC
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Inserito in data 13/05/2015 CORTE DI CASSAZIONE - TERZA SEZIONE CIVILE - SENTENZA 4 maggio 2015, n. 9328 Rappresentanza apparente: presupposti di applicabilità In tema di rappresentanza, possono essere invocati i principi dell'apparenza del diritto e dell'affidamento incolpevole quando, non solo vi sia la buona fede del terzo che ha stipulato con il falso rappresentante, bensì ricorra anche un comportamento colposo del rappresentato, tale da ingenerare, nello stesso terzo, la ragionevole convinzione che il potere di rappresentanza sia stato effettivamente e validamente conferito al rappresentante apparente. Deve chiarirsi, inoltre, che in tema di rappresentanza apparente, il terzo contraente ha soltanto la facoltà, e non anche l'obbligo, di controllare, alla luce dell'art. 1393 c.c., se colui che si qualifichi rappresentante sia in realtà tale, poiché non basta il semplice comportamento omissivo del medesimo terzo per costituirlo in colpa nel caso di abuso della procura (o di mancanza della stessa), occorrendo, invece – ai fini dell'affermazione che egli abbia agito senza la dovuta diligenza – il concorso di altri elementi. GMC
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Inserito in data 12/05/2015 CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI - SENTENZA 6 maggio 2015, n. 9100 Mancata tenuta delle scritture contabili e risarcimento del danno Con la pronuncia in epigrafe, le Sezioni Unite enunciano il seguente principio di diritto: “Nell'azione di responsabilità promossa dal curatore del fallimento di una società di capitali nei confronti dell'amministratore della stessa l'individuazione e la liquidazione del danno risarcibile dev'essere operata avendo riguardo agli specifici inadempimenti dell'amministratore, che l'attore ha l'onere di allegare, onde possa essere verificata l'esistenza di un rapporto di causalità tra tali inadempimenti ed il danno di cui si pretende il risarcimento. Nelle predette azioni la mancanza di scritture contabili della società, pur se addebitabile all'amministratore convenuto, di per sé sola non giustifica che il danno da risarcire sta individuato e liquidato in misura corrispondente alla differenza tra il passivo e l'attivo accertati in ambito fallimentare, potendo tale criterio essere utilizzato soltanto al fine della liquidazione equitativa del danno, ove ricorrano le condizioni perché si proceda ad una liquidazione siffatta, purché siano indicate le ragioni che non hanno permesso l'accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell'amministratore e purché il ricorso a detto criterio si presenti logicamente plausibile in rapporto alle circostanze del caso concreto”. Questa sentenza è, invero, frutto dell’evoluzione giurisprudenziale occorsa sul tema. La giurisprudenza più risalente, infatti, identificava il danno risarcibile “nella differenza tra il passivo e l'attivo accertati in sede fallimentare” (Cass. n. 1281 del 1977, Cass. n. 2671 del 1977, Cass. n. 6493 dei 1985). A seguito dei rilievi dottrinali, tale orientamento è stato rivisitato da alcune pronunce, secondo cui “il danno non dev'essere liquidato alla stregua del suddetto criterio differenziale, ma va invece determinato in relazione alle conseguenze immediate e dirette delle violazioni contestate” (cfr. Cass. n. 1375 del 2000). Altra giurisprudenza precisava, altresì, che il danno non potesse essere commisurato alla differenza tra passivo ed attivo accertati in sede concorsuale: “sia in quanto lo sbilancio patrimoniale della società insolvente potrebbe avere cause molteplici, non tutte riconducibili alla condotta illegittima degli organi sociali, sia in quanto questo criterio si pone in contrasto con il principio civilistico che impone di accertare l'esistenza del nesso di causalità tra la condotta illegittima ed il danno, con l'ulteriore precisazione, tuttavia, che il suaccennato criterio differenziale può costituire un parametro di riferimento per la liquidazione del danno in via equitativa, qualora sia stata accertata l'impossibilità di ricostruire i dati con l'analiticità necessaria per individuare le conseguenze dannose riconducibili al comportamento degli organi sociali; ma, in tal caso, il giudice del merito deve indicare le ragioni che non hanno permesso l'accertamento degli specifici effetti pregiudizievoli riconducibili alla condotta dei convenuti, nonché, soprattutto qualora tale condotta non sia temporalmente vicina all'apertura della procedura concorsuale, la plausibilità logica del ricorso a detto criterio, facendo riferimento alle circostanze del caso concreto” (cfr., in tal senso, Cass. n. 16211 del 2007, n. 17033 del 2008 e n. 16050 del 2009). Da ultimo, cioè prima dell’intervento delle SS.UU., i Giudici di Legittimità, pur muovendo “dalla premessa secondo cui nell'azione di responsabilità promossa dal curatore fallimentare contro gli ex amministratori e sindaci della società fallita compete all'attore dare la prova dell'esistenza del danno, del suo ammontare e del fatto che esso sia stato causato dal comportamento illecito dei convenuti, hanno reputato che si verifichi un'inversione dell'onere della prova quando l'assoluta mancanza o l'irregolare tenuta delle scritture contabili rendano impossibile al curatore fornire la dimostrazione del predetto nesso di causalità; in questo caso - si è aggiunto - la citata condotta, integrando la violazione di specifici obblighi di legge in capo agli amministratori, risulterebbe di per sé idonea a tradursi in un pregiudizio per il patrimonio sociale (Cass. n. 5876 del 2011 e n. 7606 del 2011)”. EF
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Inserito in data 12/05/2015 TAR PUGLIA - LECCE, SEZ. III, 11 maggio 2015, n. 1495 Sulla legittimazione ad impugnare il titolo edilizio Con la sentenza in esame, il Collegio, in linea con la giurisprudenza pressoché consolidata, afferma “il principio secondo cui l’impugnazione dei titoli edilizi è consentita in capo a chiunque si trovi in una situazione di stabile collegamento con la zona interessata dalla costruzione assentita, a prescindere da ogni indagine sulla sussistenza di uno specifico interesse, essendo sufficiente la “vicinitas” quale elemento che distingue la posizione giuridica di un soggetto da quella della generalità dei consociati” (Cons. St. IV sez. 18/4/2014 n. 1995; Cons. St. V sez. 21/5/2013 n. 2757; T.A.R. Molise 26/5/2014 n. 346; T.A.R. Campania – Salerno I sez. 1/10/2012 n. 1750). Pertanto, un interesse commerciale declinato in termini di vicinitas determina “un’ipotesi allargata ed eccezionale di legittimazione che supera i tradizionali confini della vicinitas per ampliarla a tutela dell’interesse commerciale” (T.A.R. Liguria I sez. 26/11/2012 n. 1507). EF |
Inserito in data 11/05/2015 CORTE DI CASSAZIONE, QUARTA SEZIONE CIVILE, ORDINANZA 4 maggio 2015, n. 8867 Sulla configurabilità della presupposizione La dottrina e la giurisprudenza della Suprema Corte (Cass. n. 19144 del 23/09/2004) sono concordi nel ritenere che la “presupposizione” sia configurabile “quando, da un lato, un'obiettiva situazione di fatto o di diritto (passata, presente o futura) possa ritenersi che sia stata tenuta presente dai contraenti nella formazione del loro consenso - pur in mancanza di un espresso riferimento ad essa nelle clausole contrattuali – come presupposto condizionante la validità e l'efficacia del negozio e, dall'altro, il venir meno o il verificarsi della situazione stessa sia del tutto indipendente dall'attività e volontà dei contraenti e non corrisponda, integrandolo, all'oggetto di una specifica obbligazione dell'uno o dell'altro”. EF
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Inserito in data 11/05/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 7 maggio 2015, n. 2316 Il piano di zonizzazione acustica non ammette controinteressati in senso formale La giurisprudenza del Consiglio di Stato (cfr. sez. IV, 22-6-2000, n. 3489; sez. IV, 18-5-1998, n. 827; sez. IV, 8-7-2002, n. 3805; Ad. plen., 8-5-1996, n. 2 ) , sia pur con riferimento allo strumento urbanistico, ma comunque giustificando il proprio convincimento sulla base della natura di atto amministrativo generale dello stesso, ha escluso “la configurabilità di soggetti controinteressati, evidenziando che la funzione esclusiva del piano urbanistico è quella di predisporre un ordinato assetto del territorio comunale, prescindendo dal considerare le posizioni dei titolari di diritti reali, anche se nominativamente indicati, ed i vantaggi e gli svantaggi che ad essi possano derivare dalla pianificazione”. Si è, invero, affermato che “l’interesse qualificato, che costituisce la premessa per la posizione di controinteressato, deve essere espressamente tutelato dal provvedimento e percepibile come un vantaggio individualmente attribuito”. E’ stato pure chiarito ( Cons. stato, sez. VI, 15-12-2014, n. 6153) che “la figura di controinteressato in senso formale , peculiare del processo amministrativo, ricorre soltanto nel caso in cui l’atto sul quale è richiesto il controllo giurisdizionale si riferisca direttamente ed immediatamente a soggetti singolarmente individuabili, i quali per effetto di detto atto abbiano già acquistato una posizione giuridica di vantaggio, vicenda questa per definizione non configurabile nell’atto generale”. Orbene, ritiene la Sezione che “tali principi siano applicabili anche al Piano di zonizzazione acustica, in considerazione della omologa natura di atto di pianificazione, diretto a classificare, in relazione allo specifico interesse pubblico tutelato, il territorio comunale in zone, senza prendere in considerazione e, dunque, riconoscere una immediata posizione differenziata di vantaggio in capo ad alcuno”. EF
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Inserito in data 07/05/2015 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 7 maggio 2015, n. 2291 Acquisizione di beni strumentali deve avvenire mediante procedure concorrenziali Il Collegio ha accolto il ricorso avverso la pronuncia del tribunale di merito che aveva confermato la legittimità dell’affidamento in house effettuato da un’azienda sanitaria per i relativi servizi di pulizia e sanificazione. Il Supremo Consesso, infatti, richiamando l’art. 4 del d.l. 95/2012 (convertito in l. 135/2012), e più precisamente il disposto contenuto al comma 7 della norma citata, evidenziandone l’univocità di lettura, rileva come il fine della norma vada al di là del mero interesse economico, avendo come scopo precipuo la tutela della liberà concorrenza. Pertanto, al dichiarato fine di evitare distorsioni di quest’ultima e del mercato, la norma in questione ha disposto che <<a decorrere dal 1° gennaio 2014, le pubbliche amministrazioni, nel rispetto dell’articolo 2 , comma 1 del citato decreto acquisiscono sul mercato i beni e servizi strumentali alla propria attività mediante le procedure concorrenziali previste dal citato decreto legislativo>>. Il Collegio, inoltre, rileva come <<la circostanza che un affidamento in house non contrasti con le direttive comunitarie non vuol dire che sia contraria all’ordinamento UE una norma nazionale che limiti ulteriormente il ricorso all’affidamento diretto>>. Il precetto comunitario, infatti, rappresenta un’eccezione alla regole generali, che richiedono l’espletamento di una gara per poter procedere all’affidamento degli appalti in quanto sottrae, comunque, dei contratti pubblici al libero mercato (si veda sul punto Ad. Pl. 1/08). Tantomeno il Supremo Consesso ritiene che il successivo comma 8, con il quale si afferma che <<l’affidamento diretto può avvenire solo a favore di società a capitale interamente pubblico, nel rispetto dei requisiti richiesti dalla normativa e dalla giurisprudenza comunitaria per la gestione in house>>, possa avere carattere derogatorio rispetto al precedente comma. Quest’ultimo, infatti, deve essere interpretato come facente riferimento ai commi 1, 2 e 3 (ora abrogati) e, dunque, applicabile esclusivamente a quelle società cui era consentito continuare ad operare le quali venivano elencate dalla stessa norma. Ne consegue che <<la volontà del legislatore era quella di limitare il ricorso alle società pubbliche, tra l’altro escludendolo nel settore dell’acquisizione di beni e servizi strumentali, che non veniva tipologicamente considerato tra le eccezioni>>. A sostegno di quanto appena affermato si rileva, inoltre, come <<il comma 7 è l’unica disposizione vigente, tra quelle dell’art. 4 volte a limitare la possibilità di ricorso all’utilizzazione delle società controllate ed aventi portata generale (…), e si tratta di disposizione avente una propria ratio, complementare a quelle sulla cessazione delle società controllate e suscettibile di essere applicata a prescindere dall’avvenuta caducazione di queste ultime>>. VA
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Inserito in data 07/05/2015 CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 30 aprile 2015, n. 70 Prestazioni previdenziali, adeguatezza e proporzionalità: questione di legittimità costituzionale La Consulta ha dichiarato la parziale illegittimità del comma 25 dell’art. 24, decreto-legge del 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214 per violazione degli art. 3, 36 comma 1 e 38 comma 2 della Costituzione. I giudici rimettenti avevano dubitato della costituzionalità delle norme suddette in quanto, a seguito della mancata rivalutazione, sarebbero stati violati i principi di proporzionalità e adeguatezza delle prestazioni previdenziali, causando una irrazionale discriminazione in danno della categoria dei pensionati. La norma censurata, inoltre, avendo ad oggetto una prestazione patrimoniale di natura sostanzialmente tributaria, avrebbe configurato una violazione del principio di universalità dell’imposizione a parità di capacità contributiva, essendo posta a carico di una sola categoria di contribuenti. Venivano, infine, evocati i principi sanciti nella CEDU quali: il principio della certezza del diritto, il diritto dell’individuo alla libertà e alla sicurezza (art. 6), il diritto di non discriminazione, che include anche quella fondata sul “patrimonio”, (art. 21), il diritto degli anziani di condurre una vita dignitosa ed indipendente (art. 25), il diritto alla protezione della famiglia sul piano giuridico, economico e sociale (art. 33), il diritto di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale e ai servizi sociali (art. 34)». La Corte di legittimità, dopo aver dichiarato l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale per violazione degli artt. 2, 3, 23 e 53 Cost. escludendo natura tributaria della misura in esame in quanto <<l’azzeramento della perequazione automatica oggetto di censura (…) non dà luogo ad una prestazione patrimoniale imposta, realizzata attraverso un atto autoritativo di carattere ablatorio, destinato a reperire risorse per l’erario>>, ha accolto il ricorso limitatamente alla violazione degli artt. 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma della Costituzione. La rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici, disciplinata dall’art. 34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo), infatti, si prefigge la tutela dei trattamenti pensionistici dalla erosione del potere di acquisto della moneta, anche in assenza di inflazione. Tale perequazione automatica, tuttavia, non spetta per intero a tutti i destinatari del sistema pensionistico, ma ne viene graduato l’ammontare a seconda delle fasce di importo degli trattamenti pensionistici. Sebbene questo sistema, nel corso degli anni, sia già stato oggetto di interventi legislativi (anche a carattere sospensivo), la Corte Costituzionale ne aveva escluso l’illegittimità in quanto erano stati rispettati i principi di ragionevolezza e proporzionalità. Non può dirsi altrettanto con riferimento alla norma in esame. L’art. 24, comma 25, del d.l. n. 201 del 2011 (manovra denominata “salva Italia”), infatti, stabilendo che <<in considerazione della contingente situazione finanziaria», la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici, in base al già citato meccanismo stabilito dall’art. 34, comma 1, della legge n. 448 del 1998, è riconosciuta, per gli anni 2012 e 2013, esclusivamente ai trattamenti pensionistici di importo complessivo fino a tre volte il trattamento minimo INPS, nella misura del cento per cento>> ha discriminato i trattamenti pensionistici complessivamente intesi, non distinguendo tra fasce di importo ed incide anche sui trattamenti pensionistici di importo meno elevato. Infine, sebbene si comprenda l’esistenza di valori costituzionali ed esigenze sociali contrastanti con il sistema di tutela sopra descritto, consentendo al legislatore di operare un bilanciamento tra questi valori, viene riaffermato il limite ineludibile della ragionevolezza (C.Cost. 226/93). Sulla base delle considerazioni sopra esposte la Consulta ha affermato che <<la censura relativa al comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, se vagliata sotto i profili della proporzionalità e adeguatezza del trattamento pensionistico, induce a ritenere che siano stati valicati i limiti di ragionevolezza e proporzionalità, con conseguente pregiudizio per il potere di acquisto del trattamento stesso e con irrimediabile vanificazione delle aspettative legittimamente nutrite dal lavoratore per il tempo successivo alla cessazione della propria attività (C.Cost. 349 del 1985)>> incidendo anche su fasce pensionistiche molto basse e <<si limita a richiamare genericamente la contingente situazione finanziaria, senza che emerga dal disegno complessivo la necessaria prevalenza delle esigenze finanziarie sui diritti oggetto di bilanciamento, nei cui confronti si effettuano interventi così fortemente incisivi>>. VA |
Inserito in data 06/05/2015 TAR VENETO - VENEZIA, SEZ. I, 28 aprile 2015, n. 451 Sul risarcimento del danno in tema di appalti: la colpa della PA Il Tar Veneto, con la pronuncia in epigrafe, interviene al fine di dichiarare l’irrilevanza, ai fini del risarcimento del danno in materia di appalti pubblici, del carattere colpevole della condotta della Pubblica Amministrazione. Invero, ai fini del risarcimento del danno in materia di appalti pubblici di lavori, servizi e forniture, dopo la sentenza 30 settembre 2010, C 314/09 della Corte di Giusta dell'UE, non riveste più alcun rilievo il “carattere colpevole” della condotta della Pubblica Amministrazione. A tal proposito, pare essere costante l'orientamento espresso dal giudice amministrativo, il quale ha sottolineato che “la vigente normativa europea relativa alle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, forniture e servizi non consente che la pretesa ad ottenere il risarcimento del danno da un'amministrazione pubblica che abbia violato le norme sulla disciplina degli appalti sia subordinato al carattere colpevole di tale violazione. Il rimedio risarcitorio previsto dall'art. 2, n. 1, lett. c), dell'originaria direttiva 89/665/CEE può costituire, se del caso, un'alternativa procedurale compatibile con il principio di effettività della tutela soltanto a condizione che la possibilità di riconoscere un risarcimento in caso di violazione delle norme sugli appalti pubblici non sia subordinata, così come non lo sono gli altri mezzi di ricorso previsti dal citato art. 2, n. 1, alla constatazione dell'esistenza di un comportamento colpevole tenuto dall'Amministrazione aggiudicatrice”. Più specificamente, poco importa, per il giudice comunitario, che un ordinamento nazionale non faccia gravare sul ricorrente l'onere della prova dell'esistenza di una colpa dell'Amministrazione aggiudicatrice, ma la presuma a carico della stessa; infatti, dal momento in cui si consente a quest'ultima di vincere la presunzione di colpevolezza su di essa gravante, si genera ugualmente il rischio che il ricorrente leso da un atto illegittimo di un'Amministrazione aggiudicatrice venga comunque privato della spettanza del risarcimento per il danno causato da tale decisione, nel caso in cui l'Amministrazione riesca a superare la suddetta eventuale presunzione di colpa. GMC |
Inserito in data 06/05/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 30 aprile 2014, n. 2194 Il Comune non deve motivare l’adesione ad una Convenzione Consip Nel caso trattato dai Giudici di Palazzo Spada, una società operante nel settore della illuminazione pubblica, adiva il giudice amministrativo impugnando il provvedimento con cui un Comune aveva aderito alla convenzione della Consip per l’affidamento del proprio servizio di illuminazione pubblica. La decisione, del dirigente comunale, di aderire alla convenzione Consip per il servizio della pubblica illuminazione, veniva contestata poiché considerata in contrasto con una precedente deliberazione della Giunta comunale, con la quale era stato iniziato il procedimento per l’esternalizzazione di tale servizio mediante gara. La scelta comunale, volta, come chiarito, alla adesione alla convenzione della Consip, non sarebbe stata affatto motivata con riferimento alla convenienza del servizio di illuminazione pubblica proposto da quest’ultima. Il Consiglio di Stato, con la pronuncia in oggetto, è intervenuto sulla questione riguardante la possibilità che da parte di un Comune occorra una preventiva, specifica istruttoria circa la possibilità di ottenere condizioni migliori ricorrendo al mercato. A tal proposito, i Giudici di Palazzo Spada, hanno precisato che le norme vigenti esprimono, per convenzioni della Consip, un sicuro “favor”, desumibile anche dalla considerazione secondo la quale queste ultime, pur in difetto di adesione, rilevano tuttavia come parametri di prezzo – qualità fungenti da limiti massimi per la stipulazione dei contratti. L’adesione de qua – certamente privilegiata dal Legislatore – corrisponde, infatti, per le Amministrazioni, ad una regola di azione.
A sostegno di quanto da ultimo chiarito, la V sez. del Consiglio di Stato, aveva già avuto modo di chiarito che “la scelta di aderire alla convenzione Consip, (…), proprio perché l’individuazione del miglior contraente avviene nel rispetto dei principi comunitari, non richiede da parte della amministrazione che se ne avvale una specifica motivazione dell’interesse pubblico che la sottende. Ed infatti per amministrazioni non statali vi è una facoltà implicitamente desumibile dalla norma senza che per questo incomba sulle stesse un obbligo di motivazione sul perché della scelta di avvalersi o di non avvalersi della convenzione”. Ed ancora, “è l’ente che, nell’ambito della sua autonomia e nell’esercizio di una attività non imposta ma consentita dalla norma, assume la decisione di aderire alla convenzione e tale adesione non necessita del supporto di una specifica delibera” (si consideri, infatti, CdS, sez. V, 1° ottobre 2010, n. 7261). GMC
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Inserito in data 05/05/2015 CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 30 aprile 2015, n. 71 L’art. 42-bis t.u. espr. non è costituzionalmente illegittimo Con la sentenza in esame, la Corte Costituzionale ha ritenuto infondate o inammissibili tutte le questioni di legittimità costituzionale sollevate con riferimento all’art. 42-bis d.p.r. 327/2001, che ha reintrodotto, con alcune modifiche, l’istituto dell’acquisizione sanante. Quest’ultimo era stato previsto dall’art. 43 d.p.r. 327/2001 ed era stato dichiarato incostituzionale, per eccesso di delega, dalla sentenza n. 293 del 2010 della Corte Costituzionale.
La parte più rilevante della pronuncia è quella che esclude il contrasto dell’art. 42-bis con l’art. 42 Cost.
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Inserito in data 05/05/2015 CORTE DI CASSAZIONE, SECONDA SEZIONE PENALE, SENTENZA 4 maggio 2015, n. 18265 La messa alla prova non è applicabile retroattivamente La sentenza in esame conferma la tesi (già sostenuta da Cass. 35717/2014) secondo la quale ai giudizi di legittimità in corso non è applicabile il nuovo istituto della messa alla prova, introdotto dalla legge n. 67 del 2014. Per la Cassazione, è decisivo il fatto che la disposizione di cui all'art. 464-bis, co. 2, cpp, preveda uno sbarramento che individua espressamente un termine finale di presentazione della richiesta, con diversificazioni collegate ai differenti procedimenti, ma comunque ristretta al giudizio di primo grado. Dunque, oltre il giudizio di primo grado il beneficio non è più applicabile: ciò risponde ad una scelta discrezionale del legislatore. Inoltre, la possibilità di presentare la richiesta alla prima udienza successiva all'entrata in vigore della legge n. 67 del 2014 significherebbe collegare l'esercizio della facoltà ad un termine in realtà mobile, posto che detta udienza potrebbe avere luogo ad istruttoria dibattimentale sia in corso che conclusa, durante la discussione finale o addirittura coincidere con quella fissata unicamente per la lettura del dispositivo, con grave compromissione delle ragioni di economia processuale e della ragionevole durata del processo. CDC
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Inserito in data 04/05/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 29 aprile 2015, n. 2188 Verifica delle anomalie e richiesta di chiarimenti da parte della P.A.
In relazione alla questione posta al suo esame, il Consiglio di Stato ritiene che “l’Amministrazione, in sede di verifica dei requisiti e dell’anomalia, ha correttamente richiesto chiarimenti e giustificazioni, nel contesto di un contraddittorio necessariamente ampio e a tutto campo (cfr., fra le altre, VI, n. 4676/2013), per cui non si è concretata alcuna modifica dell’offerta presentata dall’aggiudicataria e la stessa è risultata, nel suo complesso e nell’importo indicato, congrua e attendibile, quindi affidabile e complessivamente la migliore nell’ambito di una valutazione di tutti gli elementi di discrezionalità tecnica scevra da vizi di travisamento dei fatti, illogicità o irrazionalità della motivazione (cfr., fra le altre, V, n. 1369/2012; III, n. 4487/2014”.
Del resto, “anche l’asserito soccorso istruttorio in occasione delle ridette dichiarazioni ex art. 38 si è limitato a chiarimenti richiesti a scrupolo esaustivo istruttorio a conferma di dichiarazione già di per sé effettuata” (cfr., Ad. Plen. n. 9/2014; III, n. 1735/2015). Sovvengono, in tal senso, anche le Ad. Plen. n. 21/2012 e n. 16/2014, “che fanno riferimento all’esclusione dalla gara solo se vi sia la prova della sussistenza di pregiudizi penali”, circostanza che, però, non ricorre nella fattispecie posta al vaglio dei Giudici di Palazzo Spada. D’altra parte, “la verifica delle offerte anomale, ex art. 55 direttiva CE n. 18/2004 e artt. 87 e 88 Codice dei contratti, offre alle Amministrazioni uno strumento di controllo finale delle offerte a garanzia in primis del risultato e dell’aggiudicazione con un apprezzamento discrezionale della convenienza complessiva dell’offerta ritenuta migliore e del conseguente importo complessivo, nel presupposto che l’eventuale incongruità di talune voci di costo non comporta di necessità l’anomalia dell’offerta nel suo complesso, con conseguente stravolgimento e vanificazione, tramite il giudizio di anomalia, dell’esito della gara (cfr. citata III, n. 1487/2014 e n. 1744/2014)”. EF |
Inserito in data 04/05/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 30 aprile 2015, n. 2195 Sull’apertura dei plichi contenenti le offerte tecniche in seduta non pubblica Con l'art. 12 del d.l. 7 maggio 2012, n. 52, convertito nella legge 6 luglio 2012, n. 94 il legislatore “ha inteso contenere gli oneri amministrativi ed economici che sarebbero scaturiti dalla caducazione, altrimenti inevitabile, di molteplici gare destinate all’annullamento, in forza del pronunciamento dell’Adunanza Plenaria (n. 13 del 2011), per il mancato rispetto dei canoni di pubblicità dell’apertura dei plichi contenenti le offerte tecniche, pur in assenza di indizi circa la manomissione o l’occultamento degli stessi da parte dell’Amministrazione”. In sostanza, la “riforma legislativa ha tenuto conto della natura meramente formale del vizio e della assenza di una esplicita e chiarificativa disciplina della fase procedimentale in questione ed ha perseguito, quindi, la specifica funzione transitoria di salvaguardare gli effetti delle procedure già concluse, o anche solo pendenti, alla data del 9 maggio 2012, nelle quali si fosse proceduto all'apertura dei plichi in seduta riservata, operando in sostanza, per questo aspetto, una sanatoria delle procedure medesime (così C.d.S., Ad. Pl., n. 8 del 22 aprile 2013 e n. 16 del 27 giugno 2013)”. Ne consegue che nel caso di un procedimento di gara conclusosi “ampiamente prima dell'entrata in vigore dell'art. 12 d.l. n. 52 del 2012, quest’ultima previsione impone di reputare legittima(ta) l'apertura delle buste delle offerte tecniche anche se effettuata in seduta non pubblica“ (cfr., C.d.S., III, 31 luglio 2013, n. 4037; V, 5 luglio 2013, n. 3586; IV, 26 agosto 2014, n. 4305; VI, 14 novembre 2014, n. 5608). EF
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Inserito in data 02/05/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 27 aprile 2015, n. 2097 Sui chiarimenti della stazione appaltante
Una stazione appaltante può chiarire nel corso del procedimento le previsioni della lex specialis, quando queste siano equivoche o comunque si prestino ad alcune incertezze interpretative. Applicando tale orientamento al caso ivi in questione, ne consegue l'infondatezza della censura, attesa l'obiettiva incertezza derivante dagli errori ortografici presenti nella originaria formulazione della disposizione. Pertanto – alla luce di quanto chiarito – una stazione appaltante, può chiarire, nel corso del procedimento, le previsioni della lex specialis, qualora queste siano equivoche o comunque si prestino a creare delle incertezze interpretative. GMC |
Inserito in data 02/05/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 27 aprile 2015, n. 2154 In merito alla legittimità dell’affidamento in house del servizio Con la pronuncia de qua, i Giudici di Palazzo Spada intervengono in merito alla legittimità dell’affidamento in house, chiarendo che essa vada valutata con riferimento allo “stato di fatto e di diritto” esistente al momento della adozione del provvedimento. Il Supremo Consesso amministrativo puntualizza che, nel caso de quo, all’epoca dell’affidamento, dovevano sussistere tutti i requisiti e presupposti legittimanti l’affidamento diretto. La modifica dello statuto, intervenuta successivamente, anche quando effettivamente dovesse configurare una integrazione della forma di controllo consentita agli enti, non sarebbe, in ogni caso, valutabile al fine di ritenere integrato il requisito mancante e superato il provvedimento originario, con conseguente venir meno dell’interesse al ricorso da parte della società ricorrente in primo grado. Tuttavia, a parte ogni considerazione sulla applicazione al giudizio di legittimità degli atti amministrativi della regola “tempus regit actum”, attribuire rilevanza “sanante” all’atto sopravvenuto e, quindi, valutare la legittimità dell’affidamento in house del servizio sulla base della “sopravvenienza in fatto”, violerebbe non solamente la regola sopracitata, bensì i principi che presiedono al corretto affidamento degli appalti. Invero, i Giudici puntualizzano che vero è che l’affidamento in house non rappresenti l’eccezione, rispetto alla regola della gara pubblica nel settore dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, nel caso in cui sussistano i presupposti legittimanti la scelta discrezionale della Amministrazione. Tuttavia, mancando quei presupposti, la gara diviene l’ordinario metodo di affidamento. La concorrenza, la quale trova il suo fondamento costituzionale nell’art. 41 della Carta costituzionale, presuppone infatti la più ampia apertura al mercato a tutti gli operatori economici del settore, nel rispetto dei principi comunitari della libera circolazione delle merci, della libertà di stabilimento e della libera prestazione dei servizi. I Giudici di Palazzo Spada precisano, altresì, che la “procedimentalizzazione” dell’attività di scelta del contraente, non è soltanto dettata nell’esclusivo interesse dell’amministrazione, bensì anche nell’interesse primario rappresentato dalla tutela degli operatori, nonché dal loro interesse ad accedere al mercato e a concorrere per lo stesso. La III Sezione del Consiglio di Stato, interviene, altresì, in merito al c.d. in house pluripartecipato, chiarendo che le Amministrazioni pubbliche, in possesso di partecipazioni di minoranza, possono esercitare il controllo analogo in modo congiunto con le altre, a condizione che siano soddisfatte alcune condizioni, ossia: “a) gli organi decisionali dell’organismo controllato siano composti da rappresentanti di tutti i soci pubblici partecipati, ovvero, siano formati tra soggetti che possono rappresentare più o tutti i soci pubblici partecipati; b) i soci pubblici siano in grado di esercitare congiuntamente un’influenza determinante sugli obiettivi strategici e sulle decisioni significative dell’organismo controllato; c) l’organismo controllato non persegua interessi contrari a quelli di tutti i soci pubblici partecipati”. Tali principi, ad oggi, sono codificati, inoltre, dall’art. 12 della Direttiva Appalti (2014/24/UE), che, nonostante non sia stata ancora recepita, presenta un carattere dettagliato che non lascia dubbi in merito ad una sua concreta attuazione. Riguardo tale ultima questione, secondo la giurisprudenza comunitaria, è necessario – in tutti i casi di pluripartecipazione – che il singolo socio possa vantare una posizione “più che simbolica”, idonea, per quanto minoritaria, a garantirgli una effettiva possibilità di partecipazione alla gestione dell’organismo del quale è parte. GMC |
Inserito in data 30/04/2015 CONSIGLIO DI STATO - ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL’ADUNANZA PLENARIA, 29 aprile 2015, n. 2189 Esegesi della normativa transitoria sulle attestazioni di qualificazione SOA Il Collegio, chiamato a giudicare sulla legittimità dell’aggiudicazione di un appalto a seguito dell’omessa verifica delle attestazioni di qualificazione SOA, relative alle categorie OG1 e OG11, ha ritenuto necessario rimettere all’Adunanza Plenaria l’esegesi della normativa transitoria di riferimento. Il problema nasce a seguito dell’entrata in vigore del d.P.R. n.207 del 2010, che ha introdotto un nuovo sistema di qualificazione SOA, dettando contestualmente le regole del regime transitorio di validità delle attestazioni rilasciate sotto la vigenza del vecchio regolamento. Più precisamente si pone il problema della corretta interpretazione dell’art. 357, commi 12 e 16, del d.P.R. sopra citato. Le due disposizioni, infatti, stabiliscono, rispettivamente, che le attestazioni rilasciate sotto la vigenza della vecchia normativa (d.P.R. n.34 del 2000) , che si riferiscano a categorie che non hanno subito variazioni (es. la OG1), conservano validità “fino alla naturale scadenza prevista per ciascuna di esse”, mentre le altre (compresa la OG11) “cessano di avere validità a decorrere dal 546° giorno dalla data di entrata in vigore del presente regolamento” ; che <<per 365 giorni successivi alla data di entrata in vigore del regolamento (…) la dimostrazione del requisito relativo al possesso delle categorie ivi indicate (tra le quali la OG11) avviene mediante presentazione delle attestazioni di qualificazione rilasciate dalle SOA in vigenza del d.P.R. 34 del 2000, purchè in corso di validità alla data di entrata in vigore del regolamento. Si tratta, quindi, di verificare se le predette disposizioni (…) vadano lette nel senso (preferito dal T.A.R.) che il regime di validità ivi stabilito non resta subordinato all’obbligo della verifica triennale, ovvero in quello (preferito dalla sesta sezione del Consiglio di Stato…) secondo cui il predetto adempimento rimane operativo e condiziona la validità e l’efficacia delle attestazioni SOA rilasciate sotto la vigenza del d.P.R. n.34 del 2000>>. Inoltre, nel caso in cui venga accolta la seconda soluzione, occorre anche stabilire quali siano le conseguenze derivanti dalla interruzione, anche temporanea, nel corso della procedura, del possesso continuativo dei requisiti di qualificazione: se, cioè, quest’ipotesi comporti necessariamente l’esclusione dell’impresa che l’ha temporaneamente perduta, anche se la possedeva nei momenti della presentazione della domanda, del controllo dei requisiti e dell’aggiudicazione, o meno. Entrambe le interpretazioni, infatti, sembrano plausibili. Invero il silenzio normativo, consistente nell’omesso richiamo dell’obbligo di verifica triennale sancito dall’art. 15-bis d.P.R. n .34 del 2000, può essere inteso come espressione della volontà del legislatore di escludere tale adempimento, ma anche come assenza di un intento abrogativo della suddetta norma e, dunque, come perdurante necessità del predetto adempimento. Numerose le argomentazioni a sostegno delle due tesi. La teoria che riconosce la necessità della verifica triennale fa leva sul rilievo che, in mancanza di un’abrogazione espressa, <<sia la conferma della scadenza naturale (…), sia la proroga legale, nel periodo transitorio, dell’efficacia delle attestazioni rilasciate sotto il regime del vecchio regolamento devono essere necessariamente intese come condizionate alla persistente validità di queste ultime, in ossequio alle regole generali (e, quindi, subordinate alla positiva verifica triennale) che continuano a produrre i loro effetti>>. Questa interpretazione appare conforme anche alla ratio dell’adempimento in questione, il quale risponde all’esigenza di accertare che i requisiti originariamente attestati siano stati mantenuti. Infine questa soluzione risponde anche al principio del tempus regit actum. L’esegesi opposta, invece, si basa sia su una lettura testuale delle disposizioni di riferimento, sia su una loro esegesi finalistica, ponendo l’accento sulle differenze che sussistono tra le categorie non variate e quelle variate. Invero, con riguardo alle prime, l’art. 357, comma 12, del d.P.R. n.207/10 stabilisce che le attestazioni rilasciate nella vigenza del d.P.R. n.34 del 2000 “hanno validità fino alla naturale scadenza prevista per ciascuna di esse” e che, quindi, prevede, chiaramente ed univocamente, la conferma dell’efficacia delle attestazioni fino alla fisiologica scadenza quinquennale mentre, quanto alle categorie variate, ne proroga la scadenza naturale. La soluzione appena esposta, infatti, appare più ragionevole atteso il carattere più stringente dei requisiti richiesti dalla nuova normativa ai fini del conseguimento della qualificazione nella categoria OG11. <<In altri termini, il significato più ragionevole e logico da assegnare alla disposizione in esame è proprio quello di permettere alle imprese che avevano delle attestazioni in scadenza di beneficiare di un congruo periodo di validità supplementare delle stesse (…), in vista dell’entrata in vigore delle nuove regole di qualificazione, e di evitare alle stesse il duplice onere della rinnovazione delle certificazioni con il vecchio regime e del conseguimento (in tempi stretti) delle nuove attestazioni. Inoltre, la lettura da ultimo illustrata risulta corroborata dall’esigenza di rispettare il principio di affidamento degli operatori economici (…) e quello del favor partecipationis>>. Un sostegno ulteriore all’interpretazione esegetica appena esposta deriverebbe dall’autonomia del regime transitorio, il quale non si presta ad essere integrato da norme che, come quella oggetto di contestazione, non siano state espressamente richiamate dalla stessa. Anche con riguardo al problema relativo alle conseguenze della mancata verifica triennale si contendono il campo due diverse soluzioni. Quella più rigorosa, che ne fa conseguire l’esclusione dalla gara, fa leva sull’interesse pubblico alla corretta esecuzione dell’appalto insito nella norma in esame e che richiede che la procedura competitiva si svolga tra i soli candidati che possiedano continuativamente le qualificazioni richieste. La tesi contrapposta, invece, rinviene la ratio dell’istituto del requisito di qualificazione, dimostrato dalle attestazioni SOA, nell’interesse pubblico alla verifica della idoneità tecnica e organizzativa dell’impresa candidata. Ne consegue che tale esigenza assume rilevanza solo nella fase esecutiva dell’appalto o, comunque, sono in alcune fasi del procedimento (presentazione della domanda, della verifica dei requisiti e dell’aggiudicazione). <<Ne consegue che il temporaneo deficit di uno o più requisiti in un segmento temporale della procedura intermedio tra i predetti momenti e, ovviamente, fermo restando il loro possesso nelle fasi indicate come (esclusivamente) rilevanti (…), dovrebbe essere giudicato del tutto ininfluente sulla regolarità del procedimento e sulla legittimità dell’aggiudicazione>>. Interpretazione, peraltro, coerente con quella della Corte di Giustizia Europea, garantendo una più ampia apertura alla concorrenza negli appalti pubblici. VA |
Inserito in data 29/04/2015 TAR EMILIA ROMAGNA - BOLOGNA, SEZ. I, 27 aprile 2015, n. 407 Ludopatia: distanza da luoghi cd. sensibili e problemi di competenza Il Collegio bolognese interviene con una pronuncia, oggi in epigrafe, densa di spunti significativi in tema di “lotta al fenomeno della ludopatia”. Da un lato, infatti, i Giudici contestano le doglianze prospettate dal ricorrente, tese ad ottenere l’annullamento del provvedimento con cui la Questura di Bologna non aveva concesso la licenza – ex art. 88 TULPS – in ragione di una ritenuta carente distanza minima che, invero, è ormai richiesta tra l’apertura di eventuali sale scommesse e determinati luoghi – quali scuole, asili – comunemente indicati ormai come “sensibili”. Il Tribunale risponde alle censure ritenendo che la distanza volutamente fissata rispetto ai suddetti luoghi può annoverarsi tra le cause ostative, ricomprendendole tra quelle che, ormai, la giurisprudenza costantemente inquadra tra le ragioni finalizzate a contrastare il dilagante fenomeno della ludopatia. Infatti, richiamando giurisprudenza anche molto recente, il Giudice emiliano evidenzia come “la licenza può essere rifiutata o revocata per ragioni di igiene …” (Cfr. TAR Toscana, Sez. II, 19 febbraio 2015 n. 284). Ed ancora, in termini più ampi, si è altresì rilevato che “…l’autorità di p.s., in sede di rilascio delle licenze per scommesse e giochi con vincita di danaro, deve tener conto dei diversi interessi sul territorio che sono coinvolti dal provvedimento autorizzatorio …” (Cfr. Cons. Stato, Sez. III, ord. 19 febbraio 2015 n. 798). Sotto questo aspetto, quindi, era stato ritenuto legittimo il provvedimento di diniego emesso dall’Amministrazione competente. Tuttavia, il TAR è tenuto a ravvisarne l’illegittimità derivata e, per l’effetto, ad accogliere le doglianze dell’odierno ricorrente, in ragione della carenza di presupposto sulla base del quale il provvedimento questorile impugnato era stato emesso. Si tratta, infatti, di una norma regolamentare propria del Corpo di Polizia municipale della città di Bologna. In quanto tale, essa non è sufficiente a regolare questioni che, rientranti nella tutela della salute, spettano alla competenza legislativa concorrente di Stato e Regioni. Di conseguenza, come già accaduto in fattispecie analoghe, il medesimo Tribunale rileva come l’adozione di norme in materia da parte dei singoli Comuni sia priva del necessario presupposto (Cfr. Sez. II, 20 ottobre 2014 n. 976). I Giudici, infatti, ricordano come gli strumenti di contrasto della ludopatia devono trovare la loro disciplina di base a livello centrale ed essere inseriti nel sistema della pianificazione nazionale, entro i cui limiti poi opereranno gli enti locali, fermo restando il potere dei sindaci di adottare ordinanze contingibili e urgenti in caso di situazioni di effettiva emergenza (Cfr. TAR Veneto, Sez. III, 16 aprile 2013 n. 578). In ragione di ciò, il Collegio emiliano non può che accogliere il ricorso. CC
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Inserito in data 29/04/2015 CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA - QUINTA SEZIONE, SENTENZA 23 aprile 2015, C - 260/13 Inibita la circolazione, diritto ad una misura equa e proporzionata I Giudici dell’Unione intervengono su una delicata questione, proveniente dal Tribunale teutonico, in tema di circolazione stradale dei cittadini comunitari in seno al territorio europeo. La Corte, infatti, condivide – da un lato – la rigorosa posizione dei Giudici tedeschi che, tempo addietro, avevano sanzionato un cittadino austriaco per guida - nell’ambito del territorio tedesco - sotto l’effetto di sostanze stupefacenti. Tale misura, infatti, è conforme alla direttiva 2006/126 sulle patenti di guida. Tuttavia ricordano, al tempo stesso, la necessità di inibire al trasgressore la possibilità di circolare sul territorio straniero solo per un determinato periodo. Infatti, l’autista europeo che commette gravi infrazioni in un altro Stato membro può essere appiedato senza comunque agire sulla sua patente di guida. Pertanto, in un caso come quello in esame, specifica la Corte, la possibilità di rimettersi alla guida sul territorio teutonico è condizionata alla presentazione di una perizia medico–psicologica attestante la prova dell’astinenza prolungata dal consumo di sostanze stupefacenti dell’interessato. Oppure dal semplice decorso di un quinquennio dalla data dell’accertamento. CC
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Inserito in data 28/04/2015 CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 27 aprile 2015, n. 5 Principio della domanda, graduazione dei vizi e assorbimento dei motivi Il processo amministrativo è un processo di parte governato, in linea generale, dal principio della domanda, con conseguente impossibilità di considerare quella amministrativa una giurisdizione di diritto oggettivo. L’obbligo del giudice amministrativo di pronunciare su tutti i vizi–motivi e le domande di annullamento non è però incondizionato. Infatti, costituisce un limite a tale obbligo la graduazione dei motivi o delle domande. Essa consiste in un ordine dato dalla parte ai vizi-motivi o alle domande di annullamento, in funzione dell’interesse di parte; serve dunque a segnalare che l’esame e l’accoglimento di alcuni motivi ha, per la parte, importanza prioritaria. Pertanto, essa impedisce al giudice di passare all’esame dei vizi-motivi subordinati una volta accolta una o più delle preminenti doglianze. La graduazione dei vizi-motivi, consistendo in un’eccezione all’obbligo del giudice di esaminare tendenzialmente tutti i vizi, richiede una puntuale ed esplicita esternazione, cioè espressa e non desumibile implicitamente dalla semplice enumerazione delle censure o dal mero ordine di prospettazione delle stesse. Un limite al potere di graduare i vizi-motivi è previsto dall’art. 34, comma 2, cpa, il quale dispone che in nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati. La norma fa riferimento ai poteri non esercitati dall’autorità competente, chiamata a esplicare la propria volontà provvedimentale in base al micro ordinamento di settore. Anche in tal caso, se così non fosse, sarebbe leso il principio del contraddittorio rispetto all’autorità amministrativa competente e ciò si ricollega al principio costituzionale fondamentale di separazione dei poteri (e di riserva di amministrazione). Si versa nella situazione in cui il potere amministrativo non è stato ancora esercitato in tutte le situazioni di incompetenza, carenza di proposta o parere obbligatorio, sicché in tali casi il giudice non può fare altro che rilevare, se assodato, il relativo vizio e assorbire tutte le altre censure, non potendo dettare le regole dell’azione amministrativa nei confronti di un organo che non ha ancora esercitato il suo munus. Ciò produce effetti deflattivi sul contenzioso, perché dissuade il ricorrente dalla proposizione di impugnative di procedimenti attinti da una pletora di motivi formali e lo stimola a concentrarsi solo sull’interesse sostanziale effettivamente perseguibile; si evitano, per tale via, gli eccessi di tutela spesso forieri di veri abusi del processo.
In mancanza, invece, di una espressa graduazione, si riespande nella sua pienezza l’obbligo del giudice di primo grado di pronunciare, salvo precise deroghe, su tutti i motivi e le domande. Deve infatti rigettarsi la tesi per cui il giudice deve tener conto solo dell’esigenza di assicurare la maggiore soddisfazione dell’interesse del privato. Il processo amministrativo di legittimità, infatti, è concentrato sul controllo della legalità dell’azione amministrativa necessariamente esercitata in funzione dell’interesse pubblico. Rileva, dunque, l’interesse generale dell’intera collettività ad una corretta gestione della cosa pubblica e ad una corretta gestione del processo, anche per le ripercussioni finanziarie che ricadono sulla collettività; il processo in cui sia parte una PA deve consentire l’accertamento di una verità processuale vicina se non coincidente con quella storica perché è interesse della collettività la legittimità dell’azione amministrativa. Dunque, in assenza della graduazione operata dalla parte, in ragione del particolare oggetto del giudizio impugnatorio legato al controllo sull’esercizio della funzione pubblica, il giudice stabilisce l’ordine di trattazione dei motivi sulla base della loro consistenza oggettiva (radicalità del vizio) nonché del rapporto corrente fra gli stessi sul piano logico-giuridico e diacronico procedimentale.
È possibile, però, che l’esame dei motivi da parte del giudice si arresti prima di aver esaurito l’intero compendio delle censure, in base al c.d. assorbimento dei motivi. In passato, in base a tale prassi, ci consentiva al giudice di scegliere un motivo fondato di ricorso e, sulla base di questo solo motivo, accolto, di annullare il provvedimento, omettendo di esaminare le altre censure, ritenute assorbite. Da ciò derivava che la pretesa del ricorrente, apparentemente soddisfatta dalla sentenza di accoglimento, poteva non esserlo nella sostanza, se la PA reiterava l’atto riproducendo i vizi dedotti dal ricorrente con i motivi assorbiti; inoltre, anche la PA rimaneva nell’incertezza circa la fondatezza delle censure sostanziali e dunque sulle modalità di un eventuale riesercizio della funzione pubblica. Così si riducevano l’effetto conformativo della sentenza e l’effettività del giudizio di ottemperanza; inoltre, mancava del tutto l’economia dei mezzi processuali, perché si accresceva il rischio di ulteriori giudizi di annullamento successivi al riesercizio del potere. Per questo, nello schema originario del cpa, si era stabilito che “quando accoglie il ricorso, il giudice deve comunque esaminare tutti i motivi, ad eccezione di quelli dal cui esame non possa con evidenza derivare alcuna ulteriore utilità al ricorrente”. Anche se tale previsione è stata espunta nel testo finale, essa costituisce comunque un principio tendenziale, come si ricava anche dal nuovo testo dell’art. 120, comma 6, cpa (“il giudice è tenuto a esaminare tutte le questioni trattate nelle pagine rientranti nei suddetti limiti”). Ne segue che l’assorbimento dei motivi è da ritenersi, in linea di principio, vietato, salve le seguenti deroghe.
Anzitutto, l’assorbimento è consentito nei casi espressamente previsti dalla legge. Il cpa prevede tre ipotesi di assorbimento legale: 1) il già citato caso di cui all’art. 34, comma 2; 2) l’ipotesi in cui, definendo il giudizio con sentenza in forma semplificata, il giudice può motivare con riferimento al punto ritenuto risolutivo (art. 74); 3) l’ipotesi di manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità e infondatezza, che consente di assorbire la questione della mancata integrità del contraddittorio (art. 49, comma 2). Deve poi ritenersi consentito l’assorbimento c.d. logico o necessario, che si profila quando evidenti ragioni di ordine logico comportano che l’accoglimento o il rigetto di un dato motivo implica l’assorbimento necessario di altre questioni. Si tratta dei seguenti casi: 1) la reiezione per motivi di rito, che comporta il necessario assorbimento delle questioni di merito; 2) l’accoglimento di una censura prospettata alternativamente o in via prioritaria rispetto ad un’altra, la quale comporta l’assorbimento della censura alternativa o subordinata; 3) il rigetto del ricorso principale, il quale comporta l’assorbimento del ricorso incidentale (espressamente o implicitamente) subordinato o condizionato all’accoglimento di quello principale. Infine, è consentito l’ assorbimento per ragioni di economia processuale, nelle seguenti ipotesi: 1) reiezione della domanda in forza della c.d. ragione più liquida; 2) assorbimento dei motivi meramente ripetitivi di altri già esaminati e respinti; 3) nel caso in cui il provvedimento impugnato si fondi su una pluralità di ragioni autonome, il giudice, qualora ritenga infondate le censure indirizzate verso uno dei motivi assunti a base dell’atto controverso, idoneo, di per sé, a sostenerne ed a comprovarne la legittimità, ha la potestà di respingere il ricorso sulla sola base di tale rilievo, con assorbimento delle censure dedotte avverso altri capi del provvedimento. Invece, non si dà luogo ad assorbimento per ragioni di economia processuale: 1) in caso di accoglimento di censure relative alla rituale formazione del contraddittorio e alla comunicazione di avvio del procedimento, che non può consentire di non esaminare censure “sostanziali”, riferite ad altri aspetti contenutistici della determinazione impugnata; 2) se il motivo accolto riguardi uno soltanto degli atti impugnati, non esaurendosi l’intera materia del contendere. CDC
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Inserito in data 28/04/2015 CORTE DI CASSAZIONE, PRIMA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 21 aprile 2015, n. 8097 Rettificazione di sesso: non si scioglie il matrimonio, finché non si emana nuova legge La Corte Costituzionale, con sentenza n. 170 del 2014, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale della legge n. 164 del 1982, artt. 2 e 4, nella parte in cui non prevedono che la sentenza di rettificazione dell'attribuzione di sesso che comporta lo scioglimento del matrimonio, consenta, comunque, ove entrambi lo richiedano, di mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata che tuteli adeguatamente i diritti e gli obblighi della coppia, con le modalità da statuirsi dal legislatore. Secondo la Cassazione, l’adeguamento alla sentenza della Corte Costituzionale impone la “rimozione degli effetti della caducazione automatica del vincolo matrimoniale sul regime giuridico di protezione dell'unione fino a che il legislatore non intervenga a riempire il vuoto normativo, ritenuto costituzionalmente intollerabile, costituito dalla mancanza di un modello di relazione tra persone dello stesso sesso all'interno del quale far confluire le unioni matrimoniali contratte originariamente da persone di sesso diverso e divenute, mediante la rettificazione del sesso di uno dei componenti, del medesimo sesso”. Ciò non determina l'estensione del modello di unione matrimoniale alle unioni omosessuali, ma svolge solo la funzione temporalmente definita e non eludibile di non creare la condizione di massima indeterminatezza stigmatizzata dalla Corte Costituzionale in relazione ad un nucleo affettivo e familiare che, avendo goduto legittimamente dello statuto matrimoniale, si trova invece in una condizione di assenza radicale di tutela. In conclusione, dunque, occorre conservare alle coppie che si trovano nella situazione in esame il “riconoscimento dei diritti e doveri conseguenti al vincolo matrimoniale legittimamente contratto fino a quando il legislatore non consenta ad esse di mantenere in vita il rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata che ne tuteli adeguatamente diritti ed obblighi”. In altre parole, la conservazione dello statuto dei diritti e dei doveri propri del matrimonio è sottoposta alla condizione temporale risolutiva costituita dalla nuova regolamentazione indicata dalla sentenza della Corte Costituzionale. CDC
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Inserito in data 27/04/2015 CORTE DI CASSAZIONE, PRIMA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 21 aprile 2015, n. 8098 Accertamento dello stato di abbandono e difetto di autonomia genitoriale Con la sentenza indicata in epigrafe, la Suprema Corte ritiene che la pronuncia del Giudice di seconde cure fosse coerente con la giurisprudenza di Legittimità, “secondo cui l'art. 1 della legge 4 maggio 1983, n. 184 (nel testo novellato dalla legge 28 marzo 2001, n. 149) attribuisce al diritto del minore di crescere nell'ambito della propria famiglia d'origine un carattere prioritario - considerandola l'ambiente più idoneo al suo armonico sviluppo psicofisico - e mira a garantire tale diritto attraverso la predisposizione di interventi diretti a rimuovere situazioni di difficoltà e di disagio familiare. Pertanto, è immune da vizi l'accertamento dello stato di abbandono, nel caso in cui non sia sopravvenuta l'autonomia genitoriale necessaria - pur dopo i necessari e reiterati interventi dei servizi sociali e nonostante la collaborazione e l'affetto dimostrati per il minore dal genitore - e risulti impossibile prevedere il recupero delle capacità genitoriali entro tempi compatibili con la necessità del minore di uno stabile contesto familiare, con conseguente legittimo rigetto della domanda di affidamento etero-familiare, il quale ha per legge carattere solo temporaneo (cfr. Cass. civ. sezione i n. 1837 del 26 gennaio 2011)”. EF
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Inserito in data 27/04/2015 TAR CAMPANIA - NAPOLI, SEZ. II, 24 aprile 2015, n. 2362 Principio di strumentalità delle forme e annullamento delle operazioni elettorali In via preliminare, il Collegio campano osserva che - come ripetutamente affermato dalla giurisprudenza amministrativa a partire da Cons. Stato, Ad. plen., 23 febbraio 1979, n. 7 – “l'unica parte pubblica necessaria nel giudizio elettorale è l'ente locale che si appropria del risultato elettorale (…), sul quale si riverberano gli effetti di un eventuale annullamento ovvero della conferma della proclamazione degli eletti”. Pertanto, “gli organi temporanei, abilitati a dichiarare i risultati finali del procedimento elettorale, come l'Ufficio elettorale centrale e gli uffici circoscrizionali, non sono portatori di un interesse giuridicamente apprezzabile al mantenimento dei loro atti, per cui il ricorso contro le operazioni elettorali non deve essere ad essi notificato e, qualora sia stato notificato ad uno dei predetti uffici, essi devono essere estromessi dal giudizio elettorale per difetto di legittimazione passiva” (C.d.S., Sez. V, 17/03/2015, n. 1376). In via ulteriormente preliminare, il Tar conferma quanto sostenuto dalla giurisprudenza civile (con petizione di principio valevole anche per il processo amministrativo, in forza dell’espresso richiamo in tema di sospensione del giudizio contenuto nell’art. 79 c.p.a. alle norme del codice di procedura civile ed in particolare all’art. 295 c.p.c.), secondo cui <<la sospensione necessaria del processo civile per pregiudizialità penale, ex art. 295 c.p.c., è subordinata, a norma dell'art. 211 disp. att. c.p.p., alla condizione che l'azione penale sia stata effettivamente esercitata, nelle forme previste dall'art. 405 c.p.p. mediante la formulazione o la richiesta di rinvio a giudizio. Ciò significa che la sospensione richiede, quale primo e irrinunciabile presupposto, la contemporanea pendenza dei due processi, civile e penale, sicché la sospensione stessa non può essere disposta sul presupposto della mera presentazione di una denuncia o di una querela e della conseguente apertura di indagini preliminari>> (cfr. Cassazione civile, sez. VI, 23/07/2014, n. 16700). La semplice presentazione di denuncia/querela “non configura, quindi, alcuna ipotesi di sospensione necessaria del giudizio elettorale amministrativo, la quale è ricollegata, in base alla legge (cfr. art. 77, comma 4°, c.p.a.), alla sola fattispecie in cui sia presentata in sede civile querela di falso (e sempre che la questione di falso, secondo la valutazione del giudice, abbia carattere di effettiva pregiudizialità e non appaia manifestamente infondata o dilatoria: cfr. TAR Lazio, Latina, 10/10/2012, n. 736, secondo cui <<la sospensione del giudizio per effetto della proposizione in sede civile della querela di falso non è una conseguenza automatica ed indefettibile prevista dalla legge, bensì presuppone una valutazione della rilevanza dei documenti ai fini del giudizio>>; cfr. altresì, TAR Sicilia, Catania, sez. II, 31/05/2004, n. 1526, secondo cui <<l'art. 295 c.p.c. impone la sospensione del processo in ogni caso in cui il giudice debba risolvere una controversia, dalla cui definizione dipende la decisione della causa. La risoluzione della rilevanza penale dell'agire del seggio elettorale e il connesso procedimento seguito non impedisce l'autonomo accertamento della validità delle schede elettorali e dei verbali da parte del g.a., che, quindi, può non sospendere il giudizio incardinato presso il suo ufficio>>)”. Infine, sempre in via preliminare, i Giudici richiamano l'orientamento di recente ribadito dall'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, secondo cui <<nel giudizio elettorale qualora si sottoponga al giudice amministrativo, non la veridicità di un atto pubblico, bensì il vaglio della legittimità delle decisioni assunte dal seggio elettorale, giudizio che non potrebbe essere condotto senza l’esame di quella documentazione di cui il ricorrente non dispone e di cui occorre ordinare l’acquisizione mediante l’esercizio dei poteri istruttori da parte del giudice anche d’ufficio, va riconosciuto rilievo probatorio alle dichiarazioni sostitutive dell’atto notorio>> (C.d.S., Ad. Plen., 20 novembre 2014, n. 32, che ha altresì specificato che <<nel giudizio elettorale la dichiarazione sostitutiva dell’atto notorio, prodotta a sostegno di un ricorso elettorale, può considerarsi principio di prova idoneo a legittimare la richiesta al giudice di disporre acquisizioni istruttorie>>). Ciò premesso, il Consesso riprende il principio della strumentalità delle forme vigente in materia elettorale, secondo il quale, “in mancanza di espressa comminatoria di nullità, sono rilevanti, tra tutte le possibili irregolarità, solo quelle sostanziali, tali cioè da influire sulla sincerità e sulla libertà di voto, atteso che la nullità delle operazioni può essere ravvisata solo quando manchino elementi o requisiti che impediscano il raggiungimento dello scopo al quale l'atto è prefigurato; pertanto, non possono comportare l'annullamento delle operazioni stesse le mere irregolarità, cioè vizi da cui non deriva alcun pregiudizio di livello garantistico o compressione alla libera espressione del voto, che sono pertanto irrilevanti” (C.d.S., sez. V, 19 giugno 2012, n. 3557; T.A.R. Campania, Napoli, sez. II, 31/07/2012, n. 3670; cfr. altresì, C.d.S., sez. V, 27/06/2011, n. 3829). Rileva, altresì, che “le regole minime da osservare per pervenire alla conservazione delle operazioni elettorali - pur a fronte di incongruenze o carenze di verbalizzazione - sono costituite, in applicazione del principio della strumentalità delle forme (e sulla base del dato normativo costituito dagli articoli 53, 63 e 68 D.P.R. n. 570/1960), dalla esatta corrispondenza tra il numero delle schede autenticate e la somma delle schede adoperate effettivamente dagli elettori con quelle non utilizzate (cfr. C.d.S., sez. V, 27/06/2011, n. 3829 cit.; T.A.R. Lazio, Roma, sez. II, 15/03/2012, n. 2550; T.A.R. Sicilia, Catania, sez. II, 10/04/2014, n. 1097), nonché dalla esatta corrispondenza tra il numero totale delle schede scrutinate ed il numero degli elettori che hanno votato (TAR Campania, Napoli, sez. II, 19/12/2014, n. 6840)”. Invero, “l'esatta coincidenza in concreto di questi dati numerici (espressamente prevista dalle richiamate disposizioni normative), da un lato garantisce l'esatto svolgimento delle operazioni di voto, in quanto dimostra che non vi sono state alterazioni nelle modalità di espletamento del procedimento elettorale, e dall’altro esclude che le (apparenti) irregolarità emergenti dai verbali abbiano realmente influito sulla libera espressione del voto del corpo elettorale”. In applicazione di tali principi, “la giurisprudenza ha così ritenuto che l’irregolarità consistente nella mancata verbalizzazione del numero delle schede autenticate ma non utilizzate possa comportare l'annullamento delle operazioni elettorali, ma solo a condizione che non risulti possibile ricostruire, comunque, il dato mancante e quindi l'esatto svolgimento delle operazioni di voto (C.d.S., sez. V, 27/06/2011, n. 3829 cit.; C.d.S., Sez. V, 18 febbraio 1992 n. 133)”. Analogamente, quanto all’irregolarità consistente nella mancata verbalizzazione del numero delle schede autenticate, il Collegio richiama quella giurisprudenza secondo cui “da tale vizio non deriva, per le medesime considerazioni in precedenza espresse, alcun pregiudizio di livello garantistico o alcuna compressione della libera espressione del voto e che la irregolarità è irrilevante, non essendo idonea a compromettere l'accertamento della reale volontà del corpo elettorale (C.d.S., sez. V, 27/06/2011, n. 3829 cit ., nonché C.d.S, sez. V, 20 maggio 2008, n. 2390)”. Per quanto riguarda la censura con la quale è stata lamentata l'autenticazione di un numero di schede maggiore di quello degli elettori ammessi al voto, ritiene la Sezione che “non costituisca di per sé ragione d'illegittimità delle operazioni elettorali la circostanza, in quanto la legge non vieta che i componenti dell'ufficio elettorale di sezione autentichino anche tutte le schede a disposizione, all'uopo importando, ai fini della regolarità di siffatte operazioni, non già o non tanto la corrispondenza tra il numero degli elettori ammessi al voto e quello delle schede autenticate, quanto, piuttosto, l'esatta corrispondenza di tali schede alla somma delle schede adoperate effettivamente dagli elettori e di quelle non utilizzate e indicate nel verbale, ai sensi dell'art. 53 d.P.R. 16 maggio 1960 n. 570“ (C.d.S., sez. V, 27/06/2011, n. 3829 cit.; cfr., altresì, C.d.S., sez. V, 13 aprile 1999, n. 421). In conclusione, in relazione al voto assistito vengono richiamati i pacifici principi giurisprudenziali formatisi sul punto, di cui alle massime che seguono: <<L'attitudine dell'infermità ad impedire l'autonoma manifestazione del voto da parte dell'elettore può essere apprezzata, in via di principio, unicamente dal funzionario medico appositamente designato, che dell'attestazione dell'esistenza dell'impedimento si assume la piena responsabilità giuridica. Il presidente del seggio elettorale, pertanto, non è tenuto di regola ad effettuare alcuna “prova empirica”, in quanto siffatta valutazione è stata affidata dalla legge ad altro organo pubblico, indubbiamente provvisto di adeguate competenze tecniche, la cui certificazione è vincolante per il seggio elettorale anche sulla portata pratica della malattia quale concreto impedimento all'espressione materiale del voto>> (C.d.S., Sez. V, 16/09/2011, n. 5169); <<In tema di voto assistito il certificato redatto dal medico dell'Azienda sanitaria locale costituisce un atto di certezza privilegiata non solo per quanto attiene alla natura dell'infermità ma anche quanto alla sua specifica capacità invalidante>> (TAR Campania, Napoli, Sez. II, 12/3/2012, n. 1253); << In base alla novella introdotta dalla legge n. 17 del 2003, l'indicazione AVD è sufficiente ai fini dell'ammissione al voto assistito, senza alcun obbligo di verifiche o particolari verbalizzazioni da parte del Seggio>> (C.d.S., Sez. V, 19 giugno 2012, n. 3557; C.d.S., Sez. V, 08/08/2014, n. 4246). EF
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Inserito in data 24/04/2015 TRIBUNALE REGIONALE DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA DI TRENTO - SEZ. UNICA, 15 aprile 2015, n. 149 Sulla responsabilità informatica della P.A. Nel caso in cui uno strumento informatico, utilizzato dalla P.A., determini delle situazioni “anomale”, oltre alla responsabilità di chi ne ha predisposto il funzionamento senza considerare tali conseguenze, sussiste la responsabilità, quantomeno omissiva, del dipendente che, tempestivamente informato, non si è adoperato per svolgere, secondi i principi di legalità e imparzialità, tutte quelle attività che potessero soddisfare le legittime pretese dell'istante, nel rispetto, comunque recessivo, delle procedure informatiche. Con la pronuncia de qua, il Collegio osserva “come l’informatica costituisca sicuramente, per la pubblica Amministrazione, uno strumento ormai doveroso e imprescindibile, puntualmente disciplinato dall’ordinamento (d. lgs. 7 marzo 2005, n. 82, e relative norme attuative) al fine di raggiungere crescenti obiettivi di efficienza e efficacia dell’azione amministrativa”, nonché che “sarebbe nondimeno gravemente errato vedere nel procedimento informatico una sorta di amministrazione parallela, che opera in piena indipendenza dai mezzi e dagli uomini, e che i dipendenti si devono limitare a osservare con passiva rassegnazione (se non con il sollievo che può derivare dal discarico di responsabilità e decisioni): le risposte del sistema informatico sono invece oggettivamente imputabili all’Amministrazione, come plesso, e dunque alle persone che ne hanno la responsabilità”. Nel caso in esame, una volta accertato, che la domanda del ricorrente non era stata respinta per violazioni formali della procedura, il responsabile del procedimento, d’intesa con il dirigente competente, avrebbe dovuto appurare se il rifiuto del sistema era legittimo, secondo la normativa concorsuale applicabile. I Giudici chiariscono, a tal proposito, che “il rifiuto della piattaforma informatica è invero imputabile alla Provincia autonoma di Trento – la partecipazione tecnica del Ministero estende ma non sostituisce la responsabilità – ed essa era dunque tenuta a valutarne la legittimità, procedendo eventualmente in autotutela, per cui se avesse riconosciuto che il programma informatico contrastava con la disciplina legale”. Viene chiarito che il bando di concorso non costituiva ostacolo solo perché imponeva la presentazione informatica della domanda, giacché ciò significa, secondo ragionevolezza, che l’interessato era tenuto a svolgere tempestivamente tutti i prescritti incombenti formali. Nel caso in cui il sistema non accetti la domanda, il candidato – come ben si legge dalla pronuncia del TAR – “non ha per questo disatteso la previsione legale, come non l’avrebbe violata lo stesso candidato, la cui domanda cartacea fosse stata respinta da un impiegato che avesse illegittimamente ritenuto di non poterla accettare (situazione di certo oggi più semplice da risolvere: ma l’Amministrazione deve adeguarsi ai nuovi modelli relazionali).” Insomma, “il thema decidendum nella presente controversia, non è se il mezzo informatico permettesse alla Provincia di ricevere la domanda – ciò che è un problema della Provincia - ma se il ricorrente avesse titolo a presentarla”, secondo le norme applicabili, nella sua particolare situazione, e cioè quella di averne già presentate altre due: e, per quanto si è detto, la risposta è favorevole. Alla luce di tutto quanto chiarito dai Giudici del TAR, il ricorso va dunque accolto, per quanto di ragione, e conseguentemente annullato il diniego di ammissione alla procedura concorsuale de qua del candidato, nei limiti della motivazione addotta, e cioè per la precedente partecipazione a due analoghe procedure concorsuali. GMC
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Inserito in data 24/04/2015 CORTE DI CASSAZIONE - TERZA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 20 aprile 2015, n. 8001 In merito alla sostituzione esecutiva - ex art. 511 cpc Gli Ermellini intervengono in merito alla domanda di sostituzione esecutiva. Ai sensi dell'art. 511 c.p.c., essa realizza il subingresso di uno o più creditori del creditore dell'esecutato nella sua posizione processuale e nel diritto al riparto della somma ricavata dall'esecuzione, non essendo assimilabile all'intervento del creditore nel processo esecutivo perché il creditore istante non fa valere una pretesa nei confronti dell'esecutato, bensì nei riguardi di altro creditore, pignorante o intervenuto. Ne segue, dunque, che presupposto per la presentazione della domanda di sostituzione esecutiva è l'affermazione di un diritto di credito nei confronti del creditore presente nel processo esecutivo (come pignorante o come intervenuto), a prescindere dal fatto che il credito del “creditor creditoris” sia o meno fondato su un titolo esecutivo. GMC
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Inserito in data 23/04/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV - ORDINANZA 22 aprile 2015, n. 1694 Mediazione: ripristinata l’obbligatorietà delle spese di avvio
I Giudici di Palazzo Spada, ribaltando quanto stabilito dal Collegio laziale nei mesi scorsi, intervengono riguardo alla suddivisione delle spese in sede di mediazione obbligatoria – ex art. 5 – co. 1’ D. Lgs. 28/10 – norma poi modificata dalla L. n. 98/13.
In particolare, ravvedendo il giusto fumus in seno alle doglianze del Ministero appellante, il Collegio manifesta di non condividere la posizione del Giudice di prime cure – il quale ha ritenuto non rientrassero nella nozione di compenso dovuto – di cui al comma 5-ter dell’art. 17 del d.lgs. 4 marzo 2010, nr. 28 (come introdotto dalla “novella” del 2013) - anche le spese vive necessarie ad avviare il procedimento in esame. Secondo i Giudici del gravame, invece, l’uso del termine compenso – come richiamato dalla suddetta norma - è manifestamente generico ed improprio. Senza dubbio alcuno, ritengono i Giudici di Palazzo Spada, quando il Legislatore ha voluto esonerare le parti dal pagamento del compenso della mediazione (in caso di esito negativo) intendeva riferirsi solo all’ ”onorario del mediatore per l’intero procedimento di mediazione”. In questo modo, invece, restano da pagare le spese di avvio che comprendono da un lato le “spese vive documentate” e dall’altro le spese generali sostenute da ciascun Organismo di mediazione. Così statuito e sospendendo parzialmente l'esecutività della sentenza del TAR Lazio n. 1351/2015, i Giudici d'appello ripristinano l’obbligatorietà delle spese previste per il primo incontro di mediazione. CC |
Inserito in data 22/04/2015 CORTE DI CASSAZIONE - QUARTA SEZIONE PENALE, 15 aprile 2015, n. 15696 Infortuni sul lavoro: responsabilità del committente e del datore di lavoro Gli Ermellini hanno rigettato il ricorso presentato avverso la sentenza di condanna per il reato di cui all’art. 589 c.p., commesso in violazione delle norme antinfortunistiche, ricordando come, ai sensi dell’art. 26 del d.lgs. 81/2008, la responsabilità del committente non escluda quella del datore di lavoro. Il medesimo principio, inoltre, può trovare applicazione anche nelle ipotesi di distacco di un lavoratore da un’impresa. Invero, <<per effetto della modifica normativa introdotta dall'art. 3, comma 6, D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, sono a carico del distaccatario tutti gli obblighi di prevenzione e protezione, fatta eccezione per l'obbligo di informare e formare il lavoratore sui rischi tipici generalmente connessi allo svolgimento delle mansioni per le quali questo viene distaccato, che restano a carico del datore di lavoro distaccante>>. Più precisamente, qualora l’evento derivi anche da un comportamento colposamente omissivo del datore di lavoro questi non può andare esente da responsabilità né può, a tal fine, ragionevolmente invocare il principio di c.d. “legittimo affidamento” in tema di infortuni sul lavoro, essendo stato più volte ribadito che <<detto principio="" non="" opera="" allorché="" il="" mancato="" rispetto="" da="" parte="" di="" terzi="" delle="" norme="" precauzionali="" prudenza="" abbia="" la="" sua="" prima="" causa="" nell'inosservanza="" tali="" colui="" che="" invoca="" suddetto="" principio,="" come="" nel="" caso="" in="" esame="">>. Ne consegue la sussistenza della responsabilità del datore di lavoro nell’ipotesi in cui, come nel caso di specie, lo stesso abbia omesso la valutazione del rischio specifico connesso alla prestazione che il lavoratore era chiamato ad effettuare e la formazione sulle corrette modalità di esecuzione delle operazioni. VA
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Inserito in data 22/04/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 14 aprile 2015, n. 1861 Requisiti di partecipazione alla gara e interpretazione sostanzialistica per i soci Il Consiglio di Stato, rigettando l’appello promosso avverso la decisione di primo grado che aveva confermato il provvedimento in autotutela emanato dall’amministrazione appaltante, ha rievocato l’interpretazione sostanzialistica dell’art. 38 comma 1 lett. c) del codice dei contratti pubblici fornita dall’Adunanza Plenaria con la sentenza n. 16 del 2014. Con la pronuncia in commento, dunque, il Supremo Consesso ha avallato la decisione del tribunale di merito che ha riconosciuto la legittimità del suddetto provvedimento con il quale era stata revocata l’esclusione delle società costituende da una gara di appalto promossa per l’affidamento dei servizi di trasporto riservato scolastico e per l’affidamento del servizio di trasporto disabili a chiamata, aggiudicando provvisoriamente la gara a quest’ultime. L’esclusione della società controinteressata, infatti, era stata determinata dall’omessa allegazione, al momento della partecipazione alla gara, delle dichiarazioni richieste dall’art. 38 sopra citato, con riferimento alle socie dell’odierna costituenda. Tuttavia il Collegio ha ritenuto che con riferimento alla censura prevista dall’art. 38 <<sulla scia dell’impostazione “sostanzialistica” relativa ai requisiti di partecipazione alla gara, autorevolmente adottata dall’Adunanza Plenaria con la sentenza n. 16-2014, e in linea con la ratio di cui all’art. 39 del D.L. n. 90-2014 (…), si deve ritenere che vi sia una chiara volontà del legislatore di evitare nella fase del controllo delle dichiarazioni e, quindi, dell’ammissione alla gara delle offerte presentate, esclusioni dalla procedura per mere carenze formali>> (si veda sul punto C.d.S. 5890/14). Più precisamente si ritiene che la dichiarazione sostitutiva, relativa alla sussistenza delle qualità morali dei partecipanti alla gara, non debba contenere necessariamente la menzione nominativa di tutti i soggetti muniti di poteri rappresentativi dell'impresa,fatta eccezione per il titolare e/o il rappresentante legale dell’impresa, quando ne sia possibile un’agevole identificazione anche mediante l'accesso a banche dati ufficiali o a registri pubblici. Il Supremo Consesso, pertanto, ritenendo sussistente l’identità di ratio, ha affermato che la medesima regola debba essere applicata anche con riferimento ai soci. Laddove si pervenisse ad una diversa soluzione, infatti, si configurerebbe un’ingiustificata ed inammissibile disparità di trattamento. Ne consegue che <<in relazione ai soggetti diversi dal titolare e/o dal legale rappresentante dell’impresa, si può procedere all’esclusione unicamente nel caso di riscontro dell’effettiva assenza del requisito di moralità richiesto>>, non essendo sufficiente la sussistenza, come nel caso di specie, di una mera irregolarità formale atteso che, in sede di verifica del possesso dei requisiti di partecipazione ex art. 48, comma 2, del Codice dei contratti pubblici, è stata dimostrata l’incensuratezza delle socie. VA
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Inserito in data 21/04/2015 CORTE DI CASSAZIONE, TERZA SEZIONE PENALE, SENTENZA 15 aprile 2015, n. 15449 La causa di non punibilità per tenuità del fatto è applicabile anche in Cassazione La causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, di cui all’art. 131-bis cp (introdotto dal d.lgs. 28/2015), è applicabile anche ai procedimenti in corso al momento della sua entrata in vigore. Tale istituto, infatti, ha natura sostanziale, con conseguente retroattività della legge più favorevole, ex art. 2, comma 4, cp. La questione della particolare tenuità del fatto è proponibile anche nel giudizio di legittimità, trattandosi di questione che non sarebbe stato possibile dedurre in appello, secondo quanto disposto dall’art. 609, comma 2, cpp. Occorre però verificare la sussistenza delle condizioni di applicabilità del nuovo istituto. Solo in caso di valutazione positiva, il giudice procede all’annullamento della sentenza impugnata, con rinvio al giudice del merito, affinché valuti se dichiarare il fatto non punibile. In particolare, bisogna valutare se il giudice del merito, nella motivazione del provvedimento impugnato, abbia espresso giudizi che abbiano pacificamente escluso la particolare tenuità del fatto. Infine, la particolare tenuità del fatto deve essere accertata secondo gli indici-criteri previsti dall’art. 131-bis cp, e dunque alla luce della modalità della condotta e dell’esiguità del danno o del pericolo, da valutarsi sulla base dei criteri indicati dall’art. 133 cp. CDC
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Inserito in data 21/04/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 21 aprile 2015, n. 2008 La disciplina dei settori speciali non si applica agli appalti “estranei” Come precisato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza n. 16 del 2011, la disciplina dei settori speciali non si applica agli appalti che gli enti aggiudicatori aggiudicano per scopi diversi dall’esercizio delle loro attività. Infatti, l’assoggettabilità dell’affidamento di un servizio alla disciplina dei settori speciali non può essere desunta sulla base del solo criterio soggettivo, relativo cioè al fatto che l’appalto sia affidato da un ente operante nei settori speciali, ma anche in applicazione di un parametro di tipo oggettivo, relativo alla riferibilità del servizio all’attività speciale. Ciò si fonda, anzitutto, sul fatto che l’art. 207 d. lgs. 163/2006 deve essere interpretato in senso restrittivo, con superamento della c.d. “teoria del contagio”, secondo cui a tutti gli appalti di un organismo di diritto pubblico è applicabile lo stesso regime. Inoltre, vi sono appalti non già semplicemente “esclusi” dall’applicazione delle norme ordinarie del settore (e regolati perciò dalla disciplina dei settori speciali), ma anche del tutto “estranei” all’ambito di applicazione delle medesime norme. La linea di demarcazione tra settori “esclusi” e settori “estranei” è costituita dalla strumentalità dell’oggetto dell’appalto rispetto al compimento dell’attività speciale, strumentalità che del tutto ragionevolmente deve essere accertata caso per caso. CDC
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Inserito in data 20/04/2015 TAR PIEMONTE-TORINO, SEZ. I, 17 aprile 2015, n. 663 Giudice di Legittimità e sindacato sulle determinazioni assunte dagli organi tecnici Con la pronuncia in esame, il Collegio si pronuncia sulla sindacabilità delle valutazioni di merito espresse dagli organi tecnici dell’amministrazione. In particolare, i Giudici ricordano “che nelle controversie aventi ad oggetto il riconoscimento della dipendenza da causa di servizio delle infermità sofferte da pubblici dipendenti, anche ai fini della liquidazione dell'equo indennizzo, il sindacato che il giudice della legittimità è autorizzato a compiere sulle determinazioni assunte dagli organi tecnici, ai quali la normativa vigente attribuisce la competenza in materia, deve necessariamente intendersi limitato ai soli casi di travisamento dei fatti e di macroscopica illogicità, nonché alla verifica della regolarità del procedimento (cfr. Cons. St. sez. IV, 08 gennaio 2013, n. 31 e 8 giugno 2009 n. 3500; Id., Sez. III, 18 aprile 2013, n. 2195)”. Ciò in ragione del fatto che tali “limiti sono determinati dalla natura discrezionale delle valutazioni espresse dagli organi tecnici, in relazione alle conoscenze specialistiche richieste”. Pertanto, “in sede di liquidazione dell'equo indennizzo l'amministrazione è tenuta tendenzialmente a recepire e a far proprio il parere espresso dal Comitato di verifica per le cause di servizio. Per la particolare competenza tecnica dei suoi componenti, tale organo esprime, infatti, un giudizio conclusivo sulla vicenda sottoposta al suo esame, con una valutazione che assorbe anche i giudizi espressi sulla questione da altri organi precedentemente intervenuti, quale la Commissione medica ospedaliera, e fornisce ogni auspicabile garanzia circa l'attendibilità della determinazione assunta. Pertanto, il parere del Comitato di verifica è (normalmente) vincolante per l'amministrazione che è tenuta a farlo proprio e ad assumerlo come motivazione unica della determinazione finale (Cons. St. Sez. III, 27 gennaio 2012, n. 404; sez. VI, 19 marzo 2009, n. 1679)”. EF
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Inserito in data 20/04/2015 CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 17 aprile 2015, n. 64 Prorogatio ed eventuali limiti all’attività degli organi regionali La questione posta al vaglio del Giudice delle Leggi riguarda la legittimità costituzionale della L. reg. Abruzzo n. 26 del 2014 approvata e promulgata dal Consiglio regionale abruzzese “nel periodo di prorogatio successivo allo scioglimento dell’assemblea regionale per fine legislatura (ed antecedente alla data fissata per lo svolgimento delle nuove elezioni)”. A tal proposito, la Corte Costituzionale, già con la sentenza n. 68 del 2010, ha avuto modo di sottolineare “come il quadro normativo ed applicativo sia notevolmente mutato a seguito della legge costituzionale 22 novembre 1999, n. 1 (Disposizioni concernenti l’elezione diretta del Presidente della Giunta regionale e l’autonomia statutaria delle Regioni). Questa ha attribuito allo statuto ordinario la definizione della forma di governo e l’enunciazione dei princìpi fondamentali di organizzazione e funzionamento della Regione, in armonia con la Costituzione (art. 123, primo comma, Cost.); e ha demandato, nel contempo, la disciplina del sistema elettorale e dei casi di ineleggibilità e di incompatibilità allo stesso legislatore regionale, sia pure nel rispetto dei princìpi fondamentali fissati con legge della Repubblica, «che stabilisce anche la durata degli organi elettivi» (art. 122, primo comma, Cost.). Cosicché – anche sulla base di quanto successivamente previsto nella legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al Titolo V della parte seconda della Costituzione) – questa Corte ha affermato che «una interpretazione sistematica delle citate nuove norme costituzionali conduce a ritenere che la disciplina della eventuale prorogatio degli organi elettivi regionali dopo la loro scadenza o scioglimento o dimissioni, e degli eventuali limiti dell’attività degli organi prorogati, sia oggi fondamentalmente di competenza dello statuto della Regione, ai sensi del nuovo articolo 123, come parte della disciplina della forma di governo regionale»; e che, nel disciplinare questo profilo, gli statuti «dovranno essere in armonia con i precetti e con i principi tutti ricavabili dalla Costituzione, ai sensi dell’art. 123, primo comma, della Costituzione» (sentenza n. 196 del 2003; anche sentenza n. 304 del 2002)”. In altri termini, l’istituto della prorogatio riguarda fattispecie in cui «coloro che sono nominati a tempo a coprire uffici rimangono in carica, ancorché scaduti, fino all’insediamento dei successori» (sentenza n. 208 del 1992); che, con specifico riferimento agli organi elettivi, e segnatamente ai Consigli regionali, esso attiene solo all’«esercizio dei poteri nell’intervallo fra la scadenza, naturale o anticipata, di tale mandato, e l’entrata in carica del nuovo organo eletto» (sentenza n. 196 del 2003); e che “l’istituto in esame presuppone la scadenza, naturale o anticipata, del mandato dell’organo, non potendovi logicamente esservi prorogatio prima di tale scadenza (sentenze n. 181 del 2014 e n. 68 del 2010). Detto esercizio va inteso come necessariamente limitato alle esigenze di rispondere a speciali contingenze, quale ragionevole soluzione di bilanciamento tra il principio di rappresentatività e il principio di continuità funzionale (sentenze n. 55 e n. 44 del 2015)”. Ciò premesso, in merito alla censura dell’assenza dei caratteri di indifferibilità ed urgenza nel provvedimento legislativo de quo, la Consulta osserva che “l’art. 86, comma 3, lettera a), dello statuto (in ordine al quale da questa Corte è stato affermato che non sono stati superati i limiti imposti dall’art. 123 Cost. e sul cui contenuto non è stata mossa alcuna censura, neppure ai sensi e nei termini di cui al secondo comma dell’art. 123 Cost.) si riferisce agli interventi «che, comunque, presentano il carattere dell’urgenza e necessità», come ad una ipotesi autonoma ed aggiuntiva rispetto «agli interventi che si rendono dovuti in base agli impegni derivanti dall’appartenenza all’Unione Europea, a disposizioni costituzionali o legislative statali». Questi interventi dunque (secondo il senso inequivoco desumibile dalla lettera della norma e dalla sua ratio) non devono essere necessariamente connotati nei fatti dalla configurabilità dei presupposti della necessità e urgenza, che, viceversa, giustificano la legittimità di interventi diversi da quelli tipizzati”. Pertanto, “l’enfatizzazione del requisito della necessità ed urgenza, quale unico e generale presupposto per l’esercizio dei poteri in periodo di prorogatio, è frutto di un erroneo presupposto interpretativo in cui è incorso il ricorrente, fermo restando che la prorogatio comporta che non possa essere invaso il campo delle scelte normative connaturate al pieno esercizio del mandato elettorale (sentenze n. 55 e n. 44 del 2015)”. Del resto, l’adozione L. reg. Abruzzo n. 26 del 2014 nasce dalla «esigenza di rimuovere la situazione di incertezza, sul piano normativo, in ordine alla procedura da seguire per assicurare il coordinamento della pianificazione paesaggistica con gli altri strumenti di pianificazione». Trattasi, invero, di situazione che «trae origine dal vuoto normativo creatosi con la pronuncia della Corte costituzionale n. 211 del 3-18 luglio 2013, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 2 della L.R. 28 agosto 2012, n. 46 […], il cui testo aveva sostituito l’art. 2-bis della L.R. 2/2003, recante la disciplina del coordinamento delle previsioni fissate nella pianificazione paesaggistica regionale con quelle contenute negli strumenti pianificatori sottordinati». Orbene, “va rilevato come proprio nella sentenza n. 211 del 2013 (dal cui decisum è derivato il vuoto normativo conseguente alla integrale caducazione della disposizione censurata a seguito della declaratoria di incostituzionalità), questa Corte, da un lato, abbia sottolineato espressamente la necessità che la Regione (nell’ottica della salvaguardia del territorio mediante pianificazione paesaggistica ad opera congiunta dello Stato e delle Regioni, ex art. 135, comma 1, del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137) predisponga una disciplina del «procedimento di conformazione ed adeguamento degli strumenti urbanistici alle previsioni della pianificazione paesaggistica, assicurando la partecipazione degli organi ministeriali al procedimento medesimo» (ai sensi dell’art. 145, comma 5, del d.lgs. n. 42 del 2004). E, dall’altro lato, abbia affermato che la circostanza (…) che «non risulti ancora adottato un piano paesaggistico regionale adeguato alle disposizioni del Codice dei beni culturali e del paesaggio finisce per rendere ancor più acuta la vulnerazione delle prerogative statali, considerato che, in relazione a quelle che saranno le concrete previsioni dello stesso piano, dovranno poi essere verosimilmente ridisciplinate, dalla legge regionale, le procedure di adeguamento degli “altri strumenti di pianificazione”»”. In conclusione, la Corte Costituzionale ribadisce “che la mancata (o non adeguata) partecipazione degli organi ministeriali al procedimento di conformazione ed adeguamento degli strumenti urbanistici alle previsioni della pianificazione paesaggistica determina l’evidente contrasto con la normativa statale, che – in linea con le prerogative riservate allo Stato dall’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. (tra le molte, sentenza n. 235 del 2011) – specificamente impone che la Regione adotti la propria disciplina di conformazione «assicurando la partecipazione degli organi ministeriali al procedimento medesimo» (sentenze n. 211 del 2013 e n. 235 del 2011). Costituisce, infatti, affermazione costante – su cui si fonda il principio della gerarchia degli strumenti di pianificazione dei diversi livelli territoriali, dettato dall’evocato art. 145, comma 5, del d.lgs. n. 42 del 2004 (sentenze n. 197 del 2014, n. 193 del 2010 e n. 272 del 2009) – quella secondo cui l’impronta unitaria della pianificazione paesaggistica «è assunta a valore imprescindibile, non derogabile dal legislatore regionale in quanto espressione di un intervento teso a stabilire una metodologia uniforme nel rispetto della legislazione di tutela dei beni culturali e paesaggistici sull’intero territorio nazionale» . Al contrario, la generale esclusione o la previsione di una mera partecipazione degli organi ministeriali nei procedimenti di adozione delle varianti, nella sostanza, viene a degradare la tutela paesaggistica da valore unitario prevalente e a concertazione rigorosamente necessaria, in mera esigenza urbanistica”. EF
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Inserito in data 17/04/2015 CORTE COSTITUZIONALE - ORDINANZA 16 aprile 2015, n. 61 Giustizia amministrativa, maggiorazione contributo unificato e legittimità Le Province autonome di Bolzano e di Trento, con due ricorsi distinti e successivamente riuniti, hanno sollevato questione di legittimità costituzionale del dell’art. 1, comma 25, lettera b), numero 4), e 28, della legge n. 228 del 2012 che, modificando l’articolo 37 del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’articolo 1, comma 1, della legge 15 luglio 2011, n. 111, aveva aumentato l’importo del contributo unificato dovuto per determinate tipologie di controversie dinanzi alla giustizia amministrativa. L’impugnazione, invero poi oggetto di rinuncia da parte delle Province ricorrenti, è degna di nota, poiché le censure sollevate riguardano la sorte del contributo unificato – sulla cui legittimità si attende, a breve, persino la pronuncia da parte della Corte del Lussemburgo. Le Province ricorrenti, in sostanza, lamentavano l’iniqua destinazione degli incassi – eventualmente recuperati a seguito della maggiorazione delle spese di avvio dinanzi ai Collegi amministrativi. In sede di ricorso, infatti, si evidenziava come la maggiorazione del contributo unificato concerna un’entrata che, rientrando nell’àmbito residuale di tutte le entrate tributarie non specificamente individuate e non attribuite ad altri Enti, spetta alle Province autonome – secondo quanto previsto dallo Statuto - ex artt. 75 e 79 del d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670 (Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige). Invece, a seguito della modifica normativa in esame, gli introiti maggiorati confluivano nel bilancio dello Stato, poiché destinati alla realizzazione di interventi urgenti in materia di giustizia amministrativa. Ad avviso delle Ricorrenti, pertanto, oltre al vulnus arrecato alle disposizioni statutarie, era violato il principio – costituzionalmente rilevante - di leale collaborazione tra Enti e quello di certezza del diritto. Tale maggiorazione sopravvenuta non possedeva, infatti, quella delimitazione temporale che la norma introduttiva, invero, aveva prospettato. Come detto, il rilievo di tali censure, venuto meno a seguito della rinuncia delle Ricorrenti, in ottemperanza ad un accordo intervenuto il 15 ottobre 2014 con il Governo – in cui le prime si sono impegnate a ritirare i ricorsi promossi contro lo Stato innanzi alle diverse giurisdizioni relativi alle impugnative di leggi o di atti consequenziali in materia di finanza pubblica, è transitato all’attenzione della Corte Europea, dinanzi alla quale si attendono prossimamente le conclusioni dell’Avvocato Generale. CC |
Inserito in data 17/04/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 9 aprile 2015, n. 1796 Scorrimento graduatorie e motivi di diritto per eventuale deroga: identità profili professionali
Il Collegio della Sesta Sezione, intervenendo sulla nota questione circa le modalità di reclutamento del personale da parte delle Pubbliche Amministrazioni, delimita il perimetro applicativo del principio di scorrimento di graduatorie già esistenti.
Infatti, fermo restando l’atteggiamento di favore che sia il Legislatore che la giurisprudenza manifestano da anni riguardo a tale criterio, è corretto comunque delimitarne l’operatività.
Come nel caso di specie, infatti, i Giudici considerano valida la scelta dell’Amministrazione appellante che, in riforma della sentenza di primo grado, insiste sulla sostanziale diversità di profili richiesti dalla prima graduatoria – il cui scorrimento è richiesto dall’appellato, e la nuova - derivante, invece, dalla indizione del nuovo concorso – oggetto di contestazione.
Né, prosegue il Collegio, tale difformità è smussata dalla precedente esperienza lavorativa che l’originario ricorrente paventava di aver svolto presso la medesima Amministrazione.
E’ evidente, infatti, che la rilevante diversità formale e sostanziale tra i profili professionali richiesti rispecchia le diverse esigenze dell’Amministrazione.
Diversamente, si finirebbe con l’indurre le Amministrazioni a dover – quasi coattivamente – modificare le proprie piante organiche per assumere candidati già inseriti in graduatoria.
Pertanto, sulla base di tale principio che il Collegio definisce logico ancor prima che giuridico ed applicabile, quindi, a tutte le Amministrazioni, la Sesta Sezione accoglie le doglianze dell’Amministrazione appellante e, per l’effetto, dispone la riforma della sentenza censurata. CC |
Inserito in data 16/04/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 15 aprile 2015, n. 1927 Sulla natura e sui presupposti dell’acquisizione gratuita di opere abusive Con la sentenza in esame il Supremo Consesso ha accolto il ricorso volto a far annullare l’ordinanza dirigenziale ed i relativi provvedimenti con la quale un comune aveva disposto l’acquisizione a titolo gratuito di due edifici abusivi. Il motivo di censura sollevato dalle ricorrenti si fondava sull’asserita natura soggettiva della sanzione prevista, in relazione agli abusi edilizi, dall’art. 31 d.p.r. 380/01 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), la quale potrebbe desumersi dal combinato disposto degli artt. 29 (Responsabilità del titolare della concessione, del committente, del costruttore e del direttore dei lavori, nonché anche del progettista per le opere subordinate a denuncia di inizio attività) e 31 (Interventi eseguiti in assenza di concessione, in totale difformità o con variazioni essenziali) del Testo Unico dell’Edilizia e degli artt. 3 e 7 l.689/81. Secondo le norme citate, infatti, <<l'acquisizione gratuita del bene non può operare nei confronti del terzo proprietario estraneo all'abuso ed al pedissequo ordine demolitorio, con la conseguenza che la funzione ripristinatoria dell'interesse pubblico violato dovrebbe ritenersi limitata alla sola misura demolitoria>>. Il Collegio, tuttavia, ha argomentato diversamente la propria decisione. Quest’ultimo, infatti, ha rilevato che <<le sanzioni per illeciti amministrativi […] si estinguono con la morte del trasgressore e non sono trasmissibili agli eredi>> (art 7 l. 689/81), mentre la misura dell’ordine di riduzione in pristino dello stato dei luoghi, prevista in materia edilizia, ha carattere reale essendo volta a ripristinare l’ordine materiale, alterato con la costruzione abusiva, più che a sanzionare il comportamento illecito in sé considerato (sanzionato penalmente ex art. 44 d.p.r. 380/01). A ben vedere, dunque, non può correttamente parlarsi di sanzione e, conseguentemente, risulta del tutto irrilevante discutere sulla natura reale o soggettiva della stessa. Inoltre, una volta riconosciuta la finalità ripristinatoria dell’ordine di demolizione cui, in caso di inottemperanza, risulta strumentale l’acquisizione gratuita, ben può affermarsi l’opponibilità del primo anche a soggetti che, come nel caso di specie, risultino estranei al comportamento illecito, ad esempio gli eredi o aventi causa dell’autore dell’abuso (ex multis C.d.S. 3392/14 e 708/15). L’art. 31 sopra citato, tuttavia, struttura l’acquisizione dell’area come conseguenza dell’inottemperanza volontaria all’ordine demolitorio. Ne consegue che, al fine di poter configurare un comportamento esigibile, occorre che il soggetto obbligato sia stato formalmente destinatario dell’ordine stesso ed abbia avuto a sua disposizione un termine per eseguirlo. In caso di rinnovazione del procedimento, dunque, l’ordine di demolizione dovrà essere comunicato nei confronti dei successori mortis causa. Più precisamente, a prescindere dalle possibili conseguenze, il Collegio rileva l’illegittimità dell’acquisizione gratuita in danno di chi non è responsabile dell’abuso e nei cui confronti sia mancata la notifica dell’ordine di demolizione in quanto <<essendo l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale - ovvero la demolizione in danno - una misura prevista per l’ipotesi di inottemperanza all’ingiunzione di demolizione, essa postula comunque un’inottemperanza da parte di chi va a patirne le pur giuste conseguenze>>, inoltre <<la legittimità dell'atto di acquisizione va esaminata con riferimento alla situazione di fatto e di diritto esistente alla data della sua emanazione>> (C.d.S. 4913/133). VA
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Inserito in data 15/04/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 14 aprile 2015, n. 1898 Sì ai chiarimenti della stazione appaltante se di “interpretazione autentica” La Quarta Sezione del Consiglio di Stato interviene, con la pronuncia in epigrafe, in merito alla valenza dei chiarimenti forniti dalla stazione appaltante prima della scadenza del termine di presentazione delle offerte. Con la sentenza de qua, viene evidenziato che la giurisprudenza ritiene che tali chiarimenti non possano valere a modificare la disciplina dettata per lo svolgimento della gara, così come scolpita nella lex specialis. Solamente nelle ipotesi in cui non è ravvisabile un conflitto tra le delucidazioni fornite dalla stazione appaltante e il tenore delle clausole chiarite, le relative precisazioni rappresentano una sorta di “interpretazione autentica”, con la quale l’Amministrazione aggiudicatrice chiarisce la propria volontà provvedimentale, così come già rilevato dal Consiglio di Stato con la pronuncia n. 4305 del 2014. GMC |
Inserito in data 15/04/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 9 aprile 2015, n. 1486 Sul diritto a procreare a spese della Regione Con la pronuncia in esame del Consiglio di Stato, si chiarisce che la Pubblica Amministrazione non può discriminare un tipo di fecondazione rispetto all’altra richiedendo il pagamento del ticket soltanto per la fecondazione eterologa. Specificamente, i Giudici di Palazzo Spada hanno sospeso in via cautelare la delibera della Lombardia che – quale unica Regione – prevede che il cittadino debba pagare interamente il trattamento di fecondazione eterologa, e non già solamente il ticket. I Giudici del Supremo consesso amministrativo, hanno ritenuto valida la posizione dei ricorrenti, i quali hanno evidenziato la disparità di trattamento tra cittadini. Viene evidenziato, invero, che “sembra condivisibile la censura di disparità di trattamento sotto il profilo economico tra la procreazione medicalmente assistita omologa e quella eterologa, stante l’incontestata assunzione a carico del servizio sanitario regionale lombardo salvo il pagamento di ticket della prima”. Oltre a ciò, la scelta del Consiglio di Stato, di concedere la sospensiva, è legata anche al fatto che – come si legge dalla pronuncia de qua – “il pregiudizio lamentato non può essere ragionevolmente limitato ad aspetti puramente patrimoniali in sé risarcibili”, e deve “ritenersi dotato dei prescritti caratteri di gravità e irreparabilità poiché l'esecuzione dei provvedimenti impugnati è suscettibile di produrre l'effetto della perdita, da parte di coloro che non sono in grado di sostenere l'onere economico ivi previsto, della possibilità di accedere alle tecniche in parola dovuta al superamento dell'età potenzialmente fertile durante il tempo occorrente per la definizione del giudizio nel merito”. GMC |
Inserito in data 14/04/2015 CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 13 aprile 2015, n. 4 Non si può condannare ex officio la PA al risarcimento se è stato chiesto l’annullamento Il giudice amministrativo, ritenuta la fondatezza del ricorso, non può ex officio limitarsi a condannare la PA al risarcimento dei danni conseguenti agli atti illegittimi impugnati anziché procedere al loro annullamento, che abbia formato oggetto della domanda dell’istante ed in ordine al quale persista il suo interesse, ancorché la pronuncia possa recare gravi pregiudizi ai controinteressati, anche per il lungo tempo trascorso dall’adozione degli atti, e ad essa debba seguire il mero rinnovo, in tutto o in parte, della procedura esperita. In tal senso depone, anzitutto, il fatto che la giurisdizione amministrativa costituisce una giurisdizione di tipo soggettivo, sia pure con aperture parziali alla giurisdizione di tipo oggettivo, ma che si manifestano in precisi, limitati ambiti. Ma soprattutto, in base al principio della domanda, non può ammettersi che, in presenza di un atto illegittimo (causa petendi) per il quale sia stata proposta una domanda demolitoria (petitum), possa non conseguirne l’effetto distruttivo dell’atto per valutazione o iniziativa ex officio del giudice. L’azione di annullamento e la domanda di risarcimento sono infatti radicalmente diverse: nella prima la causa petendi è l’illegittimità, mentre nella seconda è l’illiceità del fatto; il petitum nella prima azione è l’annullamento degli atti o provvedimenti impugnati, mentre nella seconda è la condanna al risarcimento in forma generica o specifica. Infine, non appaiono pertinenti gli argomenti e i precedenti richiamati dall’ordinanza di rimessione. Non rileva, infatti, il tempo trascorso dall’adozione degli atti, dato che la durata occorrente per il giudizio, a maggior ragione quando essa sia prolungata e inaccettabile nelle sue dimensioni, non può andare a danno del ricorrente che ha ragione e pregiudicargli la sua pretesa, Non appare utile, poi, il richiamo alle disposizioni in materia di appalti (artt. 121 e 122 cpa), in cui viene riconosciuta la possibilità al giudice di disporre un rimedio piuttosto che un altro, sulla base dell’inefficacia del contratto e dell’esercizio di un potere valutativo. Trattasi, infatti, di fattispecie esclusive la cui disciplina non è estensibile in via analogica né tanto meno può essere assunta come espressiva di principi generali. Non è pertinente neppure il richiamo alla sentenza del Consiglio di Stato n. 2755 del 2011, che ha riconosciuto la potestà del giudice amministrativo di fissare una determinata posteriore decorrenza degli effetti della pronuncia di annullamento. Si tratta, infatti, di una questione ben diversa rispetto al caso in esame, relativo alla possibilità per il giudice di sostituire integralmente ex officio la domanda proposta in giudizio. Ugualmente non convincente è il richiamo alle sentenze che fanno riferimento alla possibilità che il giudice, di ufficio, ritenga che sussista un interesse al mero accertamento. Anche queste pronunce riguardano una fattispecie ben diversa dalla invocata possibilità del giudice di modificare la domanda. Esse, infatti, ritengono che ope iudicis si possa accertare l’illegittimità di un atto impugnato anche quando la parte, che non ha più interesse all’annullamento, non lo chieda espressamente. Infine, la modificazione degli effetti della domanda di annullamento non può essere giustificata con il richiamo alla disciplina del processo dinanzi alla Corte di Giustizia (art. 264 del Trattato). Infatti, se è vero che l’art. 1 cpa afferma che la “giurisdizione amministrativa assicura una tutela piena ed effettiva secondo i principi della costituzione e del diritto europeo”, ciò avviene sulla base della specifica disciplina del processo amministrativo, non necessariamente dandosi applicazione alle regole processuali comunitarie. Non si tratterebbe qui di recepire principi del diritto comunitario sostanziale o processuale (la proporzionalità, l’affidamento, il mutuo riconoscimento, il giusto processo, il contraddittorio etc.), ma di applicare una disposizione dettata per il giudizio europeo al giudizio (di tutt’altra natura) nazionale. CDC |
Inserito in data 14/04/2015 CORTE DI CASSAZIONE, TERZA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 7 aprile 2015, n. 6904 Il diritto di prelazione e di riscatto del confinante non spettano al nudo proprietario Le norme sul diritto di prelazione e di riscatto sono norme di stretta interpretazione, che prevedono un numero chiuso di ipotesi e non consentono estensioni al di fuori dei casi tassativamente previsti. Esse, infatti, apportano una significativa limitazione del diritto di proprietà, perché una delle prerogative fondamentali del proprietario è quella di alienare il proprio diritto ad un soggetto liberamente scelto; e tale facoltà è diminuita significativamente dalle norme sul diritto di prelazione. Ne segue che il diritto di prelazione (e, conseguentemente, anche il diritto di riscatto) non può essere riconosciuto anche al nudo proprietario. È evidente, del resto, che una simile estensione sarebbe arbitraria, considerando che il nudo proprietario non ha poteri di godimento del bene, che spettano all’usufruttuario, e non è neppure detto che diventi mai proprietario. CDC
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Inserito in data 13/04/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 9 aprile 2015 n. 1798 In sede d’offerta non sussiste l’obbligo di indicare i costi ‘specifici’ o ‘aziendali’ Con la sentenza in esame, il Consesso esamina l’esatta portata dispositiva del secondo periodo del comma 4 dell’articolo 87 del ‘Codice dei contratti’, secondo cui “nella valutazione dell'anomalia la stazione appaltante tiene conto dei costi relativi alla sicurezza, che devono essere specificamente indicati nell'offerta e risultare congrui rispetto all'entità e alle caratteristiche dei servizi o delle forniture”. Invero, per un primo orientamento, “in relazione agli appalti di forniture e di servizi intellettuali (nel cui ambito il rischio c.d. ‘specifico’ o ‘aziendale’ ha minore possibilità di incidenza), il combinato disposto del comma 3-bis dell’articolo 86 e del comma 4 dell’articolo 87 del ‘Codice’ non impone alle imprese partecipanti l’obbligo, a pena di esclusione, di indicare già in sede di offerta gli oneri per la sicurezza in questione, trattandosi di elementi che vanno viceversa specificati e verificati ai soli fini del giudizio di anomalia” (sul punto –ex multis -: Cons. Stato, V, 17 giugno 2014, n. 3056). Per altra ricostruzione, invece, “quanto meno nell’ambito degli appalti di servizi e di forniture (espressamente richiamati dal comma 4 dell’articolo 87, cit.), sussiste in capo all’impresa partecipante – e a pena di esclusione - l’indefettibile obbligo di indicare già in sede di offerta gli oneri di sicurezza cc.dd. ‘specifici’ o ‘aziendali’ e che tale obbligo, laddove inadempiuto, determinerebbe comunque l’effetto espulsivo a prescindere da un’espressa previsione in tal senso nell’ambito della lex specialis di gara (tanto, alla luce del principio di eterointegrazione della normativa speciale di gara, che opererebbe in considerazione dell’alto valore sistemico dei valori tutelati)”. Orbene, la prima tesi è stata da ultimo condivisa nei suoi assunti di fondo dalla recente decisione dell’Adunanza plenaria 20 marzo 2015, n. 3. Secondo il Supremo Consesso, infatti, “le stazioni appaltanti, nella predisposizione degli atti di gara per lavori e al fine della valutazione dell’anomalia delle offerte, devono determinare il valore economico degli appalti includendovi l’idonea stima di tutti i costi per la sicurezza con l’indicazione specifica di quelli da interferenze”; mentre “i concorrenti, a loro volta, devono indicare nell’offerta economica sia i costi di sicurezza per le interferenze (quali predeterminati dalla stazione appaltante) che i costi di sicurezza interni che essi determinano in relazione alla propria organizzazione produttiva e al tipo di offerta formulata (ivi, punto 2.9.)”. A questo punto, la Plenaria afferma che “la ratio del puntuale richiamo, nell’art. 87, comma 4, secondo periodo del Codice, della specifica indicazione dei costi per la sicurezza per le offerte negli appalti di servizi e forniture appare individuabile in relazione alla particolare tipologia delle prestazioni richieste per questi appalti rispetto a quelli per lavori e alla rilevanza di ciò nella fase della valutazione dell’anomalia (cui la norma è espressamente riferita). Ed infatti il contenuto delle prestazioni di servizi e forniture può essere tale da non comportare necessariamente livelli di rischio pari a quelli dei lavori, rilevando l’esigenza sottesa alla norma in esame, pur ferma la tutela della sicurezza del lavoro, di particolarmente correlare alla entità e caratteristiche di tali prestazioni la giustificazione dei relativi, specifici costi in sede di offerta e di verifica dell’anomalia (ivi, punto 2.9)”. Pertanto, la ricostruzione costituzionalmente orientata operata dall’Adunanza Plenaria comporta il sostanziale ribaltamento dell’orientamento giurisprudenziale “secondo cui il combinato disposto del comma 3-bis dell’articolo 86 e del comma 4 dell’articolo 87 del ‘Codice dei contratti’ avrebbe imposto oneri dichiarativi più pregnanti (e conseguenza escludenti più stringenti) a carico delle imprese partecipanti ad appalti di servizi e di forniture rispetto a quelle partecipanti ad appalti di lavori (nonostante la maggiore rischiosità che tipicamente caratterizza la seconda tipologia di appalti rispetto alla prima)”. Deve, quindi, avallarsi il “condiviso orientamento secondo cui nelle procedure ad evidenza pubblica la regola di specificazione (o separata indicazione) dei costi di sicurezza, ai sensi degli articoli 86 e 87 del decreto legislativo n. 163 del 2006 opera in via primaria nei confronti delle amministrazioni aggiudicatrici in sede di predisposizione delle gare di appalto e di valutazione dell’anomalia, con la conseguenza che l'assenza di scorporo nel quantum fin dalla fase di presentazione dell'offerta non può risolversi in causa di esclusione dalla gara, anche alla luce dei criteri di tassatività della cause espulsive previsti dall'art. 46, comma 1-bis, del medesimo Codice (in tal senso: Cons. Stato, V, 2 ottobre 2014, n. 4907 – ipotesi di appalto di servizi -; id., III, 4 marzo 2014, n. 1030 – ipotesi di appalto di servizi -)”. EF |
Inserito in data 13/04/2015 TAR FRIULI VENEZIA GIULIA - TRIESTE, SEZ. I, 10 aprile 2015, n. 176 Sul “non condizionato diritto” di accesso dei consiglieri comunali Con la pronuncia in epigrafe, il Collegio conferma il consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo il quale «i consiglieri comunali hanno un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere d'utilità all'espletamento delle loro funzioni, ciò anche al fine di permettere di valutare - con piena cognizione - la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'Amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio, e per promuovere, anche nell'ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale», di talché «sul consigliere comunale non può gravare alcun particolare onere di motivare le proprie richieste di accesso, atteso che, diversamente opinando, sarebbe introdotta una sorta di controllo dell'ente, attraverso i propri uffici, sull'esercizio delle funzioni del consigliere comunale» (così, T.A.R. Sicilia – Palermo, Sez. I^, sentenza n. 77/2015; nello stesso senso, ex plurimis, C.d.S., Sez. V^, sentenza n. 4525/2014). Del resto, “il diritto di accedere ai documenti amministrativi comprende tanto il diritto di prenderne visione, quanto quello di estrarre copia dei documenti ostesi, con la conseguenza che anche il solo diniego della seconda delle suindicate facoltà integra gli estremi del diniego di accesso” (cfr., T.A.R. Lazio – Roma, Sez. I^, ordinanza n. 1140/2015; T.A.R. Puglia – Bari, Sez. II^, sentenza n. 1664/2012). Ne discende che “la richiesta del Comune di motivare le ragioni della richiesta di copia dei documenti visionati, se pur formalmente non è atto di diniego, costituisce comunque atto lesivo delle prerogative dei consiglieri”. Si rammenti, infine, che “il diritto di accesso è individuale, sicché non può essere negato per il solo fatto di essere già stato accordato ad altro soggetto, e che i consiglieri comunali sono tenuti a mantenere il segreto sulle informazioni di cui vengono a conoscenza nell’esercizio del potere connesso al loro ruolo” (cfr., T.A.R. Lombardia – Milano, Sez. I^, sentenza n. 2834/2014). EF |
Inserito in data 11/04/2015 CORTE DI CASSAZIONE - SECONDA SEZIONE CIVILE, 7 aprile 2015, n. 6921 Appropriazione indebita del professionista Con la sentenza de qua, la Suprema Corte chiarisce che il termine di prescrizione del diritto ad ottenere il risarcimento del danno nei confronti di un professionista colpevole di appropriazione indebita, inizia a decorrere dal momento in cui è cessato l’incarico, e non già da quando è stato commesso l’illecito. Ciò chiarito, gli Ermellini hanno in tal modo dato ragione al cliente di un commercialista che si era visto sottrarre alcune somme di denaro di cui il professionista aveva disponibilità in virtù del suo mandato. I Giudici di Piazza Cavour, precisando che, nei riguardi di un professionista, il cliente possa agire sia per i danni da responsabilità contrattuale – il cui termine di prescrizione sarà di dieci anni – sia per i danni derivanti da responsabilità extracontrattuale, rilevano che, nel caso de quo, il termine di prescrizione sarà di cinque anni, trattandosi, invero, di un’ipotesi di responsabilità extracontrattuale, facendo dunque riferimento all’art. 2947 del c.c. I Giudici di secondo grado, tuttavia, hanno commesso un errore poiché hanno individuato, come data di inizio della decorrenza del termine di prescrizione, quella dell’illecito, anziché quella della cessazione dell’incarico. Gli Ermellini puntualizzano a tal proposito che il termine di prescrizione non può iniziare a decorrere prima che sia cessato il rapporto professionale, o, comunque, da quando il professionista abbia assolto l’obbligo di rendere il conto al cliente, poiché la prescrizione può decorrere solo da quando il diritto può esser fatto valere. Alla luce di tutto quanto chiarito ed esposto, i termini di prescrizione non decorrono da quando il fatto illecito ha leso l’altrui diritto, bensì dal momento in cui il danno diventa “oggettivamente riconoscibile”. GMC
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Inserito in data 11/04/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 9 aprile 2015, n. 1825 Sulla domanda di revocazione ex art. 395 n. 4 c.p.c.: i presupposti Con la pronuncia in epigrafe, il Supremo Consesso amministrativo interviene in merito ad un caso di revocazione ex art. 395 n. 4 del c.p.c., evidenziando i presupposti per la proposizione della domanda de qua. Nello specifico, il ricorso in questione è stato proposto da una Regione al fine di ottenere la revocazione di una sentenza del Consiglio di Stato con la quale sono stati respinti gli appelli proposti avverso la sentenza del TAR che in accoglimento del ricorso aveva disposto l’annullamento della deliberazione della Giunta regionale con cui la Regione – in relazione alla costruzione di un Sistema Informativo dell’Ambiente – aveva deciso di affidare alcune attività ad una S.p.a. La Regione, in seguito, denunciava la presenza di un vizio revocatorio che insisterebbe sulla sentenza precedentemente emanata. I Giudici di Palazzo Spada puntualizzano – con la pronuncia in questione – quanto è già stato chiarito, in modo costante, dalla giurisprudenza, nonché, da ultimo, dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 5 del 2014, secondo cui “L’errore di fatto, idoneo a fondare la domanda di revocazione ai sensi dell’art. 395, n. 4, c.p.c., deve essere caratterizzato: a) dal derivare da una pura e semplice errata od omessa percezione del contenuto meramente materiale degli atti del giudizio, la quale abbia indotto l’organo giudicante a decidere sulla base di un falso presupposto di fatto, facendo cioè ritenere un fatto documentalmente escluso ovvero inesistente un fatto documentalmente provato; b) dall’attenere ad un punto non controverso e sul quale la decisione non abbia espressamente motivato; c) dall’essere stato un elemento decisivo della decisione da revocare, necessitando perciò un rapporto di causalità tra l’erronea presupposizione e la pronuncia stessa; l’errore deve inoltre apparire con immediatezza ed essere di semplice rilevabilità, senza necessità di argomentazioni induttive o indagini ermeneutiche. Specificamente, in materia di errore di fatto revocatorio, l’articolo 395, n. 4, c.p.c. prevede che sussiste errore di fatto se “il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare”, dunque, alla luce di quanto chiarito “E’ pertanto inammissibile un ricorso di revocazione nel caso in cui il fatto sul quale si pretende di fondare l’errore revocatorio sia stato proprio il punto decisivo sul quale il Collegio ha fondato la propria decisione”. Oltre a ciò, la rilevanza dell’interesse – secondo quando chiarito dai Giudici di Palazzo Spada - doveva essere necessariamente apprezzata non solo “a fini caducatori”, ma anche a fini risarcitori, considerato che sia in primo che in secondo grado la S.r.l. aveva proposto domanda di risarcimento del danno. Invero, non sussiste alcun rapporto di causalità tra l’erronea presupposizione e la pronuncia. Ancora, non può parlarsi di alcuna “omessa percezione del contenuto meramente materiale degli atti del giudizio”, dal momento che “le delibere indicate nel ricorso per revocazione non sono mai state prodotte nel giudizio concluso con la sentenza di cui si invoca la revocazione, né può invocarsi in senso contrario il regime di pubblicità al quale sono sottoposte, dal momento che non si è presenza di fonti del diritto, rispetto alle quali vale il principio iura novit curia”. Alla luce di tutto quanto chiarito, in difetto dei presupposti indicati dall’art. 395, n. 4 c.p.a., il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. GMC |
Inserito in data 10/04/2015 CORTE DI CASSAZIONE, PRIMA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 3 aprile 2015, n. 6855 La formazione della famiglia di fatto comporta definitiva perdita dell’assegno divorzile La formazione di una famiglia di fatto, caratterizzata da connotati di stabilità e continuità, nonché dall’elaborazione di un progetto di vita in comune, fa venir meno il diritto all’assegno divorzile. In tal caso, infatti, si rescinde ogni connessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale. Ciò non determina, però, una sorta di quiescenza del diritto all’assegno, che potrebbe essere chiesto nuovamente, in caso di rottura della convivenza di fatto. Infatti, la formazione della famiglia di fatto è espressione di una scelta esistenziale libera e consapevole ed è necessariamente caratterizzata dall’assunzione piena di un rischio, in relazione alle vicende successive. Deve anche considerarsi, peraltro, la posizione dell’ex coniuge, che si troverebbe nuovamente obbligato e che, invece, di fronte alla costituzione stabile e duratura di una famiglia di fatto tra il proprio ex coniuge e un altro partner, confiderebbe nell’esonero definitivo da ogni obbligo. CDC
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Inserito in data 10/04/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 9 aprile 2015, n. 1819 Sui confini della giurisdizione esclusiva in materia di gestione del ciclo dei rifiuti Come affermato da Cass. S.U. n. 14126 del 2010, la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia di controversie attinenti alla complessiva azione di gestione del ciclo dei rifiuti presuppone che gli atti o i comportamenti della PA o dei soggetti alla stessa equiparati costituiscano espressione dell’esercizio di un potere autoritativo. Sono invece escluse le controversie nelle quali sia dedotto in giudizio un rapporto obbligatorio avente la propria fonte in una pattuizione di tipo negoziale, intesa a regolare gli aspetti meramente patrimoniali della gestione, che continuano a rientrare nella giurisdizione del giudice ordinario. Nello stesso senso si è pronunciata anche Cass. S.U. n. 19253 del 2010, evidenziando che l’espresso riferimento normativo ai comportamenti della PA deve essere inteso nel senso che rilevano soltanto i comportamenti costituenti espressione di un potere amministrativo, e non anche quelli meramente materiali, posti in essere dall'amministrazione al di fuori dell'esercizio di un'attività autoritativa. Pertanto, quando vengono in rilievo questioni meramente patrimoniali, connesse al mancato adempimento da parte dell'amministrazione di una prestazione pecuniaria nascente da un rapporto obbligatorio, i comportamenti posti in essere dall'amministrazione rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario. Sulla base di tali precedenti, il Consiglio di Stato ha negato la giurisdizione del giudice amministrativo, dato che, pur invocandosi nel caso di specie l’annullamento di un atto di mancata autorizzazione allo svincolo di una cauzione, in realtà si chiedeva l’accertamento della cessazione dell’obbligo derivante da una garanzia fideiussoria e la condanna al risarcimento dei danni subiti. Si contestava, cioè, il cattivo esercizio di una facoltà di natura privatistica da parte della PA. CDC |
Inserito in data 09/04/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 7 aprile 2015, n. 1770 Demolizione accidentale di un edificio e concessione di ristrutturazione Con la pronuncia in epigrafe, il Consiglio di Stato riprende l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale pur essendo “vero che qualora un edificio pervenga ad una integrale demolizione (anche a seguito della sua rovina per cause naturali) dopo che per esso è stata rilasciata una concessione edilizia di ristrutturazione, questa concessione perde la propria efficacia perché non esiste più l'edificio da ristrutturare, e per cui occorre, per la costruzione del nuovo edificio, un diverso e regolare titolo abilitativo (così Consiglio di Stato, sez. V, 23 marzo 2000, n. 1610), è peraltro vero che qualora la demolizione avvenga accidentalmente per l'imprevedibile grado di fatiscenza di strutture preesistenti e mentre una ristrutturazione edilizia è già in atto (e cioè durante un intervento inteso a conservare il fabbricato), essa non preclude il rilascio di una successiva concessione di ristrutturazione, che consenta il ripristino della sagoma e dei volumi preesistenti (Consiglio di Stato, sez. V, 18 agosto 1997, n. 917)”. In particolare, la situazione di fatto creatasi a seguito del crollo di un edificio, che, di fatto, stravolge i presupposti su cui si era precedentemente regolato il Comune, va “valutata in concreto dall’amministrazione e posta come elemento fondante della sua decisione”. EF
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Inserito in data 09/04/2015 CORTE DI CASSAZIONE - TERZA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 3 aprile 2015, n. 6820 La contestazione dei giusti motivi di recesso introduce un’azione di accertamento Con la sentenza in esame, la Suprema Corte afferma che il “recesso dal contratto è l'atto col quale uno dei contraenti si scioglie unilateralmente dal vincolo negoziale”. Invero, esso “non costituisce un istituto dai caratteri unitari”. Infatti, “talora è previsto dalla legge quale mera facoltà (ad esempio, negli artt. 24, 768 septies, 1671, 1750 c.c.); talaltra è concepito come una misura di reazione ad errori di fatto (ad esempio, negli artt. 1538, 1539, 1893 c.c.); in altri casi ancora è concepito come uno strumento di salvaguardia del sinallagma contrattuale contro il rischio di vizi sopravvenuti (è il caso degli artt. 1613, 1614 comma 2, 1897 c.c.)”. In quest'ultima categoria rientra “l'Istituto previsto dall'art. 27 l. 392/78, il cui scopo è evitare il rischio che il conduttore si trovi costretto ad onorare un contratto che, senza propria colpa, sia divenuto per lui inutile”. Del resto, “in quanto finalizzato a rimediare ad un vizio sopravvenuto del sinallagma contrattuale, il recesso ha effetto immediato e provoca lo scioglimento del contratto alla scadenza del semestre di legge: al pari, ad esempio, della scadenza del termine essenziale, dell'avverarsi della clausola risolutiva espressa o dell'inutile spirare del termine fissato con la diffida ad adempiere”. Ciò premesso, la giurisprudenza è unanime nel ritenere che “l'eventuale contestazione del locatore circa l'esistenza o la rilevanza dei 'giusti motivi' invocati dal conduttore a fondamento del diritto di recesso non introduce una azione costitutiva finalizzata ad una sentenza che dichiari sciolto il recedente dal contratto, ma introduce una mera azione di accertamento, il cui scopo è stabilire se esistessero al momento del recesso i giusti motivi invocati dal conduttore” (così come già ritenuto, tra le altre, da Sez. 3, Sentenza n. 16110 del 09/07/2009, Rv. 608801, e da Sez. 3, Sentenza n. 2070 del 20/02/1993, Rv. 481012, in motivazione). Pertanto, il contratto di locazione “si scioglierà ope legis una volta decorso il semestre previsto dalla legge, per il solo fatto che la dichiarazione di recesso sia pervenuta al domicilio del locatore, secondo la regola generale di cui all'art. 1334 c.c.”. La Corte osserva, altresì, che “la domanda di pagamento del canone di locazione dovuto per effetto d'un contratto valido ed efficace ha presupposti e contenuto diversi da quella di pagamento dell'indennità di occupazione prevista dal'art. 1591 c.c.”. La prima si fonda “sull'esistenza d'un contratto produttivo di effetti, la seconda presuppone per contro che il contratto di locazione abbia cessato di produrre i propri effetti, e che il conduttore sia in mora nell'adempimento dell'obbligazione restitutoria”. Ne consegue che, “proposta una domanda di adempimento dell'obbligo di pagamento del canone di locazione, costituisce inammissibile mutamento della domanda la richiesta di condanna del convenuto al pagamento dell'indennità di occupazione, di cui all'art. 1591 c.c.” (come già ritenuto, sia pure in fattispecie diversa, da Sez. 3, Sentenza n. 6468 del 19/03/2007, Rv. 596822). EF
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Inserito in data 08/04/2015 CORTE COSTITUZIONALE, ORDINANZA 31 marzo 2015, n. 57 Il termine di cui all’art. 30 c. 5 CPA viola gli artt. 3, 24, 103, 113 e 117 Cost? Con la decisione in esame, il Giudice delle leggi ha dichiarato la “manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 30, comma 5, del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, 103 e 113 della Costituzione, nonché all’art.117, comma primo, Cost., in relazione all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU)”. Ad avviso del giudice rimettente, la non manifesta infondatezza della questione traspariva dal fatto che l’art. 30, comma 5, comporta un’irragionevole compressione del diritto di difesa in giudizio della parte danneggiata, con violazione degli artt. 3, 24, 103 e 113 della Costituzione, atteso che “la decadenza ha per oggetto un “atto” (che per effetto di esso non può più essere compiuto), mentre ove si tratti, come nella specie, di “un rapporto”, la correlativa estinzione per inerzia del titolare del diritto non sarebbe altrimenti riconducibile che all’istituto della prescrizione”. Per il rimettente, l‘art. 30, comma 5, CPA doveva ritenersi irragionevole anche perché fissa il dies a quo del termine di decadenza dalla domanda risarcitoria non già in corrispondenza dell’impugnazione del provvedimento lesivo, bensì in relazione al passaggio in giudicato della sentenza di annullamento. Da ultimo, ad avviso del rimettente, l’art. 30, comma 5, CPA, violerebbe l’art. 117, comma 1, Cost., in relazione all’art. 6 della CEDU, in tema di “giusto processo”, “in quanto il legislatore nazionale, fissando il suddetto ristretto termine decadenziale, ha interferito nell’amministrazione della giustizia, attribuendo alla pubblica amministrazione una posizione di vantaggio in assenza di “motivi imperativi di interesse generale”, come enucleati dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo”. La Corte costituzionale ha respinto la predetta questione di costituzionalità sulla base della sua irrilevanza per il giudizio a quo, senza entrare nel merito della fondatezza delle censure sollevate. Invero, il convincimento in ordine alla rilevanza della questione muoveva dall’erroneo presupposto secondo cui il termine decadenziale introdotto dall’art. 30, comma 5, CPA, doveva applicarsi non solo alle controversie verificatesi prima dell’entrata in vigore del Codice, bensì anche alle cause la cui domanda fosse stata proposta prima di quel momento. A tale conclusione si perveniva facendo leva sulla natura processuale dell’art. 30, comma 5, CPA, che, perciò, avrebbe dovuto operare secondo il criterio del tempus regit actum. In senso contrario, la Corte costituzionale ha posto l’accento sull’art. 2 del Titolo II dell’Allegato 3 del d.lgs. n. 104/10, a mente del quale «Per i termini che sono in corso alla data di entrata in vigore del codice [del processo amministrativo] continuano a trovare applicazione le norme previgenti». Secondo la Corte costituzionale, detta norma “non è altrimenti interpretabile che nel senso della sua riferibilità anche (e a maggior ragione) all’ipotesi di successione tra un termine sostanziale, qual è quello di prescrizione, ed un termine processuale precedentemente non previsto, quale appunto il termine di decadenza sub art. 30 citato, essendo una diversa lettura della predetta disposizione (nel senso, restrittivo, della sua riferibilità solo a termini processuali «in corso») innegabilmente contra Constitutionem, per la compromissione, che ne deriverebbe, non solo della tutela ma della esistenza stessa della situazione soggettiva”. Pertanto, poiché al momento della proposizione dell’azione risarcitoria dinanzi al giudice a quo vigeva il regime di prescrizione quinquennale di diritto comune (art. 2947 cod. civ.), la tempestività del ricorso doveva valutarsi alla luce dell’art. 2947 c.c. (anziché dell’art. 30, comma 5, CPA), con la conseguente irrilevanza della questione di costituzionalità sollevata. TM
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Inserito in data 08/04/2015 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 27 marzo 2015, n. 1601 Offerta di gara: varianti migliorative, ammissibilità ed esclusione Con la pronuncia in epigrafe, il Collegio della Quinta Sezione conferma taluni spunti interessanti, già elaborati dalla giurisprudenza amministrativa riguardo allo svolgimento delle gare pubbliche. Peraltro in via pregiudiziale, ricordando il divieto dei nova – ex art. 104 C.p.A. ed il valore puramente illustrativo delle comparse conclusionali (Cfr. ex plurimis, Cons. St., sez. V, 13 maggio 2014, n. 2444; sez. V, 22 marzo 2012, n. 1640; Ad. plen., 19 dicembre 1983, n. 26), viene esclusa la rilevanza delle censure inserite per la prima volta dalla ditta – odierna appellante. Proseguendo, poi, nel merito, i Giudici evidenziano il principio di tassatività delle cause di esclusione sancito dall’art. 46, co. 1-bis, del Codice dei contratti pubblici e, di conseguenza, il potenziale motivo di estromissione dalla gara solo in presenza di carenze tali da ingenerare una situazione di «incertezza assoluta sul contenuto …. dell’offerta». Tanto non ricorre nel caso in esame, in cui il Collegio può motivatamente escludere le doglianze prospettate dalla ditta ricorrente, considerato che l’offerta proposta dall’altra candidata – odierna ricorrente in via incidentale – non presenta carenze strutturali tali da rientrare nel novero del suddetto articolo 46 – 1’ co. Cod. De Lise. Peraltro, insiste la quinta Sezione, il giudizio elaborato dalla Commissione di gara – quale organo tecnico – è insindacabile, se non nei limiti dell’abnormità. Circostanza che non si ravvede nell’ipotesi in esame e che, pertanto, porta ad escludere la possibilità di un sindacato del G.A. – quale quello richiesto in appello sull’offerta ammessa – perché sostitutorio e quindi al di fuori dei tassativi casi di giurisdizione di merito - fissati dall’art. 134 C.p.A. La pronuncia si conclude, infine, con un intervento del Collegio riguardo alle varianti migliorative – presuntivamente lamentate dall’appellante riguardo all’offerta presentata dalla ditta avversaria. Nell’escludere le censure e nel ricordare la giurisprudenza ormai salda sul punto, i Giudici ammettono quelle variazioni migliorative rese possibili dal possesso di peculiari conoscenze tecnologiche, purché non si alterino i caratteri essenziali delle prestazioni richieste dalla lex specialis onde non ledere la par condicio. Tanto si ravvisa nel caso in esame, in cui il progetto esecutivo dell’aggiudicataria non stravolge le linee fondamentali poste a base di quello preliminare e non presenta mende reali in tema di sicurezza, stabilità e conformità rispetto agli strumenti di tutela del territorio ed ai valori estetici – come sottolineato dalla Commissione di gara. In ragione di ciò e confermando, peraltro, la discrezionalità tecnica manifestata nel giudizio e la conseguente insindacabilità di quest’ultimo Organo, i Giudici escludono la fondatezza delle censure proposte dall’appellante principale e, per l’effetto, sono esentati dall’esaminare il ricorso incidentale – notoriamente sottoposto all’eventuale accoglimento del primo. CC |
Inserito in data 03/04/2015 CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL'UOMO, SEZ. II, caso A. M. contro Italia, 24.03.15 Italia condannata: viola il diritto alla libertà La pronuncia in esame è, inevitabilmente, una decisione che ha fatto discutere – considerato il merito del relativo contenuto. I Giudici della Corte Edu hanno condannato l’Italia per aver concesso – in ritardo rispetto ai tempi proceduralmente previsti, una misura premiale ad un noto boss - detenuto per reati di associazione mafiosa – ex artt. 416 bis e ter c.p. Invero, il quadro interno appare piuttosto nebuloso – sotto il profilo sia normativo che giurisprudenziale. Infatti, se da un lato la misura premiale era stata inizialmente concessa, fu poi negata dalla Cassazione penale nel 2007 in considerazione della natura particolarmente e notoriamente grave dei reati suddetti, addebitati all’odierno ricorrente. E’ seguita, poi, la contestazione proveniente dal Ministero della Giustizia – in ragione dell’erronea composizione del Collegio che, inizialmente, aveva riconosciuto la misura premiale e la successiva, relativa conferma – ad opera del Tribunale di Sorveglianza territorialmente competente. Tale atteggiamento ondivago è stato duramente contestato dal boss che, in ragione di ciò, ha censurato la condotta dello stato italiano dinanzi alla Corte di Strasburgo. I Giudici francesi, condividendo le doglianze prospettate in ricorso, ritengono si sia evidentemente profilata un’ipotesi di ingiusta detenzione. Si tratta, in particolare, di una violazione dell’art. 5 §§. 1 e 5, posto che l’Italia – con tale condotta incerta – avrebbe causato un indebito prolungamento della pena. Ricorda la Corte Edu che, invero, lo Stato avrebbe dovuto indicare con sufficiente chiarezza all’interessato tutti i possibili rimedi interni per ottenere la misura premiale. Proprio da questa sua lacuna è scaturita la condanna per la violazione dell’art 5 §.5, posto che non sono state soddisfatte le condizioni per la concessione di un simile beneficio. A dispetto di qualunque dubbio, infatti, la Corte evidenzia come i Giudici interni non possano disporre di una discrezionalità tale da escludere il riconoscimento di una misura premiale, specie ove sussistano i sintomi di una volontà di reinserimento sociale (Cfr. Cass. Pen. 29779/12). Tuttavia, al di là della dubbia prassi giurisprudenziale interna e delle incertezze palesate anche dagli Organi amministrativi, il ricorso dinanzi alla CEDU è stato, comunque, già avviato. CC
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Inserito in data 03/04/2015 CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA PER LA REGIONE SICILIANA, 24 marzo 2015, n. 305 Dibattito su oneri di sicurezza e clausole del bando La sentenza in epigrafe è importante, poiché evidenzia la contraddittorietà degli apporti giurisprudenziali in tema di sussistenza dell’obbligo di indicare i costi della sicurezza “aziendale” o “interna” negli appalti di lavori pubblici, pur ove non previsti da apposita clausola in bando. La questione affrontata dai Giudici siciliani, invero, segue di qualche giorno il deposito della pronuncia dell’Adunanza Plenaria che, con la Decisione n. 3, ha chiarito la necessaria indicazione dei costi interni, pena l’esclusione dell’offerta dalla procedura anche se non prevista nel bando di gara. L’approdo cui è giunto il massimo Collegio di Palazzo Spada si spiega in vista della necessità di garantire una maggiore sicurezza sui luoghi di lavoro e, pertanto, una lettura costituzionalmente orientata del Codice De Lise in combinato con il Testo Unico del 2008 – in tema di salute dei lavoratori. E’ singolare notare come, in un caso analogo e a distanza brevissima di giorni, la pronuncia dei Giudici siciliani sia, invece, di opposto avviso. Questi, infatti, aderendo al filone prevalentemente accolto tra le Sezioni del Consesso palermitano, sottolineano l’iniquità dell’esclusione disposta a carico di un candidato che abbia omesso l’indicazione dei costi per la sicurezza interni. La giurisprudenza sicula, infatti, ritiene che la violazione di adempimenti non espressamente previsti (né specificamente sanzionati con l’esclusione) dal bando di gara, né dalla legge, non sia “legittimamente sanzionabile con l’esclusione, … dovendosi accordare prevalenza, rispetto al meccanismo di eterointegrazione, al principio di affidamento (sulla recente, ampia valorizzazione di tale principio, in uno con quello della massima partecipazione, v. Cons. Stato, ad. plen., 30 luglio 2014, n. 16, con riferimento anche alla ratio che sorregge la sopravvenienza normativa di cui all’art. 38 [rectius: art. 39] del D.L. n. 90/2014)”. I Giudici palermitani, peraltro, confermano tale assunto in ragione della lettura degli articoli 86 e 87 Cod. appalti, nessuno dei quali parrebbe disporre alcun obbligo di indicazione dei costi della sicurezza “aziendale” o “interna” negli appalti di lavori pubblici – come, peraltro, avallato da costante giurisprudenza (Cfr. C.d.S. 2343/2014, 3056/2014, 4964/2013, 638/2014 e 3195/2014). Come è evidente, la lettura resa dal Collegio palermitano collide con quello della Plenaria. E’ quest’ultima, però, quella cui dare prevalenza – sia in forza della funzione nomofilattica ormai conferitale – ex art. 99 CpA, sia in ragione dei valori di spessore costituzionale che la medesima è riuscita ad involgere. CC |
Inserito in data 01/04/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 31 marzo 2015, n. 1673 Ampio sindacato del G.A. con riferimento alle varianti semplificate Le scelte urbanistiche costituiscono valutazioni di merito sottratte al sindacato giurisdizionale e censurabili unicamente per i profili di abnormità, illogicità e travisamento dei fatti. Ciò vale, in particolare, in presenza dell’adozione di determinazioni in tema di pianificazione che investono rilevanti parti del territorio comunale, come le varianti ordinarie, in quanto dirette ad avere effetti innovativi sul governo del territorio quanto ai fini, alle destinazioni e dimensionamento degli standard. Riesce allora difficile negare all’ente locale un incisivo potere politico-discrezionale, che si rivela suscettibile di essere censurato solo entro ristretti ambiti di profili di illegittimità. La verifica della legittimità delle scelte urbanistiche si atteggia però diversamente in relazione all’ipotesi di una variante semplificata avente ad oggetto la localizzazione di un’opera su una porzione specifica e limitata del territorio. Essa, per la natura ed entità della variazione proposta, non implica scelte di politica urbanistica di carattere generale, per cui le determinazioni della PA possono essere assoggettate ad un più ampio e stringente sindacato giurisdizionale, senza che si possa in ciò configurare una non consentita funzione sostitutiva del giudice amministrativo. CDC |
Inserito in data 01/04/2015 CORTE DI CASSAZIONE, SESTA SEZIONE PENALE, SENTENZA 31 marzo 2015, n. 13799 Possibile responsabilità civile della PA per fatti dolosi dei propri dipendenti Sussiste la potenziale responsabilità civile della PA per le condotte dei propri dipendenti che, sfruttando l’adempimento di funzioni pubbliche ad essi espressamente attribuite, ed in esclusiva ragione di un tale adempimento che quindi costituisce occasione necessaria e strutturale del contatto, tengano condotte, anche di rilevanza penale e pur volte a perseguire finalità esclusivamente personali, che cagionino danni a terzi, quando le condotte risultino non imprevedibile ed eterogeneo sviluppo di un non corretto esercizio di tali funzioni. Ciò si impone per l’assenza di ragioni di ordine costituzionale che escludano la responsabilità della PA; anzi, dall’art. 28 Cost sembra evincersi il principio opposto. In tal senso milita, inoltre, l’art. 2049 cc, da ritenersi applicabile anche alla PA. CDC
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Inserito in data 31/03/2015 CORTE DI CASSAZIONE - TERZA SEZIONE CIVILE - SENTENZA 17 marzo 2015, n. 5218 Sul contratto a favore del terzo in ambito assicurativo Gli Ermellini, con la pronuncia in epigrafe, intervengono in tema di contratto a favore del terzo in ambito assicurativo. La Terza Sezione della Suprema Corte, invero, ha ritenuto condivisibile il percorso motivazionale seguito dalla pronuncia di secondo grado, resa dal Tribunale, che aveva rigettato la domanda proposta dal danneggiato contro il proprio assicuratore, ritenendo che l'accordo tra assicuratori non fosse invocabile dal danneggiato, il quale era “terzo” rispetto a quel negozio. Invero, i Giudici di Piazza Cavour, precisano che l’accordo tra compagnie assicurative che preveda che, nel caso di maxitamponamenti, ogni assicuratore indennizzi il proprio assicurato, non può affatto qualificarsi come “contratto a favore di terzo”. Muovendo dalla considerazione secondo la quale, in tale tipo di contratto, il vantaggio che stipulante e promittente convengono di attribuire al terzo beneficiario, sia un vantaggio diretto e giuridico – diretto perché rappresenta l'oggetto “immediato” della pattuizione e giuridico perché costituisce l'effetto voluto del negozio giuridico – si tende ad escludere che l’ “Accordo tra compagnie” abbia l'effetto di attribuire, al terzo danneggiato, un vantaggio “diretto e giuridico”. Invero, alla luce di quanto chiarito dai Giudici della Suprema Corte, se, per effetto dell'“accordo”, ogni danneggiato da un sinistro stradale “catastrofale” acquistasse un diritto di credito immediatamente azionabile nei confronti del proprio assicuratore, si giungerebbe sino a trasformare l'assicurazione della responsabilità civile in un’assicurazione contro i danni, con conseguente mutamento del rischio assicurato ed al di fuori di ogni previsione normativa. È bene infatti sottolineare che nell'assicurazione della r.c.a., il rischio assicurato è la deminutio patrimonii del responsabile, mentre, per effetto dell’Accordo de quo, ciascuna delle compagnie aderenti si è obbligata a versare al proprio assicurato quanto avrebbe dovuto versargli l'assicuratore del terzo responsabile, salvo rivalsa. L'“Accordo”, dunque, era un patto in virtù del quale ogni società aderente si impegnava a liquidare e pagare il debito delle consorelle salva rivalsa, ma non era affatto un patto che attribuiva al danneggiato un credito e, dunque, un’azione diretta nei confronti del proprio assicuratore. GMC
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Inserito in data 31/03/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 23 marzo 2015, n. 1565 Sull’incompatibilità dei componenti la commissione di gara I Giudici di Palazzo Spada intervengono, con la pronuncia de qua, in merito alle ipotesi di incompatibilità dei componenti la commissione di gara, chiarendo che tali ultime – previste, com’è noto, dall’art. 84 del d.lgs. n. 163 del 2006 – debbano essere interpretate in maniera restrittiva. Questo, è il principio confermato dal Consiglio di Stato, con la sentenza in epigrafe, resa con riferimento a una gara per l’affidamento della gestione e lo smaltimento di rifiuti solidi urbani. Nel caso in questione, l’operatore economico secondo classificato, aveva proposto ricorso contro l’aggiudicazione perché, tra gli altri motivi, asseriva che uno dei componenti della commissione di gara, fosse incompatibile con quella posizione, per aver reso delle precedenti attività connesse a quell’appalto nell’ambito della amministrazione aggiudicatrice. Invero, con il quinto motivo, è stato dedotto “Error in iudicando: Violazione dell’art. 84 del d. lgs. 163/2006, violazione della lex specialis di gara; violazione dei principi di funzionamento degli organi collegiali, violazione del principio del giusto procedimento, sviamento”, poiché, un ingegnere, componente sia della commissione per la valutazione tecnica, che di quella per la valutazione dell’anomalia delle offerte, si sarebbe trovato in una “macroscopica situazione di incompatibilità”, avendo – come chiarisce il Supremo consesso amministrativo – “egli contributo in maniera decisiva alla predisposizione degli atti di gara, come emergeva dalla delibera di indizione della gara, rivestendo il ruolo di responsabile del procedimento e gestendo il contratto stipulato a valle della gara stessa, erronee, inconferenti e non condivisibili essendo al riguardo le motivazioni addotte dai primi giudici”. I Giudici di Palazzo Spada puntualizzano, quanto alla presunta incompatibilità dell’ingegnere a far parte della commissione di gara, che se non è revocabile in dubbio che la disposizione dell’art. 84 del D. lgs. n. 163 del 2006, dettata a garanzia della trasparenza e dell’imparzialità dei procedimenti di gara, impedisca la presenza nelle commissioni di gara di coloro che abbiano svolto un’attività idonea ad interferire con il giudizio di merito sull’appalto, in grado cioè di incidere sul processo formativo della volontà che conduce alla valutazione delle offerte potendo condizionarne l’esito, d’altra parte, deve “sottolinearsi, per un verso, che tale incompatibilità deve riguardare effettivamente il contratto del cui affidamento si tratta e non può riferirsi genericamente ad incarichi amministrativi o tecnici genericamente riferiti ad altri appalti (Cons. St., sez. V, 25 luglio 2011, n. 4450; sez, III, 28 febbraio 2014, n. 942) e, per altro verso, che di tale situazione di incompatibilità deve essere fornita adeguata e ragionevole prova, non essendo sufficiente in tal senso il mero sospetto di una possibile situazione di incompatibilità (dovendo la disposizione in questione, in quanto limitativa delle funzioni proprie dei funzionari dell’amministrazione, essere interpretata in senso restrittivo)”. Ancora, nel caso in esame, non è stato in alcun modo provato che il predetto ingegnere abbia effettivamente predisposto la lex specialis di gara e/o il capitolato tecnico della gara né, tantomeno, può essere decisiva la circostanza che egli sia il funzionario responsabile dell’ufficio competente e che sia stato nominato responsabile del procedimento, qualifica che, di per sé, non determina alcuna possibilità di alterazione della gara. GMC |
Inserito in data 30/03/2015 CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 26 marzo 2015, n. 50 Bocciati ricorsi Regioni: Legge Delrio supera il vaglio di costituzionalità Con sentenza n. 50, depositata il 26 marzo scorso, la Corte Costituzionale ha rigettato i ricorsi promossi dalle Regioni Lombardia, Veneto, Campania e Puglia coi quali sono stati impugnati, complessivamente, cinquantotto commi dell’art. 1, della Legge 7 aprile 2014, n. 56 (Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni). La Corte Costituzionale, nel rigettare le articolate censure sollevate dalle Regioni, ha sottolineato che il novellato art. 114 della Costituzione, nel far riferimento, per la prima volta, all’ente territoriale “Città metropolitana”, ha imposto, alla Repubblica, il dovere della sua “concreta” istituzione. Tale esigenza costituzionale, ad avviso della Consulta, fonda la competenza legislativa statale relativa alla istituzione del nuovo ente, che non potrebbe avere modalità di disciplina (nonché di struttura) diversificate da Regione a Regione, senza con ciò porsi in contrasto con il disegno costituzionale che prevede dei livelli di governo che abbiano una disciplina uniforme, quantomeno con riferimento agli aspetti essenziali. Le Città metropolitane – istituite dalla Legge n. 56 del 2014 – sono destinate a subentrare integralmente alle omonime Province esistenti, la cui istituzione è di competenza statale. Con la Legge de qua – secondo quanto puntualizzato dalla Consulta – il Legislatore persegue l’obiettivo di realizzare una importante riforma di sistema della geografia istituzionale della Repubblica, alla luce di una semplificazione dell’ordinamento degli enti territoriali, senza, tuttavia, giungere alla soppressione di quelli previsti dalla Carta costituzionale. Secondo la Corte, la complessità dell’intervento, giustificherebbe la mancata applicazione delle regole procedurali previste dall’art. 133 della Carta costituzionale, le quali sembrano doversi riferire solo ad interventi “singolari”, nel rispetto del principio del necessario coinvolgimento delle popolazioni locali interessate. Invero, è bene chiarire che l’art. 6 dell’art. 1, Legge n. 56 del 2014, prevede espressamente “l’iniziativa dei comuni, ivi compresi i comuni capoluogo delle province limitrofe”, ai fini della adesione alla Città metropolitana, ciò comportando la conseguente facoltà di uscirne, da parte dei Comuni della Provincia omonima. Occorre aggiungere che – secondo quanto specificato dalla Consulta – anche il modello di governo di secondo grado, adottato con la Legge in parola, per le neocostituite Città metropolitane, ha superato il vaglio di costituzionalità, così come le ulteriori censurate disposizioni disciplinatorie della Città metropolitana, quali, ad esempio, quella relativa alla figura del sindaco metropolitano. Quanto al personale della Città metropolitana, la Corte Costituzionale chiarisce come l’applicazione del trattamento vigente per il personale delle Province, riguardi soltanto la prima fase del procedimento di riallocazione del personale a seguito del riordino delle funzioni attribuite agli enti coinvolti. Oltre a ciò, nella pronuncia, la Corte, successivamente all’aver ricostruito il quadro normativo de quo, ha, altresì, chiarito come nel complesso procedimento sia stata tuttavia assicurata la posizione paritaria del ruolo delle Regioni partecipanti all’accordo in Conferenza Unificata, in tal modo riuscendo ad assicurare l’osservanza del principio – certamente fondamentale – di leale collaborazione. Dunque, alla luce di quanto chiarito dalla Corte Costituzionale, le differenti censure di legittimità, sono state tutte rigettate, tra le quali anche la illegittimità della previsione dell’esercizio del potere sostitutivo straordinario dello Stato per la eventualità della mancata realizzazione della potestà statutaria delle Province e delle Città metropolitane. Sul punto, secondo quanto chiarito dalla Corte, le norme censurate, mirano ad assicurare il fondamentale principio dell’unità giuridica su tutto il territorio nazionale, con l’attuazione del nuovo assetto ordinamentale rivisto dalla stessa Legge n. 56 del 2014. Oltre a quanto specificato, la Corte chiarisce che non v’è stata alcuna violazione della competenza regionale con riferimento alle nuove disposizioni disciplinatrici delle Unioni di Comuni, poiché, tali ultime, rientrano nell’area di competenza statuale, così come, allo stesso modo, la disposizione concernente la fusione di Comuni di competenza regionale, non ha ad oggetto l’istituzione di un nuovo ente territoriale – che sarebbe tuttavia di competenza regionale – bensì l’incorporazione in un Comune esistente di un altro Comune. La Corte Costituzionale, in conclusione, si occupa anche del procedimento di fusione per incorporazione di più Comuni: secondo la Consulta, viene demandata la disciplina del referendum consultivo comunale delle popolazioni interessate proprio alle specifiche legislazioni regionali, rimettendo alle singole Regioni l’adeguamento delle stesse rispettive legislazioni. GMC |
Inserito in data 28/03/2015 TAR CALABRIA - REGGIO CALABRIA, SEZ. I, 25 marzo 2015, n. 304 Efficacia della sentenza di non luogo a procedere nel giudizio amministrativo In seno alla giurisprudenza della Corte di Cassazione, esiste un contrasto giurisprudenziale in merito al tipo di sentenza penale dibattimentale irrevocabile che, ai sensi dell’art. 654 c.p.p., sarebbe “idonea a costituire giudicato anche nel procedimento civile o amministrativo sui fatti accertati e rilevanti ai fini della decisione penale”. Secondo un primo orientamento, risalente alla sentenza n. 342 del 17 gennaio 1996 (nello stesso senso anche: sent. n. 1319 del 20 febbraio 1996, n. 9798 del 9 novembre 1996, n. 3084 del 9 aprile 1997, n. 10551 del 23 ottobre 1998), “producono effetto di giudicato nei procedimenti civili o amministrativi le sentenze dibattimentali di condanna o di assoluzione, a norma dell'art. 530 c. 1, c.p.p., con esclusione quindi delle sentenze di non luogo a procedere (art. 529 e 531 c.p.p.) stante la lettera della norma, in quanto dette sentenze, pur rientrando nel genus delle sentenze di proscioglimento, costituiscono una species diversa da quelle di assoluzione”. Il secondo indirizzo giurisprudenziale, risalente alla sentenza n. 6906 del 22 giugno 1993, afferma che “la sentenza penale, pronunziata a seguito di dibattimento, di proscioglimento per amnistia o per prescrizione, in conseguenza della concessione di attenuanti generiche prevalenti sulle aggravanti, può spiegare effetti nel giudizio civile, in ordine alla sussistenza dei fatti materiali in concreto accertati dal giudice penale, quando da questi fatti dipende il riconoscimento del diritto fatto valere in sede civile”. Il principio è stato ribadito da sentenze successive (con riferimento all'ipotesi di cui all’art. 654 c.p.p.: Cass. 8.5.2003, n. 6985; Cass. 18.4.1998 n. 3937; Cass. 13.12.1999, n. 13939 ed esteso al giudizio civile di danno da Cass. n. 3002 del 28 marzo 1994, n. 810 del 24 gennaio 1995; n. 14328 del 2 novembre 2000, ed altre), le quali affermano che “la sentenza penale, anche se formalmente di non luogo a procedere e non di assoluzione, può fare stato nel giudizio civile o amministrativo tra le stesse parti relativamente ai fatti enunciati (anche solo in motivazione), come rilevanti ai fini della decisione, poiché entrambe appartengono al genus delle sentenze di proscioglimento e poiché vi è la possibilità di coesistenza di una formula terminativa specifica espressa in termini di improcedibilità e di un accertamento di elementi di fatto i quali, in quanto essenziali per la configurazione in concreto del reato, nell'iter argomentativo del giudice penale si pongono quale indefettibile premessa per giungere alla statuizione di non doversi procedere.” (così, Cass. civ. Sez. III, 02-08-2004, n. 14770). Orbene, con la pronuncia in esame, il Tar Calabria, ritenendo di aderire a quest’ultimo orientamento, dà atto dell’efficacia di giudicato ai sensi dell’art. 654 c.p.p. di una sentenza di non luogo a procedere. EF |
Inserito in data 28/03/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 27 marzo 2015 n. 1619 Va motivato il provvedimento di esclusione dalla gara ex art. 38 lett. f) D.Lgs. 163/06 La giurisprudenza (Cons. St., sez. VI, 14 agosto 2013, n. 4174) ritiene che la disposizione contenuta nell’art. 38, lett., f), del D.Lgs. n. 163 del 2006, prevedendo che sono esclusi dalla partecipazione alla gara gli operatori economici che, secondo motivata valutazione della stazione appaltante, hanno commesso grave negligenza o malafede nell'esecuzione delle prestazioni affidate dalla stazione appaltante che bandisce la gara, contempli in realtà “…un fatto complesso che impone la distinzione tra il giudizio afferente alla fase negoziale del pregresso rapporto e il giudizio relativo all'esercizio di poteri amministrativi. Il primo giudizio è riservato all'amministrazione che, quale parte di un pregresso rapporto, può ritenere che l'altra parte abbia posto in essere, nell'esecuzione delle prestazioni, un comportamento connotato da grave negligenza o malafede. L'amministrazione potrebbe decidere di risolvere il contratto stipulato. In questo caso, qualora insorgano contestazioni, la competenza a dirimerle spetta al g.o., che esercita un controllo pieno sulle cause interne che hanno condotto alla interruzione del rapporto negoziale. Il secondo giudizio spetta anch'esso all'amministrazione che, considerati nel modo anzidetto i pregressi rapporti negoziali, adotta, nell'esercizio di un potere pubblico, la determinazione con la quale esclude una impresa da una gara ovvero annulla una aggiudicazione già disposta. Si tratta di un potere discrezionale che deve valutare se il fatto pregresso abbia concretamente reso inaffidabile l'operatore economico con possibile pregiudizio dell'interesse pubblico connesso alla realizzazione, nella specie, di determinati servizi. In questo caso, se insorgono contestazioni, la competenza a dirimerle spetta al giudice amministrativo, che esercita un controllo sulle cause esterne che hanno determinato la rottura del rapporto fiduciario al fine di accertare se esiste una figura sintomatica dell'eccesso di potere idonea a comportare l'illegittimità degli atti amministrativi. In tale prospettiva, l'interruzione della relazione fiduciaria relativa al pregresso rapporto costituisce un presupposto per l'esercizio del potere pubblico, con la conseguenza che il sindacato, come rilevato dalla Cassazione, deve limitarsi a valutare l'eventuale inesistenza o dissimulazione del presupposto stesso”. Pertanto, “se è vero che l'esclusione dalla gara pubblica, disposta ai sensi del ricordato art. 38, comma 1, lett. f), d.lgs. 12 aprile 2006 n. 163, si fonda sulla necessità di garantire l'elemento fiduciario nei rapporti contrattuali della Pubblica Amministrazione fin dal momento genetico e che a tal fine non è necessario un accertamento della responsabilità del contraente per l'inadempimento in relazione ad un precedente rapporto contrattuale, quale sarebbe richiesto per l'esercizio di un potere sanzionatorio, il provvedimento di esclusione, per un verso, non può che provenire dall’amministrazione appaltante, quale necessaria conseguenza della motivata valutazione svolta da quest’ultima in ordine alla grave negligenza o malafede nell'esercizio di prestazioni oggetto di precedenti affidamenti che abbiano fatto venir meno la fiducia nell'impresa, e per altro verso costituisce espressione di un ampio potere discrezionale, soggetto al sindacato del giudice amministrativo nei soli limiti della manifesta illogicità, irrazionalità o errore sui fatti” (Cons. St., sez. V, 21 giugno 2012, n. 3666; 22 febbraio 2011, n. 1107; 21 gennaio 2011, n. 409; sez. III, 19 aprile 2011, n. 2403). Alla luce di consolidati principi, quindi, il Consesso, con la pronuncia in epigrafe, confuta una sentenza che ha dichiarato l’illegittimità dell’ammissione alla gara di una società per violazione dell’art. 38, comma 1, lett. f), del d. lgs. n. 163 del 2006, “benché l’amministrazione appaltante non abbia mai adottato nei suoi confronti un motivato provvedimento di esclusione dalla gara fondato sulla grave negligenza o malafede nell’espletamento delle prestazioni del precedente affidamento dello stesso servizio di raccolta rifiuti”. Deve, altresì, rilevarsi che “le cause di esclusione dalla gara, anche con riferimento al possesso dei requisiti di cui all’art, 38, comma 1, lett. c), in quanto idonee a impedire e/o limitare l’esercizio della libera attività economica ed in quanto potenzialmente idonee anche ad incidere sul principio della libera concorrenza, sono tassative e non possono essere oggetto di interpretazione estensiva o analogica”. EF |
Inserito in data 27/03/2015 CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONE CIVILE SESTA BIS, SENTENZA 24 marzo 2015, n. 5891 Procedimento monitorio e provvedimenti sommari
I Giudici della Suprema Corte, con la pronuncia de qua, chiariscono che nei giudizi di opposizione ad ordinanza - ingiunzione, introdotti nella vigenza dell'art. 23 della legge 24 novembre 1981, n. 689, così come modificato dall'art. 26 del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, l'appello deve essere proposto nella forma della citazione e non con ricorso, trovando applicazione, infatti, in assenza di una specifica previsione normativa per il giudizio di secondo grado, la disciplina ordinaria di cui agli artt. 339 e seguenti del codice di procedura civile. Inoltre, è da rilevare che nello scenario appena tracciato, non trova applicazione il diverso principio, non suscettibile di applicazione al di fuori dell’ambito determinato, affermato con riguardo alla sanatoria delle impugnazioni delle deliberazioni di assemblea di condominio, spiegate mediante ricorso e senza che sia possibile rimettere in termini l'appellante. GMC
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Inserito in data 26/03/2015 CORTE DI CASSAZIONE, SESTA SEZIONE CIVILE, ORDINANZA 23 marzo 2015, n. 5804 Sulla sospensione del processo civile per pregiudizialità penale In materia di rapporto tra giudizio civile e processo penale, il processo civile può essere sospeso ove alla commissione del reato oggetto d’imputazione penale una norma di diritto sostanziale ricolleghi un effetto sul diritto oggetto di giudizio nel processo civile, e sempre a condizione che la sentenza penale possa esplicare nel caso concreto efficacia di giudicato nel processo civile. Pertanto, a rendere dipendente la decisione civile dalla definizione del giudizio penale non basta che nei due processi rilevino gli stessi fatti, ma occorre che l'effetto giuridico dedotto nel processo civile sia collegato normativamente alla commissione del reato, che è oggetto di imputazione nel giudizio penale. Ciò non accade nel caso della reintegrazione nel possesso, richiesta dal possessore nel processo civile a seguito del subito spoglio, che non è normativamente collegata alla commissione del reato di invasione di edificio, di cui si discute nel processo penale. A ciò consegue l’annullamento dell’ordinanza di sospensione del processo civile. CDC
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Inserito in data 26/03/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 25 marzo 2015, n. 1583 Omessa comunicazione di avvio del procedimento: non c’è vizio se manchi sua utilità La sentenza ribadisce che l’obbligo di comunicazione dell’avvio del procedimento, previsto dall’art. 7 l. 241/1990 non opera in maniera formalistica, essendo volto non solo ad assolvere ad una funzione difensiva a favore del destinatario dell'atto conclusivo, ma anche a consentire alla PA di avere elementi di valutazione adeguati per la formazione di una volontà completa e meditata. Il vizio dell'omissione, pertanto, non sussiste quando in realtà manchi una qualche possibile utilità della comunicazione di avvio del procedimento amministrativo: sia perché il provvedimento adottato non poteva avere altro contenuto, trattandosi di atto completamente vincolato; sia perché il soggetto inciso sfavorevolmente dal provvedimento non ha in giudizio fornito alcuna prova che, ove allora fosse stato reso edotto dell'avvio del procedimento, l'esito dello stesso avrebbe potuto essere anche in parte diverso. CDC |
Inserito in data 25/03/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 23 marzo 2015, n. 1567 Valutazione del comportamento tenuto dal concorrente in altri rapporti contrattuali Con riferimento alla causa di esclusione prevista dalla lett. f) dell’art. 38 d.lgs. n. 163/2006, il Consiglio di Stato ha già avuto modo di osservare che, pur essendo indiscutibile che “il sistema normativo non presuppone il necessario accertamento in sede giurisdizionale del comportamento di grave negligenza o malafede tenuto dall’aspirante partecipante, deve però reputarsi indeclinabile la valutazione che la stessa amministrazione abbia fatto, in sede per l’appunto amministrativa, del comportamento tenuto in altri e precedenti rapporti contrattuali dal soggetto che chiede di partecipare alla nuova procedura selettiva”. E’, pertanto, necessario che, in sede amministrativa, siano già state definitivamente accertate le condotte integranti la “grave negligenza o malafede” del contraente (cfr. le decisioni nn. 1716 del 14 aprile 2008, 296 del 27 gennaio 2010, e 1154 del 28 febbraio 2012). In sostanza, affinché la causa di esclusione in discussione possa dirsi integrata, occorre che anche il “grave errore” nell’esercizio dell’attività professionale “sia stato preventivamente accertato in sede amministrativa, non essendo sufficiente, al riguardo, la mera pendenza di un procedimento amministrativo che in un simile accertamento potrebbe sfociare nel futuro”. Del resto, con la pronuncia in esame, i Giudici di Palazzo Spada riprendono l’orientamento (decisione 22 gennaio 2015, n. 257) secondo cui costituisce “jus receptum che le valutazioni operate dalle Commissioni di gara sulle offerte tecniche presentate dalle imprese concorrenti, in quanto espressione di discrezionalità tecnica, sono sottratte al sindacato di legittimità del Giudice amministrativo, salvo che non siano manifestamente illogiche, irrazionali, irragionevoli, arbitrarie, ovvero fondate su di un altrettanto palese e manifesto travisamento dei fatti (Sez. V, 26 marzo 2014, n. 1468; 23 giugno 2014, n. 3132; III, 13 marzo 2012, n. 1409), o vengano in rilievo specifiche censure circa la plausibilità dei criteri valutativi o la loro applicazione (III, 19 gennaio 2012, n. 249)”. EF |
Inserito in data 25/03/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 23 marzo 2015, n. 1569 Autotutela e il contratto stipulato dalla P.A. nell’esercizio dell’attività privatistica Viene in rilievo un’attività meramente privatistica nel caso in cui una pubblica amministrazione disponga di immobili non direttamente connessi all'espletamento dei fini istituzionali e decida di cederli a terzi in locazione allo scopo di trarne il conseguente frutto. In quest’ipotesi, dunque, non essendo la P.A. tenuta predisporre e rispettare particolari procedure pubblicistico-concorsuali, “la giurisdizione apparterrebbe al giudice ordinario”. Ne consegue che “ogni eventuale modifica dell'accordo consensualmente raggiunto e cristallizzato nel contratto, non può di certo essere unilateralmente disposta dall'Amministrazione, attraverso un uso improprio dell'autotutela che, come è noto, costituisce un procedimento di secondo grado spendibile in presenza di poteri autoritativi”. Del resto, come costantemente precisato in via ancor più generale dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, che il Consiglio di Stato condivide, “l'amministrazione una volta concluso il contratto, è del tutto carente del potere di sottrarsi unilateralmente al vincolo che dal contratto medesimo deriva: ipotizzare che essa abbia la possibilità di far valere unilateralmente eventuali vizi del contratto semplicemente imputando quei medesimi vizi agli atti prodromici da essa posti in essere in vista dell'assunzione del predetto vincolo negoziale, equivarrebbe a consentire una sorta di revoca del consenso contrattuale (sia pure motivato con l'esercizio del potere di annullamento in via di autotutela) che la pariteticità delle parti negoziali esclude per il contraente pubblico non meno che per il contraente privato: non può dunque ammettersi che, pretendendo di adoperare il proprio potere discrezionale di autotutela per eliminare vizi in realtà afferenti (non già alle determinazioni prodromiche, in sé sole considerate, ed alle modalità procedimentali ad esse solo proprie, bensì) al contratto ormai stipulato, l'amministrazione possa spostare l'asse della giurisdizione riconducendo nell'alveo di quella amministrativa una controversia sulla validità di un contratto di diritto privato, come tale rientrante nell'alveo della giurisdizione ordinaria” ( cfr. da ultimo e per tutte Sez. Un. Ordinanza n. 22554 del 23.10.2014) . EF |
Inserito in data 24/03/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL'ADUNANZA PLENARIA - 16 marzo 2015, n. 1351 Il termine ex art 30 CPA si applica a controversie risarcitorie anteriori? Rinvio all’Adunanza Plenaria Rilevato che sull’applicabilità del termine decadenziale introdotto dall’art. 30 c.p.a. alle azioni di condanna al risarcimento del danno da lesione di interesse legittimo relative a fatti anteriori sussiste un contrasto giurisprudenziale, la quarta sezione del Consiglio di Stato ha rimesso tale questione all’Adunanza plenaria. “Più specificamente, in generale non si dubita affatto che, costituendo detto termine una novità assoluta del Codice di rito […], lo stesso non possa applicarsi sic et simpliciter retroattivamente; tuttavia, con particolare riferimento al regime delle controversie introdotte con atto successivo all’entrata in vigore del Codice medesimo è possibile individuare, nella giurisprudenza sia di primo che di secondo grado, due difformi orientamenti”. “Secondo un primo indirizzo, la novità della previsione di un termine decadenziale in precedenza sconosciuto al sistema processuale, unitamente al già richiamato principio di irretroattività della legge, dovrebbe comportare che ai fatti illeciti anteriori al 16 dicembre 2010 si applichi in toto il regime normativo anteriore, e quindi che la relativa azione risarcitoria soggiaccia unicamente al termine di prescrizione di cui all’art. 2947 cod. civ.”. Nel senso dell’ultrattività della previgente disciplina processuale deporrebbe anche il disposto dell’art. 2 dell’Allegato 3 al c.p.a. (“Per i termini che sono in corso alla data di entrata in vigore del codice continuano a trovare applicazione le norme previgenti”); invero, tale norma si riferisce alla successione tra diversi termini processuali e, perciò, a fortiori, si applicherebbe alla successione tra un termine sostanziale-prescrizionale e uno processuale-decadenziale. “Altro avviso, minoritario ma rintracciabile anche nella recente giurisprudenza di questa Sezione, assume invece che, in virtù della natura processuale della nuova previsione e in applicazione del principio tempus regit actum, sia ragionevole ritenere che, per i fatti storicamente antecedenti all’entrata in vigore del Codice, l’azione risarcitoria andasse comunque proposta nel termine di 120 giorni dalla data in cui l’innovativa disposizione è entrata in vigore”. A sostegno di quest’ultimo indirizzo, si osserva che la decadenza così introdotta è espressione della stessa ratio che giustifica il termine di decadenza riferito all’impugnabilità degli atti amministrativi (ossia l’esigenza di certezza del diritto e di stabilità dei rapporti giuridici). Inoltre, tale ricostruzione impedisce irragionevoli disparità di trattamento con controversie analoghe, ma riferite a fatti illeciti avvenuti in un momento successivo. Infine, si esclude che l’art. 2 dell’Allegato 3 al c.p.a. sia utile a risolvere tale disputa, dovendosi applicare tale norma solamente alla successione tra termini processuali (e, prima del c.p.a., l’azione risarcitoria per danno da lesione di interessi legittimi non soggiaceva ad alcun termine processuale). TM |
Inserito in data 24/03/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 23 marzo 2015, n. 1556 La posizione di “difesa attiva” propria del ricorso incidentale Con la sentenza in esame, il Consiglio di Stato chiarisce, tra l’altro, i casi in cui il controinteressato è onerato a proporre ricorso incidentale, così distinguendoli da quelli in cui il controinteressato può limitarsi a delle mere difese. Ai sensi dell’art. 42 CPA, l’onere del controinteressato di proporre ricorso incidentale è circoscritto al caso in cui questa parte intenda proporre «domande il cui interesse sorge in dipendenza della domanda proposta in via principale». Secondo l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (sentenza 7 aprile 2011, n. 4), la posizione di “difesa attiva” propria del ricorso incidentale ricomprende i casi in cui il controinteressato: «a) formula un’eccezione, eventualmente a carattere riconvenzionale; b) propone una vera e propria domanda riconvenzionale, diretta all’annullamento di un atto; c) articola una domanda di accertamento pregiudiziale, volta, comunque, ad ottenere una pronuncia che precluda l’esame del merito del ricorso principale». Ciò premesso, secondo la Quinta sezione del Consiglio di Stato, il ricorso incidentale è lo strumento processuale, tipico del giudizio impugnatorio, che consente di proporre eccezioni in senso proprio, ossia di introdurre nel giudizio fatti nuovi al fine di precludere l’accertamento di illegittimità dell’atto impugnato in via principale. “Più precisamente, una simile condotta difensiva si traduce nella contrapposta domanda di accertamento dell’illegittimità di atti amministrativi facenti parte della medesima sequenza procedimentale o comunque funzionalmente connessi a quello impugnato, che abbiano attribuito una posizione di vantaggio al ricorrente principale, legittimante quest’ultimo alla proposizione di tale impugnativa. L’onere di proporre ricorso incidentale è dunque speculare a quello di allegare i fatti costitutivi della domanda introdotta con il ricorso principale, concernendo atti la cui lesività è solo potenziale, in considerazione dell’esito finale dell’attività amministrativa, comunque favorevole, ma che si sia poi attualizzata per effetto della proposizione del ricorso principale, facendo conseguentemente sorgere l’interesse a proporre la contro impugnazione prevista dal citato art. 42 del codice del processo”. Ne consegue che il controinteressato ben può sostenere il carattere non vincolante del parere a lui sfavorevole e, perciò, la legittimità dell’operato dell’amministrazione che lo ha disatteso, senza necessità di impugnare detto parere con ricorso incidentale. TM |
Inserito in data 23/03/2015 TAR CALABRIA - REGGIO CALABRIA, SEZ. I, 10 marzo 2015, n. 215 Obbligo di provvedere, silenzio P.A. e necessità di un provvedimento espresso I Giudici calabresi forniscono un ulteriore appiglio in tema di silenzio illegittimamente serbato dalla P.A. e riguardo all’accertamento sul relativo obbligo di provvedere. In particolare, il Collegio è chiamato ad intervenire su un’istanza prospettata da un ricercatore - candidato il quale, dopo aver preso parte ad una valutazione comparativa indetta dall’Università, lamentava la chiusura dei lavori di referaggio - da parte della Commissione giudicatrice - in modo non del tutto rituale, ossia in mancanza di un provvedimento espresso – sub specie di atto rettoriale – come previsto dal relativo Bando. I Giudici, accogliendo tale doglianza, sottolineano in primo luogo la natura qualificata dell’interesse di parte ricorrente – giacchè partecipante alla selezione censurata. Sottolineano, poi, l’irritualità della chiusura del procedimento in esame, poiché conclusosi con un verbale, nel quale la Commissione aveva dato atto, sostanzialmente, di non poter scegliere nessuno dei candidati e di non potere dare seguito alla individuazione finale. E’ evidente, quindi, ad avviso del Collegio calabrese, come il suddetto procedimento selettivo avrebbe dovuto concludersi nelle forme di legge e in quelle di cui al bando; proprio quel bando con cui l’Amministrazione ha, peraltro, autovincolato la propria azione. In ragione di ciò, valorizzando anche l’interesse morale di parte istante a conoscere esattamente la determinazione, motivata ed espressa, con la quale è esitato il procedimento de quo, il Collegio ne accoglie l’istanza. Per l’effetto, i Giudici dichiarano l’illegittimità del silenzio serbato dall’Università e dispongono la chiusura de i lavori di tale procedura di valutazione comparativa, mediante adozione di provvedimento espresso. CC |
Inserito in data 22/03/2015 CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 20 marzo 2015, n. 3 Va esclusa l'impresa che non indica gli oneri di sicurezza Il Supremo Consesso amministrativo risolve, con la pronuncia in esame, la diatriba sorta in seno ai Giudici di Palazzo Spada riguardo alla possibilità che la mancata indicazione degli oneri aziendali in tema di sicurezza interna – ex art. 87 – co. 4’ - DLgs. 163/06 - Cod. De Lise e ss. mm. - possa o meno costituire causa di esclusione dalla gara anche con riguardo ai contratti pubblici relativi a lavori - come contestato da parte dell’odierna appellante. Il dibattito, sfociato nell’ordinanza di rimessione n. 88 emessa dalla Quinta Sezione del Consiglio di Stato in data 16 gennaio 2015 (Cfr. www.ildirittoamministrativo.it - Ultimissime del 21.01.15), nasce dalla dubbia lettura della suddetta norma, se in senso estensivo – e quindi applicabile a tutti i tipi di contratti pubblici, o se non ampliabile limitatamente ai contratti pubblici avente ad oggetto lavori – quale quello intercorso tra le parti dell’odierno giudizio. Si finirebbe, in tal guisa, con l’avallare la posizione della ditta appellante. La Plenaria provvede a ricostruire il confronto sorto, in seno alla giurisprudenza amministrativa, da un diverso modo di intendere i costi aziendali interni, distintamente inquadrati come propri di ciascuna impresa e concernenti i rischi legati alla realizzazione dello specifico appalto (documento di valutazione dei rischi); o, diversamente, come destinati ad attenuare i cc.dd. rischi da interferenza e, pertanto, prescrivibili a monte dalla stazione appaltante. Ad avviso di una lettura giurisprudenziale più estensiva, evidentemente aderente alla prima chiave di lettura, la ratio della norma oggi censurata - imponendo ai concorrenti di indicare già nell’offerta l’incidenza degli oneri di sicurezza aziendali, finirebbe con il rispondere ad evidenti finalità di tutela della sicurezza dei lavoratori e con il salvaguardare principi la cui rilevanza costituzionale conferma il rilievo e la necessaria, maggiore copertura paventata da tali Giudici.
Di contro, recentemente è emerso un filone giurisprudenziale altrettanto significativo (Cfr. C.d.S 2343/14; 4964/13) che, condividendo la seconda chiave di lettura dei costi aziendali, ha ritenuto la necessaria applicabilità dell’art. 87 – 4’ co. DLgs. 163/06 esclusivamente agli appalti di servizi o di forniture <
Così ricostruito il contrasto, la questione è stata prospettata in modo tale che il Massimo Collegio verifichi se, in ogni caso, la sanzione dell’esclusione debba essere comminata anche laddove l’obbligo di specificazione degli oneri non sia stato prescritto dalla normativa di gara.
L’Adunanza Plenaria risolve il quesito propendendo per il primo orientamento, di matrice estensiva.
Ritiene, infatti, che nelle procedure di affidamento relative ai contratti pubblici di lavori i concorrenti debbano indicare nell’offerta economica i costi per la sicurezza interni o aziendali.
Il Collegio ravvisa, a fondamento di un simile assunto, sia l’assenza di elementi preclusivi riguardo all’indicazione dei costi interni nelle offerte per l’affidamento di lavori; sia, ed è certamente l’aspetto più pregnante, l’opportunità di una lettura costituzionalmente orientata delle norme regolatrici della materia date dagli articoli 26, comma 6, del d.lgs. n. 81 del 2008 - in tema di sicurezza sui luoghi di lavoro - e 86, comma 3-bis, e 87, comma 4, del Codice dei Contratti pubblici.
Infatti, laddove si procedesse diversamente, i Giudici finirebbero con l’avallare una normativa contraddittoria che, incidendo negativamente sulla completezza della previsione dei costi per la sicurezza per le attività più rischiose, risulterebbe incoerente con la prioritaria finalità della tutela della sicurezza del lavoro, che ha fondamento costituzionale negli articoli 1, 2 e 4 e, specificamente, negli articoli 32, 35 e 41 della Costituzione e che, prosegue il Collegio <<trascende i contrapposti interessi delle stazioni appaltanti e delle imprese partecipanti a procedure di affidamento di contratti pubblici, rispettivamente di aggiudicare questi ultimi alle migliori condizioni consentite dal mercato, da un lato, e di massimizzare l’utile ritraibile dal contratto dall’altro>> (Cfr. Sez. V, n. 3056 del 2014).
Pertanto, prosegue il Massimo Consesso, al fine di evitare una soluzione ermeneutica irragionevole ed incompatibile con le coordinate costituzionali, si deve allora accedere ad una interpretazione degli articoli 26, comma 6, del d.lgs. n. 81 del 2008 e 86, comma 3-bis, del Codice, nel senso che l’obbligo di indicazione specifica dei costi di sicurezza aziendali non possa che essere assolto dal concorrente, unico in grado di valutare gli elementi necessari in base alle caratteristiche della realtà organizzativa e operativa della singola impresa, venendo altrimenti addossato un onere di impossibile assolvimento alla stazione appaltante, stante la sua non conoscenza degli interna corporis dei concorrenti.
In considerazione di ciò, deriva che, ai sensi dell’art. 46, comma 1-bis, del Codice, l’omessa specificazione nelle offerte per lavori dei costi di sicurezza interni configura un’ipotesi di <<mancato adempimento alle prescrizioni previste dal presente codice>> idoneo a determinare <<incertezza assoluta sul contenuto dell’offerta>>” per difetto di un suo elemento essenziale, e comporta perciò, anche se non prevista nella lex specialis, causa di esclusione del candidato che non l’abbia specificata.
Sulla base di quanto detto, l’Adunanza Plenaria desume il seguente principio di diritto: “Nelle procedure di affidamento di lavori i partecipanti alla gara devono indicare nell’offerta economica i costi interni per la sicurezza del lavoro, pena l’esclusione dell’offerta dalla procedura anche se non prevista nel bando di gara”. CC
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Inserito in data 20/03/2015 CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONE CIVILE SESTA TER, SENTENZA 17 marzo 2015, n. 5230 Medici specializzandi: omessa attuazione disciplina comunitaria La Suprema Corte, con la pronuncia de qua, interviene per affermare che laddove manchi, o ritardi, l'attuazione della disciplina comunitaria, sorge una responsabilità dello Stato Italiano, di cui può rispondere il Ministero ove convenuto anche se erroneamente, quale articolazione del Governo e della Presidenza del Consiglio dei Ministri, “quale organo di direzione della politica generale del Governo”, nel rispetto dell’art. 95 della Carta costituzionale. Specificamente, considerando il caso in questione, gli Ermellini hanno confermato la condanna dello Stato al risarcimento dei danni derivanti dalla mancata o ritardata attuazione della disciplina comunitaria in tema di organizzazione dei corsi di specializzazione medica. Dunque, è stato respinto il ricorso proposto dalla Presidenza del Consiglio dei ministri ed i Ministeri dell'Istruzione Università e Ricerca e della Salute avverso la sentenza della Corte d'Appello di Catania che, in parziale accoglimento dell'appello dei medici, ha condannato "il Ministero dell'Università e della Ricerca Scientifica ed il Ministero della salute, in persona dei rispettivi ministri pro tempore, quali articolazione del Governo della Repubblica e, per essi, la Presidenza del Consiglio dei Ministri, al pagamento, in favore dei medici della somma, per ciascuno, di Euro 30.000,00 a titolo di risarcimento dei danni per la frequenza di corsi di specializzazione presso l'Università degli Studi di Catania, nella situazione di inattuazione da parte dello Stato Italiano delle direttive CEE in merito all'organizzazione de corsi di specializzazione medica”. È da sottolineare, in particolare, che con un unico motivo di ricorso, i ricorrenti hanno sostenuto la nullità della sentenza impugnata per aver condannato la Presidenza del Consiglio dei Ministri, sebbene mai evocata in giudizio, e per aver prima escluso la legittimazione dei Ministeri convenuti e poi considerati legittimati quali articolazioni della Presidenza del Consiglio dei ministri, così rendendo una decisione illogica e contraddittoria, oltre che priva di riferimento normativo. Nonostante ciò, la Corte di legittimità ha tuttavia confermato il decisum della Corte d'appello la quale ha scrutinato il motivo di appello dei medici resistenti, con cui essi contestavano che il Tribunale di Catania, dopo avere rigettato la domanda relativa alla rivendicazione dell'efficacia autoapplicativa delle direttive comunitarie sul tema, avesse rigettato altresì la domanda risarcitoria, sulla base della considerazione secondo la quale il soggetto legittimato passivo non erano i Ministeri e l'Università degli Studi di Catania, anch’essa evocata in giudizio, bensì la Presidenza del Consiglio “quale organo di direzione della politica generale del Governo ex art. 95 Cost.”. La Corte di Catania, dunque, dopo avere condiviso l'esclusione della legittimazione dell'Università e ritenuto, altresì, che il Tribunale avesse correttamente escluso quella dei Ministeri, ha, tuttavia, ritenuto che i Ministeri fossero ormai legittimati passivi all'azione, quali articolazioni del Governo della Repubblica, non avendo, l'Avvocatura dello Stato, chiesto l'applicazione dell'art. 4 della l. n. 260 del 1958. In conclusione, i Giudici della Suprema Corte hanno, quindi, confermato l’orientamento de quo, condividendone il dispositivo di condanna; invero, l’evocazione della Presidenza del Consiglio risulta possibile in quanto i Ministeri, dei quali è stata esclusa la legittimazione come articolazioni dell'istituzione Governo, sono rimasti in giudizio come articolazioni della Presidenza del Consiglio e non avendo, l'Avvocatura Distrettuale dello Stato, ritenuto di chiedere l'applicazione dell'art. 4 della legge sopra citata. GMC
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Inserito in data 20/03/2015 TAR LAZIO - ROMA, SEZ. I TER, 9 marzo 2015, n. 3912 Stato civile: poteri del Sindaco e del Prefetto e limiti dell’Autorità giudiziaria Con la pronuncia in epigrafe, i Giudici del Tar Lazio ricostruiscono la disciplina in materia di trascrizione degli atti di matrimonio, giungendo a dichiarare l’illegittimità dei provvedimenti con i quali il Prefetto di Roma ha disposto la cancellazione delle trascrizioni, nel registro dello Stato civile di Roma, degli atti dei matrimoni contratti tra persone dello stesso sesso e celebrati all’estero.
È bene chiarire che le disposizioni del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, avente ad oggetto il regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, non prevedono competenze o poteri di annullamento o di autotutela aventi ad oggetto la trascrizione di matrimoni, bensì esclusivamente la possibilità di disporre l'annotazione di “rettificazioni” operate dall’Autorità giudiziaria. Si consideri, infatti, che atti di tal tipo non possono essere assunti neanche dal Prefetto. Tale facoltà è, dunque, inibita, dovendo il Sindaco ricorrere al giudice in tutti i casi in cui dovessero presentarsi fattispecie analoghe, fatta salva, tuttavia, l'ipotesi della rettifica di meri errori materiali.
Solo questo, infatti, rappresenta oggetto di un potere di intervento successivo pacificamente concesso ed attribuito all'Ufficiale dello stato civile. |
Inserito in data 19/03/2015 CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA, SECONDA SEZIONE, SENTENZA 11 marzo 2015 - causa C-628/13 Sull’abuso di mercato e la nozione di informazione privilegiata I Giudici europei, intervenendo in tema di intermediari finanziari, manipolazioni ed abusi del mercato, delimitano la nozione di informazione privilegiata. Più nel dettaglio, il Collegio chiarisce che “per prevenire qualsiasi abuso, le società che emettono strumenti finanziari devono comunicare al pubblico ogni informazione che sia in grado di incidere sui corsi azionari”. In guisa di ciò e considerando, altresì, che una divulgazione tempestiva e corretta delle informazioni al pubblico rafforza l’integrità del mercato e che, al contrario, la divulgazione selettiva da parte degli emittenti può solo determinare il venir meno della fiducia degli investitori nell’integrità dei mercati finanziari, la Corte di Lussemburgo tende ad evidenziare l’importanza della comunicabilità e della ostensibilità di informazioni afferenti a tali mercati, al fine di renderle il più possibile conoscibili. Un simile orientamento, peraltro, non può non risentire – proseguono i Giudici – dell’accresciuta complessità dei mezzi finanziari e di come in seno agli stessi occorra estendere, necessariamente, la portata ed il novero delle informazioni suscettibili di essere divulgate, in vista – come alcuni Autori hanno già acutamente osservato - di una maggiore efficienza e di una maggiore democraticità del sistema. Pertanto, sulla base di tali ponderazioni, la Corte europea enuncia il seguente principio di diritto: L’articolo 1, punto 1, della direttiva 2003/6/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 28 gennaio 2003, relativa all’abuso di informazioni privilegiate e alla manipolazione del mercato (abusi di mercato), e l’articolo 1, paragrafo 1, della direttiva 2003/124/CE della Commissione, del 22 dicembre 2003, recante modalità di esecuzione della direttiva 2003/6 per quanto riguarda la definizione e la comunicazione al pubblico delle informazioni privilegiate e la definizione di manipolazione del mercato, devono essere interpretati nel senso che non esigono, affinché determinate informazioni possano essere considerate come informazioni aventi carattere preciso ai sensi delle citate disposizioni, che sia possibile dedurre, con un grado di probabilità sufficiente, che l’influenza potenziale di tali informazioni sui prezzi degli strumenti finanziari in questione si eserciterà in un senso determinato, una volta che esse saranno rese pubbliche. CC |
Inserito in data 18/03/2015 CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 16 marzo 2015, n. 5160 Sul dies a quo per l’esercizio dell’azione di regresso nei confronti del datore di lavoro Con la pronuncia indicata in epigrafe, la Suprema Corte enuncia il seguente principio di diritto: “in tema di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, l'azione di regresso dell'INAIL nei confronti del datore di lavoro può essere esercitata nel termine triennale di prescrizione, che, ove non sia stato iniziato alcun procedimento penale, decorre dal momento di liquidazione dell'indennizzo al danneggiato, ovvero, in caso di rendita, dalla data di costituzione della stessa”. In particolare, i Giudici della nomofilachia mostrano di “condividere la soluzione da ultimo affermata da questa Corte con le sentenze n.ri 5134 e 5879 del 2011, che, nell'ipotesi in cui non sia stato iniziato alcun procedimento penale, hanno stabilito che il termine triennale decorre dal momento di liquidazione dell'indennizzo al danneggiato”. Al riguardo, infatti, va rilevato che l'INAIL, con l'azione di regresso prevista dal D.P.R. n. 1124 del 1965, artt. 10 ed 11, agendo contro il datore di lavoro dell'assicurato infortunato, “fa valere in giudizio un diritto proprio, nascente direttamente dal rapporto assicurativo (v., fra le altre, Cass. 2-4-1992 n. 4015, Cass. 18-10-1994 n. 8467, Cass. S.O. 16-4-1997 n. 3288, Cass. 21-1-2004 n. 970, Cass. 18-8-2004 n. 16141, Cass. 7-3-2008 n. 6212, Cass. 28-3-2008 n. 8136), spiegando un'azione nei confronti del datore di lavoro, che ha violato la normativa sulla sicurezza sul lavoro, in qualche misura assimilabile ad un'azione di risarcimento danni promossa dall'infortunato, tanto che il diritto viene esercitato entro i limiti del complessivo danno civilistico ed è funzionalizzato a sanzionare il datore di lavoro, consentendo contestualmente all'Istituto assicuratore di recuperare quanto corrisposto al danneggiato” (v. fra le altre Cass. 20-8-1996 n. 7669, Cass. 16-6-2000 n. 8196, Cass. 9-8-2006 n. 17960). Pertanto, “il diritto dell'INAIL al recupero di quanto erogato al danneggiato deve agganciarsi, per la certezza dei rapporti giuridici, alla liquidazione dell'indennizzo assicurativo che costituisce il fatto certo e costitutivo del diritto a svolgere, nel termine previsto, l'azione di regresso”. Il Collegio, quindi, ritiene che non possa darsi seguito all'indirizzo (v. Cass. n. 10950/2000) “secondo cui, in caso di mancato inizio del procedimento penale, il termine triennale decorra dal giorno in cui l'Istituto ha richiesto il risarcimento all'assicurato o ha promosso contro di questo l'azione” EF
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Inserito in data 18/03/2015 TAR CAMPANIA - NAPOLI, SEZ. IV, 17 marzo 2015, n. 1601 La deroga evocata nell'art. 35, co. 20, L. 47/85 riguarda solo le norme regolamentari Il punto di diritto sul quale si fonda la presente controversia riguarda l'esatta interpretazione dell'art. 35, comma 20 (tale essendo divenuto, per successive interpolazioni, l'originario comma 14) della legge n. 47/1985, secondo cui: "A seguito della concessione o autorizzazione in sanatoria viene altresì rilasciato il certificato di abitabilità o agibilità anche in deroga ai requisiti fissati da norme regolamentari, qualora le opere sanate non contrastino con le disposizioni vigenti in materia di sicurezza statica, attestata dal certificato di idoneità di cui alla lettera b) del terzo comma e di prevenzione degli incendi e degli infortuni". A tal uopo, la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha già avuto modo di affermare che “il rilascio del certificato di abitabilità di un fabbricato, conseguente al condono edilizio, ai sensi del citato art. 35 comma 20 l. n. 47 del 1985, può legittimamente avvenire in deroga solo a norme regolamentari e non anche quando siano carenti condizioni di salubrità richieste invece da fonti normative di livello primario, in quanto la disciplina del condono edilizio, per il suo carattere di eccezionalità e derogatorio, non è suscettibile di interpretazioni estensive e, soprattutto, tali da incidere sul fondamentale principio della tutela della salute, con evidenti riflessi sul piano della legittimità costituzionale” (Cons. Stato, sez. V, 15 aprile 2004 n. 2140; 13 aprile 1999 n. 414). Tale orientamento risulta, peraltro, del tutto coerente con quello espresso dalla Corte Costituzionale, che, con sentenza 18 luglio 1996 n. 256, ha affermato che la deroga introdotta dall'art. 35, comma 20, “non riguarda i requisiti richiesti da disposizioni legislative e deve, pertanto, escludersi una automaticità assoluta nel rilascio del certificato di abitabilità... a seguito di concessione in sanatoria, dovendo invece il Comune verificare che al momento del rilascio del certificato di abitabilità siano osservate non solo le disposizioni di cui all'art. 221 T.U. delle leggi sanitarie (rectius, di cui all'art. 4 del D.p.r. 425/94), ma, altresì quelle previste da altre disposizioni di legge in materia di abitabilità e servizi essenziali relativi e rispettiva normativa tecnica.... Permangono, infatti, in capo ai Comuni tutti gli obblighi inerenti alla verifica delle condizioni igienico-sanitarie per l'abitabilità degli edifici, con l'unica possibile deroga ai requisiti fissati da norme regolamentari”. Orbene, alla luce della giurisprudenza riportata e della lettura costituzionalmente orientata della norma, resa dalla Corte Costituzionale, appare evidente che “non è possibile ritenere che l'art. 35, comma 20, l. n. 47/1985 contenga una deroga generale ed indiscriminata alle norme che presidiano i requisiti di abitabilità degli edifici, e ciò proprio perché - come chiarito sempre dalla Corte Costituzionale con la sentenza citata (e già prima con sentenza n. 427/1995) - la detta legge intende contemperare valori tutti costituzionalmente garantiti, quali, tra gli altri, da un lato il diritto alla salute e dall'altro il diritto all'abitazione e al lavoro”. Un’interpretazione che validi una deroga "generale" alla normativa a tutela della salute, con particolare riguardo al luogo di abitazione, “si porrebbe, dunque, in contrasto non solo con l'art. 32 Cost., ma anche con quelle stesse esigenze di contemperamento tra diversi valori costituzionali, proprie della legge n. 47/1995”. Pertanto, deve ritenersi che, “mentre possono essere derogate norme regolamentari, non possono esserlo norme di legge, in quanto rispetto ad esse la deroga non è evocata nell'art. 35, comma 20”. Del resto, “l'art. 35, comma 20, l. n. 47/1985 ha inteso evitare che singole, specifiche disposizioni regolamentari - espressione di esigenze locali e comunque non attuative di norme di legge gerarchicamente sovraordinate - possano costituire, ex post, mediante il diniego del certificato di abitabilità, ostacolo al condono, e quindi alla regolarizzazione, delle costruzioni abusive, frustrando l'esigenza di "rientro nella legalità", che, per il tramite della detta legge, si è inteso attuare”. EF |
Inserito in data 17/03/2015 CORTE DI CASSAZIONE, SESTA SEZIONE PENALE, SENTENZA 10 marzo 2015, n. 10124 L’appropriazione di somme di denaro in attività di bancoposta non integra peculato L’attività di bancoposta svolta da Poste spa è di tipo privatistico, non diversamente da quella svolta dalle banche. Ne consegue che l’appropriazione di somme di risparmiatori commessa dal dipendente di Poste spa integra il reato di appropriazione indebita e non di peculato. Com’è noto, infatti, la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio deriva dall'effettivo esercizio di funzioni nell'ambito di un pubblico ufficio o servizio e l’attività bancaria delle Poste è attività di diritto privato, al pari di quella svolta delle banche. Non vi è, del resto, alcuna disposizione che preveda o lasci intendere che l'ente Poste abbia condizioni di esercizio diverse da quelle ordinarie delle banche nello svolgimento di attività di tipo bancario. Al contrario, è accuratamente disciplinato dal dpr 144/2001 il profilo del pieno distacco contabile tra le attività bancarie e le altre (non solo postali), così limitandosi qualsiasi commistione nella gestione delle provviste dell'una e dell'altra attività. Né rileva che Poste spa operi per conto della Cassa Depositi e Prestiti, essendo quest'ultima equiparabile ad un comune titolare di azioni e non operando personalmente nei rapporti con la clientela, che ha rapporti, regolati esclusivamente dal diritto civile, con Poste spa. CDC
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Inserito in data 17/03/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 17 marzo 2015, n. 1375 Indicazione degli oneri di sicurezza aziendale ed eterointegrazione del bando Gli artt. 86, comma 3-bis e 87, comma 4 del d.lgs. 163/2006, in combinato disposto con l’art. 26, comma 6 del d.lgs. 81/2008 non impongono alle imprese l'obbligo, a pena di esclusione dalla gara, di indicare gli oneri per la sicurezza aziendale. Poiché le disposizioni in esame regolano la verifica dell'anomalia dell'offerta, è in questa sede che l'obbligo di indicare (e giustificare) i costi per la sicurezza viene in rilievo, mentre risulta eccedente, rispetto al fine di consentire nella stessa sede tale verifica, pretendere che l'impresa debba indicare i costi in questione già nella propria offerta. Pertanto, non può parlarsi di eterointegrazione del bando di gara ad opera delle sopra citate disposizioni. Com’è stato affermato in giurisprudenza (Consiglio di Stato, sentenza n. 4364/2013), l’eterointegrazione può aver luogo con cautela, poiché l'inserzione automatica di clausole in tanto si giustifica in quanto occorra conformare il contenuto delle obbligazioni e di diritti nascenti da contratti già conclusi con esigenze di ordine imperativo non disponibili dai contraenti. In base a questa considerazione, è assai dubbia l’operatività del meccanismo in questione nei confronti di aspetti che concernono lo svolgimento della procedura selettiva ed in particolare le modalità con cui le imprese formulano la loro offerta. Inoltre, come affermato dal Consiglio di Stato con sentenza n. 5069/2013, l'eterointegrazione del bando di gara è configurabile in presenza di norme imperative recanti una rigida predeterminazione dell'elemento destinato a sostituirsi alla clausola difforme, ma non nei casi in cui alle parti siano affidati la determinazione del corrispettivo e dei suoi elementi. Che del potere di eterointegrazione debba essere fatto un uso prudente è confermato anche dall’indirizzo giurisprudenziale secondo cui nell’interpretazione delle clausole del bando di gara deve attribuirsi valore preminente all'interpretazione letterale, in coerenza con i principi di chiarezza e trasparenza ex art. 1 l. 241/1990, mentre devono essere escluse interpretazioni integrative contrarie al principio della prevedibilità. In particolare, non sono consentite interpretazioni volte ad enucleare significati impliciti nella normativa di gara, potenzialmente in grado di ledere l'affidamento dei terzi e il principio della massima partecipazione alla gara. CDC |
Inserito in data 16/03/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 16 marzo 2015, n. 1349 Sulla motivazione del diniego di rinnovo del permesso di soggiorno Al fine di ottenere il rilascio (o il rinnovo) del permesso di soggiorno per ricongiungimento familiare, lo straniero deve allegare l’esistenza di effettivi vincoli familiari. In mancanza di tale allegazione, la condanna, ancorché non definitiva, per il reato in materia di stupefacenti di cui all’art. 73 del d.P.R. n. 390 del 1990 integra automatica causa di legge ostativa all’ingresso nel territorio nazionale, al rilascio di permesso di soggiorno ed al suo rinnovo. Ne consegue che, ove lo straniero non abbia legami familiari nel territorio dello Stato, il diniego del rinnovo del permesso di soggiorno è motivato in modo adeguato semplicemente facendo riferimento alla predetta sentenza di condanna senza che sia necessaria una più approfondita motivazione in ordine ad elementi quali la condotta successiva, le circostanze del reato, la durata del soggiorno, l’inserimento sociale e la stabilità del rapporto lavorativo. TM |
Inserito in data 16/03/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 16 marzo 2015, n. 1358 Caratteri dell’errore di fatto revocatorio: percettivo (anziché valutativo) e decisivo La Terza Sezione del Consiglio di Stato ci ricorda che “l’errore di fatto idoneo a sorreggere il gravame per revocazione è quello che consiste in una errata percezione del contenuto degli atti del giudizio, derivante da svista o da abbaglio dei sensi che abbia indotto il giudicante a supporre l’esistenza di un fatto che non esiste oppure a considerare inesistente un fatto che risulta, invece, positivamente accertato e sempreché tale percezione sia determinante sulla pronuncia, nel senso che l’errore si riveli decisivo nella dimostrazione di un rapporto di causalità tra l’erronea supposizione e la pronuncia stessa”. “Sempre sul punto vale ricordare quanto significativamente statuito dall’Adunanza Plenaria di questo Consesso con la decisione n. 2 del 17 maggio 2010, secondo cui “l’errore di fatto che consente di rimettere in discussione il decisum del giudice con il rimedio della revocazione è quello che non coinvolge l’attività valutativa dell’organo decidente, ma tende invece ad eliminare l’ostacolo materiale frapposto fra la realtà del processo e la percezione che di questa il giudice abbia avuto, ostacolo promanante da una omessa percezione e sempreché il fatto oggetto di asserito errore non abbia costituito un punto controverso sul quale la sentenza impugnata per revocazione abbia pronunciato, dovendosi escludere che il giudizio revocatorio, in quanto rimedio eccezionale, possa essere trasformato in un ulteriore grado del giudizio””. TM |
Inserito in data 13/03/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, ORDINANZA 11 marzo 2015, n. 1236 Rimessione alla CgUE: DURC e conformità tra normativa italiana e comunitaria Con ordinanza di rimessione alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, i Giudici di Palazzo Spada intervengono in merito alla conformità, in materia di appalti, della normativa italiana in tema di DURC (Documento unico regolarità contributiva) a quella comunitaria. Specificamente, ai fini della decisione del ricorso indicato in epigrafe, si ritiene di sollevare la seguente questione pregiudiziale dinanzi alla Corte di Giustizia, ai sensi dell’art. 267 del TFUE (ex art. 234 del TCE), in relazione all’interpretazione della normativa comunitaria: “se l’art. 45 della direttiva 18/2004, letto anche alla luce del principio di ragionevolezza, nonché gli artt. 49, 56 del TFUE, ostino ad una normativa nazionale che, nell’ambito di una procedura d’appalto sopra soglia, consenta la richiesta d’ufficio della certificazione formata dagli istituti previdenziali (DURC) ed obblighi la stazione appaltante a considerare ostativa una certificazione dalla quale si evince una violazione contributiva pregressa ed in particolare sussistente al momento della partecipazione, tuttavia non conosciuta dall’operatore economico - il quale ha partecipato in forza di un DURC positivo in corso di validità - e comunque non più sussistente al momento dell’aggiudicazione o della verifica d’ufficio”. Nel caso de quo, con bando pubblicato nell’anno 2012, è stata indetta una gara per l’affidamento dei servizi di pulizia e altri servizi tesi al mantenimento del decoro e della funzionalità per gli immobili, per gli istituti scolastici di ogni ordine e grado e per i centri di formazione della Pubblica Amministrazione. In seguito, un consorzio tra soc. coop. di produzione e lavoro, presentava un’offerta con riferimento, nello specifico, a due lotti determinati; è da rilevare, che il bando imponesse, espressamente, a ciascun concorrente, e ciò a pena di esclusione, di dichiarare il possesso dei requisiti di ordine generale per la partecipazione alla gara, stabiliti dall’art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006 (Codice Appalti), sotto la rubrica “Requisiti di ordine generale”. Il consorzio indicava, in sede di offerta, le cooperative esecutrici per il caso di aggiudicazione del servizio e, tra queste, ne indicava una, la quale, rendendo le dichiarazioni ex art. 38, asseriva, altresì di “non avere commesso violazioni gravi ovvero ostative al rilascio del DURC, ai sensi dell’art. 2 comma 2 della l. 266/2002, definitivamente accertate, alle norme in materia di contributi previdenziali ed assistenziali”. Successivamente, il consorzio in questione, si classificava al primo posto della graduatoria per un lotto ed al secondo posto per l’altro lotto; tuttavia, a seguito dei controlli di rito, veniva escluso, essendo risultato che alla data del 10/9/2012, una cooperativa “non risultava in regola con il versamento dei premi assicurativi avendo omesso di versare la terza rata in regime di autoliquidazione alla scadenza del 16/8/2012 […]”. Avverso il provvedimento de quo, il consorzio proponeva impugnazione dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, facendo presente che “sebbene fosse stato omesso il versamento della terza rata del premio assicurativo per l’anno 2012, con scadenza 16 agosto 2012, il pagamento era stato poi effettuato in data 5 dicembre 2012; che inoltre non era stata attivata da parte di INAIL o di Consip la procedura per la regolarizzazione del mancato versamento; che l’irregolarità contributiva non era stata definitivamente accertata; che inoltre, in base alle retribuzioni in concreto erogate nel 2012 e sino al 10 settembre, risultavano versate somme a titolo di premio in regime di autoliquidazione, addirittura superiori rispetto a quanto dovuto; che dunque non era stata rilasciata alcuna dichiarazione non veritiera e che mancavano i presupposti per l’esclusione dalla gara e per l’escussione delle garanzie”. Il TAR respingeva, tuttavia, il ricorso, osservando che nessun obbligo incombeva su Consip, in ordine all’attivazione della procedura per la regolarizzazione del mancato versamento, nonché, evidenziava che “il requisito della regolarità contributiva avrebbe dovuto essere posseduto anche da singole consorziate esecutrici al momento di presentazione dell’offerta”. Nonostante tali osservazioni, il consorzio, nel proporre appello, puntualizzava, censurando, dunque, la diversa argomentazione utilizzata dal giudice di prime cure, che “il DURC negativo si basa sul mero riscontro del mancato pagamento nei termini della rata di un premio auto liquidato, ritardo che non potrebbe mai ritenersi violazione grave e definitivamente accertata”. Come anticipato, il Collegio, così come richiesto dalle parti, provvede, con separata ordinanza, a sollevare questione di legittimità comunitaria dinanzi alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea. Specificando, nei motivi, quanto prevede il diritto dell’Unione e, specificamente, la direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31 marzo 2004, in merito ai criteri di selezione “qualitativa” relativi alla situazione personale del candidato o dell’offerente, nonché quanto stabilisce il diritto italiano e, nello specifico, come premesso, il d.lgs. n.163 del 2006, istitutivo del Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE, il Consiglio di Stato chiarisce le infrazioni ostative al rilascio del DURC, così come definite dal Decreto del ministero del lavoro e della previdenza sociale che disciplina il DURC, del 24 ottobre 2007. Alla luce dell’art. 8, paragrafo 3, di tale ultimo decreto citato, si legge che “ai soli fini della partecipazione a gare di appalto non osta al rilascio del DURC uno scostamento non grave tra le somme dovute e quelle versate, con riferimento a ciascun istituto previdenziale ed a ciascuna Cassa edile”, nonché, si precisa, che “non si considera grave lo scostamento inferiore o parti al 5% tra le somme dovute e quelle versate con riferimento a ciascun periodo di paga o contribuzione”. Alla luce di quanto emerge dall’ordinamento italiano, e di quanto accuratamente evidenziato dai Giudici di Palazzo Spada con l’ordinanza de qua, è, ad oggi, ammesso che una impresa, semplicemente “in ritardo” nel pagamento di un modesto debito contributivo al tempo della scadenza del termine per la presentazione della domanda, sia automaticamente ed inderogabilmente esclusa dalla procedura medesima, sebbene la irregolarità sia stata subito dopo sanata e risulti, dunque, insussistente al momento della aggiudicazione. La stazione appaltante, quindi, “deve limitarsi a fotografare la situazione in un dato momento storico, in particolare coincidente con il momento di scadenza del termine per l’offerta”. Oltre a ciò, e come chiarito, dunque, dai Giudici di Palazzo Spada, “la fotografia scattata dall’istituto previdenziale al tempo della partecipazione, vincola la stazione appaltante ad escludere l’offerente se da esse emerge una irregolarità, persino ove quest’ultima non sia più attuale, e non sia oggettivamente idonea ad inficiare o compromettere l’affidabilità e la correttezza dell’impresa”. Il Collegio, valutando un possibile contrasto con l’art. 45 della direttiva 18/2004, specifica che ove ricorrano cause di obbligatoria esclusione è “consentita la verifica d’ufficio, e per le imprese straniere non è ammessa alcuna dichiarazione giurata; ove ricorrano cause di facoltativa esclusione, non è consentita la verifica d’ufficio, dovendo le stazioni appaltanti limitarsi ad “accertare” le certificazioni prodotte dai partecipanti”. Nel caso de quo, non è per nulla in discussione il termine, bensì le modalità di prova della regolarità contributiva, nonché la certezza e la ragionevolezza del sistema di verifica, poiché da un lato il DURC positivo è ritenuto “dirimente ai fini della valida partecipazione, ma dall’altro l’ordinamento non si accontenta dei contenuti del DURC in possesso dell’impresa ed ancora in corso di validità, e pretende il riscontro storico in ordine ad eventuali inadempienze alla data della partecipazione, senza possibilità di regolarizzazione”. Quindi, l’ordinamento italiano, avendo dato rilievo all’inadempimento “storico”, e non già attuale, potrebbe avere il senso di valutare l’affidabilità e la serietà dell’operatore economico alla luce del comportamento anche passato. Se è quest’ultima la ratio delle norme italiane, allora non v’è dubbio che si tratti di disposizioni che, incrementando le possibilità di esclusione, hanno come effetto quello di ridurre la possibilità di “utile partecipazione”. Il Collegio, oltre a ciò, fa leva sul recente orientamento della Corte, alla luce del quale l’interesse fiscale e contributivo può giustificare restrizione del principio di concorrenza, ai sensi degli artt. 49 TFUE e 56 TFUE, sempre che venga comunque rispettato il principio di proporzionalità. Se è pur vero che, nel caso de quo, l’ordinamento italiano, punti ad assicurare il principio di concorrenza mediante l’applicazione del principio di “pari trattamento endoconcorsuale”, il primo non dovrebbe comunque limitarsi alla meccanica parità di trattamento procedimentale, bensì dovrebbe permettere un’ampia partecipazione delle imprese interessate, consentendo alle stesse di dimostrare la serietà e l’affidabilità che ha caratterizzato il proprio comportamento fiscale, fin dall’atto della presentazione della propria candidatura. In conclusione, alla luce di quanto chiarito dal Collegio con la pronuncia in epigrafe, l’attuale normativa italiana impone all’amministrazione di rinunciare alla migliore offerta e, correlativamente, impedisce al migliore offerente di accedere alla aggiudicazione, anche ove oggettivamente non possa mettersi in dubbio, avuto “riguardo alla storia dell’imprenditore ed ai suoi comportamenti passati”, mentre, consente pacificamente l’aggiudicazione ad un imprenditore che ha sempre manifestato irregolarità ed inadempienze, purché, tuttavia, al momento dell’offerta si sia “messo in regola” coi requisiti stabiliti dal DM 24 ottobre 2007. GMC |
Inserito in data 13/03/2015 CORTE DI CASSAZIONE - TERZA SEZIONE CIVILE - ORDINANZA DI RIMESSIONE ALLE SEZIONI UNITE - 5 marzo 2015, n. 4447 Sul principio della compensatio lucri cum damno: rimessione alle Sezioni Unite La Terza Sezione Civile della Suprema Corte ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite della questione, su cui v’è un profondo contrasto, riguardante la portata del principio della c.d. compensatio lucri cum damno nell’ambito delle conseguenze risarcitorie da fatto illecito e, specificamente, in relazione alla limitazione del diritto al risarcimento del danno della vittima, o dei suoi aventi causa, in funzione del quale diritto l’assicuratore sociale o ente previdenziale può esercitare l’azione di surrogazione ad esso spettante nei confronti del responsabile civile. Nello specifico, il ricorso de quo, pone la questione dei “limiti” dell’azione di surrogazione esercitabile da un ente previdenziale di uno Stato membro, differente dallo Stato nel cui territorio si è verificato il danno, per le prestazioni previdenziali erogate alla vittima o ai suoi aventi causa. Come chiarito dagli Ermellini, trattasi di un ente tedesco di assicurazione pensionistica che ha versato agli aventi causa del proprio assicurato, un cittadino tedesco vittima di un incidente sciistico morale avvenuto in Italia, una somma a titolo di pensione di reversibilità in favore del coniuge e di rendita orfani in favore dei figli minori. Nonostante la quaestio iuris fu risolta, dal giudice del merito, in modo negativo per l’ente ricorrente, escludendo in capo a quest’ultimo il diritto di surroga, ha assunto, nella vicenda processuale, carattere assorbente rispetto alla stessa verifica della responsabilità per il sinistro mortale avvenuto nel nostro Paese. Come chiarito dai Giudici di Piazza Cavour “dovranno intendersi soltanto come virtuali i riferimenti ai concetti di fatto illecito, danno e responsabilità imposti dal preliminare scrutinio della questione in diritto”. A tal proposito, si rileva che l’art. 93 del Regolamento CEE n. 1408/1971 del Consiglio del 14 giugno del 1971, disposizione sostituita, in seguito, da quella dettata dall’art. 85 del Regolamento (CE) n. 883/2004 del Parlamento Europeo e del Consiglio, dispone che “se, in virtù della legislazione di uno Stato membro, una persona beneficia di prestazioni per un danno risultante da fatti verificatisi nel territorio di un altro Stato membro, gli eventuali diritti dell’istituzione debitrice nei confronti del terzo tenuto a risarcire il danno sono disciplinati nel modo seguente: a) quando l’istituzione debitrice è surrogata, in virtù della legislazione che essa applica, nei diritti che il beneficiario ha nei confronti del terzo, tale surrogazione è riconosciuta da ogni Stato membro”. Secondo quanto stabilito dalla Terza Sezione della Corte di Cassazione, la norma europea applicabile ratione temporis dovrebbe essere quella in vigore al momento del “pagamento” della prestazione da parte dell’ente previdenziale, ossia istituzione debitrice, momento che, tuttavia, nel caso de quo, non risulta precisato dalla sentenza impugnata o tuttavia indicato dal ricorrente. L’art. 93 richiamato, deve, dunque, essere interpretato nel senso che la surrogazione di un ente di previdenza sociale, appartenente al diritto di uno Stato membro, nei diritti che la vittima o i suoi aventi diritto hanno nei confronti dell’autore di un danno verificatosi sul territorio di un altro Stato membro e che ha comportato il versamento di prestazioni di previdenza sociale da parte di detto ente, nonché la portata dei diritti nei quali detto ente si è surrogato, sono determinate in conformità al diritto dello Stato membro cui appartiene detto ente, a condizione, tuttavia, che l’esercizio della surrogazione prevista da “tale diritto non acceda i diritti che la vittima o i suoi eventi diritto hanno nei confronti dell’autore del danno in forza del diritto dello Stato membro sul cui territorio il danno si è verificato”. Sarà, dunque, compito del giudice adito determinare e applicare le “pertinenti disposizioni della normativa dello Stato membro cui appartiene l’ente debitore, anche se tali disposizioni escludono o limitano la surrogazione di siffatto ente nei diritti che ha il beneficiario delle prestazioni nei confronti dell’autore del danno o l’esercizio di tali diritti da parte dell’ente che si è in essi surrogato”. In conclusione, in virtù di quanto evidenziato dagli Ermellini, il diritto al risarcimento del danno spettante alla vittima di un sinistro o ai suoi aventi causa, è individuato dalle norme del diritto italiano, invece, i presupposti ed i limiti dell’azione di surrogazione esercitabile dall’ente previdenziale, sono dettati dalle norme tedesche. Sarà, dunque, necessario stabilire se, in base all’ordinamento italiano, all’ambito del danno patrimoniale risarcibile a seguito di fatto illecito appartenga o meno la prestazione previdenziale indennitaria erogata a seguito dell’evento dannoso ed in funzione di sostentamento della vittima del sinistro o dei suoi aventi causa. GMC
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Inserito in data 12/03/2015 TAR CAMPANIA - SALERNO, SEZ. I, 9 marzo 2015, n. 377 Sul dies a quo per instaurare un procedimento disciplinare L’art. 9, comma 6, del D.P.R. n. 737/81 prevede che “Quando da un procedimento penale, comunque definito, emergono fatti e circostanze che rendano l’appartenente ai ruoli dell’Amministrazione della pubblica sicurezza passibile di sanzioni disciplinari, questi deve essere sottoposto a procedimento disciplinare entro il termine di 120 giorni dalla data di pubblicazione della sentenza, oppure entro 40 giorni dalla data di notificazione della sentenza stessa all’Amministrazione”. A tal proposito, gli interpreti hanno chiarito che “il termine di 120 giorni per intraprendere il procedimento disciplinare decorre solo dal momento della conoscenza piena e certa del testo integrale, dunque, comprensivo della motivazione, evidenziandosi che solo la piena conoscenza della sentenza penale, e di tutti gli elementi di giudizio ivi esposti, consente all’Amministrazione sia di supportare adeguatamente l’esercizio della discrezionalità, connessa al potere sanzionatorio, sia di effettuare una adeguata e ponderata valutazione di tutti i profili rilevanti ai fini disciplinari” ( cfr. TAR Trento, I, 22-7-2014, n. 292; Cons. Stato, I, 7-3-2014, n. 3278). Invero, “la concreta individuazione del dies a quo non può non tenere conto del valore della decisione giurisdizionale ed, in particolare, della sua portata non definitiva ovvero irrevocabile”. Di conseguenza, deve ritenersi che “la decorrenza dalla data di pubblicazione della sentenza operi per quella che ha “definito” il giudizio penale, con valore di giudicato, verificandosi tale evenienza direttamente al momento della pubblicazione ove trattasi di pronunzia di ultimo grado, mentre, nel caso in cui si tratti di sentenza di primo o di secondo grado, la suddetta condizione si verifica solo quando non siano stati esperiti i mezzi di impugnazione previsti dall’ordinamento e, dunque, la stessa sia divenuta irrevocabile”. In conclusione, deve rammentarsi che, per costante giurisprudenza, l’avvio del procedimento disciplinare si configura con la contestazione degli addebiti ( cfr. Cons. Stato, IV, 5-7-2012, n. 3948; sez.VI, 19-12-2005, n. 7172), “essendo questo il primo atto che viene portato a conoscenza del dipendente, che in tal modo viene messo in condizione di approntare le relative difese, mentre la nomina del funzionario istruttore costituisce mero atto interno che attiene ad un momento anteriore all’apertura del procedimento disciplinare”. EF |
Inserito in data 12/03/2015 TAR LAZIO - ROMA, SEZ. I TER, 9 marzo 2015, n. 3907 Nozze gay: solo il Tribunale civile può espungere le relative trascrizioni Le trascrizioni di matrimoni omosessuali celebrati all’estero possono essere espunte solo dall’Autorità giudiziaria ordinaria e non dal Prefetto in base ad una circolare del Ministero dell'Interno. L’art. 453 c.c., infatti, prescrive che "Nessuna annotazione può essere fatta sopra un atto già iscritto nei registri se non è disposta per legge ovvero non è ordinata dall'autorità giudiziaria". In particolare, il DPR n. 396/2000 (recante il Regolamento per la revisione e la semplificazione dell'ordinamento dello stato civile, a norma dell'articolo 2, comma 12, della L. 15 maggio 1997, n. 127) prevede che "Gli atti dello stato civile sono redatti secondo le formule e le modalità stabilite con decreto del Ministro dell'interno" (art. 12, comma 1); "L'ufficiale dello stato civile non può enunciare, negli atti di cui è richiesto, dichiarazioni e indicazioni diverse da quelle che sono stabilite o permesse per ciascun atto" (art. 11, comma 3); “Le annotazioni disposte per legge od ordinate dall'autorità giudiziaria si eseguono per l'atto al quale si riferiscono, registrato negli archivi di cui all'articolo 10, direttamente e senza altra formalità dall'ufficiale dello stato civile di ufficio o su istanza di parte” (art. 102, comma 1); "Gli atti dello stato civile sono chiusi con la firma dell'ufficiale dello stato civile competente. Successivamente alla chiusura gli atti non possono subire variazioni" (art. 12, comma 6). Al più, l'art. 98, del D.P.R. n. 396/2000 attribuisce all’ufficiale dello stato civile il potere di correggere, d'ufficio o su istanza di chiunque ne abbia interesse, "gli errori materiali di scrittura in cui egli sia incorso nella redazione degli atti mediante annotazione dandone contestualmente avviso al prefetto, al procuratore della Repubblica del luogo dove è stato registrato l'atto nonché agli interessati.". Ed invero, l'art. 95, comma 1, del D.P.R. n. 396/2000, stabilisce che "Chi intende promuovere la rettificazione di un atto dello stato civile o la ricostituzione di un atto distrutto o smarrito o la formazione di un atto omesso o la cancellazione di un atto indebitamente registrato, o intende opporsi a un rifiuto dell'ufficiale dello stato civile di ricevere in tutto o in parte una dichiarazione o di eseguire una trascrizione, una annotazione o altro adempimento, deve proporre ricorso al tribunale nel cui circondario si trova l'ufficio dello stato civile presso il quale è registrato l'atto di cui si tratta o presso il quale si chiede che sia eseguito l'adempimento"; mentre l'art. 109, del D.P.R. n. 396/2000, specifica che "I tribunali della Repubblica sono competenti a disporre le rettificazioni e le correzioni di cui ai precedenti articoli anche per gli atti dello stato civile ricevuti da autorità straniere, trascritti in Italia, ed a provvedere per la cancellazione di quelli indebitamente trascritti". In definitiva, dunque, “tali disposizioni non prevedono competenze o poteri di annullamento o di autotutela aventi ad oggetto la trascrizione di matrimoni, ma solo la possibilità di disporre l'annotazione di rettificazioni operate dall’Autorità giudiziaria (ex art. 69, comma 1, lett. i, del DPR n. 396/2000), come si evince dal D.M. 5 aprile 2002”, che prescrive le forme tassative di annotazione (cfr. artt. 11, comma 3, e 102, comma 1, del D.P.R. n. 396/2000) Quindi, “una trascrizione nel Registro degli atti di matrimonio può essere espunta e/o rettificata solo in forza di un provvedimento dell'Autorità giudiziaria e non anche adottando un provvedimento amministrativo da parte dell’Amministrazione centrale, neanche esercitando il potere di sovraordinazione che, effettivamente, il Ministro dell'Interno vanta sul Sindaco in tema di stato civile”. Alla luce di quanto suddetto, dunque, “solo all'Autorità giudiziaria disporre la cancellazione di un atto indebitamente registrato nel Registro degli atti di matrimonio, posto che: le registrazioni dello stato civile non possono subire variazioni se non nei limitati casi descritti e normativamente previsti in modo espresso; l'ufficiale di stato civile ha solo il potere di aggiornare i registri e di correggere gli errori materiali; ogni rettificazione o cancellazione è attribuita alla competenza dell'autorità giudiziaria ordinaria; fra le annotazioni possibili nel registro dei matrimoni non è previsto alcun atto di annullamento o di autotutela ma, solo l'annotazione della rettificazione giudiziaria”. Peraltro, tali conclusioni non mutano neanche applicando l’art. 21-nonies della L. n. 241 del 1990, mancando una norma di rango primario che, espressamente, “conferisca all’Amministrazione centrale il potere di adottare, in casi del genere, un atto di annullamento d’ufficio”. EF |
Inserito in data 11/03/2015 CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 6 marzo 2015, n. 4628 Validità del preliminare di preliminare caratterizzato da differenziazione dei contenuti Con la sentenza in esame le Sezioni Unite della Cassazione hanno risolto la questione concernente la validità del c.d. contratto preliminare di preliminare. Secondo le Sezioni Unite, deve ritenersi valido e produttivo di effetti l’accordo, denominato come preliminare, con cui i contraenti si obbligano alla successiva stipula di un altro preliminare, solo qualora emerga la configurabilità dell’interesse delle parti ad una formazione progressiva del contratto basata sulla differenziazione dei contenuti negoziali. La violazione di tale accordo, in quanto contraria a buona fede, dà luogo a responsabilità per la mancata conclusione del contratto stipulando, da qualificarsi come contrattuale per la rottura del rapporto obbligatorio assunto nella fase precontrattuale. Ciò si giustifica, anzitutto, con il fatto che, secondo la teoria della causa concreta, anche il preliminare di preliminare può avere un’utilità o razionalità ed idoneità a svolgere una funzione commisurata sugli interessi concretamente perseguiti dalle parti. Ciò avviene in una serie di casi nei quali si può avere una differenziazione tra i due contratti di cui si discute (preliminare di preliminare e preliminare vero e proprio). La sentenza cita, come esempi, il caso in cui nell’accordo raggiunto è esclusa l’applicabilità dell’art. 2932 cc, nonché quello in cui la pattuizione della doppia fase risponde all’esigenza di una delle parti di godere del diritto di recesso, ed infine quello in cui le parti potrebbero aver raggiunto un’intesa completa, subordinandola però ad una condizione. Se è vero che tali ipotesi possono presentare significative differenze, è comune a tutte che le parti hanno consapevolezza che la situazione non è matura per l’assunzione del vincolo contrattuale vero e proprio, per cui l’obbligazione assunta ha ad oggetto il contrattare, e non il contrarre. Ne segue che il rifiuto di contrattare opposto nella fase successiva, se immotivato e contrario a buona fede, dà luogo a responsabilità contrattuale da inadempimento di un’obbligazione specifica sorta nel corso della formazione del contratto, riconducibile agli “altri atti o fatti” idonei a costituire fonti di obbligazioni ex art. 1173 cc. CDC
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Inserito in data 11/03/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 10 marzo 2015, n. 1228 Sulle condizioni di risarcibilità del danno da perdita di chance Il danno da perdita di chance costituisce un danno attuale, che non si identifica con la perdita di un risultato utile, ma con quella della possibilità di conseguirlo. Esso dunque postula la sussistenza di una situazione presupposta, concreta ed idonea a consentire la realizzazione del vantaggio sperato, da valutarsi sulla base di un giudizio prognostico e statistico, fondato sugli elementi di fatto allegati dal danneggiato. Al fine di ottenere il risarcimento per perdita di chance è necessario che il danneggiato dimostri, anche in via presuntiva, la sussistenza di un valido nesso causale tra la condotta lesiva e la ragionevole probabilità del conseguimento del vantaggio alternativo perduto e provi, conseguentemente, la sussistenza, in concreto, dei presupposti e delle condizioni del raggiungimento del risultato sperato ed impedito dalla condotta illecita, della quale il danno risarcibile deve configurarsi come conseguenza immediata e diretta. CDC |
Inserito in data 09/03/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 9 marzo 2015, n. 1192 Non abusa del processo l’attore che contesta la giurisdizione se vi è un dubbio oggettivo Con la pronuncia de qua, i Giudici di Palazzo Spada esaminano la posizione del ricorrente che contesta la giurisdizione del giudice amministrativo da lui stesso adita. “Al riguardo, secondo il prevalente orientamento di questo Consiglio di Stato un simile contegno integra una violazione del divieto di abuso del processo, sanzionato con l’inammissibilità dell’eccezione di difetto di giurisdizione”. “Le Sezioni unite della Cassazione affermano invece principi parzialmente diversi. Infatti, pur avendo ripetutamente statuito che lo strumento tipico per risolvere la questione di giurisdizione prima che sia definito anche solo in parte il merito della controversia è il regolamento preventivo di giurisdizione, rispetto alla cui proposizione è pertanto legittimata anche la parte attrice o ricorrente […], nondimeno, in una recente pronuncia le stesse Sezioni unite hanno escluso che il divieto di abuso del processo sia violato dalla parte che abbia contestato la giurisdizione amministrativa da lui stesso adita, mediante motivo d’appello ai sensi dell’art. 9 del codice del processo di cui al d.lgs. n. 104/2010, in una controversia in cui il dubbio obiettivamente si poneva ed in relazione alla quale scaturiva quindi una «necessità di chiarimento sulla questione di giurisdizione» (sentenza 19 giugno 2014, n. 13940)”. Il Consiglio di Stato ritiene di dover accogliere quest’ultimo orientamento. Pertanto, reputando che il ragionevole dubbio sulla giurisdizione nel caso in esame vi sia, esclude che l’eccezione relativa al difetto di giurisdizione integri un abuso del processo e la dichiara ammissibile. Anzi, esaminata la questione di giurisdizione, i Giudici di Palazzo Spada indicano il giudice ordinario quale giudice munito di giurisdizione nella presente controversia (relativa a una procedura selettiva per l’affidamento in subconcessione). TM |
Inserito in data 09/03/2015 CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, ORDINANZA 4 marzo 2015, n. 2 È incostituzionale la non revocabilità delle sentenze del GA in contrasto con la CEDU? Con l’ordinanza in esame, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato solleva la questione di legittimità costituzionale degli artt. 106 c.p.a. e 395 e 396 c.p.c. in relazione agli artt. 117 comma primo, 111 e 24 Cost “nella parte in cui non prevedono un diverso caso di revocazione della sentenza quando ciò sia necessario, ai sensi dell'art. 46 par. 1, della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell'uomo”. Ad avviso dei Giudici di Palazzo Spada, tale questione di costituzionalità non è manifestamente infondata. Infatti, per un verso, non contemplando tra i casi di revocazione quella che si renda necessaria per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell'uomo, gli artt. 106 c.p.a. e 395 e 396 c.p.c. appaiono in contrasto con l'art 46 CEDU (che, invece, sancisce tale obbligo per gli Stati aderenti), nonché con gli artt. 24 e 111 Cost. (che garantiscono l’ azionabilità delle posizioni soggettive e l’equo processo). Per altro verso, le norme interne incompatibili con la Convenzione europea dei diritti dell’Uomo non sono autonomamente disapplicare. “Alla CEDU è riconosciuta un'efficacia intermedia tra legge e Costituzione, volta ad integrare il parametro di cui all'art. 117 co.1 Cost. che vincola i legislatori nazionali, statale e regionali, a conformarsi agli obblighi internazionali assunti dallo Stato. Tale posizione non muta anche a seguito dell'entrata in vigore del Trattato di Lisbona che all'art. 6 prevede una adesione dell'Unione Europea alla Convenzione CEDU”. Infine, nel caso di specie, il contrasto tra le norme processali interne e quelle convenzionali non può essere risolto tramite un'”interpretazione adeguatrice”. “Basti dire che i casi di revocazione delle sentenze amministrative ammessi dal nostro ordinamento sono tassativamente elencati dal combinato disposto degli artt. 106 c.p.a. e 395 e 396 c.p.c. Un’interpretazione volta ad ammettere un ulteriore caso di revocazione quale quello di cui qui si discute non è configurabile alla stregua di alcun canone ermeneutico e comporterebbe un intervento oltremodo creativo del giudice tale da usurpare il ruolo spettante al Legislatore o al Giudice delle leggi”. TM |
Inserito in data 06/03/2015 TAR LAZIO - ROMA, SEZ. I TER, 3 marzo 2015, n. 3670 Sul conferimento degli incarichi dirigenziali Il Tar Lazio, con la pronuncia in epigrafe, stabilisce che al giudice amministrativo compete di conoscere le controversie aventi ad oggetto gli avvisi pubblici finalizzati al reperimento di “professionalità esterne”, ma non anche i provvedimenti di attribuzione di incarichi dirigenziali, i quali hanno natura privatistica. Spetta al giudice amministrativo, dunque, decidere le controversie aventi ad oggetto la scelta dell’Amministrazione di rivolgersi all’esterno per la copertura degli incarichi dirigenziali, nonostante, nel caso di specie, fossero rinvenibili, all’interno dell’Amministrazione medesima, professionalità idonee allo svolgimento di tali compiti. Ciò in quanto, in casi del genere, è contestata la scelta discrezionale di non conferire a personale interno all’Amministrazione regionale gli incarichi in questione, affidandoli a personale esterno con “atti di macro organizzazione”, dinnanzi ai quali i ricorrenti vantano una posizione di interesse legittimo alla correttezza della procedura di adozione dello stesso. Nel caso di specie, quindi, la giurisdizione spetta al giudice amministrativo, come premesso, in quanto i ricorrenti hanno impugnato, in via principale, gli atti di c.d. macro – organizzazione coi quali la Regione Lazio ha deciso di rivolgersi all’esterno per il conferimento di incarichi dirigenziali. Si precisa, altresì, che ai fini del conferimento degli incarichi dirigenziali, l’art. 19 del d.lgs. n. 165/2001, stabilisce che gli incarichi dirigenziali a soggetti esterni all’Amministrazione possono essere conferiti: - fornendone esplicita motivazione; - rendendo conoscibili al personale interno il numero, la tipologia e i criteri per l’affidamento degli incarichi; - dopo aver accertato che la professionalità richiesta non sia rinvenibile nei ruoli dell’Amministrazione. L’impossibilità di rinvenire professionalità nei ruoli dell’Amministrazione, deve intendersi nel senso che la ricerca all’esterno deve seguire l’accertamento del possesso dei requisiti richiesti in capo a soggetti già appartenenti ai ruoli dell’Amministrazione e, dunque, anche tra i funzionari direttivi di categoria D, in caso di vacanza in organico di personale dirigenziale. GMC |
Inserito in data 06/03/2015 CORTE DI CASSAZIONE - TERZA SEZIONE CIVILE - SENTENZA 3 marzo 2015, n. 4230 Sulla risoluzione del contratto di mutuo Con la pronuncia de qua, i Giudici di legittimità chiariscono che la risoluzione dei contratti di mutuo, nella specie conseguente alla notifica dell’atto di precetto, obbliga il mutuatario all’integrale pagamento delle rate già scadute, nonché alla immediata restituzione della quota di capitale ancora dovuta, ma non al pagamento degli interessi conglobati nelle semestralità a scadere, dovendosi invece calcolare, sul credito così determinato, gli interessi di mora ad un tasso corrispondente a quello contrattualmente pattuito, se superiore al tasso legale, secondo quanto stabilito dall’art. 1224, primo comma, del codice civile. In passato, gli Ermellini, hanno affermato che con l’entrata in vigore del d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385 (t.u.b.) (secondo il quale qualsiasi ente bancario può esercitare operazioni di credito fondiario la cui provvista non è più fornita attraverso il sistema delle cartelle fondiarie), la struttura di tale forma di finanziamento, ha perso quelle peculiarità nelle quali risiedevano le ragioni della sottrazione al divieto di anatocismo di cui all’art. 1283 cod. civ., rinvenibili nel carattere pubblicistico dell’attività svolta dai soggetti finanziatori (essenzialmente istituti di diritto pubblico) e nella stretta connessione tra operazioni di impiego e operazioni di provvista”. Dunque, a ciò ne consegue, secondo quanto puntualizzato dai Giudici di Piazza Cavour, “che l’avvenuta trasformazione del credito fondiario in un contratto di finanziamento a medio e lungo termine garantito da ipoteca di primo grado su immobili, comporta l’applicazione delle limitazioni di cui al citato art. 1283 cod. civ. e che il mancato pagamento di una rata di mutuo non determina più l’obbligo (prima normativamente previsto) di corrispondere gli interessi di mora sull’intera rata, inclusa la parte rappresentata dagli interessi corrispettivi, dovendosi altresì escludere la vigenza di un uso normativo contrario”. GMC
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Inserito in data 05/03/2015 TRIBUNALE REGIONALE DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA DI TRENTO, SEZ. UNICA, 11 febbraio 2015, n. 49 Concessioni di un bene pubblico demaniale e profili di giurisdizione Il Collegio amministrativo trentino esamina, con la pronuncia in epigrafe, la delicata questione del riparto di giurisdizione in tema di concessioni amministrative di beni demaniali. Nella specie, i Giudici intervengono su una vicenda avente ad oggetto la risoluzione di un contratto di concessione riguardante una cava, gravata da uso civico, e le conseguenze patrimoniali e risarcitorie inevitabilmente scaturite dall’avvenuta sospensione di tale vincolo. A fronte dell’eccepito difetto di giurisdizione amministrativa, sollevato dal concessionario ricorrente, il Collegio punta l’attenzione sulle situazioni giuridiche soggettive discese da un simile rapporto e, segnatamente, compie un’attenta ricostruzione riguardo al Giudice di fatto competente. Pertanto, prendendo spunto dal noto insegnamento della Suprema Corte, il Tribunale trentino ricorda come la giurisdizione si determini non solo e non tanto in funzione della concreta statuizione che si chiede al Giudice, ma anche, e soprattutto, in ragione della causa petendi, ossia della oggettiva natura della situazione soggettiva giuridicamente tutelata dedotta in giudizio, e individuata con riguardo ai fatti allegati e al rapporto giuridico di cui essi sono rappresentazione (Cfr., ord. 20.11.2013, n. 26032; 27.2.2012, n. 2926). Quindi, partendo da tale affermazione basilare ed applicandola al caso specifico, il Giudice trentino distingue l’ipotesi in cui le controversie prospettate dal ricorrente abbiano ad oggetto asseriti inadempimenti di obblighi nascenti dalla concessione in esame. In questo caso, allorché si ponga in discussione il rapporto sia nel suo momento genetico, che in quello funzionale (cfr., in termini, Cass.Civ., SS.UU., 9.1.2013, n. 306; 24.5.2007, n. 12065) e, quindi, la doglianza riguardi l’attività svolta dall’Amministrazione concedente anche in via mediata, la cognizione non può che spettare all’Autorità giurisdizionale amministrativa. Invece, limitatamente alle altre istanze, aventi ad oggetto l’accertamento della congruità del canone concessorio o la relativa quantificazione, è necessario rimettere la questione dinanzi al Giudice Ordinario. Il Collegio trentino, pertanto, interviene ex art. 11 del c.p.a., disponendo che, limitatamente a tali ultime pretese, aventi un’indole negoziale e quindi paritetica, il processo debba essere riassunto davanti al Giudice Ordinario, restando salvi gli effetti processuali e sostanziali della domanda avanzata nella presente sede, ove la stessa sia riproposta entro il termine perentorio di tre mesi dal passaggio in giudicato della presente sentenza. CC |
Inserito in data 05/03/2015 CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA, TERZA SEZIONE - SENTENZA 4 marzo 2015, Causa C - 534/13 Precauzione, responsabilità limitata e normativa compatibile con il diritto UE Per i Giudici di Lussemburgo è compatibile con i principi del "chi inquina paga", di precauzione e dell'azione preventiva e della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all'ambiente – ex articolo 191, paragrafo 2 - primo comma - TFUE, la normativa italiana che, nella specie, esonera da responsabilità i proprietari di siti inquinati che non siano però fautori della contaminazione. In particolare, ad avviso della Corte UE, è legittima la previsione secondo cui ad essi non può essere chiesta l'esecuzione delle «misure di prevenzione e di riparazione», essendo tenuti soltanto al rimborso delle spese di bonifica nel limite massimo del valore di mercato del sito (determinato dopo l'esecuzione degli interventi). Infatti, ferma restando l’indole spiccatamente preventiva, propria del diritto europeo in tema di salvaguardia dell’ambiente e del territorio, è altrettanto indubbio che non si possa adoperare lo schermo della responsabilità civile per ogni tipo di danno. Ricorda il Giudice europeo che, in ipotesi simili – quali quelle in cui il proprietario del suolo non sia al contempo l’autore della contaminazione, è carente il nesso di causalità tra la condotta e il danno e, pertanto, risulta insufficiente la ricostruzione dell’illecito civile e delle relative conseguenze in sede risarcitoria. La responsabilità di tale soggetto, in sostanza, sarebbe fondata unicamente sulla sua qualità di proprietario, non potendo essergli attribuita la contaminazione né in via soggettiva, né in via oggettiva. Di conseguenza, la Corte di Lussemburgo ha escluso la possibilità che le Amministrazioni possano imporre l'esecuzione delle misure di prevenzione e di riparazione al proprietario di tale sito, non responsabile della contaminazione, potendo chiedergli solo il rimborso delle spese relative agli interventi effettuati dalle Autorità competenti. CC
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Inserito in data 04/03/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 2 marzo 2015 n. 1017 Sulla mancanza di un atto formale di conferimento della funzione di Direttore Generale Con la pronuncia in esame, il Consiglio di Stato riprende il principio secondo cui “il rapporto di pubblico impiego non è assimilabile a quello di lavoro privato; l’attribuzione delle mansioni e del corrispondente trattamento devono avere il loro presupposto indefettibile nel provvedimento di nomina o di inquadramento, non potendo detti elementi essere oggetto di libere o arbitrarie determinazioni dei funzionari amministrativi” (Cons. Stato, V, 30.10.1997, n. 1219). In particolare, “nel pubblico impiego, è la qualifica e non le mansioni il parametro al quale la retribuzione è inderogabilmente riferita, essendo la pubblica amministrazione sottoposta a rigide regole di tipo organizzativo, funzionali alla regola costituzionale del buon andamento e collegate ad esigenze primarie di bilancio pubblico”. Ne discende che, almeno fino all’entrata in vigore del decreto legislativo n. 387 del 1998, deve applicarsi “il principio della irrilevanza giuridica ed economica dello svolgimento di mansioni superiori nell’ambito del pubblico impiego” (v., in tal senso, A.P. n. 3/2006). Pertanto, per le fattispecie anteriori al 1998 e in assenza di un atto formale di conferimento, il dipendente con qualifica dirigenziale non ha titolo per esigere che il suo stato giuridico sia equiparato alla posizione funzionale superiore che temporaneamente riveste, quella di Direttore Generale. Del resto, la L. 20.3.1975, n. 70 distingue la dirigenza (artt. 18 e 19) rispetto alla funzione del Direttore generale (art. 20) e così anche i relativi procedimenti di nomina. In conclusione, quindi, l’attribuzione temporanea delle funzioni di Direttore Generale, “siccome espressione di un dovere istituzionale gravante in capo al sostituto, è compresa tra quelle astrattamente esigibili rispetto alla qualifica di appartenenza del titolare della posizione funzionale inferiore e, per risalente giurisprudenza, non dà titolo alla variazione del trattamento economico” ( C.d.S. Ad. Pl., 4 settembre 1997, n.20 e 16 maggio 1991, n.2). EMF |
Inserito in data 04/03/2015 CORTE DI CASSAZIONE, SECONDA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 2 marzo 2015, n. 4169 Sul contratto per persona da nominare Con la pronuncia in esame, la Suprema Corte precisa che “nel contratto per persona da nominare la riserva della nomina del terzo determina una parziale indeterminatezza soggettiva del contratto, ovvero una fattispecie di contratto a soggetto alternativo”. In particolare, a “seguito dell'esercizio del potere di nomina, il terzo subentra poi nel contratto e, prendendo il posto della parte originaria, acquista i diritti ed assume gli obblighi correlativi nei rapporti con l'altro contraente, con effetto retroattivo, con la conseguenza che deve essere considerato fin dall'origine unica parte contraente contrapposta al promittente ed a questo legata dal rapporto costituito dallo stipulante”. Invero, il tratto peculiare del contratto per persona da nominare è dato proprio “dal subentrare nel contratto di un terzo - per effetto della nomina e della sua contestuale accettazione - che, prendendo il posto del contraente originario (lo stipulante), acquista i diritti ed assume gli obblighi correlativi nei rapporti con l'altro contraente (promittente) determinando, inoltre, la contemporanea fuoriuscita dal contratto dello stipulante, con effetto retroattivo, per cui il terzo si considera fin dall'origine unica parte contraente contrapposta al promittente e a questa legata dal rapporto costituito dall'originario stipulante (Cass. 1995 n. 3115). Ma il tutto avviene a condizione che vi sia stata una tempestiva e valida electio amici, restando altrimenti applicabile il chiaro disposto dell'art. 1405 cod. civ. ”. Pertanto, “la mancata, tardiva (o invalida) indicazione del terzo non può che determinare, ai sensi dell'art. 1405 cod. civ., l'effetto di consolidare il contratto in capo all'originario contraente, salvo che non siano intervenute altre diverse vicende contrattuali”. EMF
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Inserito in data 03/03/2015 TAR LAZIO - ROMA, SEZ. I TER, 2 marzo 2015, n. 3461 Sul diritto di accesso agli atti endoprocedimentali dell’informativa antimafia Il Tribunale di merito ha ritenuto illegittima la decisione con la quale l’Amministrazione ha accolto solo parzialmente la richiesta di accesso agli atti di un’informativa antimafia, negandola per tutti quegli atti endoprocedimentali che, contenendo informazioni fornite dagli Organi di Polizia, vengono ricondotti nella categoria dei documenti inaccessibili ai sensi dell'art. 3 del D.M 415/94, regolamento attuativo dell'art. 24 comma 2 della legge n. 241/1990. Secondo il Tribunale di primo grado, infatti, la legge n. 241/1990 <<garantisce il diritto di accesso - a coloro che sono legittimati in tal senso ed hanno interesse ad ottenere gli atti richiesti - anche in caso di limiti all'ostensione, posto che l'art. 24 della citata legge del 1990, oltre ad individuare i limiti all'accesso, prevede che lo stesso "... deve comunque essere garantito ai richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici ...">>. Inoltre, anche a voler ritenere sussistenti delle esigenze di segretezza, peraltro non specificate nel provvedimento amministrativo, si ritiene che gli interessi contrapposti, quello della segretezza e quello del diritto di difesa, avrebbero potuto trovare un temperamento, ad esempio, attraverso tecniche di mascheramento, senza arrivare sino al punto di negare l’accesso a documenti necessari per la difesa di un interesse attuale, effettivo e concreto. VA |
Inserito in data 02/03/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 2 marzo 2015, n. 992 Affidamento diretto di un servizio a società mista: gara a doppio oggetto L’affidamento diretto di un servizio a una società mista non è incompatibile con il diritto comunitario, a condizione che la gara per la scelta del socio privato sia espletata nel rispetto dei principi del diritto europeo (in particolare, dei principi di parità di trattamento, di non discriminazione e di trasparenza) e che i criteri di scelta del socio privato si riferiscano non solo al capitale da quest'ultimo conferito, ma anche alle capacità tecniche di tale socio e alle caratteristiche della sua offerta in considerazione delle prestazioni specifiche da fornire (c.d. gara a doppio oggetto). CDC |
Inserito in data 02/03/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 2 marzo 2015, n. 994 Sulle condizioni per l’esercizio dell’azione di annullamento L’azione di annullamento proposta innanzi al giudice amministrativo è subordinata alla sussistenza di tre condizioni: a) la titolarità di una posizione giuridica, in astratto configurabile come interesse legittimo, inteso come posizione qualificata – di tipo oppositivo o pretensivo – che distingue il soggetto dal “quisque de populo” in rapporto all’esercizio dell’azione amministrativa; b) l’interesse ad agire, ovvero la concreta possibilità di perseguire un bene della vita, anche di natura morale o residuale, attraverso il processo, in corrispondenza ad una lesione diretta ed attuale dell’interesse protetto, a norma dell’art. 100 cpc; c) la legittimazione attiva o passiva di chi agisce o resiste in giudizio, in quanto titolare del rapporto controverso dal lato attivo o passivo. Dunque, la mera titolarità di un interesse protetto (di tipo sia oppositivo che pretensivo) non giustifica l’azione giudiziale, quando tale interesse non sia concretamente leso dall’atto, di cui si chiede la rimozione dal mondo giuridico, a fini di reale perseguimento di un bene della vita. Per questo, è esclusa l’impugnabilità di atti regolamentari o di provvedimenti amministrativi a carattere generale, quando la lesione possa scaturire non direttamente dagli stessi, ma solo da atti esecutivi non già preordinati e vincolati. CDC |
Inserito in data 28/02/2015 TAR LAZIO - ROMA, SEZ. I TER, 23 febbraio 2015, n. 3136 Insussistenza giurisdizione G.A. per atti di assunzione di personale Alla luce del dettato dell’art. 7, comma 1, c.p.a., la giurisdizione generale di legittimità del g.a. sussiste di fronte ad un atto che sia adottato: a) da una Pubblica Amministrazione; b) nell’esercizio di un potere amministrativo. Non v’è dubbio che, nel caso de quo, la S.p.A. in questione non rientri nell’elenco delle pubbliche amministrazioni di cui all’art.1, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001. Essa, invero, è una società per azioni di diritto privato, non rilevando in contrario la circostanza di essere partecipata con capitali pubblici e di essere soggetta a varie forme di controllo ed indirizzi pubblici. Proprio per tale sua natura, la Società suddetta non esercita potere amministrativo. Rispetto alla Società, infatti, non può assumere alcuna rilevanza la previsione di cui all’art.7, comma 2, c.p.a., che estende la portata della giurisdizione amministrativa nei confronti dei soggetti che siano comunque “equiparati” alle Pubbliche Amministrazioni, stante la sua natura di S.p.A, così come più volte ribadito dalla Suprema Corte, a Sezioni Unite. Oltre a ciò, non varrebbe a far attrarre la giurisdizione dinnanzi al g.a. la circostanza che, nel caso de quo, si ricadrebbe nella materia del rapporto di lavoro alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni. A tal proposito, l’art. 63, comma 4, del d.lgs. 165 del 2001, attribuisce al g.a. la giurisdizione per “le controversie in materia di procedure concorsuali per l’assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni”. Anche in questo caso, verrebbe a mancare il “requisito soggettivo” della qualificazione come Pubblica Amministrazione del soggetto i cui atti vengono censurati, senza contare che ivi si contesta la mancata assunzione del ricorrente come dirigente e, dunque, il mancato conferimento di incarico dirigenziale. Inoltre, proprio rispetto a tali atti, la giurisdizione del g.a. recede comunque di fronte a quella del giudice ordinario. Dunque, il ricorso, nel caso de quo, è inammissibile per difetto di giurisdizione. GMC |
Inserito in data 28/02/2015 CORTE DI CASSAZIONE - PRIMA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 19 febbraio 2015, n. 3340 Sul “plagio parziale”: diritto di utilizzazione di un’opera intellettuale I Giudici della Suprema Corte, con la pronuncia in epigrafe, intervengono al fine di chiarire la portata del c.d. “plagio parziale”. Nel caso de quo, i titolari del diritto di utilizzazione di un’opera intellettuale, trattasi, nella fattispecie in esame, del testo di una canzone, hanno adito il giudice di merito per ottenere l’interdizione dell’uso di parte della canzone da parte dell’interessato e sentir pronunciare verdetto di plagio. La Suprema Corte, nonostante il ricorso sia stato respinto, ha comunque chiarito la questione in esame, soffermandosi, come anticipato, sul c.d. plagio parziale, il quale si verifica in tutti i casi in cui, ad esser colpita da plagio, sia soltanto una parte dell’opera, e non già necessariamente l’opera nel suo complesso. Specificamente, secondo gli Ermellini, al fine di integrare il plagio, non è necessario che esso si rivolga all’opera nella sua “totalità”, bensì potrebbe anche limitarsi al c.d. “cuore dell’opera”, purché essa assuma, nella nuova opera artistica, un ruolo non diverso o comunque simile a quello dell’opera che si assume plagiata. La Suprema Corte enuncia, dunque, il principio di diritto, sottolineando che “in tema di plagio di un'opera musicale, un frammento poetico-letterario di una canzone che venga ripreso in un'altra non costituisce di per sé plagio, dovendosi accertare, da parte del giudice di merito, se il frammento innestato nel nuovo testo poetico-letterario abbia o meno conservato una identità di significato poetico-letterario ovvero abbia evidenziato, in modo chiaro e netto, uno scarto semantico rispetto a quello che ha avuto nell'opera anteriore”. GMC
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Inserito in data 26/02/2015 CORTE DI CASSAZIONE, TERZA SEZIONE CIVILE - SENTENZA 20 febbraio 2015, n.3384 Fauna selvatica e responsabilità della Regione – ex art. 2043 cod. civ. Il Collegio di piazza Cavour chiarisce e delimita la competenza e la conseguente ripartizione del regime di responsabilità, tra Regioni e Province, in tema di fauna selvatica. Quest’ultima, infatti, pur rientrando nel patrimonio indisponibile dello Stato, è attribuita – limitatamente ai poteri di gestione, tutela e controllo, alle Regioni che, a propria volta, possono demandare relative competenze – a livello amministrativo - alle Province. Una simile suddivisione, operata dalla L. 11 febbraio 1992, n. 157, è stata “fuorviata” nel caso in esame in cui la Corte d’Appello, riformando la pronuncia del Giudice di primo grado, aveva sancito il difetto di legittimazione passiva della Regione appellante ed aveva condannato l’Amministrazione provinciale a risarcire il danno causato ad un veicolo, a seguito del passaggio – lungo la carreggiata – di un animale selvatico. I Giudici di legittimità, con la pronuncia in esame, ripercorrono quanto già statuito in altri precedenti relativi a casi simili e, ribaltando la decisione espressa in secondo grado, statuiscono il seguente principio di diritto: 'Sebbene la fauna selvatica rientri nel patrimonio indisponibile dello Stato, la legge 11 febbraio 1992, n. 157 attribuisce alle Regioni a statuto ordinario il potere di emanare norme relative alla gestione ed alla tutela di tutte le specie della fauna selvatica (art. 1, comma 3) ed affida alle medesime i poteri di gestione, tutela e controllo, riservando invece alle Province le relative funzioni amministrative ad esse delegate ai sensi della legge 8 giugno 1990, n. 142 (art. 9, comma 1). Ne consegue che la Regione, anche in caso di delega di funzioni alle Province, è responsabile, ai sensi dell'art. 2043 c. c., dei danni provocati da animali selvatici a persone o a cose, il cui risarcimento non sia previsto da specifiche norme, a meno che la delega non attribuisca alle Province un'autonomia decisionale ed operativa sufficiente a consentire loro di svolgere l'attività in modo da poter efficientemente amministrare i rischi di danni a terzi e da poter adottare le misure normalmente idonee a prevenire, evitare o limitare tali danni'. CC
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Inserito in data 26/02/2015 TAR TOSCANA - FIRENZE, SEZ. II, 3 febbraio 2015, n. 208 Sinistro stradale e idoneità tecnica della patente di guida: non vi è automatismo I Giudici fiorentini non condividono il provvedimento con cui gli Uffici della Motorizzazione civile, a seguito di un grave sinistro occorso all’odierna ricorrente, ne disponevano automaticamente la revisione della patente di guida mediante nuovo esame di idoneità tecnica. Infatti, ad avviso del Collegio, peraltro conformatosi a numerosi precedenti in merito, non si ritiene che il mero fatto inerente l'accadimento del sinistro possa essere considerato un presupposto sufficiente ex se a giustificare un ragionevole dubbio in ordine alla permanenza dei necessari requisiti di idoneità, ove tale conclusione non sia sorretta da un'idonea motivazione, fondata su elementi soggettivi e definitivamente accertati che caratterizzino la singola fattispecie. (Cfr. T.A.R. Calabria, Catanzaro, sez. II 29 ottobre 2013 n. 988; T.A.R. Puglia Lecce, sez. I, 9 settembre 2013 n. 1848; T.A.R. Marche 11 luglio 2013 n. 566). Pertanto, in forza di tale, negato automatismo, i Giudici accolgono la domanda annullatoria del provvedimento censurato dalla ricorrente, ritenendolo carente in punto di motivazione ed espressione di eccesso di potere da parte dell’Amministrazione. Il Collegio si ritrova, tuttavia, a dover respingere la domanda risarcitoria avanzata dall’istante, data la mancata prova in giudizio del danno sofferto. CC |
Inserito in data 25/02/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 23 febbraio 2015, n. 883 Sul potere legislativo in materia di competenze professionali dei geometri Il Consiglio di Stato, accogliendo il ricorso presentato dall’Ordine degli Ingegneri, ha annullato la delibera comunale con la quale veniva ricondotta nell’ambito della competenza professionale dei geometri la progettazione e la direzione dei lavori di modeste costruzione da realizzarsi con l’impiego di cemento armato.
La Suprema Corte, infatti, dichiarata la legittimazione ad agire da parte degli ordini professionali per la tutela di posizioni soggettive proprie o di interessi unitari della collettività rappresentata, dopo aver ricordato che ai sensi dell’art. 117 comma 3 della Costituzione la materia delle professioni rientra nella legislazione concorrente tra Stato e Regioni, ha richiamato il principio di diritto, più volte enunciato dalla Corte Costituzionale, secondo il quale <<la potestà legislativa regionale nella materia concorrente delle professioni (…) è riservata allo Stato, potendo la potestà legislativa regionale disciplinare quei soli aspetti che presentano uno specifico collegamento con la realtà regionale>> (Corte Cost. 178/14), mentre <
Con particolare riferimento alla disciplina dell’attività dei geometri e degli ingegneri, oggetto della controversia sottoposta all’esame del Consiglio di Stato, viene, inoltre, richiamata quella giurisprudenza che, in applicazione della disciplina di settore (più precisamente l’art. 16 lett. m) del r.d. 274/29; l. 1086/71; l. 64/74 e l. 144/49), ne delimita le competenze. Il Collegio, infatti, con precedenti pronunce, ha affermato che << esula dalla competenza dei geometri la progettazione di costruzioni civili con strutture in cemento armato, trattandosi di attività che, qualunque ne sia l'importanza, è riservata solo agli ingegneri ed agli architetti iscritti nei relativi albi professionali.
Solo le opere in cemento armato relative a piccole costruzioni accessorie rientrano nella competenza dei geometri, risultando ininfluente che il calcolo del cemento armato sia stato affidato ad un ingegnere o ad un architetto>> (C.d.S. 2537/11).
La normativa citata, inoltre, rispondendo a ragioni di pubblico interesse, non sembra possa essere interpretata estensivamente né, trattandosi di norma eccezionale, può essere suscettibile di applicazione analogica.
Pertanto la competenza dei geometri per le costruzioni in cemento armato deve limitarsi a quelle opere che, in quanto aventi destinazione agricola, non possono mettere a repentaglio l’incolumità delle persone, rimanendo riservata agli ingegneri e degli architetti iscritti all’albo la competenza per le costruzioni civili nelle quali si utilizzi cemento armato, a prescindere dalle dimensioni delle stesse.
Dall’applicazione della normativa citata, dunque, consegue la nullità del contratto d’opera professionale concluso con un geometra ed avente ad oggetto la costruzione per civile abitazione, il cui progetto abbia richiesto l’adozione anche parziale dei calcoli in cemento armato (Cass. 12193/07), a nulla rilevando l’esistenza di una delibera della giunta comunale autorizzativa, attesa l’esistenza di un vizio di incompetenza degli enti locali i quali non hanno alcun potere normativo, neppure a livello regolamentare, nella materia disciplinare. VA
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Inserito in data 25/02/2015 CORTE DI CASSAZIONE - TERZA SEZIONE CIVILE - ORDINANZA DI RIMESSIONE ALLE SEZIONI UNITE - 23 febbraio 2015, n. 3569 Sul danno da nascita indesiderata e sul diritto a non nascere se non sano La Suprema Corte ha rimesso alle Sezioni Unite la soluzione del contrasto sulla risarcibilità sia del danno da nascita indesiderata, in favore dei genitori che non abbiano potuto esercitare il diritto all’interruzione della gravidanza, anche oltre il novantesimo giorno, a causa dell’omessa diagnosi della patologia da cui risulta affetto il figlio nato, sia del danno subito da quest’ultimo quale lesione del diritto a non nascere o, per meglio dire, a non nascere se non sani. Il Collegio, invero, ha preso atto del contrasto giurisprudenziale che investe le due questioni: la prima sotto il profilo probatorio, la seconda sul piano sostanziale. Sul primo punto, infatti, si scontrano coloro i quali ritengono che la prova debba limitarsi all’individuazione del nesso causale tra gli inadempimenti dei sanitari ed il mancato ricorso all’aborto, ritenendo <<corrispondente a regolarità causale che la gestante interrompa la gravidanza de informata di gravi malformazioni al feto>> (ex multis Cass. 6735/02 e Cass. 15386/11) e, conseguentemente, sufficiente la mera allegazione della volontà di esercitare tale diritto, con quanti, di contro, reputano necessario che venga provata anche l’esistenza di quel grave pregiudizio psico-fisico per la madre, cui viene subordinata la suddetta possibilità di abortire, nonché l’effettiva volontà di avvalersene. Ancor più problematico risulta essere il riconoscimento di un diritto a non nascere (o a non nascere se non sani). Sebbene, infatti, l’orientamento prevalente sembra essere quello di interpretare le norme a tutela del concepito solo in senso positivo, quale diritto a nascere sani e a non subire lesioni da parte di terzi, escludendosi, pertanto, la sussistenza di un diritto a non nascere se non sani, il Supremo Consesso non ha potuto ignorare quella giurisprudenza che, superando la necessarietà di una soggettività giuridica del concepito al fine di poter affermare la titolarità di un diritto, riformula il risarcimento del danno spettante a quest’ultimo come risarcimento del danno derivante dal proprio stato di infermità. Attesa l’importanza delle tematiche in oggetto, dunque, la Suprema Corte ha ritenuto opportuno richiedere alle Sezioni Unite di porre fine all’annoso dibattito. VA
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Inserito in data 24/02/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 23 febbraio 2015, n. 908 La mancata previsione dell’indennizzo non invalida il provvedimento di revoca La mancata previsione nel provvedimento di revoca dell’indennizzo previsto dall’art. 21 quinquies della legge n. 241 del 1990 non esplica di per sé effetto viziante dell’atto, mentre il privato resta legittimato ad azionare la pretesa indennitaria con onere di provare estremi e presupposti della lamentata perdita patrimoniale. Resta fermo che l’indennizzo previsto dal richiamato art. 21 quinquies presuppone la sopravvenienza di motivi di interesse pubblico o il mutamento della situazione di fatto che giustifichino il ritiro nell’atto. CDC |
Inserito in data 24/02/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 23 febbraio 2015, n. 882 Valutazione delle offerte tecniche, punteggio numerico e sindacato estrinseco Il punteggio numerico è sufficiente ex se ad esternare e sostenere il giudizio della commissione sui singoli elementi tecnici, allorquando la lex specialis della gara abbia predeterminato in modo adeguato i parametri di misurazione degli stessi, consentendo la ricostruzione dell'iter logico seguito dall'organo tecnico. Inoltre, le valutazioni operate dalle commissioni di gara delle offerte tecniche, in quanto espressione di discrezionalità tecnica, sono sottratte al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, salvo che non siano manifestamente illogiche, irrazionali, irragionevoli, arbitrarie ovvero fondate su di un altrettanto palese e manifesto travisamento dei fatti ovvero ancora salvo che non vengano in rilievo specifiche censure circa la plausibilità dei criteri valutativi o la loro applicazione. Non è sufficiente che la determinazione assunta sia, sul piano del metodo e del procedimento seguito, meramente opinabile, in quanto il giudice amministrativo non può sostituire - in attuazione del principio costituzionale di separazione dei poteri - proprie valutazioni a quelle effettuate dall'autorità pubblica, quando si tratti di regole (tecniche) attinenti alle modalità di valutazione delle offerte. CDC |
Inserito in data 23/02/2015 TAR CAMPANIA - SALERNO, SEZ. I, 20 febbraio 2015, n. 389 Sul rapporto tra ricorso principale ed incidentale; sull’avvalimento valido ed efficace Sul rapporto intercorrente “tra ricorso principale e ricorso incidentale nel processo amministrativo, con particolare riguardo ai giudizi inerenti le procedure ad evidenza pubblica, l’adunanza plenaria del Consiglio di Stato (sentenza n. 9/2014) ha fissato i seguenti principi di diritto (sul tema, cfr. altresì, da ultimo, in relazione ai profili inerenti la sostanza della tutela giurisdizionale, Cass.., SS.UU., 6 febbraio 2015, n. 2242): a) il giudice ha il dovere di decidere la controversia, ai sensi del combinato disposto degli art. 76, 4° comma, cod. proc. amm. e 276, 2° comma, c.p.c., secondo l’ordine logico che, di regola, pone la priorità della definizione delle questioni di rito rispetto alle questioni di merito e, fra le prime, la priorità dell’accertamento della ricorrenza dei presupposti processuali rispetto alle condizioni dell’azione; b) nel giudizio di primo grado, avente ad oggetto procedure di gara, deve essere esaminato prioritariamente rispetto al ricorso principale il ricorso incidentale escludente che sollevi un’eccezione di carenza di legittimazione del ricorrente principale non aggiudicatario, in quanto soggetto che non ha mai partecipato alla gara, o che vi ha partecipato ma è stato correttamente escluso ovvero che avrebbe dovuto essere escluso ma non lo è stato per un errore dell’amministrazione; tuttavia, l’esame prioritario del ricorso principale è ammesso, per ragioni di economia processuale, qualora risulti manifestamente infondato, inammissibile, irricevibile o improcedibile; c) nel giudizio di primo grado avente ad oggetto procedure di gara, il ricorso incidentale non va esaminato prima del ricorso principale allorquando non presenti carattere escludente; tale evenienza si verifica se il ricorso incidentale censuri valutazioni ed operazioni di gara svolte dall’amministrazione nel presupposto della regolare partecipazione alla procedura del ricorrente principale; d) nel giudizio di primo grado avente ad oggetto procedure di gara, sussiste la legittimazione del ricorrente in via principale — estromesso per atto dell’amministrazione ovvero nel corso del giudizio, a seguito dell’accoglimento del ricorso incidentale — ad impugnare l’aggiudicazione disposta a favore del solo concorrente rimasto in gara, esclusivamente quando le due offerte siano affette da vizio afferente la medesima fase procedimentale”. Ciò premesso, il Collegio campano afferma di condividere l’assunto per cui “nelle gare pubbliche non possa ritenersi valido ed efficace il contratto di avvalimento che si limiti ad indicare genericamente che l’impresa ausiliaria si obbliga nei confronti della concorrente a fornirle i propri requisiti e a mettere a sua disposizione le risorse necessarie, di cui essa è mancante, per tutta la durata dell’appalto, senza però in alcun modo precisare in che cosa tali risorse materialmente consistano e senza che tale carenza possa reputarsi colmata dal semplice riferimento contrattuale all’attestazione SOA per le categorie in questione; e ciò in quanto le parti, principale e ausiliaria, non possono limitarsi, nella formalizzazione del loro impegno negoziale, a mettere a disposizione il solo requisito soggettivo quale mero valore astratto, ma devono necessariamente e chiaramente puntualizzare le concrete modalità con cui l’ausiliaria presti le proprie risorse e il proprio apparato organizzativo, a seconda dei casi: mezzi, personale e tutti gli altri elementi aziendali qualificanti” (in termini, da ultimo, Cons. Stato, sez. IV, 26 maggio 2014, n. 2675). EMF |
Inserito in data 23/02/2015 TAR LOMBARDIA - MILANO, SEZ. III, 20 febbraio 2015, n. 519 Sul contratto misto ex art. 14 D. Lgs. 163/2006 Nel contratto misto “la fusione delle cause fa sì che gli elementi distintivi di ciascun negozio vengono assunti quali elementi di un negozio unico, a mezzo del quale le parti perseguono un risultato economico unitario e complesso, il che comporta che l’entità, le modalità e le conseguenze del collegamento negoziale debbano essere considerate in relazione all’interesse perseguito dal soggetto appaltante” (TAR Lombardia, Milano, sez. I, 12.09.2011, n. 2204). Invero, posto che “la disciplina da applicare alle fattispecie di contratti pubblici misti è quella riferita al contratto con causa prevalente, la qualificazione del contratto è correttamente operata dall’amministrazione con riferimento alla prestazione principale”. Trattati, d’altronde, di un orientamento ormai consolidato tra gli interpreti, i quali ritengono che “nel caso di contratto misto l’operazione di cui trattasi deve essere esaminata nel suo insieme, in modo unitario, ai fini della sua qualifica giuridica, e dev’essere valutata sulla base delle regole che disciplinano la parte che costituisce l’oggetto principale, o l’elemento preponderante del contratto” (CG, sez. IV, 06.05.2010, n. 149. Nello stesso senso, CG 05.12.1989, causa C-3/88, Commissione c. Italia; 19.04.1994, causa C- 331/92, Gestion Hotelera Internacional, 18.01.2007, causa C-220/05, Auroux e a.; 21.02.2008, causa C-412/2004 Commissione c. Italia). In conclusione, la natura del contratto non può desumersi nemmeno dal nomen iuris ad esso dato dall’Amministrazione (cfr., ex multis, Trga Trento, 09.02.2010, n. 50; Cons. St., sez. IV, 30.05.2001, n. 2953, e sez. V, 15.10.2003, n. 6316), “con la conseguenza che la conformità del contenuto dell’aggiudicazione alla legge di gara va fatta con esclusivo riferimento alla disciplina di gara e non al nomen iuris attribuito al contratto dall’amministrazione”. EMF |
Inserito in data 20/02/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 18 febbraio 2014 n. 821 Sull’indicazione di un valore nullo per talune voci dell’offerta Alla luce dei generali principi (e in assenza di disposizioni preclusive nell’ambito della lex specialis) “non sembra potersi legittimamente impedire all’impresa concorrente di modulare l’offerta nel modo da essa ritenuto economicamente più congruo (anche presentando offerte nel cui ambito singole componenti potrebbero apparire contrastanti con generali principi di economicità)”. Pertanto, salvo che il bando statuisca diversamente, il concorrente può “indicare un valore nullo per talune voci dell’offerta (anche attraverso l’apposizione di un segno grafico equivalente)”. Del resto, la giurisprudenza ritiene che la serietà ed attendibilità dell’offerta formulata dal singolo concorrente debbano essere valutate “in modo complessivo e non anche in un’ottica (per così dire) ‘monadologica’, volta – cioè – a riguardare in modo atomistico le singole componenti dell’offerta”. EMF |
Inserito in data 20/02/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 19 febbraio 2014 n. 839 Le associazioni ambientaliste possono impugnare anche gli atti di valenza urbanistica Con la sentenza indicata in epigrafe, il Consiglio di Stato, confermando la decisione del Giudice di prime cure, afferma che “la legittimazione delle associazioni ambientaliste di livello nazionale ad impugnare atti amministrativi in materia ambientale, che deriva direttamente dalla legge come si evince dal combinato disposto degli artt. 18, comma 5 e 13 della L. 8 luglio 1986, n. 349, previa iscrizione nell'apposito elenco ministeriale, è stata progressivamente considerata valevole anche in relazioni ad atti non solo espressamente inerenti alla materia ambientale, quanto pure per quelli che incidono più in generale sulla qualità della vita in un dato territorio”. Le disposizioni appena evocate, infatti, da un lato, consentono alle associazioni di protezione ambientale la “legittimazione attiva nei giudizi dinanzi al giudice ordinario e a quello amministrativo, per tutelare finalità di protezione dell’ambiente che sono proprie dell’amministrazione dello Stato”, e, dall’altro, “rappresentano una delle modalità di applicazione del principio di sussidiarietà orizzontale recepito dall’art. 118, ultimo comma, Cost., e quindi impongono una lettura dinamica delle attribuzioni delle associazioni, coordinata al concreto evolversi della sensibilità sociale in tema di tutela degli interessi diffusi e, finora, adespoti”. Viceversa, la lettura restrittiva del tema della legittimazione ambientalista, secondo cui le attribuzioni di queste sarebbero limitate unicamente alla tutela paesistica, “non può essere sostenuta ed è sconfessata da una lettura della giurisprudenza in tema, che traccia una evidente parabola interpretativa, tesa al riconoscimento di una nozione di protezione ambientale ampiamente articolata” (v. Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., 27 settembre 2012 n. 811; Consiglio di Stato, sez. IV, sent. 14 aprile 2011, n.2329; id, sez. VI 15 giugno 2010 n. 3744; id., sez. IV, 12 maggio 2009 n. 2908; id., sez. IV 31 maggio 2007 n.2849). In tempi ancora più recenti, i Giudici di Palazzo Spada (sez. IV, 9 gennaio 2014 n. 36) hanno affermato che “il potere di pianificazione urbanistica non è funzionale solo all'interesse pubblico all'ordinato sviluppo edilizio del territorio in considerazione delle diverse tipologie di edificazione distinte per finalità (civile abitazione, uffici pubblici, opifici industriali e artigianali, etc.), ma esso è funzionalmente rivolto alla realizzazione contemperata di una pluralità di interessi pubblici, che trovano il proprio fondamento in valori costituzionalmente garantiti”. L'ambiente, dunque, costituisce “inevitabilmente l'oggetto (anche) dell'esercizio di poteri di pianificazione urbanistica e di autorizzazione edilizia; così come, specularmente, l'esercizio dei predetti poteri di pianificazione non può non tenere conto del "valore ambiente", al fine di preservarlo e renderne compatibile la conservazione con le modalità di esistenza e di attività dei singoli individui, delle comunità, delle attività anche economiche dei medesimi. Proprio per questo, gli atti che costituiscono esercizio di pianificazione urbanistica, la localizzazione di opere pubbliche, gli atti autorizzatori di interventi edilizi, nella misura in cui possano comportare danno per l'ambiente ben possono essere oggetto di impugnazione da parte delle associazioni ambientaliste, in quanto atti latamente rientranti nella materia "ambiente", in relazione alla quale si definisce (e perimetra) la legittimazione delle predette associazioni”. Pertanto, è del tutto evidente che “la tutela degli interessi ambientali possa anche procedere attraverso l'impugnazione di atti amministrativi generali di valenza urbanistica e di natura pianificatoria o programmatoria qualora incidenti negativamente su profili ambientali; come è del pari evidente che, stante la non necessaria correlazione dimensionale tra interessi urbanistici e interessi ambientali, permane sempre la necessità di una valutazione in concreto dell’incidenza del possibile danno all’ambiente”. Trattasi, invero, di valutazione che discende dall’impossibilità di “poter correlare a priori una determinata tipologia pianificatoria con la sua eventuale rilevanza ambientale, atteso che le discipline regionali impiegano una vasta congerie di strumenti, diversamente connotati e denominati, e con ciò impediscono un pur utile raccordo, quanto meno relativo alla partecipazione procedimentale, con gli enti e le associazioni di tutela. Il che determina, in via di necessità, l’intervento successivo del giudice, come ultimo strumento per consentire la ponderazione delle posizioni dei soggetti ordinamentali pretermessi dalle scelte amministrative”. EMF |
Inserito in data 19/02/2015 CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 18 febbraio 2015, n. 15 Conflitto di attribuzione nei confronti dello Stato e previa autorizzazione Il Collegio della Consulta interviene in un giudizio promosso da una Regione in relazione alla deliberazione della Corte dei conti, sezione regionale di controllo, con cui è stata accertata l’irregolarità dei rendiconti presentati dai gruppi consiliari regionali relativamente all’esercizio finanziario 2013, nonché la loro decadenza dal diritto all’erogazione di risorse pubbliche per l’anno 2014, e disposta la trasmissione degli atti alla Procura regionale della Corte dei conti. I Giudici costituzionali, superando le doglianze mosse nel merito dalla Regione ricorrente, statuiscono l’inammissibilità del relativo mezzo di impugnativa, in considerazione della mancata, previa deliberazione autorizzatoria da parte dell’Organo collegiale, competente a proporla. Il Collegio, infatti, non esita a ricordare che: “ai sensi dell’art. 39, terzo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), il ricorso per conflitto di attribuzione fra Stato e Regioni è proposto per lo Stato dal Presidente del Consiglio dei ministri o da un Ministro da lui delegato e per la Regione dal Presidente della Giunta regionale in seguito a deliberazione della Giunta stessa». Tanto non si è verificato nel caso in esame, in cui la delibera di Giunta di autorizzazione alla proposizione del conflitto segue di ben sei giorni l’introduzione del presente giudizio. La Corte costituzionale ribadisce, infatti, di aver costantemente affermato «l’esigenza della previa deliberazione da parte dell’organo collegiale ai fini della presentazione del ricorso o della costituzione in giudizio» (Cfr. ordinanza del 26 febbraio 2013, allegata alla sentenza n. 60 del 2013; nello stesso senso, sentenze n. 61 del 2011, n. 51 del 2007 e n. 54 del 1990), precisando che si tratta di «“esigenza non soltanto formale, ma sostanziale per l’importanza dell’atto e per gli effetti costituzionali ed amministrativi che l’atto stesso può produrre” (sentenza n. 33 del 1962; analogamente le sentenze n. 8 del 1967; n. 119 del 1966; n. 36 del 1962)» (sentenza n. 202 del 2012; nello stesso senso, sentenza n. 142 del 2012). Sulla base di tali valutazioni, evidentemente ormai radicate, il Collegio della Consulta statuisce l’inammissibilità dell’odierno ricorso. CC |
Inserito in data 18/02/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, ORDINANZA 18 febbraio 2015, n. 735 Sulla sospensione del regolamento elettorale forense Con la pronuncia in epigrafe, i Giudici di Palazzo Spada hanno accolto il ricorso dell’Associazione nazionale avvocati italiani (ANAI), prevedendo la sospensione del regolamento per le elezioni dei Consigli degli Ordini degli Avvocati d’Italia. Con la decisione in esame, il Consiglio di Stato ribalta l’ordinanza emessa dal Tar Lazio, del 15 gennaio scorso, che aveva respinto la domanda di sospensione delle consultazioni elettorali, ritrasmettendo, dunque, gli atti al Tar del Lazio, che dovrà decidere sul merito della controversia, fissando l’udienza di discussione. Specificamente, i ricorrenti contestano la modalità di voto prescelta che, secondo gli stessi, sarebbe lesiva dei diritti delle minoranze. Invero, il regolamento impugnato, prevede che gli avvocati elettori abbiano la possibilità di votare in blocco tutti i candidati della lista per la quale si esprime la preferenza. Nella motivazione del provvedimento de quo, il Consiglio di Stato dichiara che il limite di voti, di due terzi, previsto all’art. 28, comma 3, della Legge n. 247 del 2012, sia da considerarsi invalicabile, fermo restando, tuttavia, la possibilità di prevedere, entro lo stesso confine, dei modi di espressione delle preferenze ulteriori, tese a salvaguardare la maggioranza di genere. I Giudici di Palazzo Spada chiariscono che, pur nei limiti della sommaria cognizione cautelare, “appaiono condivisibili le censure che evidenziano il contrasto tra la disciplina dettata dalla legge n. 247 del 31 dicembre 2012 e il regolamento impugnato in merito alla tutela delle minoranze che, in un ente pubblico di carattere associativo, ben rifluiscono sui temi dell’imparzialità dell’amministrazione, di cui all’art. 97 comma 2 della Costituzione”. Alla luce della sopracitata ordinanza, inoltre, “pare praticabile un’interpretazione in cui il limite di voti di cui all’art. 28 comma 3 della citata legge sia da considerarsi insuperabile, ferma restando la possibilità di prevedere, entro l’evocato confine, modi di espressione delle preferenze ulteriori tese a salvaguardare le differenze di genere, come nel sistema già vagliato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 4 del 14 gennaio 2010”. Secondo tutto quanto argomentato dai Giudici della Quarta sezione del Consiglio di Stato, infine, “le esigenze cautelari ben possono essere tutelate, anche in considerazione del diverso sviluppo delle fasi procedimentali nelle diverse sedi e delle già avvenute elezioni, sollecitando la decisione nel merito, a norma dell’art. 55 comma 10 del C.p.a.”. GMC |
Inserito in data 18/02/2015 CORTE DI CASSAZIONE - PRIMA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 13 febbraio 2015, n. 2942 Ostacolo alla delibazione di una sentenza per contrarietà all’ordine pubblico
Una coppia di coniugi chiese alla Corte d’appello di Napoli, con ricorso congiunto del settembre 2011, la dichiarazione di efficacia nella Repubblica Italiana della sentenza con la quale il Tribunale Ecclesiastico Regionale Campano aveva dichiarato nullo il loro matrimonio concordatario, celebrato nell’anno 2003, per “esclusione dell’indissolubilità del vincolo da parte della moglie”, sentenza poi confermata dal Tribunale Ecclesiastico di Appello del Vicariato di Roma e resa esecutiva dal Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica. Ha, pertanto, respinto la domanda, avendo accertato che nella specie la convivenza dei coniugi dopo la celebrazione del matrimonio si era “protratta per oltre 4 anni, com’è dato evincere dalla data della presentazione del libello introduttivo dinanzi al Tribunale Ecclesiastico” ed era stata arricchita dalla nascita di un figlio fortemente voluto, tanto che la madre si era sottoposta, per realizzare il concepimento, a cure e ad un intervento chirurgico. La Suprema Corte, con la pronuncia in epigrafe, stabilisce che non può essere delibata, per contrarietà all’ordine pubblico, la sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio tutte le volte in cui la convivenza “come coniugi” si sia protratta per almeno tre anni, così come ha altresì precedentemente chiarito la sentenza 17 luglio 2014, n. 16380. È da chiarire, inoltre, che l’ostacolo alla delibazione, rappresenta materia di eccezione in senso stretto, dunque non è rilevabile d’ufficio allorquando la delibazione sia stata chiesta congiuntamente dai coniugi, tanto più che i caratteri stessi della convivenza ostativa alla delibazione sono tali da assegnare un ruolo prevalente alla “consapevole e concorde manifestazione di volontà delle parti”. GMC
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Inserito in data 17/02/2015 CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE PENALI, SENTENZA 2 febbraio 2015, n. 4880 Sulla natura giuridica della confisca di prevenzione La sentenza in esame risolve il contrasto che si era creato nella giurisprudenza di legittimità in ordine alla natura giuridica della confisca di prevenzione, oggi regolata dal d.lgs. 159/2011 (c.d. codice antimafia). L’orientamento tradizionale (in tal senso, fra le tante, Cass. S.U. 18/3.7.1996, Cass. 39204/2013 e 16729/2014) riteneva che la confisca di prevenzione avesse natura assimilabile a quella delle misure di sicurezza ex art. 240.2 cp. Da ciò conseguiva la possibilità di una applicazione retroattiva ex art. 200 cp. Ciò si fondava sul fatto che la confisca di prevenzione era prevista nell’ambito del procedimento di prevenzione personale e ne seguiva le regole, fra le quali quella che richiedeva la pericolosità del soggetto destinatario, analogo al presupposto delle misure di sicurezza. In senso opposto si è però pronunciata Cass. 14044/2013, che ha sostenuto la natura oggettivamente sanzionatoria della confisca di prevenzione. Da ciò conseguiva l’impossibilità di un’applicazione retroattiva, alla stregua dell’art. 25, comma 2, Cost. Tale soluzione si è giustificata alla luce delle modifiche normative del 2008-2009, che hanno consentito l’applicazione delle misure di prevenzione patrimoniali anche ove non vi sia spazio per una misura personale, quindi anche in mancanza di attuale pericolosità sociale del destinatario. Le Sezioni Unite hanno confermato la tesi tradizionale, negando che le modifiche introdotte nel 2008-2009 abbiano modificato la natura preventiva della confisca di prevenzione, ancora assimilabile alle misure di sicurezza, con applicabilità, in caso di successione di leggi, dell’art. 200 cp. Secondo la pronuncia, la nuova normativa non ha inteso rendere la confisca di prevenzione avulsa dal presupposto della pericolosità, ma ha stabilito soltanto che la sua applicazione può prescindere dalla verifica, in concreto, della pericolosità al momento della richiesta; in altre parole, può prescindersi solo dall’attualità della pericolosità. Più in dettaglio, occorre comprendere la differenza tra la confisca e la misura di prevenzione personale. Nel caso della misura di prevenzione personale, bisogna guardare alla qualità della persona in quanto tale, come socialmente pericolosa, cioè capace di porre in essere reati. Ne segue che una misura di prevenzione personale non può che essere giustificata dalla persistente, attuale, condizione di pericolosità del soggetto proposto. Nelle misure di prevenzione patrimoniali, invece, occorre guardare alla res. Ma i beni sono in sé neutri; dunque, la loro pericolosità si riconnette alla qualità soggettiva di chi li acquista. La pericolosità sociale dell’acquirente, a quel punto, si riverbera sul bene acquistato e si oggettivizza, traducendosi in attributo obiettivo del bene. Permane, dunque, la finalità preventiva della confisca in esame, volta a dissuadere il soggetto inciso dalla commissione di ulteriori reati. CDC
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Inserito in data 17/02/2015 CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 11 febbraio 2015, n. 11 Sui criteri di quantificazione dell’assegno divorzile La Corte Costituzionale ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 comma 6 della legge 898/70 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), sì come modificato dall’art. 10 della legge 74/87 (Nuove norme sulla disciplina dei casi di scioglimento di matrimonio) per violazione degli artt. 2, 3 e 29 della Costituzione. A parere della Suprema Corte, infatti, il Tribunale di merito avrebbe commesso un errore interpretativo di quel diritto vivente secondo cui, a suo dire, in presenza di una disparità economica tra coniugi, «l’assegno divorzile […] deve necessariamente garantire al coniuge economicamente più debole il medesimo tenore di vita goduto in costanza di matrimonio». Il Tribunale rimettente, infatti, ritiene che questa interpretazione normativa si ponga in contrasto con gli art. 3, 2 e 29 della Costituzione. L’assegno di divorzio, infatti, ha una finalità meramente assistenziale, ne consegue l’ultroneità di un’interpretazione sì fatta che, di contro, finirebbe con il garantire per tutta la vita un tenore di vita agiato in favore del coniuge ritenuto economicamente più debole. Né una soluzione di questo tipo potrebbe trovare riscontro e giustificazione nel dovere di solidarietà (non sembra, infatti, ragionevole pensare che tale dovere possa assumere così ampi contorni anche dopo la cessazione degli effetti del matrimonio). Il Collegio, tuttavia, rileva come l’esistenza del diritto vivente esposto dal rimettente non trovi effettivo riscontro nella giurisprudenza nomofilattica la quale, di contro, ha sempre chiarito che <<il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio non costituisce l’unico parametro di riferimento ai fini della statuizione sull’assegno divorzile. […]il parametro del «tenore di vita goduto in costanza di matrimonio» rileva, bensì, per determinare «in astratto […] il tetto massimo della misura dell’assegno» (…) ma, «in concreto», quel parametro concorre, e va poi bilanciato, caso per caso, con tutti gli altri criteri indicati nello stesso denunciato art. 5>> che consentono di moderare e diminuire la somma astrattamente individuata, sino anche ad azzerarla (ex multis Cass. 2546/14; 24252/13). VA |
Inserito in data 16/02/2015 CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 28 gennaio 2015, n. 1 Sul trasferimento da università estere senza previo superamento dei test di ingresso L’Adunanza Plenaria, pronunciando sul rinvio operato dal C.G.A.R.S. sull’esatta individuazione dei presupposti richiesti dall’ordinamento vigente per il trasferimento di studenti iscritti in università straniere a corsi di laurea che, nel nostro ordinamento, prevedono il superamento di test di ingresso ai fini dell’accesso ai corsi, ha rigettato l’appello proposto dalla pubblica amministrazione. Il Supremo Consesso, infatti, ha avvallato la decisione del tribunale di merito secondo cui <<né l’art. 4 della L. 264/99 né il bando prevedono disposizioni in ordine all’ipotesi del trasferimento di studenti universitari da un Ateneo straniero ad uno nazionale>> . Invero, sebbene il Consiglio di Stato, in varie pronunce , abbia più volte affermato la legittimità dell’esclusione dai corsi di studenti di università estere che non abbiano superato la prove selettiva di primo accesso, eludendo in tal modo la previsione normativa nazionale ( si veda, ad esempio, C.d.S. 2028/14; 2829/14), senza operare alcuna distinzione fra il primo anno di corso e gli anni successivi ( art. 1 comma 1 e 4 della legge 264/99, in rapporto alle previsioni del d.m. 22 ottobre 2004, n. 270, recante il regolamento sull'autonomia didattica degli atenei ), il Collegio ritiene che tale conclusione debba essere rimeditata. A ben vedere, infatti, la disciplina dei trasferimenti è contenuta nei commi 8 e 9 dell’art. 3 del D.M. 16 marzo 2007 in materia di “Determinazione delle classi di laurea magistrale”. Le norme in questione, tuttavia, si limitano a disciplinare il riconoscimento dei crediti formativi già maturati, senza fare alcun riferimento ai requisiti per l’ammissione. L’art. 4 della legge 2 agosto 1999, n. 264, invece, ove è presente la previsione di test di idoneità, subordina al superamento dei suddetti test <<l’ammissione ai corsi i cui accessi sono programmati a livello nazionale ( art. 1 ) o dalle singole università ( art. 2 ) >>. Ne consegue che, sebbene la norma non riferisca espressamente la locuzione “ammissione” al solo “primo accoglimento dell’aspirante nel sistema universitario” , laddove si volga lo sguardo all’art. 6 del D.M. 22 ottobre 2004, n. 270, che fa riferimento, ai fini della ammissione ad un corso di laurea, al “possesso del diploma di scuola secondaria superiore” quale titolo imprescindibile previsto per l’ingresso nel mondo universitario, appare evidente come il legislatore, con la locuzione “ammissione ai corsi di laurea”, abbia voluto riferirsi <<allo studente che chieda di entrare e sia accolto per la prima volta nel sistema>>. La medesima conclusione può trarsi dall’analisi letterale del manifesto degli studi dell’università ricorrente che, nel testo, fa indifferentemente riferimento all’ammissione e/o all’immatricolazione. A parere dell’Adunanza Plenaria, inoltre, questa conclusione appare preferibile anche sul piano logico-razionale. Invero, <<se la prova stessa è volta ad accertare la “predisposizione per le discipline oggetto dei corsi”, è vieppiù chiaro che tale accertamento ha senso solo in relazione ai soggetti che si candidano ad entrare da discenti nel sistema universitario, mentre per quelli già inseriti nel sistema ( e cioè già iscritti ad università italiane o straniere ) non si tratta più di accertare, ad un livello di per sé presuntivo, l’esistenza di una “predisposizione” di tal fatta, quanto piuttosto, semmai, di valutarne l’impegno complessivo di apprendimento ( v. art. 5 del D.M. n. 270/2004 ) dimostrato dallo studente con l’acquisizione dei crediti corrispondenti alle attività formative compiute>>. Inoltre, laddove la normativa in esame venga messa a raffronto con i principi comunitari, un’interpretazione siffatta appare ben più aderente al principio di libertà di circolazione e soggiorno sancita dall’art. 21 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea. Pertanto, <<ferma, dunque, la non equipollenza delle competenze e degli standards formativi richiesti per l’accesso all’istruzione universitaria nazionale (sì che non sarebbe predicabile l’equivalenza del superamento della prova di ammissione ad un’università straniera con quella prevista dall’ordinamento nazionale), una limitazione, da parte degli Stati membri, all’accesso degli studenti provenienti da università straniere per gli anni di corso successivi al primo (…), si pone in contrasto con il predetto principio di libertà di circolazione>> (si veda in riferimento la sentenza CgEC-73/08). Ne consegue che eventuali limitazioni al diritto di accesso potranno essere ritenute legittime solo nei limiti di quanto strettamente necessario per il raggiungimento dello scopo prefisso dall’ordinamento nazionale. In conclusione, essendo i test di ingressi volti a valutare l’idoneità e la meritevolezza dei candidati, il Supremo Consesso ritiene superflua la previsione di tale requisito per le ipotesi di trasferimento per anni successivi al primo posto che, in queste ipotesi, la capacità dei candidati potrà essere valutata con riferimento ai risultati accademici ottenuti. L’Adunanza Plenaria, inoltre, ritiene che l’esiguo numero di posti disponibili per i trasferimenti (dato, per lo più dalla mancata iscrizione dei soggetti risultati idonei) sia già un elemento sufficiente ad evitare comportamenti elusivi. VA |
Inserito in data 14/02/2015 CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL'UOMO, SEZIONE SECONDA, ric. n. 25358/12 del 27 gennaio 2015 Utero in affitto: la CEDU condanna l’Italia La Corte di Strasburgo, intervenendo in una delicatissima vicenda relativa ad un minore nato a seguito di una maternità surrogata gestazionale (cd. utero in affitto), condanna l’Italia per la carente e lacunosa disciplina in materia. Infatti, successivamente al ricorso presentato dinanzi alla Corte EDU da una coppia di coniugi italiani, i quali lamentavano l’impossibilità di registrare – agli effetti civili – lo stato di filiazione e le conseguenti azioni– ad opera delle competenti Autorità italiane, sfociate nella sottrazione del minore e nella conseguente dichiarazione dello stato di adottabilità, intervengono i Giudici francesi. Essi, ricordando la primaria importanza del diritto del minore all’identità – siglato anche dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti del Fanciullo, contestano la prassi seguita – nel caso in esame – dalle Autorità italiane. Queste, adducendo ragioni di ordine pubblico (presumendo che i coniugi avessero voluto aggirare la normativa interna in tema di adozione), hanno sottratto il minore ad un ambiente familiare in cui era stato accolto e provveduto a dichiararlo in stato di adottabilità. Ritiene la Corte di Strasburgo che le Autorità italiane abbiano violato l’art. 8 non avendo trovato il giusto equilibrio tra gli interessi in gioco. Proseguono i Giudici, l’allontanamento di un bambino dall’ambiente familiare deve essere una misura estrema adottabile solo in caso di immediato pericolo. CC
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Inserito in data 14/02/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, ORDINANZA 12 febbraio 2015, n. 690 Diritto a riunirsi, ad associarsi e manifestare e compromissione con la pericolosità sociale Il Collegio della Terza Sezione, intervenendo in sede cautelare, ricorda taluni principi essenziali in tema di libertà di associazione e di manifestazione del pensiero. Infatti, dichiarando di attendere il completamento della produzione documentale nella successiva fase del merito, i Giudici comunque definiscono da subito come, nel caso in esame, non vi sia stata alcuna illegittima compressione nell’esercizio di libertà garantite, non trattandosi di forme di legittima protesta nell’ambito della libera partecipazione democratica, bensì di concreti comportamenti partitamente individuati per ciascuno dei ricorrenti, messi in essere in occasione di manifestazioni di protesta e puniti a vario titolo dalla legge penale. Pertanto, a dispetto di quanto lamentato nell’impugnativa, i ricorrenti non hanno subito alcuna inibizione, bensì solo il divieto di condotte penalmente rilevanti, con riguardo alle quali la durata triennale di efficacia del divieto non è apparsa irragionevole né al Giudice di primo grado né al Collegio del presente gravame. CC |
Inserito in data 13/02/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 10 febbraio 2015, n. 715 Natura degli atti del Comune e relativa impugnazione Con la pronuncia in epigrafe, il Consiglio di Stato interviene in merito alla natura degli atti con cui un Comune liquida unilateralmente i diritti di credito, di cui si assume titolare, intimandone il pagamento. Specificamente, nel caso de quo, con ricorso al TAR per la Campania, un privato impugnava alcuni atti riguardanti la pretesa di un Comune campano del pagamento di alcune demolizioni effettuate in danno dello stesso, per essersi reso inadempiente a precedenti e reiterati ordini di demolizione, effettuate, tali ultime, nell’anno 2011. In tale occasione, i Giudici di Palazzo Spada, chiariscono che i suddetti atti, ossia quelli coi quali il Comune ha liquidato i diritti di credito, non hanno affatto natura provvedimentale, bensì rilevano quali “meri atti di esercizio di un diritto soggettivo”, così come già sottolineato con pronuncia del Consiglio di Stato medesimo (CdS, sez. IV, 25 gennaio 2003, n. 361). Dunque, alla luce di quanto prospettato, diretta conseguenza di ciò sarà che i destinatari non avranno l’onere di impugnarli dinnanzi al Giudice amministrativo in giurisdizione esclusiva, qual è, invero, la materia edilizia alla luce dell’art. 133, comma 1, lett. F), del Codice del Processo Amministrativo, rispettando il termine di decadenza stabilito per il ricorso avverso i provvedimenti amministrativi. GMC |
Inserito in data 13/02/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 6 febbraio 2015, n. 605 Rischio per la salute: applicazione del principio di precauzione Con la pronuncia de qua, i Giudici di Palazzo Spada ritengono corretto il provvedimento del Ministero della Salute, unitamente con quelli delle Politiche Agricole e dell’Ambiente, con il quale è stata vietata la coltivazione di una specifica varietà di mais, ossia OGM MON 810, sulla base della considerazione secondo cui, non prevedendo l’autorizzazione 98/294/CE alcuna misura di gestione e non avendo altresì la Commissione ritenuto di intervenire per imporne l’attuazione, alla luce dell’art. 53 del Regolamento n. 178/2002, il mantenimento della coltura di tal tipo di mais transgenico, senza adeguate e specifiche misure, non tutelasse sufficientemente l’ambiente. Nella vicenda de qua, si sottolinea che l’applicazione del principio di precauzione, prevede soltanto l’esistenza di un “rischio potenziale” per la salute, nonché per l’ambiente, e non la già la sussistenza di prove scientifiche sul collegamento tra la causa, oggetto di divieto, e gli effetti, negativi, che si vogliono eliminare o quantomeno ridurre. Il medesimo principio, altresì, comporta che allorquando non siano conosciuti, con assoluta certezza, i rischi connessi ad una attività pericolosa, l’azione dei pubblici poteri debba configurarsi sotto forma di una prevenzione “anticipata”, rispetto al consolidamento delle conoscenze scientifiche medesime, e ciò anche nel caso in cui i danni non siano ben conosciuti o soltanto potenziali. Da ultimo, a tal proposito, si consideri, altresì, Cons. Stato, sez. IV, 11 novembre 2014, n. 5525. GMC |
Inserito in data 12/02/2015 TAR CAMPANIA - SALERNO, SEZ. II, 10 febbraio 2015, n. 365 Giudizio di verifica della congruità dell'offerta e sindacato esterno del G.A. Con la pronuncia in esame i Giudici campani affermano che “nelle gare pubbliche il giudizio di verifica della congruità di un'offerta potenzialmente anomala ha natura globale e sintetica, vertendo sulla serietà o non dell'offerta nel suo insieme”. In particolare, essi ritengono che l'attendibilità della offerta vada “valutata nel suo complesso, e non con riferimento alle singole voci di prezzo ritenute incongrue, avulse dall'incidenza che potrebbero avere sull'offerta economica nel suo insieme, ma questo ferma restando la possibile rilevanza del giudizio di inattendibilità che dovesse investire voci che, per la loro importanza ed incidenza complessiva, rendano l'intera operazione economica implausibile e, per l'effetto, insuscettibile di accettazione da parte dell'Amministrazione, in quanto insidiata da indici strutturali di carente affidabilità” (cfr., Consiglio di Stato, sez. V, 16/01/2015, n. 89). Inoltre, “l'esame delle giustificazioni presentate dal soggetto tenuto a dimostrare la non anomalia della propria offerta è vicenda che rientra nella discrezionalità tecnica dell'Amministrazione, per cui soltanto in caso di macroscopiche illogicità, vale a dire di errori di valutazione evidenti e gravi, oppure di valutazioni abnormi o affette da errori di fatto, il giudice della legittimità può intervenire, restando per il resto la capacità di giudizio confinata entro i limiti dell'apprezzamento tecnico proprio di tale tipo di discrezionalità”. In sostanza, “nel caso di ricorso proposto avverso il giudizio di anomalia dell'offerta presentata in una pubblica gara, il giudice amministrativo può sindacare le valutazioni compiute dall'Amministrazione sotto il profilo della loro logicità e ragionevolezza e della congruità dell'istruttoria, ma non può effettuare autonomamente la verifica della congruità dell'offerta presentata e delle sue singole voci, sovrapponendo così la sua idea tecnica al giudizio, non erroneo né illogico, formulato dall'organo amministrativo cui la legge attribuisce la tutela dell'interesse pubblico nell'apprezzamento del caso concreto giacché, così facendo, il giudice amministrativo invaderebbe una sfera propria della stazione appaltante” (cfr., Consiglio di Stato, cit.). Nello stesso senso si era, peraltro, collocata l’Ad. Pl., con sentenza 3/2/2014, n. 8, la quale aveva evidenziato che “è consentito il sindacato esterno del giudice amministrativo sull’operato dell’organo deputato all’esame delle offerte, in presenza di elementi che il ricorrente elevi a vizio di eccesso di potere in cui la stazione appaltante si assume sia incorsa per una non corretta disamina di elementi contenutistici tali da evidenziare una palese incongruità dell’offerta”. EMF |
Inserito in data 12/02/2015 TAR LOMBARDIA - MILANO, SEZ. IV, 10 febbraio 2015, n. 427 Sul rinnovo del permesso di soggiorno per motivi di lavoro subordinato Ai fini del rinnovo del permesso di soggiorno, “il possesso di un reddito minimo idoneo al sostentamento dello straniero e del suo nucleo familiare costituisce un requisito soggettivo non eludibile”, perché “attiene alla sostenibilità dell'ingresso dello straniero nella comunità nazionale per ragioni di lavoro subordinato, atteso che lo straniero deve essere stabilmente inserito nel contesto lavorativo e contribuire con il proprio impegno allo sviluppo economico e sociale del paese ospitante” (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 27 agosto 2010 n. 5994). Del resto, “la determinazione della soglia sotto la quale il reddito percepito dal cittadino extracomunitario non può considerarsi sufficiente al fine della sua permanenza sul territorio italiano può trarsi dal parametro fissato in varie disposizioni (art. 29, terzo comma lett. b, T.U.; art. 39 comma 3, D.P.R. n. 394 del 1999) le quali richiedono la necessaria disponibilità da parte del richiedente, di una somma non inferiore alla capitalizzazione, su base annua, di un importo mensile pari all’assegno sociale”. EMF |
Inserito in data 11/02/2015 CORTE DI CASSAZIONE, PRIMA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 9 febbraio 2015, n. 2400 Sul diniego di procedere alle pubblicazioni di un matrimonio omosessuale La sentenza afferma la legittimità del diniego di procedere alle pubblicazioni matrimoniali relative ad un’unione tra due persone dello stesso sesso. Riprendendo la nota pronuncia della Corte costituzionale n. 138 del 2010, si esclude, anzitutto, che la mancata estensione del modello matrimoniale alle unioni tra persone dello stesso sesso determini una lesione della dignità umana e dell’uguaglianza. Spetta, piuttosto, al legislatore, nell’esercizio della sua piena discrezionalità, individuare le forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni omosessuali. Alle coppie omosessuali deve essere riconosciuto un nucleo comune di diritti e doveri di assistenza e solidarietà, data la riconducibilità di tali relazioni nell’alveo delle formazioni sociali dirette allo sviluppo, in forma primaria, della personalità umana. Ciò non risulta modificato dai principi elaborati nelle più recenti pronunce della Corte EDU e nella sentenza n. 170 del 2014 della Corte Costituzionale. Secondo la Corte EDU, infatti, l’art. 12 Cedu non esclude che gli Stati membri estendano il modello matrimoniale anche alle persone dello stesso sesso, ma nello stesso tempo non contiene alcun obbligo al riguardo. L’insussistenza dell’obbligo costituzionale o convenzionale di estendere il vincolo coniugale alle unioni omosessuali è stata ribadita anche dalla sentenza n. 170 del 2014 della Corte Costituzionale, nella quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale della disciplina normativa che fa conseguire in via automatica alla rettificazione del sesso lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio preesistente senza preoccuparsi di prevedere per l’unione divenuta omoaffettiva, un riconoscimento e uno statuto di diritti e doveri che ne consenta la conservazione in una condizione coerente con l’art. 2 Cost. (e 8 Cedu). CDC
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Inserito in data 11/02/2015 CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 10 febbraio 2015, n. 675 Risarcimento del danno da ritardo e indennizzo ex art. 2bis, comma 1bis, l. 241/1990 L’art. 2 bis, comma 1, l. 241/1990 è sussumibile nello schema fondamentale dell’illecito extracontrattuale e rafforza la tutela risarcitoria nei confronti dei ritardi della PA, stabilendo che esse siano tenute al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa e colposa del termine di conclusione del procedimento. Ciò si fonda sull’idea che il tempo è un bene della vita per il cittadino e che il ritardo nella conclusione di un qualunque procedimento è sempre un costo, dal momento che il fattore tempo costituisce una essenziale variabile nella predisposizione e nell’attuazione di piani finanziari relativi a progetti imprenditoriali. Le conseguenze economiche derivanti dalla semplice inosservanza dei termini di conclusione dei procedimenti amministrativi sono state invece autonomamente disciplinate dall’art. 2 bis, comma 1 bis, l. 241/1990, con la previsione di misure patrimoniali (d’indole sanzionatoria e struttura indennitaria predeterminata) alternative al risarcimento del danno, in quanto agganciate a presupposti e a condizioni applicative completamente autonomi e diversi. CDC |
Inserito in data 10/02/2015 CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONE CIVILE SESTA BIS, SENTENZA 4 febbraio 2015, n. 2040 Nullità contrattuale sollevata per la prima volta in sede di legittimità Il Supremo Consesso, chiamato a valutare la sussistenza di una responsabilità contrattuale da inadempimento, ai sensi dell’art. 1418 c.c., derivante dalla difforme realizzazione di un fabbricato rispetto al progetto originario, ha trattato preliminarmente la questione attinente l’esistenza di una causa di nullità del contratto (fonte della suddetta responsabilità). Il caso appare degno di nota in quanto affronta il problema relativo alla possibilità di sollevare in sede di legittimità, per la prima volta, la questioni di nullità del contratto oggetto della controversia. Il Collegio, sul punto, ha affermato che << è consentito sollevare per la prima volta in sede di legittimità la questione di nullità di un contratto, a condizione che ciò non comporti nuovi accertamenti di fatto (v. Cass. n. 14621/12; 11188/12) e che non si sia verificato un giudicato implicito sulla validità dello stesso, per aver, il giudice di merito, accolto o respinto la domanda sul presupposto della validità del titolo su cui essa si fondava e la questione della validità del negozio non sia stata sollevata in appello (Cass. n. 18540/09)>>. Nel caso di specie il contratto di prestazione d’opera avrebbe dovuto essere dichiarato nullo in quanto la costruzione oggetto dello stesso presentava dei requisiti strutturali che esulavano da quelli propri delle piccole costruzioni accessorie, di cui all'art. 16 lett. 1) ed m) del R.d. 1929 n. 274), non rientrando, pertanto, nelle competenze tecniche del geometra. VA
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Inserito in data 10/02/2015 TAR CAMPANIA – SALERNO, SEZ. I, 6 febbraio 2015, n. 308 Sul diritto di accesso del contribuente alle cartelle esattoriali Il Tar Salerno ha dichiarato (in parte) fondato il ricorso presentato avverso una nota di Equitalia Sud s.p.a. che limitava e differiva l’accesso alla documentazione amministrativa richiesta. Il Giudice di merito, infatti, ha ritenuto non pertinente il riferimento normativo all’art. art. 26 comma 4 d.p.r. 602/73 fatto da Equitalia. Invero, sebbene la norma citata limiti l’obbligo di conservazione e di ostensione delle matrici e delle copie delle cartelle con la relazione dell’avvenuta notifica o di avviso di ricevimento a soli cinque anni, questa <<non individua una modalità di accesso ai documenti, ma disciplina il rapporto giuridico corrente tra l’agente della riscossione e il debitore con specifico riferimento all’onere probatorio della pretesa di pagamento. Il che comporta che l’accesso ai ripetuti atti non può essere negato, avuto conto che è solo sulla scorta degli stessi che può essere comprovata, con onere a carico dell’agente di riscossione, l’idoneità del titolo esecutivo e non opposto nei termini di legge a sorreggere validamente le pretese di cui trattasi ovvero a sorreggere validamente dinieghi di rilascio di certificazioni di regolarità fiscale” (Tar Napoli, 2078/2010,; Tar Reggio Calabria 767/2011; Tar Bari, 1034/09). A ben vedere, infatti, la cartella esattoriale costituisce il presupposto indefettibile del procedimento esecutivo la cui ostensione, pertanto, è funzionale e strumentale alla tutela dei diritti del contribuente. Peraltro, anche alla luce dei recenti arresti giurisprudenziali, non sembra che il mero deposito in semplice copia degli estratti di ruolo possa ritenersi satisfattivo dell’interesse all’estrazione degli atti, invero, al fine di consentire la piena conoscenza della pretesa contributiva, occorre che gli atti vengano esibiti in copia integrale e conforme all’originale. Ne consegue che l’agente della riscossione, quand’anche siano decorsi i cinque anni di cui all’art. 26 comma 4 del d.p.r. 602/73, avrà comunque l’obbligo di ricercare le cartelle esattoriali nei propri archivi in modo da consentirne l’accesso al ricorrente, fatta eccezione per il caso in cui lo stesso agente della riscossione non dichiari e provi di non essere più in possesso dell’originale o di eventuali copie. In tal caso, tuttavia, il mancato accesso non troverà la sua giustificazione nella norma sopra citata, ma nell’impossibilità dell’adempimento. VA |
Inserito in data 06/02/2015 CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 30 gennaio 2015, n. 1747 Sulla misura interdittiva dell’incandidabilità temporanea La Suprema Corte, con la pronuncia in epigrafe, interviene in merito alla misura interdittiva della incandidabilità temporanea dell’amministratore responsabile delle condotte che hanno dato causa allo scioglimento del Consiglio comunale, conseguente a fenomeni di infiltrazione di tipo mafioso o similare a quest’ultimo. Nel caso de quo, a seguito della proclamazione come sindaco di un Comune, avvenuta con le consultazioni elettorali del 2007, un politico è rimasto in carica sino alla sospensione e al successivo scioglimento del Consiglio comunale, scioglimento disposto, alla luce dell’art. 143 del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, approvato con il d.lgs. 18 agosto 2000 n. 267, con decreto del Presidente della Repubblica del febbraio 2012, su proposta del Ministro dell’interno. In seguito al ricevimento della nota ministeriale, il Presidente del Tribunale ne ha disposto la trasmissione al Procuratore della Repubblica presso lo stesso Tribunale per le determinazioni di competenza. Ai sensi dell’art. 143, comma 11, del testo unico suddetto, il Procuratore della Repubblica ha chiesto al Tribunale medesimo di dichiarare l’incandidabilità alle elezioni regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali destinate a svolgersi nella Regione, limitatamente al primo turno elettorale successivo allo scioglimento del Consiglio comunale, “di coloro che possono individuarsi quali passati amministratori della disciolta amministrazione che risultano essere stati, direttamente o indirettamente, vicini ad ambienti della criminalità organizzata […]”. I Giudici di Piazza Cavour, in merito al caso suesposto, chiariscono che la misura interdittiva della incandidabilità suddetta, dell’amministratore responsabile delle condotte che hanno dato causa allo scioglimento del Consiglio comunale conseguente a fenomeni di infiltrazione di tipo mafioso, di cui all’art. 43, comma 11, del d.lgs. n. 267 del 2000, privando temporaneamente il soggetto della possibilità di candidarsi nell’ambito di elezioni elettorali che si svolgono nel medesimo territorio, rappresenta certamente un rimedio, seppur di extrema ratio, diretto ad evitare il ricrearsi delle situazioni che la misura dissolutoria ha inteso ovviare e a salvaguardare, in tal modo, dei beni primari della intera collettività nazionale, unitamente alla sicurezza pubblica, la trasparenza e il buon andamento delle amministrazioni comunali. Gli ermellini sottolineano che ciò che deve tutelarsi è certamente il regolare funzionamento dei servizi affidati, i quali risultano essere capaci di alimentare la “credibilità” delle amministrazioni locali presso il pubblico, nonché quel rapporto che lega i cittadini alle istituzioni. Oltre a ciò, chiarisce la Corte, il procedimento giurisdizionale volto alla dichiarazione di incandidabilità, è autonomo rispetto a quello penale, motivo per cui non è affatto rilevante che il sindaco sia stato assolto dal reato di concorso esterno in associazione mafiosa. GMC
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Inserito in data 06/02/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZIONE SECONDA - ADUNANZA DI SEZIONE, PARERE 30 gennaio 2015, n. 298 Sull’affidamento in via diretta al CINECA di servizi informatici Il Consiglio di Stato da il via libera agli appalti in house senza gara anche a società pubbliche partecipate da privati, applicando, per la prima volta, i principi stabiliti dalla direttiva europea sugli appalti n. 24/2014, ancora non recepita in Italia, che allarga gli orizzonti sugli affidamenti diretti tra società pubbliche. Specificamente, con il parere in questione, i Giudici di Palazzo Spada intervengono in materia di affidamento, in via diretta, al CINECA, organismo senza scopo di lucro, da parte del MIUR, di servizi informatici riguardanti il sistema universitario, della ricerca e scolastico. Dunque, il quesito cui i Giudici del Consiglio di Stato sono stati sottoposti, riguarda la possibilità di affidamento “in house” di prestazioni di servizio nel campo dell’informatica per il sistema universitario, della ricerca e scolastico, da parte del Ministero dell’istruzione in via diretta al CINECA Consorzio Interuniversitario. Si chiarisce che il CINECA, in cui sono consorziati non solo il Ministero richiedente, ma anche sessantanove università e due Enti pubblici di ricerca, realizza, sostanzialmente, dei sistemi gestionali e servizi che fungono da sostegno alle università nonché al Ministero suddetto. Al fine di perseguire l’obiettivo de quo, l’Amministrazione deve osservare che l’organismo in house di una Pubblica Amministrazione corrisponda ad una figura che, seppur in parte distinta da un punto di vista soggettivo, presenti caratteristiche in grado di poterla qualificare come “derivazione”, ossia si tratta, nello specifico, di una figura incaricata di una gestione in qualche modo riconducibile allo stesso ente affidante o a sue articolazione, seguendo un sistema di organizzazione “meramente interno, qualificabile in termini di delegazione interorganica” (si consideri, a tal proposito, CdS, Ad. Plen., 3 marzo 2008, n. 1). Inoltre, prima della verifica delle due note condizioni di ammissibilità degli affidamenti diretti “in house”, trattasi, com’è noto, del controllo analogo e dello svolgimento della parte più consistente dell’attività, la sussistenza di una relazione c.d. in house tra una P.A. e un organismo partecipato deve essere affermata solo quando il secondo sia stabilmente investito della capacità di svolgere le prestazioni che la prima intenda affidargli, dovendosi trattare di un organismo istituzionalmente qualificato come forma organizzativa “interna per lo svolgimento delle attività che la p.a. si proponga di attuare per il suo tramite”. Nel caso analizzato, l’Amministrazione richiedente ritiene che il CINECA, partecipato dal MIUR, sebbene svolga la propria attività di servizio principalmente nel settore della istruzione superiore e della ricerca scientifica, possa essere comunque considerato istituzionalmente titolare della capacità di operare su incarico dello stesso Ministero anche nell’interesse del settore scolastico, e ciò in virtù del nuovo Statuto consortile del CINECA, approvato con D.M. 19 giugno 2012. Alla luce di alcune valutazioni, i Giudici di Palazzo Spada, confermano che gli avvisi delle Autorità indipendenti, nonché del Ministero dell’Economia, riconoscono tutti la sussistenza dei due requisiti sopracitati al fine di ammettere l’affidamento diretto in house al Consorzio CINECA. Nel caso de quo, infatti, sussiste il requisito del controllo analogo, esercitato sul Consorzio da parte del Ministero dell’istruzione, sia per effetto della partecipazione di quest’ultimo al capitale e agli organi direttivi dell’ente, sia per l’attribuzione di alcune specifiche prerogative, tra cui quella di approvare delle eventuali modifiche allo stato del CINECA medesimo, nonché il diritto di veto sulle più importanti deliberazioni del Consiglio consortile. In virtù di tutto quanto chiarito dal Consiglio di Stato, si puntualizza altresì che il modello accolto sia, sostanzialmente, quello, oggi codificato, della cooperazione pubblico/pubblico istituzionalizzata di tipo verticale, creato nella giurisprudenza comunitaria, con alcuni caratteri di quello della cooperazione pubblico/pubblico non istituzionalizzata di tipo orizzontale. GMC |
Inserito in data 05/02/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 4 febbraio 2015, n. 549 Sugli elementi costitutivi dell’azione di mobbing La presente pronuncia, avente ad oggetto un ricorso presentato non verso specifici provvedimenti, ma genericamente contro un atteggiamento ostile dell’Amministrazione che, a parere del ricorrente, a causa sella sua protrazione, avrebbe comportato una sostanziale emarginazione da parte dell’Amministrazione di pubblica sicurezza o in un suo ingiustificato demansionamento. Il Supremo Consesso, valutati gli atti di causa, ha ritenuto opportuno avallare la decisione espressa dal giudice di primo grado. Più precisamente, dopo aver ricordato quali debbano essere considerati, secondo la giurisprudenza ormai consolidata, gli elementi dell’azione di mobbing, ne ha escluso la sussistenza nel caso de quo, attesa la mancanza di prove in tal senso (prove che, eventualmente, il ricorrente avrebbe potuto fornire con la contestazione dei vari provvedimenti aventi ad oggetto i suoi trasferimenti). E’ stato, innanzitutto, rilevato che <<per mobbing deve intendersi una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico complessa, continuata e protratta nel tempo, tenuta nei confronti di un lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si manifesta con comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici, esorbitanti od incongrui rispetto all'ordinaria gestione del rapporto, espressivi di un disegno in realtà finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del lavoratore, tale che ne consegua un effetto lesivo della sua salute psicofisica e con l’ulteriore conseguenza che, ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro, va accertata la presenza di una pluralità di elementi costitutivi, dati: a) dalla molteplicità e globalità di comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche di per sé leciti, posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente secondo un disegno vessatorio; b) dall'evento lesivo della salute psicofisica del dipendente; c) dal nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e la lesione dell'integrità psicofisica del lavoratore; d) dalla prova dell'elemento soggettivo e, cioè, dell'intento persecutorio (Cons. St., sez. IV, 6 agosto 2013, n.4135; sez. VI, 12 marzo 2012, n.1388). A ben vedere, tuttavia, i trasferimenti a carico del ricorrente sarebbero stati giustificati, sulla base delle risultanze probatorie fornite dalla Pubblica Amministrazione, sia dalla necessità di fornire un’organizzazione efficiente del servizio pubblico, sia di andare incontro alle problematiche di salute che hanno afflitto il ricorrente. Non sembra, dunque, provato quell’intento soggettivo persecutorio e/o discriminatorio richiesto dalla norma incriminatrice risultando, di contro, un comportamento dell’amministrazione volto ad una corretta gestione del rapporto di lavoro, anche in considerazione delle varie problematiche di salute insorte negli anni. VA |
Inserito in data 04/02/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 2 febbraio 2015, n. 461 Sul principio di tassatività delle cause di esclusione dalle gare L’art. 46, comma 1-bis, d.lgs. 163/2006, aggiunto dal d.l. 70/2011, introducendo nel sistema dei contratti pubblici il principio di tassatività della cause di esclusione, autorizza l’esclusione dalle procedura di gara soltanto in presenza: i) di una “causa normativa”, contemplata dalle singole disposizioni del decreto mediante la previsione espressa della esclusione o la loro formulazione in termine di divieto o di imposizione di adempimenti doverosi; ii) di una “causa amministrativa”, che rientri nell’ambito della fattispecie generali tassativamente indicate dallo stesso art. 46. La sua ratio è di impedire, tra l’altro, l’adozione di atti basati su eccessi di formalismo in contrasto con il divieto di aggravamento degli oneri burocratici e con l’esigenza, nella prospettiva di tutelare la concorrenza, “di ridurre il peso degli oneri formali gravanti sui cittadini e sulle imprese”, riconoscendo giuridico rilievo “all’inosservanza di regole procedurali o formali solo in quanto questa impedisce il conseguimento del risultato verso cui l’azione amministrativa è diretta, atteso che la gara deve guardare alla qualità della dichiarazione piuttosto che all’esclusiva correttezza della sua esternazione” (Cons. Stato, ordinanza 2681/2013). CDC |
Inserito in data 03/02/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 2 febbraio 2015, n. 474 “Nuova costruzione” e repressione degli abusi edilizi Con la sentenza in epigrafe, stante il disposto dell’art. 3, lett. E/5) del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, il Consiglio di Stato afferma che, “ai fini del rilascio del permesso di costruire, debba parlarsi di “nuova costruzione” in presenza di opere che comunque implichino una stabile -ancorché non irreversibile- trasformazione urbanistico -edilizia del territorio preordinata a soddisfare esigenze del privato non precarie, ma destinate a prolungarsi nel tempo, sotto il profilo funzionale e della destinazione dell'immobile” (v., in tal senso, Cons. St. , sez. IV, n. 4214 del 2012, sez. VI, n. 986 del 2011 e sez. IV, n. 6615 del 2007). Va, pertanto, demolita l’opera eseguita in assenza di titolo, a nulla rilevando che l'amministrazione abbia inizialmente avvantaggiato il privato ed abbia adottato “solamente a notevole distanza di tempo i provvedimenti repressivi dell'abuso non sanabile” (v. “ex plurimis”, Cons. St. , IV, 3182/2013, VI, 6072/2012 e IV, 4403 /2011, 79/2011, 5509/2009 e 2529/2004). La repressione degli abusi edilizi, infatti, “è espressione di attività strettamente vincolata e non soggetta a termini di decadenza o di prescrizione”. Né, d’altra parte, può ritenersi che la P.A. abbia ingenerato nel privato un affidamento, atteso che “la realizzazione di un’opera abusiva si concretizza in una volontaria attività del costruttore contra legem”. In conclusione, i Giudici ritengono che “l’interesse del privato al mantenimento dell’opera abusiva è necessariamente recessivo rispetto all’interesse pubblico all’osservanza della normativa urbanistico –edilizia e al corretto governo del territorio”. EMF |
Inserito in data 03/02/2015 CORTE DI CASSAZIONE, SECONDA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 29 gennaio 2015, n. 1674 E’ solidale la responsabilità dei condomini in materia di responsabilità per fatto illecito La natura delle obbligazioni dei singoli condomini verso i terzi è stata oggetto, nel vigore della disciplina anteriore alla legge n. 220/12 (in vigore dal 18.6.2013), di un intervento delle Sezioni Unite, le quali con sentenza n. 9148/08, hanno affermato, “in rapporto a obbligazioni assunte dall'amministratore in rappresentanza del condominio nei confronti di terzi, che in difetto di un'espressa previsione normativa che stabilisca il principio della solidarietà, la responsabilità dei condomini nel caso di obbligazioni pecuniarie è retta dal criterio della parziarietà, per cui le obbligazioni assunte nell'interesse del condominio si imputano ai singoli componenti soltanto in proporzione delle rispettive quote, secondo criteri simili a quelli dettati dagli artt. 752 e 1295 c.c.”. Ciò posto, deve rammentarsi che “in materia di responsabilità per fatto illecito l'espressa previsione della solidarietà passiva è contenuta nell'art. 2055, primo comma c.c., in base al quale se il fatto dannoso è imputabile a più persone, tutte sono obbligate in solido al risarcimento del danno”. In tal senso, infatti, già il codice civile del 1865, ispirato al favor debitoris, impediva che il beneficio della parziarietà dell’obbligazione “potesse operare anche a vantaggio di chi, essendo autore di un illecito aquiliano, non ne era ritenuto degno”. Dal punto di vista sistematico, inoltre, solo i condomini “possono considerarsi investiti del governo della cosa, in base ad una disponibilità di fatto e ad un potere di diritto che deriva loro dalla proprietà piena sui beni comuni ex art. 1117 c.c. (sui requisiti in generale della custodia ai fini dell'applicazione dell'art. 2051 c.c., cfr. Cass. S.U. n. 12019/91)”; di guisa che ciascuno di essi è ritenuto solidalmente responsabile (ex art. 2055, comma 1, c.c.) del risarcimento del danno da cosa in custodia di proprietà condominiale. Peraltro, trattasi di ricostruzione avallata anche da precedenti pronunce della Suprema Corte (v., ex multis, Cass. n. 6665/09, Cass. n. 4797/01, Cass. n. 6405/90). EMF
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Inserito in data 02/02/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 26 gennaio 2015, n. 319 Realizzazione di una tettoia abusiva: sanzione di competenza del Comune Il Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale, con la sentenza in epigrafe, interviene in merito a un caso di realizzazione di una tettoia abusiva, respingendo l’appello indicato e confermando la sentenza impugnata. Specificamente, nel caso de quo, un privato chiede la riforma della sentenza con la quale il TAR Lombardia ha respinto il ricorso proposto avverso una ordinanza del responsabile del servizio tecnico di un Comune, recante ingiunzione di demolizione della tettoia posta su di un lato di un edificio vincolato come bene culturale con decreto ministeriale del 16 giugno 1980 ai sensi della Legge 1 giugno 1939, n. 1089. L’appellante dichiara che tale manufatto, costruito in materiale metallico e risalente ad un periodo anteriore al 1960, quindi senza che ne fosse necessario il previo assenso da parte del Comune, è da considerarsi compreso nel suddetto vincolo. Nel 2011, il Comune ha, tuttavia, comunicato a tutti i comproprietari del suddetto immobile, l’avvio del procedimento volto ad accertarne l’abusività, poiché costruito in assenza e/o difformità dai permessi rilasciati. Successivamente, il Comune ha infatti riscontrato l’abusività dell’opera, ordinandone, posteriormente, la sospensione dei lavori, alla luce dell’art. 27, comma 3, d.P.R. 380 del 2001 e la demolizione ai sensi del successivo art. 31. La Soprintendenza, tenuta a fornire dei chiarimenti richiesti dal Comune medesimo, ha esposto che la tettoia de qua era “compresa nel perimetro del vincolo istituito con d.m. del 16 ottobre 1980”. L’interessata, assumendo l’illegittimità della ordinanza di demolizione, ne ha chiesto l’annullamento al TAR Lombardia, il quale, tuttavia, ha respinto il ricorso “rilevando che l’epoca di realizzazione del manufatto non può essere fatta risalire a date anteriore al 1960, dato che le planimetrie allegate al decreto di vincolo non ne evidenziano l’esistenza, e che pertanto si rende applicabile ratione temporis l’art. 31, comma 1, della Legge n. 1150 del 1942”, secondo cui le nuove costruzioni devono essere assentite da previa licenza comunale. Specificano i giudici di Palazzo Spada che “deve escludersi che il vincolo comprenda anche la tettoria, la cui realizzazione avrebbe presupposto il rilascio di apposita concessione edilizia: la mancanza del titolo autorizzatorio è stato, quindi, correttamente sanzionata dal Comune con l’applicazione dell’art. 31 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, applicabile a prescindere dal lasso di tempo trascorso dalla realizzazione del manufatto”. Inoltre, “l’opera di cui trattasi deve essere qualificata quale nuova costruzione: questo Consiglio di Stato ha già osservato che, contrariamente a quanto pretende l’appellante, la realizzazione di una tettoia, anche se in aderenza ad un muro preesistente, non può essere considerata un intervento di manutenzione straordinaria ai sensi dell'art. 3, comma 1, lettera b) del d.P.R. n. 380 del 2001, in quanto non consiste nella rinnovazione o nella sostituzione di un elemento architettonico, ma nell’aggiunta di un elemento strutturale dell'edificio, con modifica del prospetto (per tutte, sez. VI, 5 agosto 2013, n. 4086)”. Oltre a ciò, viene puntualizzato che “la sua costruzione, pertanto, necessita del previo rilascio di permesso di costruire, e non è assentibile mediante semplice denuncia di inizio di attività, anche attesa la perdurante modifica dello stato dei luoghi che produce sul tessuto urbano: la mancanza del previo assenso legittima, quindi, l’applicazione della sanzione demolitoria, che costituisce atto dovuto per l’Amministrazione comunale, a prescindere dal lasso di tempo intercorso dalla realizzazione abusiva (per tutte, Consiglio di Stato, sez. VI, 2 giugno 2000, n. 3184), soprattutto quando, come nel caso di specie, l’abuso incide su un immobile sottoposto a vincolo”. Infine, quanto al potere di vigilanza, di cui all’art. 27 comma 1 del citato d.P.R. n. 380 del 2001, esso deve intendersi come potere di carattere generale, appartenente, come premesso, al Comune e riguardante l'intera attività edilizia sul territorio: “di conseguenza, non è fondata la pretesa esclusione della competenza comunale per effetto del comma 2 del medesimo art. 27, in favore di quella del Soprintendente laddove trattasi di abusi realizzati su immobili vincolati”. GMC |
Inserito in data 31/01/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, ORDINANZA DI RIMESSIONE all’ADUNANZA PLENARIA 22 gennaio 2015, n. 284 Illegittimità del concorso: il GA può disporre solo il risarcimento? Rimessione all’AP L’ordinanza ha rimesso all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato la seguente questione: “se il giudice amministrativo – in base ai principi fondanti la giustizia amministrativa ovvero in applicazione dell’art. 34, comma 3, del c.p.a. - possa non disporre l’annullamento della graduatoria di un concorso, risultata illegittima per un vizio non imputabile ad alcun candidato, e disporre che al ricorrente spetti un risarcimento del danno (malgrado questi abbia chiesto soltanto l’annullamento degli atti risultati illegittimi), quando la pronuncia giurisdizionale – in materia di concorsi per l’instaurazione di rapporti di lavoro dipendente - sopraggiunga a distanza di moltissimi anni dalla approvazione della graduatoria e dalla nomina dei vincitori, e cioè quando questi abbiano consolidato le scelte di vita e l’annullamento comporti un impatto devastante sulla vita loro e delle loro famiglie”. Ciò si fonda sul fatto che la giurisprudenza amministrativa più recente (in particolare, CdS 2755/2011) ha evidenziato che il giudice amministrativo potrebbe non disporre l’annullamento dell’atto illegittimo quando esso non comporta alcun beneficio per gli interessi pubblici né per il ricorrente. Nello stesso senso depongono, inoltre, i principi di proporzionalità, equità e giustizia, dato che l’annullamento, in ipotesi come quella in esame, non comporterebbe l’attribuzione del bene della vita al ricorrente, ma la privazione del bene della vita ai controinteressati, con radicale e gravissimo sconvolgimento delle loro vite e delle loro famiglie. Infine, si rileva che l’art. 34, comma 3, cpa non sembra ostacolare una pronuncia del giudice amministrativo che si limiti ad affermare l’illegittimità dell’atto, senza disporne l’annullamento, anche se non sia stata proposta domanda risarcitoria, quando il giudice ritenga che l’annullamento non sia altro che fonte di danno. CDC |
Inserito in data 29/01/2015 CORTE DI CASSAZIONE - TERZA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 27 gennaio 2015, n. 1451 Sul principio dell’apparenza del diritto L’espressione “apparenza del diritto” tende a caratterizzare l’esistenza di un rapporto tra un fenomeno costituito da una situazione fattuale, presente con immediatezza, che segnala una determinata situazione giuridica facendola apparire come veritiera e reale ed una effettività giuridica di segno diverso e non corrispondente affatto al primo. L’apparenza, differentemente dall’errore, da intendersi quale falsa rappresentazione della realtà che si crea in un soggetto, rappresenta una falsa segnalazione della realtà esteriore, idonea a far nascere un possibile errore “collettivo”. In generale, l’apparenza di diritto costituisce, dunque, un elemento “elastico” di fattispecie poste a tutela e salvaguardia dei terzi; in tali casi, viene, dunque, rimesso all’autorità giudiziaria l’apprezzamento della sussistenza, in concreto, degli elementi in base ai quali la situazione di fatto, chiaramente ed oggettivamente ingannevole, può anche considerarsi fonte dell’errore scusabile in cui sia incorso un determinato soggetto. È bene precisare, altresì, che se la situazione giuridica reale può dirsi riconoscibile, secondo un criterio di normalità, tale ultimo, importa l’esclusione della situazione di apparenza del diritto e, quindi, l’inescusabilità dell’errore in cui sia caduto un soggetto. Ciò vale, altresì, anche ad escludere la buona fede di quest’ultimo. La Suprema Corte, con la pronuncia de qua, interviene in merito all’apparenza colpevole, chiarendo che trova applicazione anche nei confronti delle associazioni non riconosciute. Specificamente, i Giudici di Piazza Cavour chiariscono, alla luce dell’art. 38, primo comma, del codice civile, che il principio dell’apparenza del diritto, nella sua declinazione di apparenza colpevole, operante in materia di rappresentanza negoziale nei riguardi del rappresentato apparente nel concorso, necessario, “dell’esistenza di una situazione di fatto difforme da quella di diritto, della sussistenza della buona fede del terzo che abbia stipulato con il falso rappresentante, nonché della sussistenza di un comportamento colposo del rappresentato (oggettivamente idoneo ad ingenerare nel terzo la ragionevole convinzione che il potere di rappresentanza sia stato effettivamente e validamente conferito al rappresentante apparente), trova applicazione anche nei confronti delle associazioni non riconosciute al fine di rendere le stesse obbligate in via principale, ai sensi dell'art. 38 cod. civ., per l'attività posta in essere da soggetto privo dei poteri rappresentativi dell'associazione stessa”. Come anticipato, si precisa, altresì, che “il riscontro in concreto delle condizioni atte a dar luogo al fenomeno dell’ “apparenza colpevole” è accertamento di fatto riservato al giudice del merito, insindacabile in questa se non nei limiti del vizio denunciabile ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. (nel testo applicabile ratione temporis)”. GMC
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Inserito in data 28/01/2015 CORTE DI CASSAZIONE - SECONDA SEZIONE CIVILE - ORDINANZA INTERLOCUTORIA 22 gennaio 2015, n. 1184 Sulla nozione di “professionista” ai sensi dell’art. 2956 n. 2 c.c La Seconda Sezione ha rinviato gli atti al Presidente della Corte di Cassazione affinché valuti l’opportunità di rimettere alle Sezioni Unite l’esatta individuazione dell’estensione del termine “professionista” ai fini dell’applicazione dell’art. 2956 n. 2 c.c. La controversia esaminata, infatti, verteva sulla debenza di onorari dovuti a titolo di prestazione professionale. Più precisamente, trattandosi di attività volta alla tenuta della contabilità di alcune imprese (la quale, tuttavia, era stata esercitata in forma societaria e, dunque, asserendone la natura di contratto d’opera), si controverteva sull’applicabilità o meno dell’art. 2956 n. 2 e, dunque, sul decorso del termine prescrizionale abbreviato. Gli Ermellini, infatti, ritengono che, venuti meno i limiti alla possibilità di esercizio delle professioni intellettuali anche in forma societaria, ivi incluse le professioni “protette”, occorra ridefinire l’ambito applicativo della norma in questione e, conseguentemente, valutare se la prescrizione presuntiva triennale possa essere invocata anche laddove l’attività prestata, pur se effettuata sotto la veste societaria, presenti i requisiti propri delle prestazioni intellettuali posto che <<la medesima disposizione non pone alcuna restrizione nell'interpretazione del termine professionista né, ovviamente, ne specifica il significato>> . La Suprema Corte, pertanto, ritiene che <<alla luce del nuovo quadro normativo, infatti,che le sezioni unite riflettano sul se e sui margini in cui la nuova figura di professionista […] si riverberi sulla nozione di professionista di cui all'art. 2956, n. 2), c.c., […]se, dunque, nella categoria dei professionisti, i cui diritti per il compenso dell'opera prestata e per il rimborso delle spese correlative sono assoggettati a prescrizione presuntiva triennale dall'art. 2956, n. 2, c.c., vanno ricompresi soltanto coloro che esercitano una professione intellettuale di antica o di recente tradizione, nei cui confronti è ravvisabile il presupposto della prassi del pagamento senza dilazione per l'agevole determinabilità del credito ai sensi dell'art. 2233 c.c., sicché detta prescrizione non è applicabile al credito per il compenso nascente da un mero contratto d'opera; ovvero se, addirittura, si possa estendere la prescrizione presuntiva triennale di cui all'art. 2956, n. 2), c.c. anche ai crediti di qualsivoglia soggetto, pur costituito in forma societaria, esercente attività professionale "non protetta". VA
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Inserito in data 28/01/2015 CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 27 gennaio 2015, n. 5 Inammissibilità del referendum abrogativo ed impossibilità di raggiungere lo scopo La Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibile la richiesta di referendum abrogativo avente ad oggetto le norme che disciplinano, anche attraverso la soppressione di alcuni tribunali ordinari delle corrispondenti procure della Repubblica, nonché di sezioni distaccate di tribunali ordinari, il nuovo assetto organizzativo degli stessi e degli uffici del pubblico ministero previste dai decreti legislativi 155/ 2012 e 14/2014. La decisione della Corte di legittimità è stata argomentata con riguardo all’effettivo scopo cui il referendum abrogativo tendeva (che può essere facilmente desunto, anche laddove non palesato in modo espresso, dai quesiti proposti). A ben vedere, infatti, le tre richieste di referendum sono erano volte a far rivivere, in tutto o in parte, le disposizioni che prevedevano gli uffici giudiziari soppressi ed i relativi circondari. La sentenza in commento, tuttavia, ricorda come lo strumento referendario non sia idoneo al perseguimento di tale scopo. Invero, come già precedentemente affermato dalla stessa Corte con la precedente sentenza n. 12 del 2014 del 2014 «l’abrogazione, a séguito dell’eventuale accoglimento della proposta referendaria, di una disposizione abrogativa è […] inidonea a rendere nuovamente operanti norme che, in virtù di quest’ultima, sono già state espunte dall’ordinamento (…), La volontà di far “rivivere” norme precedentemente abrogate […] non può essere attribuita, nemmeno in via presuntiva, al referendum, che ha carattere esclusivamente abrogativo […] e non può “direttamente costruire” una (nuova o vecchia) normativa (C.Cost. 34 e 33/2000)>>, assumendo, altrimenti, carattere deliberativo. Ne consegue che, stante l’impossibilità di conseguire lo scopo proprio del referendum sì come proposto, l’eventuale ammissione dello stesso comporterebbe un’espressione del voto viziata dalla prospettazione di una soluzione errata ed impossibile da raggiungere attraverso l’esperimento di tale via. VA |
Inserito in data 26/01/2015 CORTE DI CASSAZIONE, QUINTA SEZIONE PENALE, SENTENZA 21 gennaio 2015, n. 2768 Sulla nozione di “privata dimora” nella fattispecie di furto in abitazione Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di Legittimità, “la nozione di "privata dimora" nella fattispecie di furto in abitazione è più ampia di quella di "abitazione", in quanto va riferita al luogo nel quale la persona compia, anche in modo transitorio e contingente, atti della vita privata” (Sez. 5, n. 30957 del 02/07/2010 - dep. 03/08/2010, Cirlincione, Rv. 247765). Infatti, la Suprema Corte ha affermato che «l'ipotesi di reato delineata dall'art. 624 bis c.p. (introdotto dalla L. n. 128 del 2001, art. 2), in tema di furto in abitazione, esplicitamente ha ampliato la portata della previsione, così da comprendere in essa tutti quei luoghi nei quali le persone si trattengono per compiere, anche in modo transitorio e contingente, atti della loro vita privata: studi professionali, stabilimenti industriali, esercizi commerciali (Cass. 17-9-2003 n. 43671; Cass. 26-2-2003 n 18810; Cass. 18-9-2007 n. 43089). In particolare, tra gli elementi innovativi della fattispecie figura l'indicazione del locus nel quale è necessario che l'agente s'introduca al fine della commissione del reato: la formulazione previgente incentrata sul luogo destinato ad abitazione è stata sostituita dal riferimento all'edificio o ad altro luogo destinato in tutto o in parte a privata dimora ed alle pertinenze di esso. Il dettato normativo, confermando l'orientamento giurisprudenziale incline ad una interpretazione estensiva dei concetto di abitazione, ha esteso l'ambito di operatività della figura criminosa allineandola, sotto questo profilo, al delitto di violazione di domicilio di cui all'art. 614 c.p.» (Sez. 4, n. 37908 del 25/06/2009 - dep. 25/09/2009, Apprezzo, Rv. 244980). EMF
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Inserito in data 26/01/2015 CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 22 gennaio 2015, n. 1 Processo minorile e composizione dell’organo Giudicante Con la pronuncia in esame, la Consulta “dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 458 del codice di procedura penale e dell’art. 1, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni), nella parte in cui prevedono che, nel processo minorile, nel caso di giudizio abbreviato richiesto dall’imputato in seguito a un decreto di giudizio immediato, la composizione dell’organo giudicante sia quella monocratica del giudice per le indagini preliminari e non quella collegiale prevista dall’art. 50-bis, comma 2, del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12 (Ordinamento giudiziario)”. La stessa Corte Costituzionale ha avuto modo di sottolineare, infatti, come il principio costituzionale espresso dall’art. 31, secondo comma, Cost., “richieda l’adozione di un sistema di giustizia minorile caratterizzato dalla specializzazione del giudice, dalla prevalente esigenza rieducativa, nonché dalla necessità di valutazioni, da parte dello stesso giudice, fondate su prognosi individualizzate in funzione del recupero del minore deviante” (v. sentenza n. 222 del 1983)» (sentenza n. 143 del 1996). Invero, il Tribunale per i minorenni “fu istituito proprio perché si ritenne che il minore, spesso portato al delitto da complesse carenze di personalità dovute a fattori familiari, ambientali e sociali, dovesse essere valutato da giudici specializzati che avessero strumenti tecnici e capacità personali particolari per vagliare adeguatamente la personalità del minore al fine di individuare il trattamento rieducativo più appropriato" (sentenza n. 222 del 1983); di guisa che l’interesse del minore «trova adeguata tutela proprio nella particolare composizione del giudice specializzato (magistrati ed esperti)» (sentenza n. 310 del 2008). La suddetta composizione è stata opportunamente prevista anche per il Giudice dell’udienza preliminare, formato «da un magistrato e da due giudici onorari, un uomo e una donna» (art. 50-bis, comma 2, del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12 – Ordinamento giudiziario). Alla luce di quanto suddetto, fondatamente “il giudice rimettente ha dedotto la violazione dell’art. 3, primo comma, Cost., per la struttura monocratica, anziché collegiale, del giudice del giudizio abbreviato richiesto dopo l’emissione del decreto di giudizio immediato. La sua funzione è uguale a quella svolta dal giudice collegiale dell’udienza preliminare, sicché la diversa composizione dell’organo giudicante è priva di ragioni che possano giustificare il sacrificio dell’interesse del minore, la cui tutela è affidata di norma alla struttura collegiale di tale organo. Questa composizione dipende infatti da mere evenienze processuali e soprattutto dalla determinazione discrezionale del pubblico ministero di esercitare l’azione penale con la richiesta di giudizio immediato, anziché con la richiesta di rinvio a giudizio”. Del resto, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno sostenuto che «Nel processo penale a carico di imputati minorenni la competenza per il giudizio abbreviato, sia esso instaurato nell’ambito dell’udienza preliminare o a seguito di decreto di giudizio immediato, spetta al giudice nella composizione collegiale prevista dall’art. 50-bis, comma 2, dell’ordinamento giudiziario» (Cassazione, sezioni unite penali, 27 febbraio 2014, n. 18292). EMF |
Inserito in data 24/01/2015 CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 19 gennaio 2015, n. 735 Occupazione acquisitiva: illecito spossessamento del privato da parte della P.A. Ripercorrendo gli orientamenti succeduti nel tempo e, specificamente, nella giurisprudenza di legittimità degli anni Ottanta e Novanta, la Suprema Corte, a Sezioni Unite, con la pronuncia de qua, interviene in merito ad un caso di occupazione acquisitiva (o espropriativa o appropriativa), chiarendo che l’illecito spossessamento del privato, da parte della Pubblica Amministrazione, e l’irreversibile trasformazione del suo terreno per la costruzione di un’opera pubblica non danno luogo, sebbene vi sia stata la dichiarazione di pubblica utilità, all’acquisto dell’area da parte dell’Amministrazione ed il privato ha diritto a chiederne la restituzione, tranne nel caso in cui non decida di abdicare al suo diritto, chiedendo il risarcimento del danno. I Giudici di Piazza Cavour sottolineano, anzitutto, che l’occupazione acquisitiva rappresenta un istituto di “creazione giurisprudenziale”, risalente, come premesso, alla sentenza della Corte di legittimità, a Sezioni Unite, n. 1464 del 1983, nonché n. 3243 del 1979, tracciandone, in tal modo, il profilo storico. La sentenza del 1983, chiariscono i Giudici della Suprema Corte, affronta il caso, non previsto dalla legge, di un’occupazione protrattasi oltre i previsti termini di occupazione legittima e contrassegnata dalla irreversibile trasformazione del fondo per la costruzione di un’opera dichiarata di pubblica utilità. Essa ha, dunque, così come viene precisato nella pronuncia de qua, rappresentato “il frutto della dichiarata ricerca di un punto di equilibrio tra la tutela dell’azione amministrativa (assicurata dall’acquisto a titolo originario in capo alla pubblica amministrazione della proprietà del suolo illegittimamente occupato e trasformato) e la tutela della proprietà privata (assicurata dall’obbligo dell’amministrazione occupante di risarcire integralmente il danno arrecato, sulla base, almeno sino all’entrata in vigore del comma 7 bis dell’art. 5 bis del d.l. n. 333/1992, del valore venale del bene)”. Merito di tale sentenza è, inoltre, quello d’aver segnato, definitivamente, il superamento del precedente orientamento vigente, in base al quale il privato restava proprietario del bene occupato, avendo diritto esclusivamente al risarcimento del danno determinato dalla perdita di utilità ricavabile dalla cosa, restando soggetto alla tardiva sopravvenienza del decreto di espropriazione, idoneo a porre la fattispecie su un piano di legittimità, mediante l’attribuzione di un indennizzo. La giurisprudenza successiva agli anni Ottanta, s’è dovuta occupare, inoltre, del problema del contrasto dell’istituto della occupazione acquisitiva con l’art. 1 del protocollo addizionale alla CEDU, orientandosi, in seguito, non già verso il completo abbandono dell’istituto dell’occupazione acquisitiva, bensì verso la ricerca del superamento dei punti di criticità della disciplina dell’istituto rispetto ai principi affermati dalla CEDU. Specificamente, la Corte EDU ha censurato le forme di “espropriazione indiretta”, così come elaborate nell’ordinamento italiano in sede giurisprudenziale, configurandole come “illecito permanente perpetrato nei confronti di un diritto fondamentale dell’uomo”, garantito dall’art. 1 sopracitato. In tale contesto, nessuna rilevanza assume in contrario, altresì, il dato fattuale della intervenuta realizzazione di un’opera pubblica sul terreno interessato, affermandosi che l’acquisizione del diritto di proprietà non può mai conseguire ad un illecito (si consideri, in proposito, la sentenza Scordino c. Italia, 15 e 29 luglio 2004). A detta dei Giudici di Piazza Cavour, il contrasto dell’istituto dell’occupazione acquisitiva con l’art. 1 del protocollo addizionale alla Convenzione EDU, è sufficiente ad escluderne la sopravvivenza nel nostro ordinamento giuridico, precisandosi che la sussistenza del contrasto in parola è stata già riconosciuto con le ordinanze nn. 441 e 442 del 13 gennaio 2014, con le quali è stata ritenuta non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 42 bis del d.p.r. n. 327/2001, in relazione agli artt. 3, 25, 42, 97 111 e 117 della Carta costituzionale, anche alla luce dell’art. 6 e dell’art. 1 del protocollo addizionale della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Dunque, secondo la Corte di legittimità, in virtù di quanto esposto, “occorre stabilire, da un lato, se l'interpretazione della giurisprudenza sulle conseguenze dell'illecita utilizzazione sia o meno la sola consentita dal sistema e, dall'altro, se le norme che hanno dato 'copertura' all'istituto possano o meno essere 'sganciate' da questo ed essere oggetto di una diversa interpretazione”. Orbene, al primo interrogativo deve darsi risposta positiva poiché la c.d. accessione invertita rappresenta “una eccezione rispetto alla normale disciplina degli effetti di una occupazione illegittima cui consegue ordinariamente il diritto del soggetto spossessato di richiedere la restituzione”. Tale eccezione, inoltre, si fondava sulla esistenza, affermata in via interpretativa, di un principio generale, del quale sarebbero stati espressione gli artt. 936 ss. cod. civ. Con specifico riferimento al secondo interrogativo, devono prendersi in considerazione le disposizioni di cui all’art. 3, comma 1, legge n. 458 del 1988, il quale, escludendo la retrocessione e, dunque, la restituzione, presuppone che alla trasformazione irreversibile dell’area consegua necessariamente l’acquisto della stessa da parte di chi ha realizzato le opere, sebbene la disposizione non abbia carattere generale poiché è limitata alla utilizzazione dei suoli per finalità di edilizia residenziale pubblica, agevolata e convenzionata, l’art. 11, commi 5 e 7 della legge n. 413 del 1991, art. 5 bis, comma 7 bis, del d.l. n. 333/1992 nonché art. 55, comma 1, del d.p.r. n. 327 del 2001. Tutto ciò chiarito, la costante giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo, chiarisce che quando il decreto di esproprio non sia stato emesso o sia stato annullato, l'occupazione e la manipolazione del bene immobile di un privato, da parte dell'Amministrazione, si configurano, indipendentemente dalla sussistenza o meno di una dichiarazione di pubblica utilità, come un illecito di diritto comune, “che determina non il trasferimento della proprietà in capo all'Amministrazione, ma la responsabilità di questa per i danni”. In particolare, la Corte chiarisce che “con riguardo alle fattispecie già ricondotte alla figura dell'occupazione acquisitiva, viene meno la configurabilità dell'illecito come illecito istantaneo con effetti permanenti e, conformemente a quanto sinora ritenuto per la c.d. occupazione usurpativa, se ne deve affermare la natura di illecito permanente, che viene a cessare solo per effetto della restituzione, di un accordo transattivo, della compiuta usucapione da parte dell'occupante che lo ha trasformato, ovvero della rinunzia del proprietario al suo diritto, implicita nella richiesta di risarcimento dei danni per equivalente”. Alla luce di ciò, deve escludersi che il proprietario perda il diritto di ottenere il controvalore dell'immobile rimasto nella sua titolarità, infatti, in alternativa alla restituzione, al proprietario è sempre concessa l'opzione per una tutela risarcitoria, con una implicita rinuncia al diritto dominicale sul fondo irreversibilmente trasformato. Concludendo, il privato, avrà diritto, dunque, al risarcimento dei danni per il periodo, non coperto dall'eventuale occupazione legittima, durante il quale ha subito la perdita delle utilità ricavabili dal terreno e ciò sino al momento della restituzione, ovvero sino al momento in cui ha chiesto il risarcimento del danno per equivalente, a ciò conseguendone che la prescrizione quinquennale del diritto al risarcimento dei danni decorre dalle singole annualità, quanto al danno per la perdita del godimento, e dalla data della domanda, quanto alla reintegrazione per equivalente. GMC
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Inserito in data 24/01/2015 TAR SICILIA - CATANIA, SEZ. IV, 19 gennaio 2015, n. 163 Competenza del Consiglio comunale in tema di farmacie Il TAR Catania, con la pronuncia de qua, interviene in merito alla competenza del Consiglio comunale in tema di attività di programmazione e pianificazione rivolta all’individuazione e localizzazione di nuove sedi farmaceutiche in città. Nel caso de quo, viene chiarito che è illegittima la proposta di istituzione della nuova sede farmaceutica proveniente dal Sindaco e non dall’organo a ciò deputato alla luce dell’art. 32 della legge n. 142 del 1990, come recepita in Sicilia, ossia il Consiglio comunale, quale unico organo titolare della potestà di programmazione e pianificazione in tema di pubblici servizi. La censura de qua, precisa altresì il Tribunale, riveste carattere assorbente rispetto alle restanti doglianze, precisandosi che “è principio generale del processo amministrativo che l’accoglimento di un vizio motivo di incompetenza dell’organo che ha provveduto è, intrinsecamente e necessariamente, assorbente di ogni altro vizio motivo dedotto nel ricorso; giacché tale vizio accolto inficia tutti gli atti successivi, che inevitabilmente dovranno essere reiterati dall’organo competente (o, se si tratti di un collegio, da quello correttamente costituito), e ciò, ovviamente, senza che la successiva attività, cognitiva e valutativa, di quest’ultimo possa in alcun modo risultare pregiudicata da quella in precedenza svolta dall’organo incompetente”. Tale principio, inoltre, così come i Giudici di merito puntualizzano, ha trovato un espresso riconoscimento nell’art. 34, comma 2, I periodo, c.p.a., secondo cui “in nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati”. GMC |
Inserito in data 22/01/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 22 gennaio 2015, n. 277 Legittimità dell’avvalimento frazionato anche in caso di appalti di servizi La pronuncia conferma la legittimità del c.d. avvalimento frazionato ai sensi dell’art. 49 d.lgs. 163/2006, già ammesso dalla sentenza della Corte di Giustizia del 10 ottobre 2013, secondo la quale “la direttiva 2004/18 consente il cumulo delle capacità di più operatori economici per soddisfare i requisiti minimi di capacità imposti dall’amministrazione aggiudicatrice, purché alla stessa si dimostri che il candidato o l’offerente che si avvale delle capacità di uno o di svariati altri soggetti disporrà effettivamente dei mezzi di questi ultimi che sono necessari all’esecuzione dell’appalto”. Tale principio, benché espresso in relazione ad un appalto di lavori, ha efficacia, secondo la sentenza del Consiglio di Stato in esame, anche in caso di appalti di servizi. Si tratta, infatti, di un principio di carattere generale, espresso da una direttiva destinata a disciplinare non solo gli appalti di lavori, ma anche quelli di servizi e forniture. CDC |
Inserito in data 22/01/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 22 gennaio 2015, n. 285 Principi generali in tema di danno da mancata aggiudicazione di una gara In tema di danno da mancata aggiudicazione di una gara d’appalto, spetta all'impresa danneggiata offrire la prova della percentuale di utile che avrebbe conseguito, qualora fosse risultata aggiudicataria dell'appalto, poiché nell'azione di responsabilità per danni il principio dispositivo opera con pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell'azione di annullamento (ex art. 64, commi 1 e 3, cpa). Ne segue che il ricorso alla valutazione equitativa, ai sensi dell'art. 1226 cc, è ammesso soltanto in presenza di situazione di impossibilità - o di estrema difficoltà - di una precisa prova sull'ammontare del danno. Inoltre, le parti non possono sottrarsi all'onere probatorio e rimettere l'accertamento dei propri diritti all'attività del consulente in caso di consulenza tecnica d'ufficio "percipiente", giacché, anche in siffatta ipotesi, è necessario che le parti stesse deducano i fatti e gli elementi specifici posti a fondamento di tali diritti. Tuttavia, la prova in ordine alla quantificazione del danno può essere raggiunta anche mediante presunzioni, alla stregua di un giudizio di probabilità basato sull'id quod plerumque accidit, purché gli indizi prescelti siano dotati dei requisiti legali della gravità, precisione e concordanza. Infine, il mancato utile spetta nella misura integrale solo se la concorrente dimostra di non aver potuto altrimenti utilizzare mezzi e maestranze, in quanto tenuti a disposizione in vista dell'aggiudicazione. In assenza di tale dimostrazione, è da ritenere che l'impresa possa aver ragionevolmente riutilizzato mezzi e manodopera per altri lavori o servizi, con conseguente decurtazione del risarcimento di una misura a titolo di aliunde perceptum vel percipiendum. CDC |
Inserito in data 21/01/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL'ADUNANZA PLENARIA, 16 gennaio 2015, n. 88 Sulla mancata indicazione degli oneri di sicurezza interni o aziendali Il Consiglio di Stato, chiamato a pronunciarsi in merito alla legittimità dell’atto di esclusione da una gara di appalto per mancata indicazione degli oneri di sicurezza aziendali all’interno dell’offerta economica, rilevata l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale sulla corretta interpretazione dell’art. 87 comma 4 del codice dei contratti pubblici, ha ritenuto opportuno rimettere all’Adunanza Plenaria la definizione della suddetta questione pregiudiziale. Il Consiglio di Stato ha preso atto dell’esistenza di due tipologie di costi relativi alla sicurezza: i costi c.d. da interferenze e quelli interni o aziendali. I primi attengono ai rischi che possano derivare dal contatto tra il personale del committente e dell’appaltatore o tra imprese diverse che, pur legate da contratti differenti, operano nella medesima sede aziendale, sono quantificati a monte dalla stazione appaltante e non sono soggetti a ribasso. Gli oneri di sicurezza interni o aziendali, invece, sono propri di ciascuna impresa e concernono i rischi legato alla realizzazione dello specifico appalto (documento di valutazione dei rischi). Alla luce di queste considerazioni risulta evidente che gli oneri di sicurezza da valutare ai fini della valutazione di congruità delle offerte da parte della stazione appaltante non possono che essere gli oneri di sicurezza aziendale, trattandosi di costi che dipendono da valutazioni soggettive e che possono variare a seconda dell’impresa. L’art. 87 comma 4 del Codice degli Appalti, peraltro, presenta una formulazione ambigua: nel primo periodo, riferendolo a tutti gli appalti indistintamente, ribadisce la loro intangibilità al ribasso, ancorandoli al piano di sicurezza e coordinamento; nel secondo periodo, invece, prescrive l’indicazione specifica dei costi di sicurezza ed il requisito della congruità, ma facendo riferimento ai soli appalti di servizi e forniture. L’incertezza del dato normativo ha dato vita a due diversi filoni interpretativi. Secondo la lettura più estensiva della norma la ratio a questa sottesa, che <<impone ai concorrenti di indicare già nell’offerta l’incidenza degli oneri di sicurezza aziendali, risponde a finalità di tutela della sicurezza dei i lavoratori e, quindi, a valori sociali e di rilievo costituzionale che assumono rilievo anche nel settore dei lavori pubblici>>. Ne conseguirebbe la necessaria applicazione all’intero settore degli appalti pubblici. Questa interpretazione, secondo questo primo indirizzo giurisprudenziale, sarebbe sorretta anche dalla collocazione sistematica della norma che è stata inserita nella parte del Codice dedicata ai “Contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture” (C.d.S 5421/11; 3929/13). Al suddetto obbligo di indicazione, inoltre, viene attribuita la natura di obbligo legale risultando, peraltro, irrilevante la circostanza che la lex specialis di gara non lo richieda espressamente. Questo orientamento giurisprudenziale è stato messo in dubbio dalla più recente giurisprudenza amministrativa (si veda C.d.S 2343/14; 4964/13). Secondo questa nuova interpretazione la norma dovrebbe applicarsi esclusivamente agli appalti di servizi o di forniture <<in ragione della “speciale disciplina normativa riservata agli appalti di lavori, che appunto si connota per l’analisi preventiva dei costi della sicurezza aziendale, che sua vota si spiega alla luce della maggiore rischiosità insita nella predisposizione di cantieri>>. Per i lavori, dunque, la quantificazione è rimessa al piano di sicurezza e coordinamento ex art. 100 d.lgs. n. 81/2008, predisposto dalla stazione appaltante ai sensi dell’art. 131 cod. contratti pubblici, pur rimanendo in essere l’obbligo di valutazione dell’offerta, anche rispetto al costo della sicurezza, in virtù dell’art. 86 comma 3 bis del Codice dei contratti pubblici. Rilevato il suddetto contrasto interpretativo il Supremo Consesso ha ragionevolmente rimesso all’Adunanza Plenaria la soluzione della questione relativa alla possibile estensione dell’articolo 87, comma 4, del codice dei contratti pubblici anche ai contratti relativi a lavori pubblici ed alla necessaria previsione delle sanzione di esclusione, in caso di violazione dell’obbligo di specificazione dei suddetti oneri da parte della legge di gara. VA |
Inserito in data 21/01/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 19 gennaio 2015, n. 118 Sulle misure interdittive antimafia Il Supremo Consesso, tornato a pronunciarsi sulle informative antimafia, ha accolto l’appello proposto avverso alcune informative aventi carattere interdittivo, risultando sproporzionato il mezzo di tutela dell’interesse pubblico, tenuto conto dell’elevazione della soglia di prevenzione, in mancanza di elementi significativi da cui possa ricavarsi l’esistenza dei presupposti. Con questa pronuncia il Collegio, infatti, ha ricordato che il pericolo di infiltrazione mafiosa non può desumersi automaticamente dall’esistenza di un rapporto di parentela con soggetti appartenenti alla criminalità organizzata, ma deve essere supportato da elementi ulteriori che facciano presagire un condizionamento ed una contiguità con interessi malavitosi. Invero <<è stato affermato in giurisprudenza che l'eventuale attività pregiudizievole posta in essere da un genitore o da un figlio non può riverberarsi automaticamente sull'attività imprenditoriale di soggetti legati da rapporto di parentela che, senza loro colpa, verrebbero relegati nell'impossibilità di svolgere attività lecite e costituzionalmente tutelate>>. Per considerare esistente un pericolo di condizionamento mafioso, inoltre, non può considerarsi sufficiente l’esistenza di rapporti di vicinanza con soggetti pregiudicati, dovendosi trattare più specificatamente di precedenti afferenti reati di criminalità organizzata, e deve presentare il carattere dell’attualità. VA |
Inserito in data 20/01/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 20 gennaio 2015, n. 166 Principi generali in tema di accesso agli atti amministrativi La forma privatistica dell’ente pubblico non è di ostacolo al riconoscimento della legittimazione passiva in capo a quest’ultimo. Ne segue che ricade nell’ambito soggettivo della nozione di PA di cui all’art. 22, l. 241/90, anche una società per azioni interamente partecipata dal Comune, che gestisce un servizio pubblico locale nelle forme del fenomeno dell’in house. Per documento amministrativo deve intendersi, ex art. 22, comma 1, lett. d), l. 241/90, non solo l’atto prodotto dalla PA, ma anche quello semplicemente detenuto da quest’ultima, purché faccia riferimento ad un’attività di pubblico interesse. L'istanza di accesso deve essere sorretta da un interesse giuridicamente rilevante, cioè serio, effettivo, autonomo, non emulativo, non riducibile a mera curiosità e ricollegabile all'istante da uno specifico nesso. Tale è, sicuramente, l’interesse alla tutela giurisdizionale, che prevale su quello alla riservatezza dei terzi. La PA (o il soggetto ad essa equiparato), in sede di esame di una domanda d’accesso, è tenuta solo a valutare l’inerenza del documento richiesto con l’interesse palesato dall’istante, e non anche l’utilità del documento al fine del soddisfacimento della pretesa correlata. Dunque, non può essere essere operato alcun apprezzamento in ordine alla fondatezza o ammissibilità della domanda giudiziale che gli interessati potrebbero eventualmente proporre sulla base dei documenti acquisiti mediante l’accesso. CDC |
Inserito in data 20/01/2015 CORTE DI CASSAZIONE, SESTA SEZIONE PENALE, SENTENZA 19 gennaio 2015, n. 2334 Confisca e tutela dei terzi in buona fede ex art. 52 codice antimafia Secondo l’art. 52 d.lgs. 152/2011 (c.d. codice antimafia), la confisca non pregiudica i diritti reali di garanzia dei terzi, costituiti in epoca anteriore, purché sussistano alcune condizioni, tra cui quella che il credito non risulti strumentale all’attività illecita. È comunque possibile che il creditore sia ammesso a dimostrare di avere ignorato in buona fede il nesso di strumentalità. La buona fede del terzo sussiste non solo quando risulti la sua estraneità a qualsiasi collusione o compartecipazione all’attività criminosa, ma anche laddove emerga una credibile inconsapevolezza delle attività svolte dal prevenuto. La buona fede deve comunque essere immune da colpa: tale indagine deve compiersi caso per caso, con riferimento alla ragionevolezza dell’affidamento, che non può essere invocato da chi versi in una situazione di negligenza, per aver notevolmente trascurato obblighi di legge o per non aver osservato comuni norme di prudenza attraverso cui accertarsi della realtà delle cose. CDC
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Inserito in data 19/01/2015 TAR LOMBARDIA - MILANO, SEZ. I, 12 gennaio 2015, n. 94 Sul danno da ritardo della Pubblica Amministrazione Con la sentenza in esame, i Giudici di Milano precisano che “il danno da ritardo (riferito cioè alla tardiva adozione del provvedimento ampliativo spettante) consegue all’inadempimento dell’obbligo (legale) preesistente di concludere il procedimento amministrativo nei termini prefissati. L’interesse giuridicamente protetto è qui l’aspettativa della utilità incrementali attese per via della positiva conclusione del procedimento, e non la generica reintegrazione “del tempo”, il quale non costituisce (sul versate civilistico) un autonomo “bene della vita” (come ritiene la giurisprudenza che riconduce la fattispecie nell’alveo dell’art. 2043 c.c.: cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 4 settembre 2013 n. 4452; Consiglio di Stato, sez. V, 28 febbraio 2011 n. 1271), bensì rappresenta il presupposto (empirico) per lo sfruttamento delle possibilità acquisitive conseguibili con il proprio agire lecito”. Invero, “l’istituto intende porre l’amministrato (tramite la compensazione economica della aspettativa non realizzata) nella stessa situazione in cui questi si sarebbe trovato se la l’azione amministrativa fosse stata tempestivamente portata a compimento, distinguendosi dall’illecito aquiliano che si muove invece nell’orbita della salvaguardia dello status quo ante (ripristino dell’integrità patrimoniale e riparazione del danno alla persona)”. Il rimedio, in definitiva, “per affinità funzionale, appare classificabile nell’alveo della responsabilità contrattuale (sia pure connotata da una disciplina meno favorevole per l’avente diritto, dettandosi un termine prescrizionale più breve)”. Ne consegue che “l’antigiuridicità della condotta è di per sé qualificata dalla violazione del termine legale, laddove il riferimento alla “ingiustizia” (pure contenuto nell’art. 2 bis della legge 241/1990) è una mera superfetazione, in quanto non costituisce un ulteriore elemento esplicativo della fattispecie risarcitoria”. Tale conclusione “non è contraddetta dalla considerazione per cui non sarebbe sufficiente, ai fini della risarcimento, il mero superamento del termine di conclusione del procedimento, occorrendo provare l’effettivo nocumento patito; ciò, infatti, attiene alla selezione del danno risarcibile e non alla ingiustizia della lesione”. Peraltro, il danno da ritardo “non è cumulabile con il danno da mera ”incertezza” (derivante cioè dalla semplice attesa di conoscere l’esito dell’istanza), integrando essi fattispecie del tutto alternative. Il primo è, come si è visto, connesso alla aspettativa di utilità conseguibile tramite l’ottenimento dell’autorizzazione (interesse positivo); il secondo è riferito al pregiudizio derivante dalla lesione dell’affidamento qualificato del cittadino a non essere coinvolto nelle ingiustificate lungaggini procedimentali della pubblica amministrazione (interesse negativo)”. EMF |
Inserito in data 19/01/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 14 gennaio 2015, n. 60 Sulla concessione della cittadinanza italiana Per i Giudici di Palazzo Spada “è opinione comunemente condivisa, anche in base a giurisprudenza consolidata, che la concessione della cittadinanza italiana sia un atto connotato da una discrezionalità quanto mai estesa”, con l’eccezione di alcune ipotesi particolari. Ciò vale, in particolare, “per l’ipotesi di cui alla legge n. 91/1992, articolo 9, comma 1, lettera (f), ossia quella dello straniero che risiede legalmente in Italia da almeno dieci anni”. E’ pacifico, infatti, che “la lunga durata della residenza, prevista dalla norma in esame, sia solo il requisito di base, ossia una condicio sine qua non, che non esonera dall’accertamento di ulteriori condizioni valutabili discrezionalmente, fra le quali l’effettivo e proficuo inserimento del soggetto nella comunità nazionale e l’autosufficienza economica”. EMF |
Inserito in data 16/01/2015 TAR PUGLIA - LECCE, SEZ. III, 5 gennaio 2015, n. 8 Principio di tassatività delle cause di esclusione dalle gare Con la pronuncia in epigrafe, il Tar Lecce ha chiarito che il principio di tassatività delle cause di esclusione, di cui all’art. 46, comma 1bis del d.lgs. n. 163/2006 (Codice dei contratti pubblici), si applica anche alle concessioni di servizi. Invero, l’unico parametro utilizzabile al fine di valutare la legittimità delle ammissioni e delle esclusioni dalle procedure selettive pubbliche è dato dall’articolo suddetto. Specificamente, il principio di tassatività delle cause di esclusione, come anticipato, deve essere applicato anche alle concessioni di servizi di cui all’art. 30 del Codice Appalti. Esso, infatti, rappresenta un principio fondamentale generale relativo ai contratti pubblici e costituisce, inoltre, specificazione dei principi di massima partecipazione e di proporzionalità. L’applicabilità dello stesso, alla materia delle concessioni, è garantito dal comma 3 dell’art. 30 del Codice dei contratti pubblici e se così non fosse potrebbe giungersi ad un’ingiustificata diversità di regimi da rispettare nelle gare per l’affidamento di appalti e in quelle per l’affidamento di concessioni di servizi. Occorre sottolineare altresì che la giurisprudenza ha sottolineato che l’art. 46 in questione “ha previsto la tassatività delle cause di esclusione, disponendo che la stazione appaltante può escludere i candidati o i concorrenti solo in caso di mancato adempimento alle prescrizioni previste dal codice e dal regolamento e da altre disposizioni di legge vigenti, nonché nei casi di incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell’offerta, per difetto di sottoscrizione o di altri elementi essenziali ovvero in caso di non integrità del plico contenente l’offerta o la domanda di partecipazione o altre irregolarità relative alla chiusura dei plichi, tali da far ritenere, secondo le circostanze concrete, che sia stato violato il principio di segretezza delle offerte; ma i bandi e le lettere di invito non possono contenere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione”. Oltre a ciò, si chiarisce che “le norme che disciplinano i requisiti soggettivi di partecipazione alle gare pubbliche vanno interpretate nel rispetto dei principi di tipicità e tassatività delle ipotesi di esclusione. Questo orientamento ha recentemente trovato una puntuale traduzione normativa con il nuovo c. 1bis dell’art. 46 d.lgs. 12 aprile 2006 n. 163, introdotto dall’art. 4 del d.l. 13 maggio 2011 n. 70”. Alla luce di quanto evidenziato, l’esclusione sarà assolutamente legittima in quanto trovi copertura nell’art. 46 sopracitato, sarà, invece, illegittima tutte le volte in cui non trovi fondamento nella norma esposta ed anche quando illegittimamente prevista nella lex specilis sia affetta da nullità testuale e parziale. GMC |
Inserito in data 16/01/2015 TAR CAMPANIA – SALERNO, SEZ. I, 9 gennaio 2015, n. 54 Gestori del servizio pubblico: sussiste giurisdizione del G.O. Il TAR Salerno, con la pronuncia de qua, chiarisce che sussiste la giurisdizione del giudice ordinario per la controversia proposta contro il soggetto gestore del servizio pubblico di trasporto pubblico per violazione degli obblighi di prestazione connessi con il servizio medesimo. Viene chiarito che la materia dei pubblici servizi può essere oggetto di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo solo se in essa la Pubblica Amministrazione agisca esercitando il suo potere autoritativo, ovvero se si avvale della facoltà, ad essa dalla legge riconosciuta, di adottare strumenti negoziali in luogo del potere autoritativo. Invero, nei rapporti tra l’utente e l’Amministrazione tenuta alla vigilanza “non sono neppure astrattamente configurabili situazioni di interesse legittimo e manca, quindi, il presupposto perché le controversie ad essi relative possano essere devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo”. La vigilanza, a cui l’Amministrazione pubblica è tenuta, si esplica mediante l’esercizio di una serie di poteri nei confronti dei soggetti gestori, diretti ad assicurare che i loro comportamenti siano ispirati a correttezza, trasparenza ed imparzialità. Specificamente, la posizione assunta da tali soggetti rispetto all’Amministrazione, talora si concreta in situazioni di interesse legittimo, correlate all’esercizio dei poteri di vigilanza, altre volte, invece, si manifesta in diritti soggettivi inerenti allo svolgimento del rapporto derivante dalla convenzione di servizio stipulata. Quanto, invece, alla posizione rivestita dagli utenti del servizio su cui l’Amministrazione non esercita alcun potere (essendo, tuttavia, tenuta essa stessa alla loro tutela), essa assume la consistenza di un diritto soggettivo, il quale dovrà essere, nei casi di violazione, tutelato innanzi al giudice ordinario e non già al giudice amministrativo. Alla luce di quanto chiarito dal TAR, sarà, dunque, devoluta al giudice ordinario la controversia proposta contro il soggetto gestore del servizio pubblico di trasporto pubblico in tutti i casi di violazione degli obblighi di prestazione connessi con il servizio e derivanti dall’acquisto di un abbonamento (o di un biglietto) da parte degli utenti medesimi. GMC |
Inserito in data 15/01/2015 TAR LOMBARDIA - BRESCIA, SEZ. I, 14 gennaio 2015, n. 55 Sulla liberalizzazione del servizio taxi da e per gli aeroporti L’attenzione del Collegio bresciano si concentra sull’art. 14 del d. lgs. 422/1997, che “liberalizza, se pure in modo non assoluto, il servizio taxi da e per gli aeroporti, eliminando la rendita di posizione di cui sino a quel momento fruivano gli operatori autorizzati dal Comune in cui l’aeroporto si trova”. In particolare, la logica della norma de qua si spiega “ricordando che gli aeroporti vengono localizzati in base a ragioni più spesso tecniche, ma talora anche storiche, le quali nulla hanno a che vedere con l’importanza del Comune che li ospita. Poteva quindi accadere, ed accadeva, che la competenza ad assicurare il servizio taxi fosse determinata in modo del tutto casuale, e non coerente con le necessarie ragioni di efficienza”. Ciò posto, i Giudici ritengono che essa abbia efficacia immediata (e non subordinata al futuro ed eventuale perfezionamento dell’intesa), atteso che, “fra due interpretazioni ugualmente possibili, si debba preferire quella che consente una maggior liberalizzazione dell’attività economica”. Il recente “decreto liberalizzazioni”, ovvero il d.l. 24 gennaio 2012 n°1 convertito nella l. 24 marzo 2012 n°27, in dichiarata attuazione di principi europei e costituzionali, dispone, infatti, all’art. 1 comma 2 che “Le disposizioni recanti divieti, restrizioni, oneri o condizioni all'accesso ed all'esercizio delle attività economiche sono in ogni caso interpretate ed applicate in senso tassativo, restrittivo e ragionevolmente proporzionato alle perseguite finalità di interesse pubblico generale, alla stregua dei principi costituzionali per i quali l'iniziativa economica privata è libera secondo condizioni di piena concorrenza e pari opportunità tra tutti i soggetti, presenti e futuri, ed ammette solo i limiti, i programmi e i controlli necessari ad evitare possibili danni alla salute, all'ambiente, al paesaggio, al patrimonio artistico e culturale, alla sicurezza, alla liberta', alla dignita' umana e possibili contrasti con l'utilità sociale, con l'ordine pubblico, con il sistema tributario e con gli obblighi comunitari ed internazionali della Repubblica”. EMF |
Inserito in data 15/01/2015 CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE LAVORO, SENTENZA 14 gennaio 2015, n. 467 Sulla prova della speciale nocività dell’ambiente di lavoro Con la sentenza indicata in epigrafe, la Suprema Corte sostiene che “in tema di malattie ed eziologia plurifattoriali, la prova della causa di lavoro o della speciale nocività dell'ambiente di lavoro, che grava sul lavoratore, deve essere valutata in termini di ragionevole certezza, nel senso che, esclusa la mera possibilità dell'origine professionale, questa può essere invece ravvisata in presenza di un rilevante grado di probabilità” (v. anche Cass. 8 maggio 2013, n. 10818). EMF
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Inserito in data 14/01/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 13 gennaio 2015, n. 52 Natura degli atti del commissario ad acta nel giudizio di ottemperanza e poteri della PA La sentenza affronta le due questioni, fra loro collegate, della natura giuridica degli atti adottati dal commissario ad acta nel giudizio di ottemperanza e della possibilità per la PA commissariata di modificare detti atti. Quanto al primo tema, è ormai pacifico in giurisprudenza che il commissario ad acta sia un ausiliario del giudice. Ne segue che i suoi provvedimenti sono adottati esclusivamente in funzione dell’esecuzione del giudicato, sono immediatamente esecutivi e non sono soggetti al regime dei controlli degli atti della PA, ma sono sottoposti solo al controllo del giudice dell’ottemperanza. Ciò è confermato dall’art. 114, comma 6, cpa (come modificato dal d.lgs. 195/2011), il quale dispone che le parti propongono reclamo avverso gli atti del commissario ad acta dinanzi al giudice dell’ottemperanza. Tale norma fa eccezione solo per i terzi estranei al giudicato, i quali possono impugnare gli atti emanati dal giudice dell’ottemperanza o dal commissario ad acta ai sensi dell’art. 29 cpa, con il rito ordinario. Da ciò consegue che, per la PA commissariata, non è più possibile modificare gli atti del commissario ad acta, per tre ordini di ragioni. Anzitutto, il commissario ad acta, come si è detto, non è organo della PA commissariata, ma longa manus del giudice. Inoltre, nel giudizio di ottemperanza viene in rilievo una giurisdizione di merito, nella quale il giudice si sostituisce alla PA, tenuta a conformarsi in tutto e per tutto alle determinazioni del giudice e, conseguentemente, del commissario ad acta. Infine, dall’art. 117, comma 4, cpa (secondo il quale il giudice conosce di tutte le questioni relative all’esatta adozione del provvedimento richiesto, comprese quelle inerenti agli atti del commissario) consegue che la PA non ha alcuna discrezionalità nel dare attuazione a quanto stabilito dal commissario ad acta; piuttosto, essa conserva solo la facoltà di sollecitare l’intervento del giudice qualora sorgano dubbi interpretativi sulla portata applicativa del provvedimento. CDC |
Inserito in data 14/01/2015 CORTE DI CASSAZIONE, PRIMA SEZIONE PENALE, SENTENZA 5 gennaio 2015, n. 5 Permanente rilevanza penale del reato di immigrazione clandestina Il reato di immigrazione clandestina di cui all’art. 10-bis, d.lgs. 286/98 non è venuto meno a seguito dell’art. 2, comma 3, lettera b, l. 67/14, che delega il Governo ad “abrogare, trasformandolo in illecito amministrativo, il reato previsto dall'articolo 10-bis del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, conservando rilievo penale alle condotte di violazione dei provvedimenti amministrativi adottati in materia”, dal momento che il Governo non ha ancora provveduto. CDC
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Inserito in data 13/01/2015 TAR VENETO - VENEZIA, SEZ. I, 9 gennaio 2015, n. 13 Divieto di transito navi passeggeri e mancanza di vie di navigazione alternative La sentenza in commento ha ad oggetto il ricorso avverso le ordinanze che, in attuazione del decreto interministeriale 79/2012 sulle misure di sicurezza per la protezione di aree particolarmente vulnerabili, hanno disposto il divieto di transito di navi passeggeri superiori alle 40.000 tonnellate per l’anno 2014 ed alle 96.000 tonnellate per l’anno 2015. Il Tribunale di merito, con la decisione de qua, ha accolto il ricorso sulla base del dettato normativo del decreto sopra citato. Invero, posto che l’articolo 2, lett. b), punto 1), del suddetto decreto dispone che “nella laguna di Venezia: è vietato il transito nel Canale di San Marco e nel Canale della Giudecca delle navi adibite al trasporto merci e passeggeri superiori a 40.000 tonnellate di stazza lorda; (…)” , nel successivo articolo 3, rubricato Disposizioni transitorie, precisa che “Il divieto di cui all’art. 2, comma 1, lett. b), punto 1) si applica a partire dalla disponibilità di vie di navigazioni praticabili alternative a quelle vietate, come individuate dall’Autorità marittima, con proprio provvedimento. Nelle more di tale disponibilità l’Autorità Marittima, d’intesa con il Magistrato alle acque di Venezia e l’Autorità portuale, adotta misure finalizzate a mitigare i rischi connessi al regime transitorio perseguendo il massimo livello di tutela dell’ambiente lagunare”. Pertanto il Tribunale di primo grado, rilevata l’assenza dell’individuazione di vie di navigazione alternative, sì come richiesto dalla lettera della norma, ha dichiarato l’illegittimità dell’ordinanza impugnata per assenza dei presupposti di legge richiesti ed per violazione dell’art. 3 del decreto interministeriale di cui sopra. Parimenti meritevoli di accoglimento sono state considerate le doglianze sulle carenze istruttorie e sul difetto di motivazione in quanto le ordinanze impugnate sarebbero state assunte <<senza la previa individuazione e la successiva valutazione di quei rischi ambientali che i divieti di transito, ivi contemplati, avrebbero dovuto contenere>>. VA |
Inserito in data 13/01/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 12 gennaio 2015, n. 35 Interpretazione estensiva dell’art. 38 del D. lgs. 163/06 Il ricorso presentato è volto alla riforma della sentenza di primo grado che ha confermato la legittimità della mancata esclusione da una gara per la fornitura di servizi del soggetto risultato poi aggiudicatario. Il tribunale di merito, infatti, aveva giustamente negato l’assenza dei requisiti di moralità richiesti a pena di esclusione dall’art. 38 del d.lgs. 163/06 in quanto riferiti ad un soggetto, avente la qualifica di direttore tecnico, che operava in un settore diverso e del tutto marginale rispetto a quello costituente oggetto di gara. Il Supremo Consesso, dunque, è stato chiamato a pronunciarsi sull’esatta individuazione dell’ambito di applicazione della norma in questione. Con la decisione in commento il Consiglio di Stato ha rigettato i motivi di appello proposti. Più precisamente il Collegio ha ritenuto non pertinente il richiamo effettuato dal ricorrente alla sentenza dell’Adunanza Plenaria 23 del 2013, la quale avrebbe prospettato un’interpretazione estensiva degli obblighi dichiarativi concernenti i requisiti di moralità dei soggetti che abbiano effettivi poteri gestori nelle imprese partecipanti alle pubbliche gare. Al contrario ha ritenuto meritevole di pregio l’orientamento seguito dal Tribunale di primo grado secondo il quale <<il riferimento dell'art. 38 del d. lgs. n. 163 del 2006 al direttore tecnico non dovrebbe intendersi in un'accezione tecnica univoca e fissa, ma in una dimensione semantica generica e variabile, da calibrarsi di volta in volta in base all'oggetto dell'appalto da assegnare>>. Invero, secondo quanto ripetutamente affermato in precedenti pronunce giurisprudenziali, <<i direttori tecnici tenuti a rilasciare la dichiarazione sostitutiva prevista dall'art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006 sono quelli che rivestono tale posizione rispetto al settore operativo nel quale la commessa si iscrive e non anche tutti i preposti tecnici a settori di attività in qualsiasi modo implicate nell'attività esecutiva dell'appalto>> (si veda C.d.S, 4372/14 e 6136/11). Né risulta avere alcuna rilevanza il fatto che la gara vertesse sull’aggiudicazione di un servizio ovvero di lavori pubblici posto che, come già chiarito da tempo, la posizione del direttore tecnico può trovare applicazione in entrambi gli ambiti (C.d.S. 3364/10 e C.d.S. 1790/11). A parere del Supremo Consesso, diversamente opinando si verificherebbe un’applicazione analogica dell’art. 38 citato, attraverso la sua estensione anche a soggetti ivi non previsti, in violazione del principio di tassatività di cui all’art. 46, comma 1, del d. lgs. n. 163 del 2006. Invero la ratio della norma è quella di <<impedire interferenze nella gestione delle imprese partecipanti ad appalti di soggetti aventi un effettivo potere giuridico di condizionare la sua attività (…) deve escludersi la possibilità di condizionamento da parte del preposto tecnico a settori di attività implicate solo marginalmente nell’attività esecutiva dell’appalto. (Ad. Pl. 24/14). Per questi motivi il Supremo Consesso ha ritenuto di dover conferma la decisione espressa in primo grado sulla legittimità e correttezza della mancata esclusione dell’impresa aggiudicataria dalla procedura di gara. VA |
Inserito in data 12/01/2015 CORTE DI CASSAZIONE- PRIMA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 10 dicembre 2014, n. 26062 Aggiunta del patronimico al cognome materno: diritto e interesse del minore I Giudici di legittimità, risentendo dell’esperienza sovranazionale e dei traguardi ormai raggiunti in merito dalla giurisprudenza, intervengono ancora una volta in tema di secondo riconoscimento del figlio minore da parte del padre e conseguente assegnazione del patronimico, in aggiunta al cognome materno. Il Collegio, alla luce dei superiori insegnamenti, valuta come prioritario l’interesse del figlio, ovvero la necessità, essenzialmente, di evitare un danno alla sua identità personale, intesa anche come proiezione della sua personalità sociale. I Giudici di legittimità hanno ancora precisato che la questione dell'attribuzione del cognome nell'ipotesi di secondo riconoscimento ad opera del padre non ha subito, nell'evoluzione del quadro normativo, una sostanziale modifica, in quanto con il D.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154 (Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell'articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219) è stato previsto, in conformità ad una linea interpretativa già proposta in relazione alla precedente formulazione della norma, che il figlio "può assumere il cognome del padre, aggiungendolo, anteponendolo o sostituendolo a quello della madre". Ciò comporta che, al di là della nota intenzione del Legislatore del 2013 – di assimilare il figlio naturale a quello legittimo, è pur sempre prioritario tutelare il diritto al nome quale segno identificativo del singolo e, per questo, ormai costituzionalmente siglato. Anche per l’Organo giurisdizionale, pertanto, diventa prioritario tutelare il diritto del singolo a mantenere il cognome originariamente attribuitogli, ove questo concorra ad individuarlo nella trama dei propri rapporti sociali ormai dallo stesso costituiti. Ricorda la Corte, dunque, che l'attribuzione congiunta del cognome paterno e di quello materno può essere legittimamente disposta quando il giudice del merito, da un lato, escluda la configurabilità di un qualsiasi pregiudizio derivante da siffatta modificazione accrescitiva del cognome (stante l'assenza di una cattiva reputazione del padre e l'esistenza, anche in fatto, di una relazione interpersonale tra padre e figlio), e, dall'altro lato, consideri che, non versando ancora nella fase adolescenziale o preadolescenziale, il minore, tuttora bambino, non abbia ancora acquisito con il matronimico, nella trama dei suoi rapporti personali e sociali, una definitiva e formata identità, in ipotesi suscettibile di sconsigliare l'aggiunta del patronimico. In ultimo, il Collegio specifica che l'ampia valutazione attribuita al giudice del merito comporti l’incensurabilità di tale decisione in Cassazione, se adeguatamente valutata. CC
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Inserito in data 12/01/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 5 gennaio 2015, n. 18 Rito Appalti pubblici: dispositivo, motivazione e diritto al contraddittorio e alla difesa
La Sesta Sezione interviene chiarendo, in più passaggi, alcuni aspetti significativi in materia di appalti pubblici.
Occorre precisare, evidenzia la Sesta Sezione, che la motivazione sia soltanto un'estensione di quanto già previsto succintamente in dispositivo. Quest'ultimo rappresenta, dicono i Giudici, il principio di diritto cui viene data, poi, un'estrinsecazione logica e maggiormente diffusa nella “parte motiva” della sentenza.
Si deve ritenere, piuttosto, che l'approfondimento ulteriore effettuato dal Collegio nella seconda camera di consiglio sia finalizzato solo ad arricchire la motivazione resa al termine del giudizio.
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Inserito in data 08/01/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 7 gennaio 2015, n. 25 Sul dies a quo per la proposizione del ricorso avverso l’aggiudicazione definitiva Gli artt. 120, comma 5, cpa e 79, comma 5-bis, d.lgs. 163/2006, annettono rilievo, ai fini dell'individuazione del dies a quo per la proposizione del ricorso avverso il provvedimento di aggiudicazione definitiva, alla comunicazione di cui all'art. 79 d.lgs. 163/2006. Pertanto, in caso di comunicazione incompleta, bisogna aver riguardo, ai fini della decorrenza del citato termine, alla conoscenza, comunque acquisita, degli elementi oggetto della comunicazione dell'art. 79. Detta conoscenza non può ritenersi raggiunta in forza della presenza di un delegato della ricorrente alle operazioni di gara di apertura delle offerte tecniche e di quelle economiche, nonché di aggiudicazione provvisoria. Infatti, come affermato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con sentenza n. 31 del 2012, solo l’aggiudicazione definitiva produce, nei confronti dei partecipanti alla gara diversi dall’aggiudicatario, un effetto lesivo, consistente nella privazione definitiva del "bene della vita" rappresentato dall'aggiudicazione della gara. Ne segue che solo dalla piena conoscenza della aggiudicazione definitiva decorrono i termini per l’impugnazione. CDC |
Inserito in data 08/01/2015 CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 23 dicembre 2014, n. 27341 Principi fondamentali in tema di eccesso di potere giurisdizionale L’eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera di attribuzioni riservata al legislatore sussiste quando il giudice applica non la norma esistente, ma una norma all’uopo creata, cioè quando realizza un’opera creativa della volontà della legge nel caso concreto. Al contrario, non c’è eccesso di potere giurisdizionale quando il giudice individui una regula iuris facendo uso dei suoi poteri di rinvenimento della norma applicabile attraverso la consueta attività di interpretazione anche analogica del quadro delle norme. L’eccesso di potere giurisdizionale per sconfinamento nella sfera del merito si ha quando l’indagine svolta non sia rimasta nei limiti del riscontro di legittimità del provvedimento impugnato, ma sia stata strumentale a una diretta e concreta valutazione dell’opportunità e della convenienza dell’atto, ovvero esprima una volontà dell’organo giudicante che si sostituisce a quella dell’amministrazione, nel senso che si estrinsechi in una pronuncia autoesecutiva. Non c’è, invece, eccesso di potere giurisdizionale, ma esercizio della giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo, quando questi si limiti a prendere in considerazione la congruità e la logicità dell’atto amministrativo impugnato, in relazione agli interessi perseguiti. In ogni caso, le Sezioni Unite della Cassazione, in sede di ricorso per motivi di giurisdizione, non possono mai sindacare il modo in cui la giurisdizione è stata esercitata, in rapporto a quanto denunciato dalle parti, come nel caso di pretesa ultrapetizione, che concreta un error in procedendo. CDC
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Inserito in data 07/01/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 5 gennaio 2015, n. 5 Valore meramente indiziario dei dati catastali La sentenza in commento ha ad oggetto la riforma della sentenza del tribunale di primo grado che, a seguito dell’accertamento della pubblicità di una determinata area, aveva disposto la rimozione di un cancello che ne impediva l’accesso al pubblico transito. Il Supremo Consesso, accogliendo le doglianze della ricorrente, ha posto l’accento sulle carenze istruttorie che avevano caratterizzato il procedimento. L’emanazione del provvedimento, infatti, si fondava essenzialmente sulla difformità dei luoghi rispetto alle risultanze catastali. Tuttavia il Consiglio di Stato, citando la precedente giurisprudenza, ha ricordato che <<ai fini della determinazione dell’effettiva proprietà del bene, alle risultanze catastali non può essere riconosciuto un definitivo valore probatorio, bensì una valenza meramente sussidiaria rispetto a quanto desumibile dagli atti traslativi in quanto contenenti utili indicazioni in ordine all’estensione dei fondi confinanti>> (Cass. Civ., II, 23 dicembre 2004, n. 23933). Ne consegue che, per la legittimità del provvedimento, si sarebbe dovuto consentire la partecipazione del destinatario dello stesso alla fase istruttoria. Attraverso il proprio intervento, infatti, la parte avrebbe potuto fornire un contributo rilevante ai fini del corretto accertamento della proprietà dell’area (nel merito, inoltre, è stato dimostrato il contrasto tra la realtà dei fatti e le relazioni presentate dal Comune interessato). VA |
Inserito in data 07/01/2015 TAR PUGLIA - LECCE, SEZ. III, 5 gennaio 2015, n. 13 Il decorso del tempo non affievolisce il potere sanzionatorio della P.A. Il Tribunale di merito, disattendendo le doglianze avanzate dal ricorrente, ha affermato che il decorso del tempo non incide in alcun modo sul potere sanzionatorio della Pubblica Amministrazione. Nel caso di specie, infatti, era stata eccepita la violazione del principio del legittimo affidamento e l’eccesso di potere sulla base di una presunta carenza motivazionale. Il Giudice amministrativo, tuttavia, ha affermato che <<non può ritenersi che il potere sanzionatorio dell’Amministrazione venga meno o possa essere esercitato solo in presenza di un rafforzato corredo motivazionale quando sia decorso un notevole lasso di tempo dalla realizzazione dell’abuso, come sostengono i ricorrenti nel primo motivo di ricorso>>. Anche in questo caso, infatti, l’abusività della costruzione sarebbe di per sé sufficiente a giustificare l’ordine di demolizione dell’opera costruita in violazione delle norme di legge. Invero, <<nonostante il decorso del tempo l’amministrazione deve senza indugio emanare l’ordine di demolizione per il solo fatto di avere riscontrato opere abusive e che il provvedimento deve intendersi sufficientemente motivato con l’affermazione dell’accertata abusività dell’opera, essendo “in re ipsa” l’interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione (c.d.s. 39557/2010, 4892/2014, n. 3568/2014, n. 3281/2014). Parimenti prive di ogni fondamento sono state ritenute le doglianze in merito alla mancata indicazione della norma violata e dell’individuazione dell’area che il Comune potrebbe acquisire in caso di mancata demolizione: invero, lo stesso articolo 27 del del d.p.r. 380/2001 (che attribuisce il potere di vigilanza dell’UTC non individua una norma specifica) el’individuazione dell’area può avvenire anche successivamente. VA |
Inserito in data 03/01/2015 CORTE DI CASSAZIONE- SEZIONE LAVORO, SENTENZA 29 dicembre 2014, n. 27424 Mezzi istruttori: quando è lecito registrare un colloquio telefonico Con la pronuncia in epigrafe, i Giudici di Piazza Cavour intervengono in merito alla liceità delle registrazioni di colloqui telefonici in ambito lavorativo, statuendo che il lavoratore può lecitamente registrare la conversazione, con il datore di lavoro, al fine di utilizzarla in un eventuale procedimento civile. I Giudici di legittimità chiariscono che ha il carattere di prova, sia in sede penale che civile, la registrazione tra persone presenti effettuata da un soggetto che partecipa ai colloqui, sottolineando che “la registrazione fonografica di un colloquio tra persone presenti rientra nel genus delle riproduzioni meccaniche di cui all’art. 2712 cc, quindi di prove ammissibili nel processo civile e nel processo penale, atteso che la registrazione fonografica di un colloquio, svoltosi tra presenti o mediante strumenti di trasmissione, ad opera di un soggetto che ne sia partecipe, è prova documentale utilizzabile quantunque effettuata dietro suggerimento o su incarico della polizia giudiziaria, trattandosi in ogni caso di registrazione operata da persona protagonista della conversazione, estranea agli apparati investigativi e legittimata a rendere testimonianza nel processo”. Nel caso de quo, specificamente, si trattava di registrazione effettuata da persona presente o partecipante al colloquio, dunque, secondo quanto stabilito, “se la registrazione della conversazione de qua costituiva potenziale prova spendibile nel processo civile, in nessun caso la sua effettuazione poteva integrare condotta illecita, neppure da un punto di vista disciplinare. Nè poteva in alcun modo ledere il vincolo fiduciario tra lavoratore e datore di lavoro: il rapporto fiduciario in questione concerne l’affidamento del datore di lavoro sulle capacità del dipendente di adempiere l’obbligazione lavorativa e non già sulla sua capacità di condividere segreti non funzionali alle esigenze produttive e/o commerciali dell’impresa; ad ogni modo essendo finalizzata alla acquisizione di una prova a discolpa, tale condotta sarebbe scriminata ex art 51 cp in quanto esercizio del diritto di difesa”. La Corte puntualizza, inoltre, che “nel codice di procedura penale il diritto di difesa, garantito dall’art. 24 della Costituzione, sussiste anche in capo a chi non abbia ancora assunto la qualità di parte in un procedimento: basti pensare al diritto alle investigazioni difensive ex art. 391 bis e segg., alcune delle quali possono esercitarsi addirittura prima dell’instaurarsi di un procedimento penale ex art 391 nonies cpp, oppure ai poteri processuali della persona offesa, che, ancor prima di costituirsi, se del caso, parte civile, ha il diritto, nei termini di cui agli art.li 408 e segg. cpp, di essere informata dell’eventuale richiesta di archiviazione, di proporvi opposizione, e in tal caso di ricorrere per cassazione contro il provvedimento di archiviazione che sia stato emesso de plano, senza previa fissazione dell’udienza camerale”. GMC
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Inserito in data 03/01/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 29 dicembre 2014, n. 6388 Mancato accoglimento di un’istanza per fatti non imputabili all’interessato Con la pronuncia in epigrafe, il Consiglio di Stato interviene in merito alla richiesta di annullamento di una determinazione dirigenziale della regione Molise avanzata da una Cooperativa edilizia non ammessa a finanziamento. Nello specifico, con ricorso, proposto al TAR per il Molise, la Cooperativa in questione, invocava l’annullamento della determinazione dirigenziale del Settore “Politiche del Territorio” della Regione de qua, con la quale non veniva ammessa a finanziamento, chiedendo, altresì, il risarcimento del danno provocato dal suo ritardo, da quantificarsi in una somma pari al contributo che la Regione avrebbe dovuto riconoscere alla ricorrente. Orbene, il primo giudice, accoglieva la domanda principale, ritenendo illegittimo il provvedimento impugnato. Invero, l’amministrazione regionale doveva rilevare come il ritardo nel deposito della documentazione richiesta all’originaria era imputabile soltanto all’amministrazione comunale. Tuttavia, avverso la sentenza de qua, propone appello l’amministrazione regionale, invocando la riforma della stessa. Secondo l’amministrazione, infatti, “non potrebbe definirsi diligente il comportamento dell’originaria ricorrente che si sarebbe attivata solo dopo 18 giorni dall’inizio del decorso del termine dei 60 giorni assegnateli per l’invio della documentazione e la diffida all’amministrazione comunale sarebbe stata presentata solo dopo un mese dalla richiesta”. Costituitasi in giudizio, l’originaria ricorrente sostiene, da un lato, l’inammissibilità dell’appello, atteso che la Regione avrebbe prestato acquiescenza rispetto alla sentenza di primo grado e, dall’altro, la sua infondatezza. Secondo i Giudici di Palazzo Spada, l’appello in questione risulta palesemente infondato, chiarendone le motivazioni a sostegno. Invero, si specifica che deve trovare conferma la statuizione del TAR, dal momento che “a fronte di un’attivazione tempestiva da parte dell’originaria ricorrente ed a fronte della tipologia di documentazione richiesta dall’amministrazione regionale, che poteva essere rilasciata solo dall’amministrazione comunale, non risulta legittimo il provvedimento dell’amministrazione che faccia discendere il mancato accoglimento dell’istanza in esame per fatti non imputabili all’interessato, ma ad un’altra amministrazione, che non può dirsi essere estranea al procedimento, quando sia l’unica in grado di offrire la documentazione istruttoria necessaria, affinché lo stesso possa concludersi”. Né, tantomeno, precisa, altresì, la Corte, risulta “fondata la doglianza svolta contro il capo della sentenza nel quale il TAR ha ritenuto di non doversi pronunciare sulla richiesta di risarcimento del danno proposta dall’originaria ricorrente”. Infatti, da un lato, chiariscono i Giudici di Palazzo Spada, quest’ultima era stata presentata solo in via subordinata e, inoltre, l’amministrazione regionale appellante non ha alcun interesse a dolersene, poiché non risulta abbia avanzato, in primo grado, una propria domanda risarcitoria contro l’amministrazione. GMC |
Inserito in data 02/01/2015 TAR LOMBARDIA - MILANO, SEZ. III, 29 dicembre 2014, n. 3212 Sulla sostituzione, in corso di gara, dell’ausiliaria fallita L’art. 37, comma 19, del D. Lgs. n. 163 del 2006 permette “all'impresa mandataria di sostituire uno dei mandanti con altro operatore economico subentrante che sia in possesso dei prescritti requisiti e al fine di portare a termine il contratto”. A tal proposito, una parte della giurisprudenza (TAR Campania-Napoli, Sez. III, 11.11.2013 n. 5042) ammette che “tale disposizione possa essere applicata anche al caso del fallimento dell’impresa ausiliaria in caso di avvalimento”. Invero, i Giudici partenopei hanno negato che la sostituzione “potesse violare il principio di immodificabilità soggettiva dei partecipanti alle gare pubbliche, dal momento che il fallimento dell'ausiliaria era intervenuto dopo l'aggiudicazione e non poteva in alcun modo alterare la par condicio tra i concorrenti”. Per contro, la legge prevede l’immodificabilità soggettiva del partecipante in corso di gara. Infatti, il capo II del D. lgs. 163/06 stabilisce che “la scelta del contraente nelle procedure di gara non ha per oggetto esclusivamente l’offerta ma anche i requisiti oggettivi e soggettivi del contraente, attribuendo così alla procedura il carattere di strumento di scelta non solo dell’offerta migliore ma anche del contraente più affidabile”. Analogamente, l’art. 37, comma 9, del Codice degli appalti prevede il divieto di modificazioni soggettive dopo la presentazione dell’offerta: “(…) è vietata qualsiasi modificazione alla composizione dei raggruppamenti temporanei e dei consorzi ordinari dei concorrenti rispetto a quella risultante dall’impegno presentato in sede di offerta”. Le eccezioni previste dai commi 18 e 19 dell’art. 37, infatti, riguardano “esclusivamente la fase di esecuzione del contratto, nella quale prevale evidentemente l’interesse pubblico alla realizzazione delle opere e dei servizi”. Tale interpretazione è confermata oltre che dalla lettera della norma dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 1/2010, secondo la quale “il richiamo all’art. 94 del d.P.R. nr. 554 del 1999 – oggi commi 18 e 19 dell’art. 37 del D. Lgs. 163/06 -, … attiene alle modifiche soggettive del raggruppamento ed alla possibilità che questo porti avanti i lavori previo accertamento da parte della stazione appaltante sulla sua idoneità nella nuova (e, in ipotesi, più ristretta) composizione: tale norma … si riferisce palesemente a una valutazione in ordine alla persistenza in capo al r.t.i. aggiudicatario dei requisiti di capacità tecnica ed economica richiesti dal bando di gara, che presiedono, garantendola, all’esecuzione della prestazione, sicchè deve escludersene l’applicabilità ad un’area del tutto diversa nella struttura e nella finalità quale è quella sottesa al possesso di requisiti soggettivi prescritti dalla legge per la partecipazione alle gare”. In sostanza, la sostituzione di un’impresa partecipante in corso di gara incide sulla trasparenza delle operazioni e sulla par condicio dei partecipanti; con la conseguenza che “la mancanza o la perdita dei requisiti di gara in questa fase costituisce causa di esclusione dalle gare e non semplice motivo di sanatoria”. Tali principi si estendono anche all’impresa ausiliaria, in quanto “il contratto di avvalimento costituisce elemento che integra i requisiti di partecipazione alla gara, talvolta addirittura permettendo ad un soggetto privo dei requisiti di partecipare ad una gara alla quale altrimenti non avrebbe diritto di partecipare”. Questa lettura è confermata anche dalla giurisprudenza, la quale ha chiarito che “i presupposti ed i contenuti dell’avvalimento debbono essere verificati in concreto, mediante il deposito e l’analisi dei relativi contratti”. Non di rado, inoltre, “l’avvalimento incide anche sul contenuto dell’offerta in quanto la capacità tecnica ed economica dell’impresa ausiliaria ne costituiscono un elemento imprescindibile”. Del resto, in caso di fallimento dell’impresa ausiliaria occorre rammentare che” tra i requisiti di partecipazione, applicabili anche all’ausiliaria, sussiste non solo quello della mancanza di fallimento, ma anche quello che non sia in corso un procedimento per la dichiarazione di una di tali situazioni (art. 38 c. 1 lett. a D. Lgs. 163/06), con la conseguenza che la richiesta di sostituzione dell’ausiliaria fallita in fase di gara è incompatibile con il divieto di partecipazione alla gara di imprese che hanno in corso una procedura per la dichiarazione di fallimento o comunque si presta ad un facile aggiramento del divieto medesimo”. EMF |
Inserito in data 02/01/2015 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 29 dicembre 2014, n. 6387 Sulla disciplina delle prove orali del concorso per uditore giudiziario Con la pronuncia in esame, i Giudici di Palazzo Spada confermano il loro precedente orientamento (Sez. IV, 10-06-2011, n. 3528, ma anche T.A.R. Lazio, Sez. I, n. 8144/2009 T.A.R. Lazio sentenza n. 32367/2010) secondo cui “la disciplina delle prove (anche di quelle orali) del concorso per uditore giudiziario deve ritenersi a carattere speciale rispetto alla normativa generale applicabile ai concorsi pubblici, onde deve ritenersi non vincolante la procedura di predeterminazione e sorteggio delle domande prevista all'art. 12 del D.P.R. n. 487/1994 in materia di concorsi pubblici. La prova orale nel concorso in magistratura non si presta alla definizione di parametri di valutazione particolarmente determinati e puntuali”. Ciò posto, deve rammentarsi che per costante giurisprudenza (ex aliis T.A.R. Emilia-Romagna Bologna Sez. I, 12-01-2011, n. 9) “le valutazioni espresse da una Commissione di concorso nelle prove scritte e orali dei candidati costituiscono espressione di un'ampia discrezionalità tecnica e, come tali, sfuggono al sindacato di legittimità del Giudice Amministrativo, salvo che non siano inficiate "ictu oculi" da eccesso di potere, sub specie delle figure sintomatiche dell'arbitrarietà, irragionevolezza, irrazionalità e travisamento dei fatti”. EMF |
Inserito in data 30/12/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 29 dicembre 2014, n. 6417 Sull’applicazione dell’art. 38 d.lgs. 163/06 così come interpretato dall’Ad.Pl. 21/12 Il Consiglio di Stato, pronunciandosi sul ricorso incidentale volto all’esclusione di un’impresa da una gara per l’affidamento di un appalto di servizi, motivato sulla base della presunta violazione degli obblighi dichiarativi relativi ai requisiti di ordine generale, ha disatteso le doglianze mosse dal ricorrente ed ha negato l’esistenza di un qualsiasi intento elusivo. L’art. 38 lett. b) e c) del d.lgs. 163/2006 prescrive l’obbligo di dichiarazione del possesso dei requisiti morali richiesti da parte di determinati soggetti (specificamente individuati dalla norma o, comunque, avente poteri rappresentativi). Tale obbligo dichiarativo, secondo il dettato normativo, investe anche i soggetti cessati dalla carica nell’anno precedente la pubblicazione del bando di gara. Secondo la tesi avanzata dal ricorrente l’Adunanza Plenaria, con la sentenza n. 21 del 2012, precisando che <<la locuzione normativa di cui all’art.38 comma 1 lettera c) deve interpretarsi [..] nel senso che la dichiarazione de qua è obbligatoria anche per i soggetti cessati delle imprese incorporate, a pena di esclusione>> avrebbe inteso evitare l’elusione delle regole concorsuali da parte di concorrenti le cui vicende societarie sono caratterizzate da elementi soggettivi di continuità. La sussistenza del suddetto obbligo, inoltre, non si cristallizzerebbe e non rimarrebbe circoscritta al momento della presentazione della domanda di partecipazione, ma permarrebbe per tutta la durata della procedura, dovendosi procedere alla comunicazione di tutte le variazioni intervenute medio tempore. Ne conseguirebbe che, un’eventuale fusione di due società, non seguita dall’adempimento degli obblighi dichiarativi prescritti, costituirebbe una legittima causa di esclusione dalla gara. Il Supremo Consesso, pur non considerando del tutto peregrine le argomentazioni esposte, ha posto l’accento sulla cronologia dei fatti, dando atto del regime transitorio fornito dalla stessa pronuncia della Plenaria. Invero l’Adunanza Plenaria sopra citata, dopo aver chiarito che <<l’obbligo dichiarativo, a pena di esclusione, di cui all’art.38 lett. c) si riferisce anche alle ipotesi di incorporazione e di fusione, al fine di scongiurare l’intento elusivo della previsione di un onere di attestazione del possesso di requisiti morali in ipotesi di sostanziale continuità del soggetto imprenditoriale (…) ha avuto altresì cura espressamente di precisare che “nel contesto di oscillazioni della giurisprudenza e di conseguente incertezza delle stazioni appaltanti, fino alla plenaria n.10/12 e alla plenaria odierna, i concorrenti che omettono la dichiarazione di cui all’art.38 comma 1 lett. c) d.lgs. n.163/2006, relativamente agli amministratori delle società partecipate al procedimento di fusione o incorporazione, possono essere esclusi dalla gare in relazione alla dichiarazioni rese ai sensi dell’art.38 comma 1 lett.c) fino alla data di pubblicazione della presente decisione solo se il bando espliciti tale onere di dichiarazione e la conseguente causa di esclusione; in caso contrario, l’esclusione può essere disposta solo ove vi sia la prova che gli amministratori per i quali è stata omessa la dichiarazione hanno pregiudizi penali”>>. Pertanto, essendo la pubblicazione del bando di gara antecedente alla pronuncia in questione e mancando una previsione espressa di tale obbligo all’interno della lex specialis, l’interpretazione estensiva dell’obbligo dichiarativo non potrebbe trovare applicazione nel caso di specie. Per questi motivi il Supremo Consesso ha ritenuto di dover rigettare il ricorso incidentale avente ad oggetto la mancata esclusione dell’impresa partecipante. VA |
Inserito in data 30/12/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 29 dicembre 2014, n. 6399 Mancata accettazione di clausole abnormi ed illegittimità dell’esclusione dalla gara Con la sentenza in commento il Supremo Consesso, attesa l’abnormità delle clausole previste dal capitolato di gara, ha dichiarato illegittima l’esclusione dalla gara di appalto per il servizio di brokeraggio conseguente la mancata integrale accettazione delle stesse. Più precisamente la clausola censurata prevedeva l’impegno del Broker al pagamento anticipato del premio assicurativo, da rimborsarsi entro 30 gg, nel caso in cui l’Amministrazione, pur avendo emesso il mandato, si trovasse nell’impossibilità di farvi fronte. La stessa, inoltre, prevedeva la responsabilità del Broker per le conseguenze derivanti dal ritardato pagamento e dall’eventuale sospensione della garanzia assicurativa. Secondo il Consiglio di Stato una clausola siffatta altererebbe la fisionomia propria del contratto di brokeraggio, il cui fine sarebbe quello di consigliare ed assistere il cliente, non già di finanziarlo. Il mandato di pagamento, inoltre, dovrebbe essere preceduto dallo stanziamento dei fondi necessari a farvi fronte, nel rispetto delle regole in materia di contabilità pubblica. La clausola censurata, dunque, prevede un onere finanziario in capo al broker che esorbita dai contenuti delle sue prestazioni, non potendo ritenersi che si tratti di prestazioni meramente accessorie, e si pone in contrasto con le norme in materia di contabilità pubblica. Il Collegio sottolinea, inoltre, come l’illogicità della clausola investa anche le conseguenze ad essa relative: <<mentre il mancato pagamento del premio da parte del broker conduce all’assunzione diretta della responsabilità per il ritardo e la relativa sospensione della copertura assicurativa, nessun effetto produce, neppure sul piano del pagamento di eventuali interessi di mora, l’inosservanza, da parte del comune, del termine di trenta giorni previsto per il rimborso>>. Alla luce di quanto sopra esposto il Consiglio di Stato ha dichiarato fondati i motivi di ricorso ed ha accolto l’appello. VA |
Inserito in data 24/12/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 22 dicembre 2014, n. 6639 G.A. e validità del negozio di cessione volontaria Con la sentenza in esame, i Giudici di Piazza Cavour ritengono che il G.A. possa procedere ad un accertamento (incidentale e senza efficacia di giudicato) sulla validità – o meno- del negozio di cessione, trattandosi di questione pregiudiziale rispetto al ricorso principale volto ad ottenere la restituzione del fondo od il risarcimento del danno. Ritengono, invero, in via di principio, che: “laddove venga fondatamente contestata la stessa esistenza di un negozio di cessione, non v’è dubbio che la giurisdizione sul petitum proposto spetti al Giudice amministrativo”; viceversa, allorquando i vizi siano tali da ritenere il negozio di cessione invalido (nullo od annullabile), “la domanda dovrebbe essere proposta innanzi al Giudice ordinario (unico soggetto competente a pronunciarsi sui vizi che attengono al negozio di cessione)”. Ne discende che, nell’ipotesi in cui l’“esistenza storica” della cessione non sia contestata, ma sia avversata la validità del negozio predetto, “il petitum dovrebbe essere proposto innanzi al giudice ordinario” (Cass. civ. Sez. Unite, 06-12-2010, n. 24687). Tuttavia, il Collegio si rende conto che tale simile opzione ermeneutica “parrebbe onerare la parte alla proposizione di due azioni; ciò in quanto, soltanto laddove il giudice competente abbia dichiarato la nullità dell’atto di cessione, questi poi potrebbe fondatamente proporre la domanda risarcitoria innanzi al giudice competente” (ex aliis App. Potenza Sent., 27-01-2010 ). La necessaria proposizione di due azioni è, però, “evenienza da ridurre al minimo essenziale, per evitare la proliferazione delle domande e dei processi, eccessivi oneri in capo alle parti, ed in quanto non appare in linea con il precetto costituzionale di cui all’art. 111 nella parte in cui si prescrive che il processo debba avere durata ragionevole”. Pertanto, in una simile ipotesi “può trovare applicazione l’art. 8 del cpa, ed il giudice può procedere ad un accertamento (incidentale e senza efficacia di giudicato) sulla validità – o meno- del negozio di cessione, prodromico alla decisione sul petitum principale”. Alla luce del disposto di cui all’art. 8 cpa, quindi, la statuizione conclusiva della causa “non potrebbe essere quella della declinatoria di giurisdizione ma reiettiva od accoglitiva del petitum (a seconda di come sia stata decisa la questione pregiudiziale sulla validità o meno del negozio di cessione, che appare possedere per le già chiarite ragioni, portata pregiudicante)”. EMF |
Inserito in data 24/12/2014 CORTE DI CASSAZIONE, SECONDA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 22 dicembre 2014, n. 27167 Sui limiti d’uso del lastrico solare condominiale (art. 1102, co. 2, c.c.) Con la pronuncia in epigrafe, la Suprema Corte conferma quanto sostenuto dal Giudice di seconde cure, secondo cui la sostituzione di un’antenna trasmittente con un’altra più alta, in considerazione della sua consistenza e delle sue dimensioni, “si risolve in una sottrazione alla possibilità di uso comune di una parte considerevole della superficie del lastrico solare, e quindi in una compromissione apprezzabile dell’uso paritetico del bene”. In particolare, il precedente atteggiamento di tolleranza tenuto dal Condominio non fa sorgere in capo al proprietario “alcun diritto a perpetuare, in presenza del chiaro dissenso dei condomini, una situazione che si pone in violazione dell’art. 1102 cod. civ.”. EMF
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Inserito in data 23/12/2014 TAR CAMPANIA - NAPOLI, SEZ. II, 10 dicembre 2014, n. 6507 Grave errore dell’appaltatore: cause di esclusione
Il grave errore nell'esercizio dell'attività professionale, in cui sia incorso l'appaltatore, rappresenta una causa di esclusione dalla partecipazione alla gara, alla luce di quanto ribadito dai Giudici di Palazzo Spada con la pronuncia in epigrafe. Con quanto suesposto, si richiama, altresì, un principio generale espresso dall'art. 68 del RD 23.5.1924 n. 827, in materia di amministrazione del patrimonio e di contabilità generale dello Stato. Alla luce di ciò, il grave errore nell'esercizio dell'attività professionale in cui sia incorso l'appaltatore rappresenta, quindi, causa di esclusione dalla partecipazione alla gara, poiché, in tale ipotesi, si manifesta l’interesse pubblico volto certamente ad evitare di intrattenere rapporti contrattuali con un soggetto inadempiente. L’esclusione de qua, inoltre, non presenta carattere sanzionatorio, poiché è prevista al fine di garantire l'elemento fiduciario destinato a identificare, sin dal momento genetico, i rapporti contrattuali dei pubblici appalti. Dunque, secondo quanto chiarito, l'art. 38, c. 1, lett. f) del Codice dei contratti pubblici già richiamato, impone al concorrente, a pena di esclusione, la dichiarazione di pregresse risoluzioni contrattuali, sebbene relative ad affidamenti effettuati da altre stazioni, spettando in ogni caso, altresì, all'Amministrazione la valutazione della gravità, nonché la pertinenza dell'errore professionale, con esclusione di qualsiasi intermediazione del concorrente medesimo. GMC |
Inserito in data 23/12/2014 CORTE DI CASSAZIONE - TERZA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 16 dicembre 2014, n. 26369 Sulla responsabilità del notaio in materia fiscale La Suprema Corte, con la pronuncia in epigrafe, considera la figura del notaio come quella di un vero e proprio consulente delle parti, dotato, dunque, di una diligenza qualificata che “include la consulenza, anche fiscale, nei limiti delle conoscenze che devono far parte del normale bagaglio di un professionista che svolge la sua attività principale nel campo della contrattazione immobiliare”. I Giudici di legittimità accolgono il ricorso proposto in tale sede, facendo ricadere sul professionista le conseguenze dell’erronea compilazione delle dichiarazioni INVIM relative ad atti di compravendita. Stante l’elevata diligenza professionale, la Suprema Corte afferma che l’attività del notaio non potrà limitarsi alla mera registrazione delle dichiarazioni delle parti, dovendo realizzare un’attività di consulenza ed assistenza estesa anche agli aspetti fiscali accessori alla stipula dell’atto “trattandosi di questioni tecniche che una persona non dotata di competenza specifica non sarebbe in grado di percepire e per le quali può fare affidamento sulla professionalità del notaio, anche in considerazione del ruolo pubblicistico della sua attività. Nel caso de quo, nonostante la dichiarazione ai fini INVIM sia una attività riservata alla parte, secondo gli Ermellini, il professionista ha “l’obbligo di informare il cliente delle conseguenze nel caso di dichiarazioni non veritiere, almeno quando le stesse appaiono ragionevolmente non verosimili”. Inoltre, simile obbligo “trova fondamento nell’incarico professionale ricevuto di redigere l’atto pubblico di trasferimento immobiliare”. Alla luce della considerazione secondo la quale il complesso incarico affidato al notaio ricomprenda sia attività preparatorie che successive alla stesura dell’atto, emerge un grave inadempimento del professionista che, redigendo e presentando dichiarazioni INVIM sulla base di valutazioni palesemente erronee di parte venditrice, abbia omesso di far rilevare alla parte l’incongruenza presente impedendo il conseguimento di un regime fiscale maggiormente favorevole. Oltre a ciò, sul notaio grava, altresì, il c.d. “dovere di consiglio”, riguardante questioni tecniche che una persona prova di competenza specifica non sarebbe in grado di percepire, quindi, secondo la Corte, l’attività del professionista dovrà essere finalizzata “non solo al raggiungimento dello scopo privatistico e pubblicistico […], ma anche a conseguire gli effetti vantaggiosi eventualmente previsti dalla normativa fiscale e a rispettare gli obblighi imposti da tale normativa”. La Suprema Corte, alla luce delle considerazioni effettuate, stabilisce la responsabilità del notaio, il quale sarà tenuto a rispondere dei danni originati dal proprio comportamento, anche nella ipotesi di colpa lieve. GMC
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Inserito in data 22/12/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 22 dicembre 2014, n. 6636 La PA non viola l’art. 46 c.1-bis se si conforma ad un orientamento giurisprudenziale La disposizione di cui all’art. 46, comma 1-bis, d.lgs. 163/2006, prescrive la tassatività e la tipicità delle cause di esclusione. Essa deve essere interpretata in maniera rigorosa e senza possibilità di estensione analogica, in quanto la sua ratio è ispirata ai principi di massima partecipazione alle gare e al divieto di aggravio del procedimento, mirando ad evitare esclusioni anche per violazioni puramente formali. Pertanto, la prescrizione di cui all’art. 46, comma 1-bis, vulnera anche clausole di bando che estendano l’ambito di applicazione di disposizioni di legge. Nel caso in esame, tuttavia, non vi era stata violazione dell’art. 46, comma 1-bis, da parte dell’Amministrazione, la quale non aveva esteso analogicamente l’ambito di applicazione di previsioni di legge tassative, ma si era conformata ad una delle possibili interpretazioni della norma, nella compresenza di due orientamenti collidenti. La soluzione diversa, infatti, comporterebbe conseguenze del tutto contrarie alla ratio della normativa. Anzitutto, a fronte di un contrasto giurisprudenziale, si produrrebbe l’effetto di paralizzare le amministrazioni, nell’incertezza di essere in futuro giudicate autrici di una clausola nulla. Ma questo varrebbe anche laddove il bando contempli una clausola che è conforme trasposizione di consolidate certezze giurisprudenziali. In ipotesi di revirement interpretativo, infatti, si condannerebbero le PA che in passato si conformarono ad una certa tesi a vedersi giudicare nulla la clausola introdotta sulla scorta di un orientamento granitico. E da ciò deriverebbero conseguenze negative per la PA anche sotto il profilo risarcitorio. Ne segue che, in conclusione, non è possibile affermare la nullità di una clausola del bando laddove essa non integri un’ulteriore causa di esclusione, ma si conformi ad un’interpretazione possibile di una norma di legge. CDC |
Inserito in data 22/12/2014 CORTE DI CASSAZIONE, PRIMA SEZIONE PENALE, SENTENZA 19 dicembre 2014, n. 53019 Illegittimità costituzionale di norma non incriminatrice e rideterminazione della pena La sentenza in esame dà attuazione ai principi già espressi dalle Sezioni Unite della stessa Corte con sentenza n. 42858 del 2014, in un caso relativo ai reati previsti dal d.p.r. 309/1990, in tema di sostanze stupefacenti. Secondo la pronuncia, a seguito di dichiarazione di incostituzionalità di norma, diversa da quella incriminatrice, ma comunque incidente sul trattamento sanzionatorio, il giudice dell’esecuzione è tenuto a compiere le seguenti valutazioni: 1) verifica dell’incidenza concreta della decisione irrevocabile sulla libertà personale, per essere in effettiva esecuzione la pena; 2) in caso positivo, ricostruzione del contenuto della decisione irrevocabile, per verificare la concreta incidenza sul trattamento sanzionatorio della norma dichiarata incostituzionale (nel caso, l’art. 69, comma 4, cp, dichiarato parzialmente incostituzionale dalla sentenza n. 251 del 2012 della Corte costituzionale); 3) in caso positivo, rideterminazione del trattamento sanzionatorio, tenendo conto della compiuta ricostruzione del fatto, nonché delle norme applicabili al momento della decisione, in punto di commisurazione della sanzione; le stesse norme incriminatrici, infatti, possono essere interessate da ulteriore pronuncia di illegittimità costituzionale (nel caso, la dichiarazione di incostituzionalità, effettuata dalla sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014, degli artt. 4-bis e 4-vicies ter del d.l. 272/2005). In sintesi, il mutamento anche della cornice edittale rende necessaria una rivalutazione piena della condanna, da compiersi tenendo conto del fatto come accertato in sede di cognizione, ma non anche dei termini matematici espressi in quella sede. CDC
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Inserito in data 18/12/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 17 dicembre 2014, n. 6162 Inottemperanza al giudicato ed eventuali oneri di attivazione Il Consiglio di Stato, pronunciandosi in materia di responsabilità della Pubblica Amministrazione per i casi di mancata ottemperanza al giudicato, ha accolto l’appello esclusivamente con riferimento alla quantificazione del danno (più precisamente relativamente all’eccezione sulla mancata prova dello stesso). Il Supremo Consesso, di contro, ha rigettato le eccezioni che miravano ad escludere, o quanto meno ad attenuare, la responsabilità della P.A. per la mancata ottemperanza al giudicato sul presupposto di un comportamento inerte del ricorrente (il quale non aveva azionato gli strumenti di tutela volti all’annullamento dei provvedimento contrastanti con il decisum). Rileva il Collegio che <<al veduto carattere di violazione ed elusione del giudicato proprio del citato Parere della Conferenza Permanente, nonché alla non applicabilità alla dovuta ulteriore attività amministrativa dei provvedimenti commissariali sopravvenuti consegue invero, con tutta evidenza, l’assenza di qualsivoglia onere di impugnazione degli stessi in capo alla ricorrente, se non quello di attivazione della “azione di ottemperanza”, volta a dare concretezza al diritto alla tutela giurisdizionale tutelato dall’art. 24 Cost., di cui costituisce parte integrante il diritto al risarcimento del danno da inadempimento derivante da responsabilità ( omissiva e/o elusivamente commissiva ) dell’Amministrazione>>. Il Consiglio di Stato, infatti, ritiene che l’obbligo di esecuzione dei provvedimenti del giudice sussista in capo a tutte le parti, compresa la Pubblica Amministrazione. Con riferimento a quest’ultima, inoltre, l’ottemperanza al giudicato costituirebbe un’attuazione dei principi sanciti dall’art. 97 Cost.e della Convenzione europea dei diritti dell'uomo. La pubblica amministrazione <<in ogni sede è tenuta ad attivare una leale cooperazione per dare concreta attuazione alla pronuncia giurisdizionale, anche e soprattutto alla luce del fatto che nell'attuale contesto ordinamentale la risposta del giudice amministrativo è caratterizzata da un assetto soggettivo, inteso come soddisfazione di una specifica pretesa, di cui quella risarcitoria per equivalente è parte integrante e sostanziale, pena, come s’è detto sopra, la sostanziale ineffettività della tutela e l’indebito apprestamento di alibi alla illecita condotta dell’Amministrazione, che si sottragga al doveroso rispetto del giudicato ( Cons. St., ad. plen., 15 gennaio 2013, n. 2 )>>. VA |
Inserito in data 18/12/2014 CORTE DI CASSAZIONE - TERZA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 17 dicembre 2014, n. 26545 Responsabilità dell'ANAS per i danni da alluvioni La Suprema Corte, avallando l’orientamento già espresso in passato secondo cui <<è certamente vero che una pioggia di eccezionale intensità può anche costituire caso fortuito in relazione ad eventi di danno (…); ma non è affatto vero che una siffatta pioggia costituisca sempre e comunque un caso fortuito>>, (Cass. 5658/2010). Più precisamente il Supremo Consesso ha affermato che l’evento alluvionale non è sufficiente ad escludere la responsabilità del soggetto tenuto alla custodia ed alla manutenzione del tratto stradale ove sia dimostrata con sicurezza un comportamento omissivo dello stesso, a meno che non le piogge non abbiano carattere tale da essere di per sé sufficienti a provocare il disastro e ad interrompere il nesso causale rispetto al suddetto comportamento omissivo. Con questa pronuncia la Corte di Cassazione ha invitato ad un più rigoroso accertamento della responsabilità, anche in considerazione della grave situazione di rischio idrogeologico del nostro Paese, precisando che la discrezionalità amministrativa sui criteri ed i mezzi di manutenzione delle opere pubbliche deve, comunque, essere rispettosa delle norme di legge e dei regolamenti che disciplinano detta attività e che sono volti alla tutela dei cittadini e delle loro proprietà, nonché alle regole di prudenza e diligenza prescritte dal nostro ordinamento. VA
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Inserito in data 17/12/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 15 dicembre 2014, n. 6157 Le note documentali dell’Agenzia delle Entrate vincolano la PA appaltante Le note documentali emesse dall’Agenzia delle Entrate relativamente alla posizione delle ditte concorrenti alle pubbliche gare (ai fini della verifica del possesso dei requisiti generali di cui all’art.38 d.lgs. 163/2006) in materia di pagamento di imposte e tasse e contributi previdenziali e assistenziali, si qualificano come atti di certificazione e/o attestazione assistiti da pubblica fede ex art.2700 cc, facenti prova fino a querela di falso. Esse vincolano la PA appaltante, in ragione della loro natura di dichiarazione di scienza. Infatti, come sottolineato dalla giurisprudenza amministrativa, è rimesso al giudizio tecnico dell’Agenzia delle Entrate la valutazione sulla regolarità fiscale delle concorrenti alla gara, senza che la stazione appaltante possa formulare, relativamente al contenuto delle risultanze rese dell’ufficio finanziario, autonomo apprezzamento. CDC |
Inserito in data 16/12/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 15 dicembre 2014, n. 6146 Le Autorità Portuali sono organismi di diritto pubblico, con giurisdizione del G.A. L’Autorità Portuale è una particolare tipologia di ente pubblico, introdotta nell’ordinamento dalla legge n. 84 del 1994, che espressamente (art. 6, comma 2) attribuisce alla stessa “personalità giuridica di diritto pubblico” e “autonomia amministrativa”, con regolamento di contabilità approvato dal Ministro dei Trasporti e della Navigazione, di concerto con il Ministro del Tesoro; il rendiconto della gestione finanziaria, inoltre, è soggetto al controllo della Corte dei Conti. Secondo la sentenza, si tratta non di enti pubblici economici, ma di organismi di diritto pubblico, ai sensi dell’art. 3, comma 26, d.lgs. n. 163 del 2006, in quanto dotate di personalità giuridica, istituite per soddisfare esigenze di interesse generale, a carattere non industriale o commerciale, e soggette al controllo dello Stato. Ne segue che la formazione delle tariffe, per le prestazioni delle compagnie e gruppi portuali, nonché l’emanazione di norme regolamentari per la relativa applicazione corrispondono ad attribuzioni pubblicistiche di disciplina e sorveglianza, per lo svolgimento in sicurezza delle operazioni portuali. Pertanto, esse sono soggette alla giurisdizione del giudice amministrativo, essendo individuabili nei decreti impositivi di dette tariffe delle norme di azione, a fronte delle quali le posizioni dei privati hanno natura e consistenza di interessi legittimi. CDC |
Inserito in data 15/12/2014 CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA, SEZIONE QUINTA, SENTENZA 11 dicembre 2014, causa C- 440/13 La revoca del bando di gara non soggiace a specifici requisiti di sostanza e di forma Con la decisione in esame, innanzitutto, la Corte di Giustizia dell’Unione europea si pronuncia su una questione pregiudiziale sollevata dal giudice italiano così sintetizzabile: è legittima la scelta della stazione appaltante di non aggiudicare la gara e di revocare la procedura, sulla base della mera pendenza di un’indagine penale nei confronti del legale rappresentante della società provvisoriamente aggiudicataria? Secondo la Corte di Lussemburgo, la “decisione di revoca di un bando di gara per un appalto pubblico […] deve rispettare gli articoli 41, paragrafo 1, e 43 della direttiva 2004/18. L’articolo 41, paragrafo 1, della direttiva 2004/18 prevede l’obbligo di informare di una siffatta decisione, quanto prima possibile, i candidati e gli offerenti nonché di indicarne i motivi, e l’articolo 43 di tale direttiva impone l’obbligo di menzionare tali motivi nel verbale che deve essere redatto per ogni appalto pubblico. Orbene, la direttiva 2004/18 non contiene alcuna disposizione relativa alle condizioni di sostanza o di forma di una simile decisione”. “Di conseguenza, il diritto dell’Unione non osta a che gli Stati membri prevedano, nella loro legislazione, la possibilità di adottare una decisione di revoca di un bando di gara. I motivi di una siffatta decisione di revoca possono dunque essere fondati su ragioni correlate in particolare alla valutazione dell’opportunità, dal punto di vista dell’interesse pubblico, di condurre a termine una procedura di aggiudicazione, tenuto conto, fra l’altro, dell’eventuale modifica del contesto economico o delle circostanze di fatto o, ancora, delle esigenze dell’amministrazione aggiudicatrice interessata. Una simile decisione può altresì essere motivata dal livello insufficiente di concorrenza, a motivo del fatto che, all’esito della procedura di aggiudicazione dell’appalto di cui trattasi, un solo offerente resta idoneo a dare esecuzione a tale appalto”. “In considerazione di quanto precede, alle questioni prima, seconda e terza occorre rispondere dichiarando che gli articoli 41, paragrafo 1, 43 e 45 della direttiva 2004/18 devono essere interpretati nel senso che, qualora i presupposti per l’applicazione delle cause di esclusione previste dal medesimo articolo 45 non siano soddisfatti, detto articolo non osta a che l’amministrazione aggiudicatrice decida di rinunciare ad aggiudicare un appalto pubblico per il quale si sia tenuta una gara e di non procedere all’aggiudicazione definitiva di tale appalto al solo concorrente che sia rimasto in gara e sia stato dichiarato aggiudicatario in via provvisoria”. TM |
Inserito in data 15/12/2014 CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA, SEZIONE QUINTA, SENTENZA 11 dicembre 2014, causa C- 440/13 Il diritto UE non impone il sindacato di merito sugli atti delle stazioni appaltanti Secondariamente, alla Corte di Giustizia è stato chiesto se sia conforme al diritto comunitario che il giudice nazionale competente possa esercitare un controllo esteso al merito sui provvedimenti dell’amministrazione aggiudicatrice, ossia nel caso di specie se il giudice possa sindacare l’opportunità di revocare il bando di gara. A tal proposito, il Giudice comunitario ha risposto che: “il diritto dell’Unione in materia di appalti pubblici e, in particolare, l’articolo 1, paragrafo 1, terzo comma, della direttiva 89/665, devono essere interpretati nel senso che il controllo previsto da tale disposizione costituisce un controllo di legittimità delle decisioni adottate dalle amministrazioni aggiudicatrici, volto a garantire il rispetto delle norme pertinenti del diritto dell’Unione oppure delle disposizioni nazionali che recepiscono dette norme, senza che tale controllo possa essere limitato al solo carattere arbitrario delle decisioni dell’amministrazione aggiudicatrice. Tuttavia, ciò non esclude la facoltà, per il legislatore nazionale, di attribuire ai giudici nazionali competenti il potere di esercitare un controllo in materia di opportunità”. TM |
Inserito in data 13/12/2014 CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 5 dicembre 2014, n. 273 Parziale illegittimità dell’art. 516 c.p.p. La Corte Costituzionale è stata chiamata a vagliare la legittimità dell’art. 516 c.p.p., per violazione degli art. 3 e 24 della Costituzione, nella parte in cui non consente all’imputato di richiedere in dibattimento il giudizio abbreviato quando il fatto contestato in questa fase di giudizio risulti diverso dalla contestazione originaria, in particolare nell’ipotesi in cui la diversità si fondi su fatti che non risultavano dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale. La Consulta, seguendo il medesimo iter logico-giuridico della precedente pronuncia emessa con riferimento all’art. 517 c.p.p. disciplinate il giudizio abbreviato (sentenza 237/12) ha dichiarato fondato il ricorso, sancendo la parziale illegittimità dell’art. 517 c.p.p. A parere della corte costituzionale, infatti, le considerazioni effettuate possono essere estese anche all’ipotesi in esame. Osserva la Suprema Corte che <<le fattispecie regolate dagli artt. 516 e 517 cod. proc. pen. sono già state, del resto, accomunate da questa Corte nelle analoghe declaratorie di illegittimità costituzionale inerenti alle contestazioni dibattimentali cosiddette “tardive” o “patologiche” (…) Altrettanto è avvenuto – a prescindere da ogni distinzione fra contestazioni “fisiologiche” e “patologiche” – con riguardo alla mancata previsione della facoltà dell’imputato di presentare domanda di oblazione in rapporto al reato oggetto della nuova contestazione (sentenza n. 530 del 1995)>>. Nel pervenire alla soluzione esposta la Corte Costituzionale ha ritenuto che le differenze esistenti tra la contestazione del reato concorrente e quella del fatto diverso non siano sufficienti a differenziarle sotto il profilo delle disciplina sottoposta al vaglio di legittimità. Invero, <<in entrambi i casi, la contestazione interviene quando il termine procedimentale perentorio per la richiesta di giudizio abbreviato è già scaduto (…). Anche in rapporto alla contestazione “fisiologica” del fatto diverso vale, quindi, il rilievo di fondo, per cui l’imputato che subisce la nuova contestazione «viene a trovarsi in posizione diversa e deteriore – quanto alla facoltà di accesso ai riti alternativi e alla fruizione della correlata diminuzione di pena – rispetto a chi, della stessa imputazione, fosse stato chiamato a rispondere sin dall’inizio». Infatti, «condizione primaria per l’esercizio del diritto di difesa è che l’imputato abbia ben chiari i termini dell’accusa mossa nei suoi confronti […]. Di conseguenza, non solo quando all’accusa originaria ne venga aggiunta una connessa, ma anche quando l’accusa stessa sia modificata nei suoi termini essenziali, «non possono non essere restituiti all’imputato termini e condizioni per esprimere le proprie opzioni» (sentenza n. 237 del 2012)>>. La Consulta ha infine precisato che, essendo la garanzia del pieno esercizio del diritto di difesa alla base della propria decisione, non ogni variazione marginale dell’accusa sarà idonea ad incidere sullo stesso, ma solo quella che comporti una trasformazione dei tratti essenziali dell’addebito (che potrebbe avere riflessi anche sul piano della pena e degli eventuali strumenti premiali). In conclusione <<le ragioni della deflazione processuale debbono cedere di fronte alla necessità del rispetto degli artt. 3 e 24, secondo comma, Cost. […], l’art. 516 cod. proc. pen. va dichiarato, pertanto, costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al fatto diverso emerso nel corso dell’istruzione dibattimentale, che forma oggetto della nuova contestazione>>. VA |
Inserito in data 13/12/2014 CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA, SEZIONE QUINTA, SENTENZA 11 dicembre 2014, cause C-113/13 Sull’ammissibilità dell’affidamento in house del servizio di trasporto sanitario La Corte di Giustizia europea è stata chiamata a pronunciarsi sulla compatibilità o meno della normativa italiana, che consente l’affidamento diretto ed in via preferenziale del servizio di trasporto sanitario ad enti no profit. Più precisamente ci si è chiesti se le disposizioni del diritto dell’Unione in materia di appalti pubblici e le regole di concorrenza del Trattato ostino ad una normativa nazionale che prevede che le amministrazioni locali debbano affidare la fornitura dei servizi di trasporto sanitario di urgenza ed emergenza in via prioritaria e di affidamento diretto, in mancanza di qualsiasi forma di pubblicità, alle associazioni di volontariato convenzionate, le quali, per la fornitura di detti servizi, ricevono unicamente il rimborso delle spese effettivamente sostenute a tal fine nonché di una frazione dei costi fissi e durevoli nel tempo. Il giudice del rinvio, infatti, aveva ipotizzato che nei casi in questione si verificasse una violazione del principio di libertà di concorrenza e di stabilimento. Invero, richiamando le sentenze Commissione/Italia (C-119/06 e C-305/08) 27, aveva messo in luce la posizione di favore in cui si venivano a trovare le associazioni non lucrative (le quali potevano partecipare sia alle forniture di servizi loro riservate che alle gare di appalto pubbliche), essendo state ricomprese nella nozione di operatore economico. La Corte di Giustizia Europea, dopo aver esaminato la natura dell’appalto ai fini del suo esatto inquadramento, ed aver evidenziato che la normativo comunitaria applicabile varia a seconda della prevalenza economica delle prestazioni mediche ovvero di trasporto ha, tuttavia, affermato che, <<sebbene il diritto dell’Unione in materia di appalti pubblici è diretto a garantire la libera circolazione dei servizi e l’apertura alla concorrenza all’interno di tutti gli stati membri, l’affidamento, in mancanza di qualsiasi trasparenza, di un appalto ad un’impresa con sede nello Stato membro dell’amministrazione aggiudicatrice di detto appalto costituisce una disparità di trattamento a danno di imprese con sede in un altro Stato membro che potrebbero essere interessate a tale appalto salvo che sia giustificata da circostanze obiettive>> (v., in tal senso, sentenze Commissione/Irlanda). <<Nel caso in esame si è ritenuto che, non solo un rischio di grave pregiudizio per l’equilibrio economico del sistema previdenziale può costituire, di per sé, una ragione imperativa di pubblico interesse in grado di giustificare un ostacolo alla libera prestazione dei servizi, ma, inoltre, l’obiettivo di mantenere, per ragioni di sanità pubblica, un servizio medico ed ospedaliero equilibrato ed accessibile a tutti può rientrare parimenti in una delle deroghe giustificate da motivi di sanità pubblica, se un siffatto obiettivo contribuisce al conseguimento di un livello elevato di tutela della salute>>. A quanto sopra esposto si aggiunge che l’organizzazione del sevizio di trasporto sanitario risponde anche ai principi di efficienza economica ed di adeguatezza in quanto il ricorso ad associazioni di volontariato convenzionate consente anche una forte riduzione della spesa pubblica e, conseguentemente, il rispetto del bilancio. Per tutti questi motivi i giudici europei, con la sentenza in esame, hanno stabilito che <<Gli articoli 49 TFUE e 56 TFUE devono essere interpretati nel senso che non ostano ad una normativa nazionale che, come quella in discussione nel procedimento principale, prevede che la fornitura dei servizi di trasporto sanitario di urgenza ed emergenza debba essere attribuita in via prioritaria e con affidamento diretto, in mancanza di qualsiasi pubblicità, alle associazioni di volontariato convenzionate, purché l’ambito normativo e convenzionale in cui si svolge l’attività delle associazioni in parola contribuisca effettivamente alla finalità sociale e al perseguimento degli obiettivi di solidarietà ed efficienza di bilancio su cui detta disciplina è basata>>. VA |
Inserito in data 11/12/2014 CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, ORDINANZA 10 dicembre 2014, n. 33 È rituale l’avviso di perenzione inviato alla PEC del difensore non dichiarata nel ricorso? L’Adunanza Plenaria si è pronunciata, tra l’altro, in ordine al “problema della ritualità e, quindi, della validità della comunicazione dell’avviso di perenzione effettuata tramite PEC a un difensore che aveva omesso di indicare il proprio indirizzo di posta elettronica nel primo atto difensivo”. Preliminarmente, il Supremo Consesso amministrativo osserva che per stabilire la ritualità di un atto processuale (come l’avviso di perenzione) occorre guardare alle norme vigente al momento della sua adozione (principio del tempus regit actum) e non a quelle vigenti al momento della notifica del ricorso introduttivo. Poiché negli ultimi anni la disciplina in tema di comunicazioni digitali tra pubbliche amministrazioni e professionisti è stata più volte modificata, ne consegue che la soluzione della questione varia in base al momento in cui è stata effettuata la comunicazione mediante PEC. Secondo l’Adunanza Plenaria, fino al 2011, una comunicazione siffatta sarebbe stata irrituale. Solo dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 195/11 (che ha modificato l’art. 136 c.p.a. obbligando i difensori a indicare nel ricorso o nel primo atto difensivo un indirizzo PEC e prevedendo espressamente una presunzione di conoscenza delle comunicazioni trasmesse allo stesso), devono ritenersi valide le comunicazioni effettuate mediante PEC, a prescindere dall’avvenuta indicazione dell’indirizzo PEC nel primo atto processuale e purché l’indirizzo sia corretto e il sistema di trasmissione abbia funzionato. Infatti, “La prescrizione relativa all’indicazione dell’indirizzo PEC del difensore dev’essere […] intesa come preordinata al solo fine di agevolare la segreteria, in attesa di un accesso diretto (ormai operativo) a un elenco pubblico, nella ricerca della casella di riferimento, ma non può essere decifrata come condizione di efficacia della norma”. “D’altra parte, il combinato disposto della disposizione, del 2008, che obbligava gli avvocati a dotarsi di un indirizzo PEC e a comunicarlo al loro consiglio dell’ordine, e dell’art.136 del c.p.a., che sanciva in via generale l’estensione al processo amministrativo di tale modalità informativa, non può che essere letto, in esito a un’esegesi sistematica e coordinata dei due precetti, come prescrittivo dell’introduzione a regime (dall’entrata in vigore della norma processuale) delle comunicazioni digitali nei giudizi amministrativi, restando così confermate l’assenza di qualsivoglia valenza condizionante […] dell’indicazione dell’indirizzo PEC del difensore nel primo atto difensivo e la sua mera funzione di ausilio ai (nuovi) compiti di segreteria”. TM |
Inserito in data 11/12/2014 CORTE DI CASSAZIONE - QUARTA SEZIONE PENALE, SENTENZA 1 dicembre 2014, n. 50055 Rimessione alle SU sulle tabelle che classificano le sostanze come stupefacenti Al fine di prevenire eventuali contrasti nella giurisprudenza di legittimità, la Cassazione penale ha rimesso alle Sezioni Unite la questione della “rilevanza penale, o meno, di tutti i fatti concernenti sostanze introdotte per la prima volta nelle tabelle allegate al D.P.R. n. 309 del 1990, dal 27 febbraio 2006 e commessi entro la data (21 marzo 2014) dell'entrata in vigore del D.L. 20 marzo 2014, n. 36”. La questione si pone perché, in primis, con sentenza n. 32/14, la Corte costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità della legge Fini-Giovanardi e affermato la reviviscenza della disciplina previgente con le connesse tabelle, che non contenevano le circa 500 sostanze che erano state qualificate dal legislatore come stupefacenti, solo dopo l'entrata in vigore della legge dichiarata incostituzionale; solo con d.l. 36/2014, il Governo ha ripristinato l'inclusione, tra le sostanze sottoposte al controllo del Ministero della salute, con il connesso regime giuridico, delle numerose sostanze classificate come stupefacenti dopo l’entrata in vigore della legge Fini-Giovanardi. Inoltre, secondo la pacifica giurisprudenza della Cassazione, "non trova applicazione la normativa in materia di stupefacenti ove le condotte abbiano ad oggetto sostanze droganti non incluse nel catalogo di legge, perchè la nozione di sostanza stupefacente ha natura legale, nel senso che sono soggette alla normativa che ne vieta la circolazione solo le sostanze indicate nelle tabelle allegate al T.U. sugli stupefacenti". Sulla questione non si è ancora pronunciata la Corte di Cassazione mentre sussiste un contrasto all’interno delle Procure della Repubblica. Invero, per alcune Procure, “la sentenza della Corte Costituzionale ha prodotto, irrimediabilmente, una serie di abolitiones criminis rispetto a tutti i fatti concernenti sostanze introdotte per la prima volta nelle tabelle dal 2006. Con tutti i conseguenti effetti sui processi in corso, nonchè sulle sentenze già passate in giudicato, che andrebbero revocate in forza dell'applicazione dell'art. 673 c.p.p.”. In tal senso deporrebbe anche la circostanza che, in sede di conversione del d.l. n. 36/14, si è sostituita l’espressione “continuano” con quella “riprendono” a produrre effetti, come a voler fugare il dubbio che il legislatore volesse introdurre una disciplina con efficacia retroattiva. Per altre Procure, invece, tali condotte sarebbero ancora penalmente rilevanti; ciò in quanto i decreti ministeriali mediante i quali erano state inserite nelle tabelle le ulteriori sostanze stupefacenti non sarebbero stati travolti dalla sentenza della Corte costituzionale n. 32/2014, in quanto rientrerebbero tra le norme che non presuppongono le disposizioni dichiarate incostituzionali. TM
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Inserito in data 10/12/2014 CORTE DI CASSAZIONE, SECONDA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 5 dicembre 2014, n. 25811 Nullità del trasferimento di immobili non in regola con la normativa urbanistica L’art. 40, secondo comma, legge 28 febbraio 1985, n. 47, prevede non solo la nullità (di carattere formale) per gli atti di trasferimento di immobili da cui non risulta la regolarità urbanistica o la pendenza del procedimento di sanatoria, ma altresì la nullità (di carattere sostanziale) per gli atti di trasferimento di immobili comunque non in regola con la normativa urbanistica. CDC
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Inserito in data 10/12/2014 CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 10 dicembre 2014, n. 34 Incameramento della cauzione provvisoria per carenza dei requisiti ex art. 38 cod. contr. La sentenza afferma la legittimità della clausola che preveda l’incameramento della cauzione provvisoria nei confronti dei concorrenti non aggiudicatari, qualora sia accertata la carenza del possesso dei requisiti generali di cui all’art. 38 d.lgs. 163/2006. In tal senso depongono, anzitutto, le norme di riferimento (artt. 48, comma 1, e 75, commi 1 e 6, d.lgs. 163/2006), dalle quali si evince che l’escussione della cauzione non presuppone in via esclusiva il fatto dell’aggiudicatario né si limita alle dichiarazioni sui requisiti speciali; essa, al contrario, trova spazio applicativo anche quando, per il concorrente (pur se non aggiudicatario), risulti non corrispondente al vero quanto dichiarato in occasione della rappresentazione di requisiti generali (in tal senso, si era già pronunciata Ad. Plen. n.8 del 2012). Ciò risulta inoltre giustificato, se non imposto, sia dalla funzione della cauzione provvisoria e dalla previsione del suo incameramento, che dalla sua natura giuridica. La sua funzione è quella di responsabilizzare i partecipanti in ordine alle dichiarazioni rese, di garantire la serietà e l’affidabilità dell’offerta, nonché di escludere da subito i soggetti privi delle richieste qualità volute dal bando. L’escussione costituisce allora conseguenza della violazione dell’obbligo di diligenza gravante sull’offerente, tenuto conto che gli operatori economici, con la domanda di partecipazione, sottoscrivono e si impegnano ad osservare le regole della relativa procedura delle quali hanno piena contezza. Sotto il profilo della natura giuridica, si ritiene che l’istituto della cauzione provvisoria debba ricondursi alla caparra confirmatoria, sia perché è finalizzata a confermare la serietà di un impegno da assumere in futuro, sia perché tale qualificazione risulta la più coerente con l’esigenza, rilevante contabilmente, di non vulnerare l’amministrazione costringendola a pretendere il maggior danno (come accadrebbe qualora la cauzione provvisoria svolgesse la funzione di clausola penale). In definitiva e in sostanza, si tratta di una misura di indole patrimoniale, priva di carattere sanzionatorio amministrativo nel senso proprio, che costituisce l’automatica conseguenza della violazione di regole e doveri contrattuali espressamente accettati. Né appaiono convincenti le obiezioni sollevate dalla tesi più restrittiva. Anzitutto, l’invocato principio di legalità riguarda le sanzioni in senso proprio e non già le misure (quali la cauzione provvisoria) di indole patrimoniale liberamente contenute negli atti di indizione, accettate dai concorrenti, non irragionevoli né illogiche, rispondenti all’autonomia patrimoniale delle parti, non contrarie a norme imperative e anzi agganciate alla ratio rinvenibile nelle disposizioni del codice. Anche il principio di tassatività è male invocato, essendo riferibile alle sole cause di esclusione dalla gara, e non già ad altre misure di tipo patrimoniale contenute in clausole degli atti di indizione e riferibili a doveri di correttezza contrattuale. Infine, portano a concludere nel senso sostenuto anche altre due previsioni. Si tratta dell’art. 49 d.lgs. 163/2006, che, sia pure nell’ambito della disciplina dell’avvalimento, ma con valenza sistematica dal punto di vista interpretativo, al comma 3 prevede che “nel caso di dichiarazioni mendaci, ferma restando l’applicazione dell’articolo 38, lettera h nei confronti dei sottoscrittori, la stazione appaltante esclude il concorrente(non già il solo aggiudicatario) e escute la garanzia”. Vi è poi l’articolo 38, comma 2-bis, d.lgs. 163/2006 (inserito dall’art. 39, comma 1, d.l. 90/2014), il quale prevede che la mancanza, incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale degli elementi e delle dichiarazioni sostitutive di cui al comma 2 obbliga il concorrente che vi ha dato causa al pagamento, in favore della stazione appaltante, della sanzione pecuniaria stabilita dal bando di gara, in misura non inferiore all’uno per mille e non superiore all’uno per cento del valore della gara e comunque non superiore a 50.000 euro, il cui versamento è garantito dalla cauzione provvisoria (assegnando termine per regolarizzare e prevedendo altresì che le irregolarità non essenziali non rilevino). Al di là dell’irrilevanza di tale norma ratione temporis (in quanto applicabile solo alle procedure di affidamento indette successivamente al 24 giugno 2014), essa conferma la legittimità (della previsione nei bandi della “sanzione”) dell’incameramento della cauzione provvisoria in caso di mancanze relative ai requisiti generali di cui all’art. 38, riferibili a tutti i concorrenti e non al solo aggiudicatario. CDC |
Inserito in data 09/12/2014 TAR CALABRIA - CATANZARO, SEZ. II, 4 dicembre 2014, n. 2083 Concessione demaniale e revoca da parte del Sindaco: vizio di incompetenza I Giudici del Tribunale calabrese accolgono la censura mossa avverso il provvedimento di revoca, disposto da un Sindaco, riguardo a pregressi pareri favorevoli resi in merito ad una concessione demaniale. Il Collegio, richiamando adeguati riferimenti normativi e giurisprudenziali, sottolinea come nel TUEL sia netta la distinzione esistente tra organi di governo locale e relativa dirigenza, dove ai primi spettano i compiti di indirizzo (la fissazione delle linee generali cui attenersi e degli scopi da perseguire) e alla seconda quelli di gestione (amministrativa, finanziaria e tecnica, comprensiva dell’adozione di tutti i relativi provvedimenti gestionali, anche discrezionali, e loro simmetrici atti negativi) (Cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 7 aprile 2011, n.2154). Pertanto, visto che nel caso in esame il provvedimento concessorio gravato, al pari di quelli autorizzatori ed in genere meramente organizzativi, era stato correttamente emesso dal dirigente competente, non è ammissibile – ad avviso dei Giudici, che la relativa rimozione venga disposta da un Organo diverso – quale il Sindaco, appunto. Ne consegue, peraltro, che ai sensi dell’articolo 34 – 2’ comma c.p.A. - l’accoglimento del vizio di incompetenza comporta l’assorbimento di ogni ulteriore censura. Il Collegio, infatti, aderisce sul punto all’impostazione ermeneutica secondo cui è principio generale del processo amministrativo che l’accoglimento di un vizio-motivo di incompetenza dell’organo che ha provveduto è intrinsecamente e necessariamente assorbente di ogni altro vizio-motivo dedotto nel ricorso: giacchè tale vizio accolto, per la sua stessa natura, inficia tutti gli atti successivi, che inevitabilmente dovranno essere reiterati dall’organo competente (Cfr. C.G.A., 6 marzo 2012, n.273; T.A.R. Sicilia 13 giugno 2013, n.1328). CC |
Inserito in data 09/12/2014 TAR SICILIA - CATANIA, SEZ. II, 4 dicembre 2014, n. 3177 Diritto dell’allieva all’assegnazione di un docente di sostegno per 24 ore settimanali Il Collegio etneo richiama la necessità che l’amministrazione scolastica garantisca al discente affetto da gravi patologie – tra quelle contemplate ex lege n. 104/92 – gli strumenti adeguati al fine di assicurare l'effettività dell'inserimento nel percorso scolastico frequentato. Nel caso di specie, invece, veniva circoscritto il monte ore assegnato al docente di sostegno, in considerazione delle limitate disponibilità finanziarie lamentate dall’Amministrazione centrale. I Giudici, condividendo le doglianze del genitore ricorrente, ricordano l’incomprimibilità del diritto fondamentale del soggetto affetto da disabilità grave a fruire di un percorso scolastico effettivo. Pertanto, richiamando l’insegnamento della Corte Costituzionale n. 80/10, il Collegio sottolinea la necessità di delimitare la discrezionalità legislativa in un ambito, quale quello oggetto dell’odierna censura, che non può dirsi finanziariamente condizionato, proprio per il rango di diritto fondamentale che riveste. In ragione di ciò, viene accolto il ricorso e, per l’effetto, viene disposto l’ampliamento delle ore settimanali da assegnare alla docente di sostegno, in favore dell’odierna ricorrente. CC |
Inserito in data 09/12/2014 CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA, SEZIONE SECONDA - SENTENZA 2 dicembre 2014, CAUSE RIUNITE da C 148/13 a C 150/13 Stranieri: richiesta di asilo e diritto alla sfera personale La Corte del Lussemburgo interviene, ancora una volta, in tema di diritti fondamentali, libertà di stabilimento e delimitazione dei poteri di ingerenza dello Stato nella sfera privata di ciascun singolo. Più nel dettaglio, i Giudici circoscrivono la portata dell’intervento delle Autorità nazionali che, al momento della richiesta di asilo da parte di stranieri perseguitati dai Paesi di origine in ragione della propria omosessualità, non possono ingerirsi al punto da procedere ad interrogatori sulle relative pratiche sessuali, né accettare prove video miranti a provare l'omosessualità, né tantomeno dedurre la non credibilità delle dichiarazioni eventualmente rese dai medesimi istanti in test all’uopo predisposti. Si tratta, dice la Corte con riguardo a quanto accaduto in alcuni Stati membri, di pratiche lesive della dignità umana, il cui rispetto è siglato dalla Carta fondamentale dei diritti umani. E’ innegabile, dice il Collegio, che si tratti di un ambito afferente alla sfera più intima del singolo, meritevole della più ampia protezione, oltrechè di una corretta inviolabilità anche da parte dell’Apparato statale. CC
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Inserito in data 05/12/2014 TAR FRIULI VENEZIA GIULIA - TRIESTE, SEZ. I, 4 dicembre 2014, n. 629 Affidamento in house e partecipazione indiretta dei privati Il giudice di merito triestino ha accolto il ricorso avverso la delibera consigliare che ha disposto l’affidamento in house ad una società consorziata partecipata, seppur in minima parte, da soggetti privati. La sentenza in commento richiama i dettami enunciati dall’Adunanza Plenaria n. 1 del 2008 che richiede, in termini assoluti, il requisito della totalità della proprietà pubblica. L’affidamento in house, infatti, è ammesso solo ove sia possibile considerare la società affidataria quale “longa manus” della pubblica amministrazione, sì da non alterare le dinamiche del mercato falsando la concorrenza. Affinché sia possibile, in ragione del cd. controllo analogo, è richiesta la necessaria partecipazione pubblica totalitaria, con conseguente esclusione in caso di partecipazione di un'impresa privata al capitale di una società (anche laddove lo statuto consenta la possibile futura cessione delle quote) e la presenza di strumenti di controllo da parte dell'ente più incisivi rispetto a quelli previsti dal diritto civile. Il giudice di primo grado, inoltre, ha affermato che <<la nuova direttiva comunitaria sulle concessioni 2014/23/UE, che sul punto ammette in talune ipotesi la partecipazione indiretta dei privati alle società in house, non risulta ancora recepita dagli Stati membri, né essa si può considerare self executing, sia per la sua natura, che richiede un recepimento e adattamento a livello nazionale, sia perché non è ancora scaduto il termine per il recepimento stesso>>, pertanto non può trovare applicazione nel caso di specie. Ne consegue l’illegittimità dell’affidamento in house ad una società che, pur normativamente definita come ente pubblico economico, non può essere sostanzialmente considerata tale. VA |
Inserito in data 04/12/2014 TAR ABRUZZO - PESCARA, SEZ. I, 3 dicembre 2014, n. 486 Silenzio assenso e permesso di costruire Il tribunale di merito ha dato esito negativo alla richiesta di accertamento dell’avvenuta formazione del silenzio assenso su di un’istanza presentata al fine di ottenere dal comune il permesso di costruire. Il giudice di primo grado, infatti, ha rilevato la carenza della dichiarazione del progettista abilitato che attesti la conformità del progetto agli strumenti urbanistici approvati ed adottati, ai regolamenti vigenti, e alle altre normative di settore che incidano sull’attività edilizia. L’art. 20 comma 9 del d.p.r. 380/01, stabilendo che “Decorso inutilmente il termine per l'adozione del provvedimento conclusivo, ove il dirigente o il responsabile dell'ufficio non abbia opposto motivato diniego, sulla domanda di permesso di costruire si intende formato il silenzio-assenso, fatti salvi i casi in cui sussistano vincoli ambientali, paesaggistici o culturali, per i quali si applicano le disposizioni di cui al comma 9” rinvia implicitamente alla parte della norma che descrive i caratteri essenziali della “domanda per il rilascio del permesso di costruire” della quale la suddetta attestazione di conformità da parte del professionista abilitato costituisce elemento essenziale. Ne consegue che, in carenza della stessa (mancando peraltro la conformità di fatto rispetto al piano regolatore che prevedeva un vincolo a “scuola elementare” nella zona interessata), non possono ritenersi sussistenti gli elementi essenziali per la formazione del silenzio assenso il quale trova la sua giustificazione nel principio di semplificazione: pertanto la dichiarazione di conformità << costituisce appunto la motivazione interna del provvedimento favorevole al privato e può giustificare, in un ottica di semplificazione, l’inerzia dell’Amministrazione e il conseguente assenso tacito su un progetto apparentemente conforme alla disciplina urbanistica >>. VA |
Inserito in data 03/12/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 2 dicembre 2014, n. 5955 Funzione cautelare e termine di efficacia dell’informativa antimafia Con la pronuncia in esame, il Consiglio di Stato ci ricorda che l’informativa antimafia, rilasciata dal prefetto in relazione alle imprese che hanno o mirano ad avere rapporti economici con pubbliche amministrazioni o con soggetti privati che svolgono funzioni pubbliche, ha funzione spiccatamente cautelare, nel senso che serve a prevenire il pericolo di infiltrazione delle organizzazioni criminali negli appalti delle pubbliche amministrazioni. Proprio per questo essa si basa su elementi idonei a disvelare i tentativi di infiltrazione mafiosa, aventi un grado di significatività inferiore rispetto alle prove determinanti l'applicazione di sanzioni penali o di misure di sicurezza personali, ma, al contempo, non riducibili a semplici congetture prive di riscontro fattuale. Ne consegue che, anche in base al principio tempus regit actum, è legittima l’interdittiva antimafia relativa ad un soggetto che successivamente venga assolto dal giudice penale, proprio perché essa avrò svolto la funzione cautelare che gli è propria. Infine, i Giudici di Palazzo Spada ribadiscono che ”il disposto di cui all'art. 2, co. 1, del d.P.R. 3 giugno 1998 n. 252 ss.mm.ii., nella parte in cui afferma che la documentazione è utilizzabile solo per sei mesi dal rilascio, intende riferirsi ai soli casi di documentazioni negative, vale a dire attestanti che non risultano infiltrazioni della criminalità organizzata, e non già (come è nella specie) anche casi di documentazioni positive, le quali conservano pertanto la loro capacità interdittiva anche oltre quel termine”. TM |
Inserito in data 03/12/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 3 dicembre 2014, n. 5972 Il nuovo soccorso istruttorio si applica alle gare indette dopo la sua entrata in vigore I Giudici di Palazzo Spada ritengono legittima l’esclusione dalla procedura di gara di un’impresa che, in violazione dell’art. 38, secondo comma, d.lgs. n. 163/06, non aveva dichiarato una condanna penale riportata. Infatti, “la completezza e la veridicità (sotto il profilo della puntuale indicazione di tutte le condanne riportate) della dichiarazione sostitutiva di notorietà rappresentano lo strumento indispensabile, adeguato e ragionevole, per contemperare i contrapposti interessi in gioco, quello dei concorrenti alla semplificazione e all'economicità del procedimento di gara (a non essere, in particolare, assoggettati ad una serie di adempimenti gravosi, anche sotto il profilo strettamente economico, come la prova documentale di stati e qualità personali, che potrebbero risultare inutili o ininfluenti) e quello pubblico, delle amministrazioni appaltanti, di poter verificare con immediatezza e tempestività se ricorrono ipotesi di condanne per reati gravi che incidono sulla moralità professionale, potendo così evitarsi ritardi e rallentamenti nello svolgimento della procedura ad evidenza pubblica di scelta del contraente, così realizzando quanto più celermente possibile l'interesse pubblico perseguito proprio con la gara di appalto […], così che la sola mancata dichiarazione dei precedenti penali o di anche solo taluno di essi, indipendentemente da ogni giudizio sulla loro gravità, rende legittima l'esclusione dalla gara”. Inoltre, “il modello predisposto dall’amministrazione appaltante, che prevedeva l’obbligo per i concorrenti ovvero per i suoi legali rappresentanti di dichiarare che non fosse stata pronunciata condanna passata in giudicato o emesso decreto penale di condanna divenuto irrevocabile oppure sentenza di applicazione della pena su richiesta per reati gravi in danno dello Stato, non può considerarsi idoneo a indurre in errore il dichiarante circa l’effettivo ambito della dichiarazione da rendere, stante la puntuale disposizione normativa di riferimento e spettando solo all’amministrazione la valutazione della gravità dei reati”. Infine, “secondo quanto previsto dal comma 3 dell’art. 39 del d.l. n. 90 del 2014, convertito con modificazioni dalla l. n. 114 del 2014, le disposizioni di cui ai precedenti commi 1 e 2, sostanzialmente invocate dall’appellante a sostegno della asserita sanabilità dell’omissione contestata, si applicano alle procedure di affidamento indette successivamente alla data di entrata in vigore del decreto legge e quindi non sono applicabili all’appalto de qua, la cui procedura è stata avviata nel 2013”. TM |
Inserito in data 02/12/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 1 dicembre 2014, n. 5917 Sulla non risarcibilità dei danni evitabili con l’impugnazione del provvedimento La regola della non risarcibilità dei danni evitabili con l'impugnazione del provvedimento e con la diligente utilizzazione degli altri strumenti di tutela previsti dall'ordinamento, sancita dall'art. 30, comma 3, cpa è ricognitiva di principi già evincibili alla stregua di un'interpretazione evolutiva dell'art. 1227, secondo comma, cc. Pertanto, pur non sussistendo una pregiudizialità di rito nel quadro normativo anteriore all'entrata in vigore del codice del processo amministrativo, la mancata impugnazione del provvedimento amministrativo costituiva già in passato un comportamento contrario a buona fede, qualora sia accertato che una tempestiva reazione avrebbe evitato o mitigato il danno. L’applicazione di tale principio non comporta una preclusione di ordine processuale all'esame nel merito della domanda risarcitoria; piuttosto, determina un esito negativo nel merito dell'azione, perché la domanda di risarcimento del danno derivante da provvedimento non, o tardivamente, ovvero inammissibilmente, impugnato è ammissibile ma infondata nel merito, in quanto la mancata corretta impugnazione dell'atto fonte del danno consente a tale atto di operare in modo precettivo (dettando la regola del caso concreto, autorizzando la produzione dei relativi effetti e imponendone l'osservanza ai consociati), così impedendo che il danno possa essere considerato ingiusto o illecita la condotta tenuta dalla P.A. in esecuzione dell'atto in oppugnato. Non deve essere quindi risarcito il danno che il ricorrente non avrebbe subito se avesse serbato il comportamento collaborativo cui era tenuto, secondo correttezza. Del resto, la giurisprudenza più recente ha adottato un'interpretazione estensiva ed evolutiva dell’art. 1227, secondo comma, cc, secondo cui il creditore è gravato non soltanto da un obbligo negativo (astenersi dall'aggravare il danno), ma anche da un obbligo positivo (tenere quelle condotte, anche positive, esigibili, utili e possibili, rivolte ad evitare o ridurre il danno). CDC |
Inserito in data 02/12/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 1 dicembre 2014, n. 5915 Verifica di anomalia dell’offerta, sindacato estrinseco e applicazione alle concessioni L’art. 86, terzo comma, d.lgs. 163/2006 rimette alle valutazioni delle stazioni appaltanti la verifica di congruità dell’offerta, al di fuori dei casi tassativi previsti dai precedenti commi 1 e 2 (rispettivamente, per le gare da aggiudicare con il criterio del massimo ribasso e dell’offerta economicamente più vantaggiosa). Secondo giurisprudenza costante, le valutazioni in questione costituiscono tipica espressione di discrezionalità tecnico-amministrativa, ordinariamente sottratta al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, se non inficiata da evidente irragionevolezza o travisamento dei fatti emersi nell’istruttoria. Ciò vale per le procedure di affidamento di appalti pubblici, ma anche per gli affidamenti di concessioni di servizi, in quanto l’art. 86, comma 3, d.lgs. 163/2006 rientra fra i principi generali applicabili, ex art. 30 d.lgs. 163/2006, anche alle concessioni di servizi. Tale norma, infatti, rinvia ai generali principi dell’azione amministrativa di cui all’art. 2, d.lgs. 163/2006, dato che la verifica dell’anomalia dell’offerta è finalizzata alla corretta esecuzione del contratto e costituisce una cautela preventiva della stazione appaltante, attraverso la quale essa anticipa nella fase dell’evidenza pubblica un approfondimento delle caratteristiche dell’offerta, al fine di saggiarne la sostenibilità economica, in tal modo prevenendo possibili inadempimenti dell’impresa aggiudicataria in fase esecutiva, fonti di gravi ripercussioni per l’interesse pubblico sotteso alla regolare esecuzione dei contratti stipulati dall’amministrazione. Dunque, emerge anche da questa angolazione la natura ampiamente discrezionale delle valutazioni che sottostanno alla decisione di sottoporre a verifica di anomalia le offerte presentate in sede di gara. Peraltro, l’applicabilità alle concessioni di servizi delle disposizioni del d.lgs. 163/2006 può avvenire anche in conseguenza di un richiamo ad esse da parte della normativa di gara, e dunque in virtù di un autovincolo espresso dell’amministrazione aggiudicatrice. A tal fine è necessario un richiamo puntuale, doveroso alla luce della regola del clare loqui cui le amministrazioni sono tenute nella predisposizione dei bandi di gara. CDC |
Inserito in data 01/12/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 1 dicembre 2014, n. 5949 Organismi di diritto pubblico e profili di giurisdizione Il Consiglio di Stato, con la pronuncia de qua interviene in merito alla dibattuta questione della giurisdizione del giudice amministrativo, soffermandosi, in particolare, riguardo ai c.d. organismi di diritto pubblico. Invero, il TAR Lazio aveva dichiarato inammissibili i due separati ricorsi con cui si era chiesto l'annullamento di un avviso pubblico indetto da una società a responsabilità limitata per la selezione di 34 operatori che avrebbero dovuto prestare servizio presso determinati sportelli del Comune di Roma. Alla luce di quanto chiarito dal suddetto TAR, non essendo la società suddetta qualificabile come “organismo di diritto pubblico”, al caso de quo non è possibile applicare affatto il d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165, con conseguente giurisdizione del giudice ordinario. Successivamente, con atto di appello, gli interessati hanno tuttavia chiesto la riforma di tale sentenza, insistendo, innanzitutto, per l'appartenenza della controversia in questione al giudice amministrativo, e non già al giudice ordinario. Resiste, per contro, al gravame la società in questione, chiedendo il rigetto della impugnata sentenza e la inammissibilità ed infondatezza del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado. I Giudici di Palazzo Spada – alla luce della vicenda descritta – asseriscono che la riserva di giurisdizione del giudice amministrativo, prevista dall'art. 63, comma 4, del d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165, non possa trovare applicazione nella fattispecie de qua, perché non sussiste alcuna ragione per discostarsi dalle rigorose conclusioni contenute nella sentenza n. 28329 della Suprema Corte. La società, infatti, non è annoverabile tra le Pubbliche Amministrazioni, la giurisdizione del giudice amministrativo (ex art. 7, comma 2, c.p.a.) presuppone inoltre la riconducibilità dell'atto ovvero del provvedimento all'esercizio di un “potere pubblico”, non configurabile nel caso di specie. I Giudici di Palazzo Spada, puntualizzano, altresì, che: “La giurisdizione del giudice amministrativo presuppone la finalità della instaurazione di un rapporto di lavoro pubblico, seppure contrattualizzato, alle dipendenze di una pubblica amministrazione e non può neppure ipotizzarsi in relazione all'insorgenza di un rapporto di lavoro privato alle dipendenze di una società privata”. In conclusione, l'appello è stato, infatti, dichiarato improcedibile per un ricorrente ed è stato respinto con riferimento ad un altro interessato. GMC |
Inserito in data 01/12/2014 CORTE DI CASSAZIONE - TERZA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 25 novembre 2014, n. 24986 Sulla violazione delle norme del Codice della Privacy d.lgs. 196/2003 I Giudici di legittimità, con la sentenza in epigrafe, intervengono in merito ad un caso riguardante i genitori di una minore disabile, i quali lamentano la violazione di alcune norme del Codice della Privacy da parte di una testata giornalistica. La madre e il padre della bambina, infatti, ricorrono avverso il responsabile di una rivista periodica, che, violando le disposizioni del d.lgs. 196 del 2003, ha pubblicato dei dati sensibili riguardanti la minore stessa, specificamente, la notizia di adozione di delibera comunale di assistenza alla stessa. Essi, contestavano, sostanzialmente, l'illecito trattamento giornalistico dei dati personali della minore. Il giornale, tuttavia, si difendeva eccependo che la pubblicazione si riferisse a dei dati già resi noti da un organo di informazione facente parte della Amministrazione comunale, atto che, tra l'altro, sarebbe stato affisso anche all'albo pretorio. In primo e in secondo grado, i genitori hanno ottenuto l'accoglimento della propria domanda di risarcimento del danno, la testata giornalistica, tuttavia, ricorre in Cassazione. Secondo gli Ermellini, valutando il caso de quo, non sarebbe ivi applicabile la disposizione contenuta nel Codice suddetto e concernente la possibilità di pubblicare notizie già rese note direttamente dall'interessato, anche mediante un proprio comportamento in pubblico. Nello specifico, l'handicap della ragazza – secondo quanto chiarito dalla testata periodica – sarebbe stato tuttavia “evidente”. La Suprema Corte, chiarisce che “la percepibilità icto oculi, da parte di terzi, della condizione di handicap di una persona non può, infatti, considerarsi circostanza o fatto reso noto direttamente dall'interessato o attraverso un comportamento di questi in pubblico e, conseguentemente, non è applicabile in siffatta ipotesi la richiamata norma”. Nel caso de quo, risulta violata la riservatezza di una minore della quale sono stati divulgati gli elementi di identificazione e i dati sensibili concernenti la sua salute, senza che essi fossero di interesse pubblico ed essenziali alla informazione. Il giudice di merito, nel caso di specie, ha dunque operato correttamente il bilanciamento tra i due interessi coinvolti, ossia interesse alla tutela della privacy della minore e interesse pubblico alla divulgazione della notizia, facendo prevalere il primo sull'altro. GMC
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Inserito in data 01/12/2014 CORTE DI CASSAZIONE - QUINTA SEZIONE PENALE, SENTENZA 24 novembre 2014, n. 48734 L'istituto scolastico è da considerarsi “privata dimora” I Giudici della Suprema Corte, hanno chiarito, con la pronuncia de qua, che ai fini della integrazione del reato di furto in abitazione (espressamente previsto all'art. 624 – bis del c.p.) può considerarsi “privata dimora” anche l'istituto scolastico, da intendersi, in generale, quale luogo in cui le persone si trattengono al fine di compiere degli atti rientranti all'interno della sfera della loro vita privata. Gli Ermellini, nel caso de quo, hanno infatti confermato la condanna di un soggetto per il delitto di furto in un istituto scolastico, condividendo quanto statuito dalla Corte d'Appello e considerando altresì infondate le doglianze dell'imputato riguardo l'integrazione della fattispecie in parola. La Suprema Corte ha invero ribadito l'interpretazione affermata e chiarita dal costante orientamento giurisprudenziale (si consideri, ad esempio, Cass. n. 43089/2007), alla luce del quale devono considerarsi luoghi destinati a privata dimora, quelli in cui le persone “si trattengano per compiere, anche in modo transitorio e contingente, atti della loro vita privata”. Inoltre, è l'obiettivo perseguito dal Legislatore quello di ampliare – quanto più possibile – la portata della originaria previsione del furto in abitazione di cui all'art. 625 del c.p., n.1, ricomprendendo, infatti, anche dei luoghi in cui compiono attività lavorative ovvero studi professionali. I Giudici di legittimità, hanno quindi affermato definitivamente che la scuola – e, più in generale, ogni forma di istituto scolastico – rientri tra i luoghi di privata dimora; è indubitabile, infatti, che all'interno di questa possano esservi dei locali in cui i soggetti che la frequentano si trattengano per svolgere la propria vita privata, si pensi, a titolo esemplificativo, agli spogliatoi o, ancora, ai cortili destinati all'area di ricreazione. GMC
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Inserito in data 28/11/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 27 novembre 2014, n. 5884 Garanzia fideiussoria a prima richiesta e obblighi di buona fede della P.A. Essendo stato rilasciato il permesso di costruire per la realizzazione di un complesso turistico –ricettivo, la società beneficiaria si impegnava al versamento, in tre rate, il contributo di concessione. Più precisamente la questione sottoposta al vaglio del Consiglio di Stato attiene alla possibilità o meno di configurare in capo alla p.a., in applicazione degli artt. 1227 e 1375 c.c., un onere di attivazione della garanzia preventivamente alla comminazione della sanzione pecuniaria per il mancato pagamento dei ratei relativi agli oneri di urbanizzazione primaria e seconda tira e per contributo sul costo di costruzione. Con la pronuncia in commento il Supremo Consesso, pur dando atto di un indirizzo giurisprudenziale che, parimenti a quanto affermato dal giudice di primo grado, ritiene applicabile nei confronti della p.a. gli art. 1227 e 1375 c.c., ha disatteso quanto statuito dal Tar. I giudici di Palazzo Spada, infatti, ritengono che l’orientamento prospettato in primo grado, il quale fa rientrare tra i “comportamenti attivi” del creditore, richiesti al fine di evitare un aggravamento dei danni, anche l’attivazione della garanzia fideiussoria (sì da evitare l’applicazione della sanzione massima per il ritardo accumulato in relazione alla riscossione del credito), non posso trovare applicazione in tali ipotesi. Invero, <<in tema di sanzioni per ritardato pagamento di singole quote del contributo per il rilascio della concessione edilizia (ex art. 81 della l. Reg. Veneto n. 61 del 1985), […] va condivisa la giurisprudenza –prevalente- di questo Consiglio […], con la quale si è avuto modo di osservare e di ribadire – in relazione, in modo particolare alla segnalata “scorrettezza” della P. A. nel non avere “esercitato la facoltà di attivazione della garanzia alla scadenza della prima rata”, o per avere “omesso di escutere l’istituto bancario fideiussore”, che “ … in assenza di inadempimenti imputabili all'Amministrazione idonei a configurare a suo carico una responsabilità "da contatto" oppure di natura precontrattuale, non può farsi riferimento all'art. 1227 c. c. essendo tale disposizione riferibile solo alle obbligazioni di carattere risarcitorio e non a quelle (anche di contenuto pecuniario) di natura sanzionatoria>>. A ben vedere, infatti, la natura della garanzia fideiussoria è quella di tenere indenne la p.a. dal rischio del mancato pagamento degli oneri contributivi, non anche quella di sgravare il debitore principale dall’obbligo di pagamento. Pertanto l’adempimento del garante, anche a prima richiesta, scatterebbe solo a seguito dell’inadempimento dell’obbligazione principale e soltanto laddove la p.a. decida di attivarsi senza attendere l’adempimento della prestazione dal debitore, non essendo ravvisabile alcun obbligo di escussione. In conclusione il Consiglio di Stato ritiene che <<in materia di obbligazioni "portable" quali quelle pecuniarie, e con termine di adempimento che esonera dalla costituzione in mora del debitore, il creditore è soltanto facultato ad attivare la solidale responsabilità del fideiussore […]non spetta al soggetto tenuto al pagamento – in assenza di specifici pattuizioni del beneficium ordinis o del beneficium excussionis - stabilire se e quando il Comune creditore debba esercitare la facoltà di attivazione della garanzia, né l’art. 81 citato prevede in capo all’amministrazione concedente alcun obbligo di preventiva escussione del fideiussore né, infine, la mancata escussione del garante comporta la liberazione del garantito>>. Appare, dunque, legittima la comminazione della sanzione pecuniaria essendo il ritardo accumulato ne pagamento delle rate il risultato del comportamento della società costruttrice (che si basava sull’aspettativa, poi disattesa, di poter ottenere dei provvedimenti cautelari favorevoli da parte del giudice amministrativo, nell’attesa della risoluzione della controversia involvente altri aspetti del provvedimento amministrativo. VA |
Inserito in data 28/11/2014 CORTE DI CASSAZIONE - TERZA SEZIONE PENALE, SENTENZA 25 novembre 2014, n. 48981 Favoreggiamento alla prostituzione e annunci hot a mezzo stampa L’art. 3 comma 5 della l. 75/1958 sanziona la condotta di “chiunque induca alla prostituzione una donna di età maggiore, o compia atti di lenocinio, sia personalmente in luoghi pubblici o aperti al pubblico, sia a mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità”. La ratio ispiratrice della norma deve individuarsi nella volontà del legislatore di sanzionare la condotta di quanti svolgano il ruolo di intermediari tra le prostitute ed i clienti al fine di procacciarne nuovi, a prescindere dal fine di lucro. Ne consegue che la fattispecie incriminatrice, per l’integrazione del reato, richiede la sussistenza dell’elemento soggettivo dell’agente (rappresentato, come già detto, dalla volontà di procacciamento di nuovi clienti). Pertanto, a pere della Corte di Cassazione <<il delitto di lenocinio a mezzo stampa non è integrato dalla mera raccolta e pubblicazione di inserzioni pubblicitarie che si offrono per incontri sessuali, trattandosi di attività del tutto scollegata dal meretricio da queste esercitato e la cui finalità è esclusivamente la prestazione del servizio e non anche l’intermediazione tra prostituta e cliente>>. Infatti, il discrimine tra attività lecita ed illecita risiede proprio nella natura “ordinaria” o meno dei servizi offerti, dal fine perseguito, non essendo sufficiente la consapevolezza della natura degli annunci pubblicati da parte del direttore del mezzo stampa. VA
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Inserito in data 27/11/2014 CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 26 novembre 2014, n. 265 Sulle dichiarazioni rese extra moenia da un parlamentare La giurisprudenza della Consulta è costante nel ritenere che le dichiarazioni rese extra moenia da un parlamentare “sono coperte dalla prerogativa dell’insindacabilità di cui all’art. 68, primo comma, Cost. a condizione che esse siano legate da un nesso funzionale con l’attività parlamentare in concreto esercitata”. In questa prospettiva è stato ritenuto indefettibile “il concorso di due requisiti: a) un legame di ordine temporale fra l’attività parlamentare e l’attività esterna […], tale che questa venga ad assumere una finalità divulgativa della prima; b) una sostanziale corrispondenza di significato tra le opinioni espresse nell’esercizio delle funzioni e gli atti esterni, al di là delle formule letterali usate […], non essendo sufficiente né una semplice comunanza di argomenti né un mero “contesto politico” entro cui le dichiarazioni extra moenia possano collocarsi […], né il riferimento alla generica attività parlamentare o l’inerenza a temi di rilievo generale, seppur dibattuti in Parlamento […], né, infine, un generico collegamento tematico o una corrispondenza contenutistica parziale (da ultimo, sentenza n. 55 del 2014)” (sentenza n. 221 del 2014). È da aggiungere che, come già chiarito da questa Corte, “L’esigenza di salvaguardia della autonomia e libertà delle assemblee parlamentari dalle possibili interferenze di altri poteri (in particolare, di quello giudiziario) – quale sottesa alla insindacabilità delle opinioni espresse da membri del parlamento, ex art. 68 Cost. – deve, infatti, bilanciarsi con l’esigenza, di pari rilievo costituzionale, di garanzia del diritto dei singoli alla tutela della loro dignità di persone, prescritta dall’art. 2 Cost. E l’individuazione del punto di equilibrio, tra i corrispondenti contrapposti valori, porta, appunto, ad escludere che l’insindacabilità copra la complessiva attività politica posta in essere dal membro del Parlamento – poiché ciò trasformerebbe la prerogativa dell’immunità funzionale in un privilegio personale (sentenze n. 313 del 2013, n. 329 del 1999 e n. 289 del 1998) – ed a delimitare l’area di operatività della immunità in correlazione all’ambito di esercizio delle funzioni parlamentari” (sentenza 221 del 2014). EMF |
Inserito in data 27/11/2014 CORTE DI CASSAZIONE, SECONDA SEZIONE PENALE, SENTENZA 24 novembre 2014, n. 48663 Art. 316-ter c.p. e conguaglio per somme non corrisposte al lavoratore Con la pronuncia in epigrafe, gli Ermellini affermano che integra il delitto di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato di cui all’art. 316-ter cod. pen. “la condotta del datore di lavoro che, mediante la fittizia esposizione di somme corrisposte al lavoratore a titolo di indennità per malattia, maternità o assegni familiari, ottiene dall’I.N.P.S. il conguaglio di tali somme, in realtà non corrisposte, con quelle da lui dovute all’istituto previdenziale a titolo di contributi previdenziali e assistenziali, così percependo indebitamente dallo stesso istituto le corrispondenti erogazioni”. La giurisprudenza tradizionale (Cass. pen. n. 42937/2012; Cass. pen. n. 11184/2007), invece, collocava la fattispecie de qua nell’alveo del delitto di truffa; mentre una più recente decisione, ritenendo insussistente l’elemento del danno, ravvisava in astratto la configurabilità del reato di appropriazione indebita (Cass. pen. n. 18762/2013). EMF
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Inserito in data 26/11/2014 CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA, TERZA SEZIONE - SENTENZA 26 novembre 2014, Cause riunite C-22/13, da C-61/13 a C-63/13 e C-418/13 Normativa italiana sui contratti di lavoro a tempo determinato
E' contraria al diritto dell'Unione europea la normativa italiana sui contratti di lavoro a tempo determinato nel settore della scuola statale, è quello che ha stabilito la pronuncia de qua della Corte di Giustizia dell'Unione Europea in data odierna. Risulta, invero, che tale normativa, fatte salve le necessarie verifiche da parte dei giudici del rinvio, da un lato, non consente di definire criteri obiettivi e trasparenti al fine di verificare se il rinnovo di tali contratti risponda effettivamente ad un'esigenza reale, sia idoneo a conseguire l'obiettivo perseguito e sia necessario a tal fine, e, dall'altro, non prevede nessun'altra misura diretta a prevenire e a sanzionare il ricorso abusivo ad una successione di contratti di lavoro a tempo determinato. GMC |
Inserito in data 25/11/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 25 novembre 2014, n. 5830 Possibile incremento del termine per l’impugnazione dell’aggiudicazione Il termine per l’impugnativa del provvedimento di aggiudicazione non decorre sempre dal momento della comunicazione, ma può essere incrementato di un numero di giorni pari a quello necessario affinché il soggetto (che si ritenga) leso dall’aggiudicazione possa avere piena conoscenza del contenuto dell’atto e dei relativi profili di illegittimità, comunque entro il limite dei dieci giorni fissati per esperire la particolare forma di accesso - semplificato ed accelerato – disciplinata dall’art. 79.5quater. Ciò consente il sostanziale rispetto delle esigenze acceleratorie, di cui è portatore l’art. 120 cpa e, nello stesso tempo, consente il rispetto del consolidato principio secondo il quale solo dalla piena conoscenza dell’atto censurato (o comunque dalla sua piena conoscibilità) inizia a decorrere il termine per la sua impugnazione. CDC |
Inserito in data 25/11/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 25 novembre 2014, n. 5831 Sindacato giurisdizionale sulle leggi provvedimento La pronuncia ribadisce (con riferimento ad un “piano di rientro” sottoscritto da una Regione e recepito con legge regionale) i noti principi in tema di sindacato giurisdizionale nei confronti di atti formalmente legislativi che approvano un atto amministrativo (c.d. legge-provvedimento di approvazione). In tal caso, poiché il sistema di tutela segue la natura giuridica dell’atto contestato, i diritti di difesa del cittadino si trasferiscono in tal caso dalla giurisdizione amministrativa alla giustizia costituzionale. In sintesi, la legge-provvedimento, ancorché approvativa di un atto amministrativo, può essere sindacata, previa intermediazione del giudice rimettente, solo dal suo giudice naturale, cioè dalla Corte costituzionale. La violazione dei principi che normalmente presiedono all’attività amministrativa può essere invocata anche in caso di leggi-provvedimento, allorché emerga l’arbitrarietà e la manifesta irragionevolezza della disciplina denunciata, desumibili anche dalla carenza di ogni valutazione degli elementi in ordine alla situazione concreta sulla quale la legge è chiamata ad incidere o dall’evidente incoerenza del provvedimento legislativo in relazione all’interesse pubblico perseguito. La protezione del privato, dunque, trova riconoscimento attraverso il sindacato costituzionale di ragionevolezza della legge, ancor più incisivo di quello giurisdizionale sull’eccesso di potere. CDC |
Inserito in data 24/11/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 21 novembre 2014, n. 5734 L’art 1227 cc si applica alle sanzioni per il tardivo pagamento dei contributi concessori Secondo la Quinta sezione del Consiglio di Stato, è contrario al dovere di correttezza (in diritto civile, fondato sull'art. 1175 c.c. e, in diritto pubblico, agganciato al principio onnicomprensivo di imparzialità di cui all’art. 97 Cost.) il comportamento dell'Amministrazione comunale che irroga la sanzione per omesso o ritardato pagamento dei contributi concessori ex art. 3 l. n. 47/1985, pur potendo escutere la polizza fideiussoria prodotta dal titolare all'atto del rilascio della concessione edilizia. Infatti, la scelta del Comune di non riscuotere la fideiussione tempestivamente si spiega solo con l’intento di massimizzare il profitto ottenibile: giustificazione che non si attaglia ad un soggetto come il Comune, che deve agire per realizzare nel modo migliore possibile l’interesse pubblico che la legge gli ha affidato (ossia, nel caso di specie, la celere realizzazione delle opere di urbanizzazione mediante la pronta disponibilità delle somme ad esse relative). Al contrario, non escutendo immediatamente la fideiussione, si ritarda il momento di acquisizione delle somme necessarie alla realizzazione delle opere di urbanizzazione e, nel contempo, si aggrava ingiustificatamente la posizione del debitore. Alla luce di quanto detto, per il Consiglio di Stato, al privato concessionario va applicata una sanzione ridotta, in considerazione del principio ricavabile dall’art. 1227 c.c., secondo il quale il quantum dovuto a titolo risarcitorio va ridotto in relazione ai danni che il creditore ha concorso a determinare. Così statuendo la Quinta sezione del Consiglio di Stato si discosta dall’orientamento prevalente tra i Giudici di Palazzo Spada che, invece, nega che il Comune debba chiedere l’adempimento al fideiussore prima di irrogare le sanzioni, nonché l’applicabilità dell’art. 1227 c.c. alle obbligazioni aventi natura sanzionatoria. TM |
Inserito in data 24/11/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 21 novembre 2014, n. 5742 Se la pretesa è infondata, il giudice del silenzio non condanna la PA a provvedere Con la pronuncia in epigrafe, il Consiglio di Stato porta alle estreme conseguenze il principio secondo cui il giudizio avverso il silenzio-rifiuto ha ad oggetto non solo la sussistenza dell’obbligo di provvedere bensì anche la fondatezza della pretesa azionata dal privato e su cui l’Amministrazione non si è pronunciata. Segnatamente, per la Quinta sezione del Consiglio di Stato, laddove si accerti in modo inequivocabile l’infondatezza della pretesa azionata per carenza delle condizioni di legge (e non la sua inopportunità stante il divieto per il giudice di sostituirsi all’Amministrazione nella valutazione del merito amministrativo), il giudice non può condannare l’Amministrazione a provvedere all’emanazione di un provvedimento espresso: ciò in quanto una condanna siffatta contrasterebbe coi principi di efficienza, efficacia ed economicità dell’azione amministrativa, atteso che il provvedimento adottato dall’Amministrazione potrebbe essere soltanto di rigetto. TM |
Inserito in data 23/11/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, ORDINANZA 20 novenbre 2014, n. 5343 Conferma munus pubblico Sindaco De Magistris: rilievo della tutela cautelare I Giudici di Palazzo Spada, avallando la pronuncia emessa dal TAR napoletano in merito alla nota vicenda del Sindaco Luigi De Magistris, ne confermano la sospensione del provvedimento prefettizio a suo carico e la conseguente prosecuzione del relativo mandato elettivo. Difatti, richiamando giurisprudenza ormai unanime della Corte Costituzionale, della Corte di Giustizia europea oltrechè del medesimo Consiglio di Stato, la terza Sezione sottolinea il rilievo della misura cautelare adottata, poiché ancillare ad una tutela giurisdizionale integrale e piena. Pertanto, ripristinando l’incarico del Sindaco partenopeo, il Collegio amministrativo mostra di non ravvedere alcun vulnus ordinamentale proveniente dalla sospensione medio tempore del provvedimento prefettizio. E, aspetto ancora di maggior rilievo, i Giudici danno risalto all’effettività della tutela cautelare che, se congruamente esercitata - come nel caso concreto, garantisce l’integrità delle situazioni soggettive azionate fino alla conclusione dell’incidente di costituzionalità ed è a sua volta espressione dei valori non declinabili dell’effettività della tutela giurisdizionale – ex articolo 24 della Costituzione. CC |
Inserito in data 22/11/2014 CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 20 novembre 2014, n. 259 Ristrutturazione edilizia: q.l.c. dell’art. 11, co. 1 e 2, L. Reg. Veneto n. 32/13 Con la pronuncia in epigrafe, il Giudice delle Leggi dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 11, commi 1 e 2, della legge della Regione Veneto n. 32 del 2013 in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera s) e all’art. 117, terzo comma, Cost.. Deve preliminarmente chiarirsi che le predette disposizioni “modificano le lettere a) e b) dell’art. 10, comma 1, della legge reg. Veneto n. 14 del 2009, le quali regolano gli interventi di ristrutturazione edilizia previsti dall’art. 3 e dall’art. 10 del d.P.R. n. 380 del 2001; e la novità introdotta dalla legge regionale n. 32 del 2013 sta nell’aver eliminato il richiamo obbligatorio al rispetto della sagoma dell’edificio preesistente. In altre parole, può aversi ristrutturazione edilizia – senza ampliamento nel caso della lettera a) e con ampliamento nel caso della lettera b) – anche se la costruzione che ne risulta non rispetti più la sagoma dell’edificio preesistente, bensì soltanto il volume”. Ciò premesso, non può sottacersi che “il recente intervento legislativo di cui all’art. 30 del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito, con modifiche, dall’art. 1, comma 1, della legge 9 agosto 2013, n. 98, nell’apportare una serie di modifiche al d.P.R. n. 380 del 2001, ha disposto la soppressione – sia all’interno dell’art. 3, comma 1, lettera d), che all’interno dell’art. 10, comma 1, lettera c), del d.P.R. stesso – del riferimento al rispetto della sagoma; in altri termini, la normativa statale non contiene più, in relazione alla definizione della ristrutturazione edilizia, l’obbligo di rispetto della sagoma precedente, ma solo quello di rispetto del volume”. Pertanto, stante che “la disposizione regionale impugnata non si è discostata dal principio fondamentale contenuto nella norma statale così come di recente modificata”, deve escludersi la violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost.. Tuttavia, la Corte osserva che la prospettata violazione della competenza concorrente assume un ruolo secondario in relazione al ricorso, “perché esso fissa prevalentemente la propria attenzione sulla presunta violazione della competenza esclusiva dello Stato in materia di tutela dei beni culturali”. Infatti, il testo attuale dell’art. 3, comma 1, lettera d), del d.P.R. n. 380 del 2001 – come risultante dalle modifiche apportate dal citato art. 30 del d.l. n. 69 del 2013 – oltre ad aver eliminato il riferimento all’obbligo di rispetto della sagoma nella definizione degli interventi di ristrutturazione edilizia, ha mantenuto fermo che, «con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell’edificio preesistente». A tal proposito, il silenzio della legge reg. Veneto n. 32 del 2013 sul punto non può che essere interpretato “nel senso della vigenza della disposizione statale di cui all’art. 3, comma 1, lettera d), del d.P.R. n. 380 del 2001”. Per contro, “ove la Regione Veneto, nel rimodellare il concetto di ristrutturazione edilizia, avesse esplicitamente aggiunto che l’obbligo di rispetto della sagoma permane per i beni culturali assoggettati a vincolo, la norma regionale sarebbe stata costituzionalmente illegittima, perché sarebbe andata ad interferire in un ambito di competenza esclusiva dello Stato, come tale sottratto alla potestà normativa delle Regioni”. La stessa giurisprudenza della Corte Costituzionale, del resto, ha chiarito che “quando una norma è riconducibile ad un ambito materiale di esclusiva competenza statale – nella specie, la tutela dei beni culturali – le Regioni non possono emanare alcuna normativa, neppure meramente riproduttiva di quella statale” (sentenze n. 18 del 2013, n. 271 del 2009, n. 153 e n. 29 del 2006). EMF
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Inserito in data 21/11/2014 CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 20 novembre 2014, n. 32 Onere di specificità dei motivi e indicazione dei mezzi di prova nel ricorso elettorale Con la sentenza in esame, il Supremo Consesso si pronuncia sulle condizioni di ammissibilità di un ricorso diretto a conseguire “l’annullamento dell’esito di una consultazione elettorale comunale, con particolare riguardo a quanto prescritto dall’art. 40, comma 1, lett. c), del codice del processo amministrativo in tema di onere di specificità dei motivi di ricorso e di indicazione dei mezzi di prova”. In particolare, il requisito della specificità dei motivi nel ricorso elettorale è stata largamente approfondita dalla giurisprudenza amministrativa, la quale costantemente riconosce che il relativo onere “deve essere valutato con rigore attenuato posto che l’interessato, non avendo la facoltà di esaminare direttamente il materiale in contestazione deve rimettersi alle indicazioni provenienti da terzi (che possono essere imprecise o non esaurienti)” (Sez. V, 28 aprile 2014, n. 2197). A tale riguardo deve ritenersi ormai consolidata “l’affermazione che l’onere in questione si intende osservato quando, come anche ricorda la Sezione remittente, l'atto introduttivo indichi la natura dei vizi denunziati, il numero delle schede contestate e le sezioni cui si riferiscono le medesime” (Sez. V, 9 settembre 2013, n. 4474; 22 marzo 2012 n. 1630). Tuttavia, la giurisprudenza ha precisato, “per un verso, che l’osservanza dell’onere di specificità del motivo non assorbe l’onere della prova, posto che anche una denuncia estremamente circostanziata dell’irregolarità in cui sia incorsa la sezione elettorale, deve pur sempre essere sorretta da allegazioni ulteriori rispetto alle affermazioni del ricorrente; e, per altro verso, che un motivo anche strutturato in termini specifici può rendere inammissibile il ricorso allorché questo presenti caratteri tali da doversi qualificare come esplorativo” (v. C.G.A. 13 giugno 2013, n. 581). Invero, viene così definito il ricorso che “punti a conseguire il risultato di un complessivo riesame del voto in sede contenziosa, fermo restando, peraltro, che la finalità strumentale del gravame deve essere stabilita sulla base di elementi oggettivi, quali la dimensione quantitativa delle schede contestate, il numero delle sezioni elettorali interessate in rapporto al numero degli elettori coinvolti nella tornata sottoposta al vaglio giurisdizionale, potendo darsi il caso che la contestazione, in giudizio, di alcune migliaia di schede non evidenzi finalità esplorativa di sorta (laddove, ad esempio, l’elezione abbia coinvolto un’ampia platea di elettori) e che, per contro, lo stesso ammontare di voti implichi, in altri contesti, una rinnovazione pressoché integrale di uno scrutinio (quanto il voto abbia riguardato un ente di modesta dimensione demografica)”. Viceversa, il “contrasto di orientamenti giurisprudenziali denunciato dalla Sezione remittente, effettivamente è riscontrabile sul diverso tema delle modalità con le quali l’onere della prova, imposto dall’art. 40 comma 1, lett. c), c.p.a., deve ritenersi validamente assolto in sede di ricorso elettorale”. Accade, infatti, frequentemente che “il soggetto interessato non disponga di elementi documentali idonei a provare le illegittimità in cui sia incorso il seggio elettorale, e che la prova della fondatezza della doglianza non possa essere raggiunta se non mediante l’esercizio dei poteri istruttori di cui dispone il giudice”. Peraltro, ove “l’onere della prova dovesse applicarsi con il rigore ordinariamente imposto dalle norme processuali generali, che sanzionano con l’inammissibilità il ricorso non sorretto dalla prova delle censure dedotte, l’indisponibilità degli atti da parte del ricorrente finirebbe per privarlo del diritto di difesa” (Sez. V, n. 2197 del 2014, cit., 9 settembre 2013, n. 4474). Proprio al fine di scongiurare la lesione dell’art. 24 Cost., la dottrina e la giurisprudenza hanno qualificato il modello processuale del giudizio amministrativo “come dispositivo con metodo acquisitivo (Cons. St., Sez. V, 22 dicembre 2005, n. 7343), generato dall’esigenza di correggere l’istituzionale disuguaglianza tra le parti al di fuori del processo: la pubblica amministrazione che possiede il provvedimento e gli atti del procedimento, il privato che potrebbe incontrare difficoltà e subire ritardi per venirne a conoscenza”. Ne discende che, “secondo l’orientamento seguito dalla giurisprudenza prevalente, ricordato nella pronuncia di rimessione, l’onere gravante sul ricorrente debba considerarsi circoscritto alla allegazione di elementi indiziari, pur estranei agli atti del procedimento, ma dotati della attendibilità sufficiente a costituire un principio di prova plausibile ed idoneo a legittimare l’attività acquisitiva del giudice”. Si considerano, così, sufficienti principi di prova “le dichiarazioni sostitutive dell’atto di notorietà rilasciate, ai sensi del d.P.R. n. 445 del 2000, da rappresentanti di lista, in epoca successiva alla proclamazione dell’esito della consultazione, anche se gli stessi soggetti non abbiano svolto contestazioni in sede di spoglio delle schede”. Per altra corrente giurisprudenziale, invece, “le dichiarazioni di terzi non possono essere prese in considerazione quali principi di prova se non sorrette da un indizio documentale nei verbali delle operazioni elettorali, posto che i detti verbali sono atti pubblici fidefacenti e possono essere contrastati solo mediante querela di falso o sentenza penale che ne attesti la falsità”. Al fine di dirimere il suddetto contrasto, dunque, “l’Adunanza Plenaria ritiene necessario tenere distinte: a) le doglianze con le quali si intenda contestare il contenuto del verbale sezionale, sostenendo che lo stesso non espone i fatti come realmente accaduti, dalle doglianze con le quali, b) fermo quanto emerge dal verbale, il ricorrente lamenti che le determinazioni assunte dal seggio siano il frutto di una errata e perciò illegittima applicazione della normativa che regola le operazioni in questione”. Avuto riguardo al primo gruppo di contestazioni, merita condivisione “l’avviso secondo cui la forza fidefacente del verbale sezionale in quanto atto pubblico non possa essere validamente contrastata se non mediante l’esperimento della querela di falso, e che pertanto nessun rilievo probatorio può riconoscersi alle dichiarazioni sostitutive dell’atto notorio. In tali casi, anche la acquisizione officiosa degli atti del procedimento si rivelerebbe inutile, per l’evidente difetto di giurisdizione del giudice amministrativo a desumerne la fondatezza della doglianza”. All’opposto, in relazione alla seconda ipotesi, il Collegio “non condivide la tesi che la dichiarazione sostitutiva dell’atto notorio, prodotta a sostegno di un ricorso elettorale, non possa considerarsi principio di prova idoneo a legittimare la richiesta al giudice di disporre acquisizioni istruttorie”. Infatti, alla luce dell’ingresso della prova testimoniale nel processo amministrativo (ex art. 63, comma 3, c.p.a), nella più volte richiamata sentenza n. 581 del 2013, il Consiglio di Giustizia Amministrativa ha sostenuto che: “Se, invero, chi abbia interesse a contestare in giudizio lo svolgimento e l’esito di uno scrutinio elettorale dispone attualmente della possibilità di corredare la propria impugnativa di un supporto probatorio costituito da una testimonianza scritta (nei limiti, ovviamente, in cui un mezzo di prova costituenda di questo tipo sia ammissibile - v., tra gli altri, gli artt. 2721 e ss. c.c. - e non confligga con la fede privilegiata che assiste i verbali delle sezioni elettorali: artt. 2700 c.c. e 63, comma 5, c.p.a.), allora effettivamente può escludersi che sia sopravvissuto (per i ricorsi relativi ad operazioni elettorali di tornate svoltesi dopo il 16 settembre 2010), in capo ai rappresentanti di lista presenti allo scrutinio, un onere di puntuale verbalizzazione delle singole decisioni del seggio, non essendo le risultanze dei verbali compilati dalle sezioni elettorali l’unico mezzo di prova per accertare quanto avvenuto nel corso dello scrutinio”. Se, quindi, “al rappresentante di lista si riconosce una sorta di jus poenitendi rispetto al preteso assenso tacitamente manifestato, in vista di una postuma prova testimoniale, sarebbe illogico non ammettere la stessa facoltà quando il ricorrente si avvalga del diverso principio di prova costituito dalla dichiarazione sostituiva dell’atto di notorietà”. Del resto, non va trascurato, incidentalmente, che “il rappresentante di lista, che avverta la erroneità di una determinata decisione del seggio in merito alla attribuzione di suffragi, può non percepire nell’immediatezza la rilevanza determinante dell’errore, che può invece manifestarsi solo alla conclusione delle operazioni. Deve pertanto essergli consentito, assumendo le responsabilità penali previste dall’art. 76, comma 1 e 3, d. P.R. n. 445 del 2000, fornire il proprio apporto probatorio anche in un momento successivo alla proclamazione degli eletti”. EMF |
Inserito in data 20/11/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 18 novembre 2014, n. 5657 Sul potere di autodichia del Presidente della Repubblica ed i suoi limiti Chiamato a pronunciarsi in merito alla legittimità di una gara di appalto informale indetta dal Segretariato Generale della Presidenza della Repubblica per l’affidamento del servizio di cassa ed annesso sportello interno al Segretariato e dell’aggiudicazione provvisoria della stessa, il Consiglio di Stato ha chiarito l’ambito di applicazione ed i conseguenti limiti del potere di autodichia del Presidente della Repubblica. Il Supremo Consesso ha così confermato la decisione del tribunale di primo grado con la quale veniva rigettata l’eccezione del difetto di giurisdizione del giudice amministrativo. Infatti, se è vero che la Presidenza della Repubblica ha competenza “giustiziale” in materia di rapporto di lavoro e di impiego con il Segretariato Generale (ed ipotesi assimilate), a garanzia dell’indipendenza dagli altri organi, non si può affermare apoditticamente che tale potere si estenda anche a settori diversi da quelli espressamente contemplati, quale quello delle gare e dei contratti. Invero “le prerogative costituzionali, e in concreto l’autodichia in questione, rappresentando deroghe a principi cardine del diritto comune, non possono essere interpretate estensivamente (cfr. Cons. Stato, sez. IV, sentenza n. 6617 del 2011, cit.)”. Inoltre il potere di autodichia “esiste se e nella misura in cui l’organo, sul necessario fondamento costituzionale (esplicito o, come anche si sostiene, implicito), abbia deciso di farne uso. Anche ad ammettere che il potere di auto-organizzazione della Presidenza possa spingersi sino a derogare alla normativa comune, […] anche al di là dell’ambito del rapporto di impiego, occorre anche rilevare che, in concreto, la Presidenza non ha comunque ritenuto di esercitare il potere in questione, diversamente da quanto hanno disposto, con specifici regolamenti, Camera e Senato, ampiamente ricordati negli atti di causa”, così che laddove si negasse la giurisdizione del giudice amministrativo il privato si troverebbe sprovvisto di alcuna tutela giuridica. La soluzione adottata dal Supremo Consesso appare ancor più ragionevole ove si guardi alla disciplina prevista nello stesso bando di gara che ha attribuito le eventuali controversie alla cognizione esclusiva del Foro di Roma, disattendendo, dunque, quanto affermato dalla difesa erariale. Risolta la questione pregiudiziale sul difetto di giurisdizione ha affrontato nel merito la controversia rigettando l’eccezione di inammissibilità del ricorso per carenza di interesse sul rilievo che la posizione di seconda classificata contrasterebbe di fatto con l’assoluta antieconomicità dell’offerta ed ha giudicato non corretto il criterio applicato dalla commissione. VA |
Inserito in data 20/11/2014 CORTE DI CASSAZIONE - SECONDA SEZIONE CIVILE - SENTENZA 17 novembre 2014, n. 24400 Diritti autodeterminati e divieto di mutatio libelli La sentenza in esame attiene i rapporti tra causa petendi e ius novorum. Più precisamente, nell’accertare l’esistenza di un diritto di servitù, il giudice di primo grado e il giudice di secondo grado avevano, rispettivamente, limitato l’analisi dei fatti a quanto risultante dagli atti prodotti e giudicato diversa da quella indicata in citazione la causa petendi dichiarata in appello. Il Supremo Consesso ha ritenuto di dover cassare la sentenza appellata sulla base della consolidata giurisprudenza della Corte di legittimità. La Corte di Cassazione, infatti, ricorda come “in materia di diritti reali non è precluso al giudice di merito, ove sia stata dedotta l'usucapione della servitù, di accertare l'esistenza del diritto in base ad un contratto, e ciò anche in grado d'appello”. Ciò in quanto deve aversi riguardo al differente regime che investe i diritti autodeterminati (tra i quali vengono ricompresi i diritti reali), il cui accertamento prescinde dal titolo di acquisto allegato, ed i diritti eterodeterminati la cui individuazione, al contrario, è legata al fatto storico contrattualmente qualificato (si veda sul punto Cass. n. 7267/97). Ne consegue che “nelle azioni relative ai diritti autodeterminati, quali la proprietà e gli altri diritti reali di godimento, la causa petendi della domanda si identifica, dunque, con i diritti stessi e con il bene che ne forma l'oggetto. Essendo vana ai fini dell'individuazione della domanda, l'allegazione dei fatti o degli atti da cui dipende il diritto vantato è necessaria soltanto per provarne l'acquisto. Il cui modo (sia esso un fatto o un atto) integra a livello processuale un fatto secondario che in quanto tale è dedotto unicamente in funzione probatoria del diritto vantato in giudizio […], pertanto, “non viola il divieto dello ius novorum in appello la deduzione da parte dell'attore di un fatto costitutivo del tutto diverso da quello prospettato in primo grado a sostegno della domanda introduttiva del giudizio (Cass. 24702/06, 3192/03, 11521/99,9851/97,4460/97, 7033/95 e 2621/82)”. VA
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Inserito in data 19/11/2014 CORTE COSTITUZIONALE, ORDINANZA 7 novembre 2014, n. 252 Indennità di accompagnamento, pensione di inabilità e permesso di soggiorno I Giudici costituzionali affrontano la questione di legittimità costituzionale dell’art. 80, comma 19, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2001) e dell’art. 9, comma 1, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), «nella parte in cui subordinano la concessione della pensione di inabilità e dell’indennità di accompagnamento agli stranieri legalmente soggiornanti sul territorio dello Stato, al possesso del permesso di soggiorno di lungo periodo e, dunque, anche al requisito della durata del soggiorno medesimo che sia attestata dal possesso, da almeno cinque anni, di un permesso di soggiorno in corso di validità, oltre all’esigenza di superare il test di lingua italiana». La questione, invero, era già stata in parte affrontata dall’ordinanza n. 40 del 2013 con cui la Corte aveva statuito l’illegittimità costituzionale della prima delle suddette norme, in ragione della evidente disparità di trattamento che, inevitabilmente ne sarebbe derivata, ove si fosse accolto - in sede di erogazione della pensione di inabilità - un criterio di discrimen dettato dalla durata del soggiorno dello straniero istante. Tale pronuncia, successiva all’ordinanza di rimessione dell’odierna questione, ne determina la manifesta inammissibilità. Parimenti accade riguardo alla seconda censura, quella relativa all’art. 9, comma 1, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286. Questa, infatti, non appare dotata di specifica autonomia agli effetti del petitum perseguito dall’ordinanza di rimessione, essendo quest’ultimo evidentemente diretto a rimuovere la previsione di una preclusione generale per i cittadini extracomunitari. Di conseguenza, la questione proposta in riferimento agli artt. 2, 3, 32, 38 e 117 della Costituzione, in relazione all’art. 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (CEDU) è considerata priva di oggetto – data l’estrema genericità e va, così, dichiarata manifestamente inammissibile. CC |
Inserito in data 19/11/2014 TAR CAMPANIA - NAPOLI, SEZ. III, 10 novembre 2014, n. 5781 Offerte anomali e divieto di motivazione postuma I Giudici napoletani, sulla scorta di una copiosa giurisprudenza assestatasi in merito, ritengono illegittimo il provvedimento con cui sia stata sancita l’anomalia e quindi l’esclusione da una gara pubblica, in ragione di uno scostamento dell'offerta dalle voci costo del lavoro indicate nelle tabelle millesimali. Il Collegio ricorda che si tratta di parametri richiesti ai fini di un mero raffronto e non postulati in vista di un giudizio di validità o meno dell’offerta presentata. Secondo l'orientamento prevalente della giurisprudenza amministrativa in materia di gare pubbliche, infatti, ai sensi dell'art. 86, D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163, i valori del costo del lavoro risultanti dalle tabelle ministeriali non costituiscono un limite inderogabile ma semplicemente un parametro di valutazione della congruità dell'offerta sotto tale profilo, con la conseguenza che l'eventuale scostamento da tali parametri delle relative voci di costo non legittima ex se un giudizio di anomalia (Cons. di Stato, Sez. V, 24 luglio 2014, n. 3937; Cons. di Stato, Sez. III, 9 luglio 2014, n. 3492; T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III, 12 marzo 2014, n. 2783). Non è possibile, peraltro, continua la decisione in esame, che la motivazione addotta a sostegno del provvedimento impugnato possa essere ritenersi integrata, in sede giudiziale, dai diversi e successivi rilievi formulati dalla Commissione per anomalia dell'offerta; verrebbe inciso, infatti, il divieto di motivazione postuma del provvedimento amministrativo. Il Collegio partenopeo, infatti, intende ricordare come la motivazione del provvedimento non possa essere integrata nel corso del giudizio, dovendo essa precedere e non seguire ogni provvedimento amministrativo. E’ in questo, infatti, che si individua il fondamento dell'illegittimità della motivazione postuma, ovvero nella tutela del buon andamento amministrativo e nell'esigenza di delimitazione del controllo giudiziario (ex multis, T.A.R. Basilicata, Potenza, Sez. I, 26 agosto 2014, n. 560). CC |
Inserito in data 19/11/2014 CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA, SEZIONE SECONDA - SENTENZA 13 novembre 2014, Causa C- 416/13 Contrari al diritto UE i limiti età nei concorsi pubblici La Corte europea sancisce il seguente principio di diritto: “Gli articoli 2, paragrafo 2, 4, paragrafo 1, e 6, paragrafo 1, lettera c), della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, devono essere interpretati nel senso che ostano ad una normativa nazionale che fissi limiti di età per l’accesso a posti pubblici”. In particolare, intervenendo su un rinvio pregiudiziale sollevato da un cittadino spagnolo avverso la clausola di una legge di una comunità iberica - delimitante al compimento del 30’ anno di età l’accesso nei ruoli della Polizia locale, il Collegio ne sancisce la contrarietà alla Direttiva del 2000. Questa, infatti, era sorta proprio al fine di dare espressione ad un generale principio di non discriminazione e, pertanto, la limitazione qui lamentata in ragione dell’età avrebbe intaccato tale obiettivo di massima equità, specie limitatamente alla materia dell’occupazione e delle condizioni di lavoro, come già detto da altre pronunce del passato (Cfr. sentenze Kücükdeveci, C-555/07, EU:C:2010:21, punto 21, nonché Prigge e a., C-447/09, EU:C:2011:573, punto 38). I Giudici, effettuando la dovuta comparazione tra i risultati presuntivamente perseguibili in ragione del previsto limite d’età ed il tenore della delimitazione realizzata dalla norma oggi censurata, reputano prevalente quest’ultimo aspetto. Nel caso specifico, infatti, la disparità di trattamento derivante da una disposizione come l’articolo 32, lettera b), della legge 2/2007 non può essere giustificata ai sensi dell’articolo 6, paragrafo 1, lettera c), della direttiva 2000/78. In sostanza, non può essere considerata come necessaria al fine di garantire a detti agenti un ragionevole periodo di lavoro prima del pensionamento – previsto dalle norme locali all’età di 67 anni. Si realizza, come è chiaro, un’arbitrarietà nell’accesso alla carica, talmente grande da superare le tutelate esigenze di natura previdenziale. Diventa evidente, quindi, l’irragionevolezza della limitazione qui impugnata e la conseguente posizione assunta dalla Corte, espressa nel suddetto principio di diritto. CC
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Inserito in data 18/11/2014 CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 13 novembre 2014, n. 255 Incostituzionalità del controllo preventivo sulle leggi della Regione siciliana L’art. 31, comma 2, della L. n. 87/53 stabiliva che «Ferma restando la particolare forma di controllo delle leggi prevista dallo statuto speciale della Regione siciliana, il Governo, quando ritenga che una legge regionale ecceda la competenza della Regione, può promuovere, ai sensi dell’articolo 127, primo comma, della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale della legge regionale dinanzi alla Corte costituzionale entro sessanta giorni dalla pubblicazione». Così prevedendo, la disposizione censurata introduceva un sistema di controllo successivo per le leggi delle altre regioni, mentre manteneva fermo il sistema di controllo di tipo preventivo delle leggi siciliane, risultante dagli artt. 27, 28, 29 e 30 dello Statuto della Regione siciliana. Di conseguenza, in forza di tale inciso (“Ferma restando la particolare forma di controllo delle leggi prevista dallo statuto speciale della Regione siciliana”), la Sicilia godeva di un’autonomia inferiore rispetto a quella riconosciuta alle altre regioni dall’art. 127 Cost., quantunque fosse una regione a statuto speciale. Ciò contrastava con la cd. clausola di maggior favore prevista dall’art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001, che “impone di svolgere un confronto fra gli istituti previsti dagli statuti speciali e le analoghe previsioni contenute nel titolo V della parte seconda della Costituzione, al fine di compiere un giudizio di preferenza, nel momento della loro applicazione, privilegiando le norme costituzionali che prevedono forme di autonomia «più ampie» di quelle risultanti dalle disposizioni statutarie”. Pertanto, la Corte costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità, in riferimento agli artt. 127 Cost. e 2 L. cost. n. 3/01, dell’art. 31, comma 2, della L. n. 87/53, limitatamente alle parole “Ferma restando la particolare forma di controllo delle leggi prevista dallo statuto speciale della Regione siciliana”. Conseguentemente, deve essere esteso alla Regione siciliana il sistema di controllo successivo previsto dagli artt. 127 Cost. e 31 della legge n. 87 del 1953 per le Regioni a statuto ordinario, mentre gli artt. 27, 28, 29 e 30 dello statuto siciliano non troveranno più applicazione. TM |
Inserito in data 18/11/2014 CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 6 novembre 2014, n. 23676 L’art. 230bis cc non si applica all’impresa esercitata in forma societaria Con la pronuncia in esame, le Sezioni Unite civili hanno risolto il contrasto giurisprudenziale in merito all’applicabilità dell’art. 230bis c.c. (disciplina in tema di impresa familiare) al caso in cui il familiare svolga l’impresa in forma societaria. Per un indirizzo giurisprudenziale, l’art. 230bis c.c. avrebbe potuto applicarsi all’impresa esercita in forma societaria, nel senso che i riflessi patrimoniali ivi previsti si sarebbero prodotti con riguardo alla quota di partecipazione del socio-familiare. Per un altro orientamento, l’art. 230bis non avrebbe potuto applicarsi al caso dell’attività d’impresa esercitata in forma societaria. In tal senso si adduceva: in primis, la convinzione che il legislatore avesse volutamente fatto riferimento solo all’impresa e che perciò non ci fosse alcuna lacuna normativa suscettibile di essere colmata attraverso l’applicazione analogica; in secundis, l’impossibilità di ravvisare nel caso delle società il requisito richiesto dall’art. 230 bis c.c. della sussistenza di un rapporto di parentela o affinità con l’imprenditore, atteso che la qualifica di imprenditore avrebbe potuto riconoscersi solo alla società e non al socio. Le Sezioni Unite accedono a quest’ultima tesi, statuendo che l’art. 230 bis c.c. non si applichi al caso in cui il familiare svolga l’impresa in forma societaria. In tal senso adducono che l’art. 230 bis c.c. delinea una disciplina incompatibile con qualsiasi tipologia societaria, sotto due profili: nella parte in cui prevede la partecipazione del familiare agli utili ed ai beni acquistati con essi in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato, collide con le norme in tema di società che escludono un diritto del socio sui beni sociali finché dura la società e che, nel caso di società di capitali, escludono un diritto del socio alla distribuzione degli utili; nella parte in cui riconosce al familiare dell’imprenditore il diritto di partecipare alle decisioni concernenti l’impiego degli utili, gli incrementi e la cessazione dell’impresa, contrasta con la disciplina in tema di società che riserva tali decisioni agli amministratori o ai soci, giammai riconoscendo rilievo alla volontà di soggetti estranei alla compagine sociale. TM
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Inserito in data 17/11/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 17 novembre 2014, n. 5630 Principi fondamentali in tema di ottemperanza L’oggetto del giudizio di ottemperanza è rappresentato dalla verifica dell’esatto adempimento dell’obbligo della PA di conformarsi al giudicato per far conseguire concretamente all’interessato l’utilità o il bene della vita riconosciutogli in sede di cognizione. Ne segue che in sede di ottemperanza non può essere riconosciuto un diritto nuovo ed ulteriore rispetto a quello fatto valere ed affermato con la sentenza da eseguire, anche se sia ad essa conseguente o collegato, né possono essere proposte domande non contenute nel “decisum” della sentenza da eseguire. Tutto questo non implica un vulnus all’effettività della tutela giurisdizionale amministrativa e ai principi sanciti dagli artt. 24, 111 e 113 Cost. Piuttosto, ciò è frutto del contemperamento della pluralità degli interessi e dei principi che vengono in gioco nel giudizio amministrativo, ed in particolare di quello secondo cui la durata del processo non deve andare a detrimento della parte vittoriosa e di quello della dinamicità dell’azione amministrazione (che non consente di ipotizzare una sorta di “congelamento” o di “fermo” della stessa). In ottemperanza può peraltro dedursi come contrastante con il giudicato non solo l’inerzia della PA, cioè il non facere (inottemperanza in senso stretto), ma anche un facere, cioè un comportamento attivo, attraverso cui si realizzi un’ottemperanza parziale o inesatta. In quest’ultimo caso, il nuovo atto emanato dalla PA può dirsi adottato in violazione o elusione del giudicato solo quando da quest’ultimo derivi un obbligo assolutamente puntuale e vincolato, così che il suo contenuto sia integralmente desumibile nei suoi tratti essenziali dalla sentenza. In particolare, la violazione del giudicato è configurabile quando il nuovo atto riproduca gli stessi vizi già censurati in sede giurisdizionale o quando si ponga in contrasto con precise e puntuali prescrizioni della sentenza. Si ha invece elusione del giudicato quando la PA, pur provvedendo formalmente a dare esecuzione alle statuizioni della sentenza, persegue l’obiettivo di aggirarle dal punto di vista sostanziale, giungendo surrettiziamente allo stesso esito già ritenuto illegittimo. Può peraltro ammettersi che nessuna specifica attività incomba sulla PA quando l’adeguamento alla sentenza costituisce un effetto automatico, diretto ed immediato dello stesso giudicato, senza necessità di alcuna ulteriore attività amministrativa, come nel caso dell’annullamento dell’atto negativo di controllo o di un atto di autotutela che ripristinano automaticamente l’efficacia dell’atto controllato o ritirato. CDC |
Inserito in data 17/11/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 14 novembre 2014, n. 5609 Annullamento in autotutela: congrua motivazione e termine ragionevole L’annullamento in autotutela non deriva in via automatica dall'accertata originaria illegittimità dell'atto, essendo necessaria la sussistenza di un interesse pubblico attuale al ripristino della legalità, che risulti prevalente sugli interessi dei privati che militano in senso opposto. Ne segue che tale provvedimento presuppone una congrua motivazione tanto sull'interesse pubblico, attuale e concreto, quanto sull'interesse dei destinatari dell'atto al mantenimento delle posizione che su di esso si sono consolidate. Inoltre, l’annullamento in autotutela deve intervenire in un termine ragionevole. Devono a tal fine considerarsi non solo la frazione temporale decorsa tra la data del provvedimento ampliativo della sfera giuridica del destinatario ed il suo ritiro in autotutela o il termine di durata complessivo dell’operatività del provvedimento, ma soprattutto gli effetti che medio tempore quel provvedimento ha prodotto. CDC |
Inserito in data 14/11/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 5 novembre 2014, n. 5470 Vicende azienda: cessione, affitto e dichiarazione ex art. 38 1’ c. - l. c) DLgs 163/06 La quinta Sezione del Consiglio di Stato, ripercorrendo passaggi già ampiamente esaminati dall’Adunanza Plenaria (Cfr. Ad. Plen., 4 maggio 2012, n. 10 e 7 giugno 2012, n. 21), chiarisce ed estende la portata dell’articolo 38, comma 1, lett. c), del D.Lgs. n. 163 del 2006. Più nel dettaglio, prendendo spunto dalla ratio della norma, i Giudici amministrativi ne colgono e ne evidenziano l’applicabilità – in via analogica, con riguardo a talune vicende particolari della “vita” di un’azienda, quali la cessione o l’affitto della stessa. Specie in merito a quest’ultima ipotesi, il Collegio sottolinea come l’obbligo di rendere dichiarazioni relative ai requisiti soggettivi dei “nuovi componenti” - di cui all'articolo 38 quì in esame - sia ancora più importante che negli altri casi. Infatti, come già la giurisprudenza amministrativa afferma da tempo, le dichiarazioni degli amministratori dell'impresa dalla quale la concorrente ha ottenuto la disponibilità dell'azienda è ancora più sentita rispetto alle ipotesi di cessione dell'azienda, dal momento che l'influenza dell'impresa locatrice è destinata a restare intatta per tutto lo svolgimento del rapporto e ben potrebbe costituire un agevole mezzo per aggirare gli obblighi sanciti dal Codice degli appalti (Cfr. Cons. di Stato, Sez. III, 18 luglio 2011, n. 4354; C.G.A.S., 5 gennaio 2011, n. 8 e 26 ottobre 2010, n. 1314). Di conseguenza, confermando la pronuncia resa in primo grado, il Collegio estende analogicamente l’obbligo dichiarativo ex art. 38 1’ c. - l. c) DLgs 163/06 gravandolo sugli affittuari, in ragione della natura presuntivamente permanente del contratto di locazione e delle possibili, significative ricadute che questo potrà produrre in seno all’azienda. CC |
Inserito in data 13/11/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 12 novembre 2014, n. 5583 Sulla incompatibilità tra l'incarico dirigenziale ASL e la carica politica Nel caso in esame il Consesso amministrativo è stato chiamato a pronunciarsi sull’esistenza o meno di una causa di incompatibilità tra la carica dirigenziale e quella di consigliere comunale alla luce delle novità introdotte dal d.lgs. 39/2013. Nel merito il Consiglio di Stato ha ritenuto fondate le doglianze mosse dall’appellante ritenendo di dover interpretare in senso restrittivo le norme che impongono dei limiti al diritto di elettorato (attivo e passivo) dei cittadini. Pertanto, sebbene il d. lgs. 39/2013 all’art. 12, prescriva l’incompatibilità degli «incarichi dirigenziali, interni e esterni, nelle pubbliche amministrazioni, negli enti pubblici e negli enti di diritto privato in controllo pubblico» con determinate cariche elettive negli enti locali, non può sottacersi che, con specifico riferimento alle ASL, sussiste un’apposita e diversa disciplina che limita la suddetta incompatibilità solo agli incarichi di direttore generale, direttore amministrativo e direttore sanitario e che <<implicitamente ma inequivocamente esclude da quel regime il personale ad essi subordinato, pur se rivestito di funzioni denominate “dirigenziali”>> (art. 14). A parere dei giudici di Palazzo Spada questa soluzione sarebbe avvalorata dalla stessa ratio legis in quanto i compiti dei medici “dirigenti” dei vari livelli presentano delle caratteristiche diverse da quelle proprie dei dirigenti generali ed amministrativi. Invero <<nella misura in cui un dirigente medico (pur se preposto ad una struttura complessa) gode di autonomia, discrezionalità, etc., tutto ciò attiene essenzialmente, o comunque prevalentemente, alla sfera professionale tecnico-sanitaria; mancano, fra l’altro, competenze provvedimentali e gestionali, se non forse in misura del tutto marginale e limitata al momento organizzativo interno del reparto>>. VA |
Inserito in data 13/11/2014 CORTE DI CASSAZIONE - PRIMA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 11 novembre 2014, n. 24001 Stato di adottabilità per il minore nato da utero in affitto La Corte di Cassazione ha dichiarato lo stato di adottabilità per il minore nato all’estero, nel caso di specie, in Ucraina, mediante la pratica dell’utero in affitto (vietata dalla legge 40/2004), negando validità al certificato di nascita estero. Il minore, in questo caso, verserebbe in stato di abbandono dal momento che nessuno dei genitori indicati nel certificato di nascita risulta essere tale sotto il profilo biologico e che la legge ucraina non consente di attribuire la genitorialità alla donna che partorisce in sostituzione. Nel caso specie l’impossibilità di attribuire un valore giuridico al certificato di nascita estero deriverebbe da duplici ragioni: questo sarebbe nullo per la legge italiana in quanto contrario all’ordine pubblico e, altresì, nullo secondo la legge ucraina in quanto questa consente il ricorso alla pratica dell’utero in affitto solo quando almeno il 50% del patrimonio genetico provenga dalla coppia committente. Nel merito, dunque, la corte di legittimità ha chiarito che la convenzione sull’abolizione della legalizzazione degli atti stranieri concerne solo la loro veridicità, e non anche la loro efficacia, che rimane condizionata dal rispetto dell’ordine pubblico (comprendente anche principi e valori propri, purché fondamentali, tra i quali anche il divieto della surrogazione della maternità). Invero in materia di maternità surrogata <<vengono in rilievo la dignità umana – costituzionalmente tutelata – della gestante e l’istituto dell’adozione, con il quale l’istituto della surrogazione si pone oggettivamente in conflitto perché soltanto a tale istituto […] l’ordinamento affida la realizzazione di progetti di genitorialità privi di legami biologici con il nato>>. A conferma di quanto detto si osserva che i precedenti giurisprudenziali che mostravano delle aperture nei confronti del riconoscimento della genitorialità della coppia committente, erroneamente invocati dai ricorrenti, si riferivano a casi in cui almeno un membro della coppia presentasse un legame genetico con il minore. Parimenti privi di ogni fondamento sono apparsi anche i riferimento all’interesse del minore, da considerare preminente rispetto a quello del rispetto dell’ordine pubblico in quanto <<il legislatore italiano ha considerato non irragionevole, che tale interesse si realizzi proprio attribuendo la maternità a colei che partorisce e affidando all’istituto dell’adozione […] la realizzazione di una genitorialità disgiunta dal legame biologico. […] Si tratta di una valutazione operata a monte dalla legge, la quale non attribuisce al giudice, sul punto, alcuna discrezionalità. Secondo il Supremo Consesso da quanto detto consegue che nel caso in esame non è mai stata assunta una potestà genitoriale pertanto, in assenza di altri parenti, deve essere accertato lo stato di abbandono e dichiarato lo stato di adottabilità da parte del tribunale dei minori. VA
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Inserito in data 12/11/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL'ADUNANZA PLENARIA, 7 novembre 2014, n. 5506 I DPR emessi su parere non vincolante del Consiglio di Stato integrano giudicato? La quarta sezione del Consiglio di Stato rimette all’Adunanza Plenaria la questione rilevante, di massima importanza e oggetto di contrasti giurisprudenziali, così sintetizzata: ”se anche i decreti decisorii di ricorsi straordinarii resi allorchè il parere obbligatorio del Consiglio di Stato in sede consultiva non era ex lege vincolante (ed ancorchè in concreto esso non sia stato disatteso dall’Autorità decidente) siano eseguibili con il rimedio dell’ottemperanza ed integrino “giudicato” sin dal momento della loro emissione ovvero se tale qualità sia da riconoscere esclusivamente ai decreti decisorii di ricorsi straordinarii che ( a prescindere dall’epoca di proposizione dei ricorsi medesimi) siano stati resi allorchè il parere obbligatorio del Consiglio di Stato in sede consultiva era stato licenziato in epoca successiva alla entrata in vigore della legge n. 69/2009, (e quindi rivestiva portata vincolante)”. Infatti, come messo in luce nell’ordinanza in esame, esiste un contrasto giurisprudenziale sul punto. Segnatamente, secondo un orientamento (così, Sezioni Unite della Corte di Cassazione, 06-09-2013, n. 20569), il decreto del Presidente della Repubblica non aveva originariamente natura giurisdizionale; in tal senso deporrebbe, tra l’altro, la circostanza che, per giurisprudenza pacifica, tale rimedio poteva essere proposto nelle materie che rientravano nella giurisdizione del giudice ordinario in via concorrente e non già alternativa al ricorso giurisdizionale, ferma restando la possibilità per il GO di disapplicare l'eventuale decisione del Presidente della Repubblica. Solo a seguito delle riforme legislative intervenute negli anni 2009-2010 (l’art. 69 della L. 69/09 che ha attribuito al Consiglio di Stato in sede di procedimento per ricorso straordinario il potere di sollevare questione di costituzionalità e, soprattutto, ha reso vincolante il parere reso dal Consiglio di Stato in tale sede; l’art. 7 comma ottavo del d.lgs. n. 104/10 che ha circoscritto il ricorso straordinario alle controversie devolute alla giurisdizione amministrativa), il provvedimento del Capo dello Stato avrebbe acquisito natura giurisdizionale. Di conseguenza, i decreti emessi prima di tali riforme, su parere obbligatorio ma non vincolante del Consiglio di Stato, avrebbero natura amministrativa, non integrerebbero giudicato in senso tecnico e, quindi, non potrebbero essere attuati mediante l’ottemperanza, né potrebbero essere impugnati dinanzi alla Cassazione ex art. 111 Cost. Diversamente, secondo un altro indirizzo (in tal senso, Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 18/2012; Cass. civ., Sez. Unite, Sent., n. 2065/11), anche i decreti emessi prima della riforma del 2009, ossia su parere non vincolante del Consiglio di Stato, sarebbero eseguibili coattivamente mediante l’ottemperanza: il che presuppone logicamente che, già prima della riforma del 2009, il decreto del Capo dello Stato avesse natura giurisdizionale e quindi idoneità a costituire giudicato in senso tecnico. TM |
Inserito in data 12/11/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 11 novembre 2014, n. 5535 Lettura restrittiva dell’ambito di operatività dell’azione risarcitoria autonoma La Quarta sezione del Consiglio di Stato riprende l’idea, che ormai sembrava superata, secondo cui la domanda di annullamento di un provvedimento illegittimo si porrebbe in rapporto di pregiudizialità rispetto alla domanda risarcitoria relativa ai danni prodotti da tale provvedimento; ciò in quanto, ad avviso dei Giudici della Quarta sezione, “La valutazione di illegittimità dell’atto amministrativo è elemento costitutivo della fattispecie risarcitoria e deve quindi essere oggetto di espressa valutazione in via principale”. Di conseguenza, la mancata proposizione della domanda caducatoria o la sua irricevibilità, dipendente dalla tardività del ricorso, determinerebbe il rigetto della domanda risarcitoria. I Giudici di Palazzo Spada pervengono a tale conclusione attraverso una lettura restrittiva dell’ambito di operatività dell’azione risarcitoria autonoma, così come ricavabile dal codice del processo amministrativo. Segnatamente, si afferma che “la possibilità di una decisione autonoma sull’azione aquiliana può aver luogo unicamente nei casi in cui “l'annullamento del provvedimento impugnato non risulta piu' utile per il ricorrente” (art. 34 comma 3 c.p.a.). In questo contesto “il giudice accerta l'illegittimita' dell'atto se sussiste l'interesse ai fini risarcitori””. TM |
Inserito in data 11/11/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 11 novembre 2014, n. 5531 Sul risarcimento del danno per equivalente in materia di appalti pubblici La sentenza in esame critica l’orientamento secondo il quale il risarcimento del danno per equivalente in materia di appalti pubblici può essere quantificato in modo forfettario in misura pari al 10% dell'importo della base d'asta, decurtato dal ribasso offerto. Tale parametro, infatti, è stato desunto dal dato normativo fornito dall’art. 345 della legge n. 2248 del 1865 All. F, che tuttavia riguarda differenti istituti. Inoltre, esso porterebbe, in molti casi, all’abnorme risultato che il risarcimento dei danni sarebbe, per l’imprenditore, più favorevole dell’impiego del capitale. Piuttosto, come affermato dalla giurisprudenza più recente, l’impresa ha l’onere di una prova rigorosa della percentuale di utile effettivo che essa avrebbe conseguito qualora fosse stata aggiudicataria dell’appalto. Infatti, secondo l'art. 124 cpa, nel caso in cui il giudice non dichiari l'inefficacia del contratto, questi dispone il risarcimento del danno, a condizione che il medesimo sia effettivamente subito e provato in giudizio. La giurisprudenza ha così statuito che il mancato utile spetta nella misura integrale, in caso di annullamento dell'aggiudicazione impugnata e di certezza dell'aggiudicazione in favore del ricorrente, solo se questo dimostri di non aver potuto altrimenti utilizzare maestranze e mezzi; in difetto di tale dimostrazione, si presume che l'impresa abbia riutilizzato mezzi e manodopera per altri lavori e deve quindi sottrarsi al danno subito per la mancata aggiudicazione l'aliunde perceptum, calcolato in genere forfettariamente nella misura del 50%. Invece, in mancanza di prova circa l'effettivo danno emergente e di prova contraria rispetto alla presunzione dell'aliunde perceptum, il quantum del risarcimento può essere forfettariamente liquidato in via equitativa, sulla base del principio generale previsto dall'art. 1226 cc. Il criterio tendenzialmente utilizzato è quello del 5% dell'offerta economica effettiva dell'impresa. In alcuni casi, però, l'importo liquidato scende al 3% o sale al 6%. CDC |
Inserito in data 11/11/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 11 novembre 2014, n. 5525 Procedimento espropriativo, avviso di avvio del procedimento e art. 21-octies Al privato proprietario di un'area destinata all'espropriazione deve essere garantita, mediante la formale comunicazione dell’avviso di avvio del procedimento, la possibilità di interloquire con l'amministrazione procedente sulla sua localizzazione e, quindi, sull'apposizione del vincolo, prima della dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza e, quindi, dell'approvazione del progetto definitivo. Del resto, la preventiva comunicazione di avvio del procedimento rappresenta un principio generale dell'agere amministrativo. Analoghe conclusioni si traggono, inoltre, dalla disciplina di cui all’art. 11 e 16, comma 4, dpr 327/2001. In particolare, l’avviso di cui all'art. 16, comma 4, dpr 327/2001 realizza una garanzia partecipativa non meramente formale, rappresentando un necessario passaggio cognitivo-dialettico funzionale sia per la parte, che può opporre fatti e/o circostanze non considerati, sia per l'amministrazione che quelle osservazioni deve esaminare e valutare prima di approvare il progetto definitivo dell'opera. Ne segue che da tale omissione procedurale discende, di regola, l'illegittimità degli atti approvativi del progetto e della dichiarazione di pubblica utilità ed in via derivata di quello occupativo ed espropriativo. Appare possibile il ricorso al rimedio di cui all’art. 21 octies, comma 2, l. 241/1990 solo nei casi in cui, venendo in rilievo un provvedimento non vincolato, la PA fornisca una dimostrazione di immodificabilità assoluta della scelta di allocazione dell’opera. CDC |
Inserito in data 10/11/2014 CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, ORDINANZE 7 novembre 2014, nn. 29 e 30 Art. 13 c.p.a.: competenza territoriale inderogabile del G.A. Il Consiglio di Stato si pronuncia, in sede giurisdizionale, con l’ordinanza de qua, in merito al dibattuto tema della competenza territoriale inderogabile del giudice amministrativo, ai sensi e per gli effetti dell’art. 13 del Codice del Processo Amministrativo, esplicando che non trova applicazione il comma 4 bis dell' art. 13 c.p.a. ove è stabilito che "la competenza territoriale relativa al provvedimento da cui deriva l'interesse a ricorrere attrae a sé anche quella relativa agli atti presupposti allo stesso provvedimento, tranne che si tratti di atti normativi o generali", dunque, pronunciando sul regolamento di competenza in epigrafe, dichiara competente, per il caso de quo, il T.A.R. per il Lazio. Secondo quanto affermato dai Giudici di Palazzo Spada, “si realizza, quindi, una particolare forma di connessione per accessorietà in base alla quale, ai fini della determinazione del giudice competente, la causa principale (avente ad oggetto l' informativa prefettizia) attrae a sé quella accessoria (avente ad oggetto gli atti applicativi adottati dalla stazione appaltante), senza che a ciò siano di ostacolo le norme sulla competenza funzionale”. Trattando della fattispecie in oggetto, un Consorzio, alla cui compagine partecipano 44 aziende con titolarità di svariati contratti con la P.A., era destinatario di sedici note interdittive antimafia, emesse ai sensi dell’ art. 91 del d.lgs. n. 159 del 2011. Secondo quanto posto in luce, l'informativa prefettizia non può, considerarsi "atto presupposto", rispetto alle determinazioni della stazione appaltante o dell’ente che ha concesso benefici economici, stante la sua autonoma efficacia lesiva per gli immediati effetti negativi nei confronti dell'impresa. Invero, alla luce di tutto quanto si dirà, il criterio principale per l’individuazione del T.A.R. territorialmente competente, così come i Giudici di Palazzo Spada hanno chiarito, è quello della sede dell'autorità che ha adottato l'atto impugnato: tale criterio, è sostituito da quello inerente agli effetti "diretti" dell'atto, qualora essi si esplichino esclusivamente in luogo compreso nella circoscrizione territoriale di uno specifico tribunale amministrativo regionale. Con distinti ricorsi, il Consorzio insorgeva in alcuni casi avverso la sola misura interdittiva, in altri con impugnazione congiunta degli atti applicativi emessi dalle stazioni appaltanti; per quattro informative, il T.A.R. Lazio riconosceva la propria competenza. Per ciò che interessa la vicenda rimessa all’esame dell’Adunanza Plenaria, il Consorzio impugnava davanti al T.A.R. Lazio un lungo elenco di atti dei quali vengono in considerazione i più rilevanti di essi e cioè, ad esempio, l’informativa prefettizia interdittiva con la quale si afferma che nei confronti del suddetto Consorzio “sussiste la presenza di situazioni relative a tentativi d’infiltrazioni mafiose previste dal d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159. Il T.A.R. adito, sul riscontro che il provvedimento prefettizio non ha efficacia sull’intero territorio nazionale, ma opera in seno al solo rapporto cui è riferito, in base al criterio degli effetti diretti del provvedimento, negava la competenza del T.A.R. Lazio e riconosceva il T.A.R. per la Valle d’ Aosta competente a dirimere la controversia. La portata generale e non territorialmente limitata dell’informativa è avvalorata dall’ art. 91, comma 7, del d.lgs. n. 159 del 2011, il quale prevede che, ai fini dell'adozione degli ulteriori provvedimenti di competenza di altre amministrazioni, essa va tempestivamente comunicata, anche in via telematica, all' Osservatorio dei contratti pubblici istituito presso l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici. Secondo quanto chiarito dal Consiglio di Stato in Adunanza Plenaria, riconoscendo “l'efficacia generale dell'informativa prevista dall'art. 91 del d.lgs. n. 159 del 2011; la portata lesiva e il correlato interesse, morale e patrimoniale, del destinatario a ricorrere immediatamente avverso la stessa; la natura vincolata e meramente applicativa degli atti consequenziali emessi dalle varie amministrazioni (ente committente, Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici, Camera di Commercio, Ministero delle Infrastrutture, etc.), deve trarsi la conclusione, in ossequio all'art. 13, comma 4 bis, c.p.a., che sussiste la competenza del T.A.R. chiamato a conoscere dell'atto generale presupposto e, quindi, di quello ove ha sede la Prefettura che ha emanato l'informativa”. In favore di detta conclusione, devono annoverarsi i principi di prevenzione e di connessione oggettiva e soggettiva, nonché di economia dei giudizi e del simultaneus processus; “ciò alla luce del criterio residuale di attribuzione della competenza, recepito dall’art. 13, comma 3, c.p.a., ovvero di concentrazione delle nuove domande avanti al giudice originariamente adito (art. 43, comma 3 c.p.a.) nonché delle stesse regole che nel processo civile derogano, per ragioni di connessione, all’ordinario riparto delle competenze (artt. 31, 36, 40 c.p.c.), applicabili in virtù del rinvio esterno alle disposizioni del codice di procedura civile stabilito dall’art. 39, comma 1, c.p.a.”. Trattando del caso in oggetto, in costanza del quadro normativo previgente all’ entrata in vigore del codice sulle leggi antimafia e sulle misure di prevenzione (d.lgs. n. 490 del 1994 e d.P.R. n. 252 del 1998), salvo il caso di impugnazione della sola interdittiva prefettizia in cui la competenza è del T.A.R. del luogo ove ha sede la Prefettura che ha adottato l'atto, l’Adunanza Plenaria e la giurisprudenza, si è orientata nel senso che, in caso di impugnazione congiunta dell'informativa e dei successivi atti applicativi adottati dalla stazione appaltante, la competenza territoriale appartiene al T.A.R. del luogo ove ha sede quest'ultima, prevalendo il criterio degli "effetti territoriali limitati" di cui al secondo periodo dell' art. 13, comma 1, c.p.a. Tuttavia, l’entrata in vigore del d.lgs. n. 159 del 2011 impone una rivisitazione della tesi sugli effetti territorialmente limitati dell’interdittiva al luogo in cui ha sede la stazione appaltante o l’ente che ha concesso i benefici economici, “ove si consideri che l’art. 91 del d.lgs. predetto collega alla misura di prevenzione una pluralità di effetti rimessi alla competenza ed all’ iniziativa dell’ autorità cui essa è comunicata, che travalicano il luogo in cui ha sede l’ente con cui intercorre il rapporto che ha dato origine all’acquisizione della certificazione antimafia”. Nel caso de quo, l’Adunanza Plenaria ha enunciato il principio di diritto in base al quale, esplicando l'informativa, alla stregua dello jus superveniens, effetti ultraregionali, competente a conoscere dell'impugnazione della stessa è il T.A.R. del luogo ove ha sede la prefettura che ha adottato l'atto; detto T.A.R. rimane competente anche in caso di contestuale impugnazione sia dell'informativa che degli atti applicativi adottati dalla stazione appaltante, non trovando, infatti, applicazione il comma 4 bis dell' art. 13 c.p.a. ove è stabilito che "la competenza territoriale relativa al provvedimento da cui deriva l'interesse a ricorrere attrae a sé anche quella relativa agli atti presupposti allo stesso provvedimento, tranne che si tratti di atti normativi o generali". L’atto prefettizio ha, quindi, effetti ultraregionali per cui, in caso di impugnazione della sola informativa, il T.A.R. territorialmente competente è quello ove ha sede l'autorità che lo ha emesso, ex art. 13, comma 1, primo periodo; essendo, inoltre, l'informativa atto immediatamente impugnabile, non può trovare applicazione, come anticipato, l'art. 13 comma 4 bis c.p.a. GMC |
Inserito in data 10/11/2014 CORTE DI CASSAZIONE - SESTA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 6 novembre 2014, n. 23633 Sulla condanna al risarcimento dei danni nel giudizio penale Nel caso de quo, il ricorrente principale denuncia violazione degli artt. 578; 651 c.p.p. e 2909 c.c. (art. 360 n. 3 c.p. c.). La Suprema Corte, con la sentenza in epigrafe, chiarisce che il motivo è fondato, sottolineando che “la sentenza del giudice penale che, nel dichiarare estinto per amnistia il reato, abbia altresì pronunciato condanna definitiva dell'imputato al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile, demandandone la liquidazione ad un successivo e separato giudizio, spiega, in sede civile, effetto vincolante in ordine all'affermata responsabilità dell'imputato che, pur prosciolto dal reato, non può più contestare la declaratoria iuris di generica condanna al risarcimento ed alle restituzioni, ma soltanto l'esistenza e l'entità in concreto di un pregiudizio risarcibile (si considerino, Cass. 29.1.2913 n. 2083; Cass. 21.6.2010 n. 14921; Cass.6.11.2002 n. 15557)”. Il principio, va applicato nel caso in esame in cui gli imputati di diffamazione a mezzo stampa, sono stati condannati dalla Corte d'Appello in sede penale, ma la Corte di Cassazione ha dichiarato non doversi procedere per essere il reato estinto per amnistia, confermando le statuizioni civili in ordine al risarcimento del danno in favore della costituita parte civile. Alla luce di quanto chiarito dagli ermellini, la sentenza del giudice penale, che ha pronunciato condanna definitiva dell'imputato al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile, demandandone la liquidazione ad un successivo (e separato) giudizio, spiega, in sede civile, effetto vincolante in ordine all'affermata responsabilità dell'imputato. Secondo i Giudici di legittimità, la Corte di merito, quindi, nel caso de quo, “ha errato nel procedere ad una nuova ed autonoma valutazione dell'an della richiesta risarcitoria che le era preclusa, dovendo limitarsi esclusivamente all'accertamento, alla valutazione ed all'eventuale liquidazione del danno risarcibile”. GMC
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Inserito in data 08/11/2014 CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 7 novembre 2014, n. 249 Aiuti di Stato: questione di legittimità costituzionale dell'articolo 38 Legge Regione Abruzzo n. 55/13 e ss.mm. Secondo la giurisprudenza della Consulta (sentenza n. 299 del 2013) i requisiti della nozione di aiuto di Stato, «individuati dalla legislazione e dalla giurisprudenza comunitaria, possono essere così sintetizzati: a) intervento da parte dello Stato o di una sua articolazione o comunque impiego di risorse pubbliche a favore di un operatore economico che agisce in libero mercato; b) idoneità di tale intervento ad incidere sugli scambi tra Stati membri; c) idoneità dello stesso a concedere un vantaggio al suo beneficiario in modo tale da falsare o minacciare di falsare la concorrenza (Corte di giustizia dell’Unione europea, sentenza 17 novembre 2009, C-169/08); d) dimensione dell’intervento superiore alla soglia economica che determina la sua configurabilità come aiuto “de minimis” ai sensi del regolamento della Commissione n. 1998/2006, del 15 dicembre 2006 (Regolamento della Commissione relativo all’applicazione degli articoli 87 e 88 del trattato agli aiuti d’importanza minore «de minimis»)». Il giudice nazionale (e lo stesso Giudice delle Leggi), quindi, «ha una competenza limitata a verificare se la misura rientri nella nozione di aiuto (sentenza n. 185 del 2011) ed in particolare se i soggetti pubblici conferenti gli aiuti rispettino adempimenti e procedure finalizzate alle verifiche di competenza della Commissione europea» (sentenza n. 299 del 2013). Ciò posto, la Corte Costituzionale, con la sentenza in esame, dichiara illegittimo, per violazione dell’art. 117, comma 1, Cost., l’art. 38 (Promozione e pubblicizzazione dell’Aeroporto d’Abruzzo) della legge della Regione Abruzzo 18 dicembre 2013, n. 55 (Disposizioni per l’adempimento degli obblighi della Regione Abruzzo derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione Europea. Attuazione della direttiva 2009/128/CE e della direttiva 2007/60/CE e disposizioni per l’attuazione del principio della tutela della concorrenza, Aeroporto d’Abruzzo, e Disposizioni per l’organizzazione diretta di eventi e la concessione di contributi – Legge europea regionale 2013), che, prevedendo un consistente finanziamento a favore di una Società, pone “in essere un aiuto di Stato ai sensi dell’art. 107 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) senza aver previamente notificato il relativo progetto alla Commissione europea, come richiesto dall’art. 108, par. 3, TFUE”. Correlativamente, la questione di legittimità costituzionale involge anche l’art. 7 della legge della Regione Abruzzo 27 marzo 2014, n. 14, che ha sostituito l’originario contributo con due tipologie di intervento – la ricostituzione del capitale sociale ed il finanziamento del diritto di prelazione- , e l’art. 1, comma 1, della legge della Regione Abruzzo 30 luglio 2014, n. 34, che ne ha modificato la fonte di finanziamento. Infatti, “quanto agli elementi soggettivo ed oggettivo dell’aiuto, è sufficiente rilevare che la Regione è un’articolazione dello Stato, la quale ha destinato con gli interventi in esame risorse pubbliche ad un operatore economico operante nel mercato del trasporto aereo”. È, altresì, chiaro che, “al pari di quelli previsti dall’articolo abrogato, anche gli interventi disposti dalla norma sopravvenuta sono potenzialmente idonei ad incidere sugli scambi tra gli Stati membri ed a concedere un vantaggio all’ente beneficiario, che vedrebbe incrementata la sua competitività non per effetto di una razionalizzazione dei costi e dei ricavi, bensì attraverso il conferimento pubblico di risorse destinate alla ricostituzione del capitale della società e all’esercizio del diritto di prelazione sulle quote degli altri soci rimaste non optate”. Infine, “l’entità complessiva dei due nuovi interventi – oltre che maggiore di quella dell’abrogato contributo – è certamente superiore alla soglia economica minima fissata dal regolamento della Commissione (CE) n. 1998/06, aiuto «de minimis»”. D’altra parte, l’intervento previsto dall’art. 38 della legge reg. Abruzzo n. 55 del 2013 risulta analogo a quello, consistente in un contributo per la «Valorizzazione ed internazionalizzazione dell’Aeroporto d'Abruzzo», già dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla predetta sentenza n. 299 del 2013. EMF |
Inserito in data 08/11/2014 TAR EMILIA ROMAGNA - PARMA, SEZ. I, 7 novembre 2014, n. 424 Sulle deroghe al limite di età per l’ammissione ai concorsi pubblici L’ art. 3, comma 6, L. n. 127/1997, nell’eliminare il limite di età per l’ammissione ai concorsi pubblici, ha previsto contestuali “deroghe dettate da regolamenti delle singole amministrazioni connesse alla natura del servizio o ad oggettive necessità dell'amministrazione”. Le deroghe de quibus, pertanto, da una parte, devono ritenersi “di stretta interpretazione” e, dall’altra, postulano “l’onere per l’amministrazione di esprimere le ragioni” giustificative delle stesse in termini di particolare natura del servizio ovvero di oggettive necessità dell’ente. In particolare, “l’onere motivazionale deve considerarsi assai più stringente di quello che, in generale, si impone in sede di adozione di atti generali”; con la conseguenza che, in tali casi, l’art. 3, comma 2, L. 241/1990 non trova applicazione. EMF |
Inserito in data 07/11/2014 CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA, DECIMA SEZIONE - SENTENZA 6 novembre 2014, Causa C-42/13 Sull’attestazione di procedimenti penali pendenti La Corte di Giustizia Europea è stata chiamata a pronunciarsi, con rinvio pregiudiziale, sulla compatibilità della normativa nazionale, che impone l’esclusione delle imprese dall’aggiudicazione di una gara d’appalto in caso di mancata attestazione dell’assenza di procedimenti penali pendenti, laddove espressamente richiesto dalla lex specialis, con la normativa comunitaria. Più precisamente il giudice del rinvio si è domandato se, prevedendo l’art. 45 della direttiva 2004/18 (Principi di aggiudicazione degli appalti) quale causa di esclusione la presenza di condanne penali in capo a determinati soggetti <<compresi, se del caso, i dirigenti delle imprese o qualsiasi persona che eserciti il potere di rappresentanza, di decisione o di controllo del candidato o dell’offerente>>, questa non osti all’applicazione dell’articolo 38, commi 1 e 2, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, recante il Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE quando sia dimostrato, anche successivamente, che la mancata attestazione dei requisiti concerna un soggetto non avente alcun potere rappresentativo. Nel caso di specie, infatti, l’esclusione dalla gara era avvenuta a causa della mancata indicazione dei requisiti generali e speciali di un soggetto erroneamente individuato come direttore tecnico. A ben vedere, dunque, <<il giudice del rinvio nutre dubbi circa la compatibilità con il diritto dell’Unione dell’impossibilità per tale offerente di rimediare, successivamente al deposito della propria offerta, al fatto di non aver allegato alla stessa una siffatta dichiarazione, o comunicandola all’amministrazione aggiudicatrice oppure dimostrando che la qualità di direttore tecnico è stata erroneamente attribuita all’interessato>>, ma <<a tale riguardo, è pacifico che dai documenti dell’appalto di cui al procedimento principale risulta che, da un lato, la «dichiarazione sostitutiva» contemplata all’articolo 38 del decreto legislativo n. 163/2006, […], doveva essere allegata all’offerta presentata da quest’ultimo sotto pena di esclusione dalla procedura di aggiudicazione e, dall’altro, che era possibile rimediare a posteriori unicamente a irregolarità meramente formali e non decisive per la valutazione dell’offerta. Ne consegue che, incombendo sull’amministrazione l’onere di far rispettare i criteri di gara dalla stessa fissati, a garanzia del rispetto del principio di parità di trattamento e di trasparenza <<l’articolo 45 della direttiva 2004/18, letto in combinato disposto con l’articolo 2 della stessa, non osta all’esclusione di un offerente a causa del fatto che questi non ha allegato alla propria offerta una dichiarazione sostitutiva relativa alla persona indicata come direttore tecnico nella stessa. In particolare, nei limiti in cui l’amministrazione aggiudicatrice ritenga che tale omissione non costituisca un’irregolarità meramente formale, essa non può permettere a tale offerente di rimediare successivamente a tale omissione, in qualsivoglia modo, dopo la scadenza del termine stabilito per il deposito delle offerte>> e, pertanto, l’esclusione dell’offerente è avvenuta conformemente ai principi di parità di trattamento e trasparenza. VA |
Inserito in data 07/11/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 7 novembre 2014, n. 5499 Sulla giurisdizione in materia di maggiori oneri di acquisizione di aree Il Consesso amministrativo ha confermato la statuizione del giudice di primo grado che ha declinato la propria giurisdizione in materia di maggiori oneri espropriativi per l’acquisizione di alloggi popolari assegnati con apposita concessione. Il Consiglio di Stato ha, così, dato applicazione all’orientamento formatosi in seno alla Corte di Cassazione secondo cui <<rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la domanda avente ad oggetto il pagamento del corrispettivo della concessione del diritto di superficie, ai sensi dell'art. 10, della legge 18 aprile 1962, n. 167, come sostituito dall'art. 35, della legge 22 ottobre 1971, n. 865, su aree comprese nei piani per l'edilizia economica e popolare e, in particolare, la quantificazione di tale corrispettivo nonché l'individuazione del soggetto debitore, allorché non siano in contestazione questioni relative al rapporto di concessione e in ordine alla determinazione del predetto corrispettivo non sussista alcun potere discrezionale della P.A. (Cass. SU 17142/11). Pertanto, non essendo stato contestato l’uso del potere amministrativo a monte, ed escluso il carattere discrezionale delle operazioni di quantificazione degli oneri dovuti, appare corretta la soluzione che incardina la giurisdizione in materia in capo al giudice ordinario. VA |
Inserito in data 06/11/2014 CORTE DI CASSAZIONE, TERZA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 31 ottobre 2014, n. 23183 Sul criterio di liquidazione del danno terminale La giurisprudenza di legittimità (ex multis, Cass. n. 18163/2007 e Cass. n. 1877/2006) è orientata nel ritenere che la liquidazione del danno terminale non possa essere effettuata “attraverso la meccanica applicazione di criteri contenuti in tabelle che, per quanto dettagliate, nella generalità dei casi sono predisposte per la liquidazione del danno biologico o delle invalidità, temporanee o permanenti, di soggetti che sopravvivono all'evento dannoso”. Infatti, il danno in esame, nonostante sia intrinsecamente temporaneo, “è massimo nella sua entità ed intensità, tanto che la lesione alla salute è così elevata da non essere suscettibile di recupero ed esitare nella morte”; con la conseguenza che non si può non tener conto di “fattori di personalizzazione” rilevabili applicando “un criterio equitativo puro - ancorché sempre puntualmente correlato alle circostanze del caso - che sappia tener conto della enormità del pregiudizio”. EMF
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Inserito in data 06/11/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 4 novembre 2014, n. 5423 La definizione di mercato rilevante non connotata in senso meramente geografico La delimitazione dei confini di “mercato rilevante”, come ampiamente rilevato dalla giurisprudenza, spetta all’Autorità garante della concorrenza e del mercato, “essendo frutto di una valutazione non censurabile nel merito da parte del giudice amministrativo, se non per vizi di illogicità estrinseca”. In particolare, l’ambito del concetto de quo “può essere desunto all’esito dell’esame della singola e specifica condotta della quale sia sospettata la portata anticoncorrenziale”; potendo, inoltre, il mercato rilevante “coincidere con la singola gara nella quale tale condotta venga ad incidere”. Ne discende che la definizione di mercato rilevante non “connotata in senso meramente geografico o spaziale, ma è relativa anche e soprattutto all’ambito nel quale l’intento anticoncorrenziale ha, o avrebbe, capacità di incidere e attitudine allo stravolgimento della corretta dinamica concorrenziale, sicché, nelle ipotesi di intese restrittive della concorrenza, la definizione del mercato rilevante è direttamente correlata al contesto in cui si inquadra il comportamento collusivo tra le imprese coinvolte (per tutte, Cons. Stato, sez. VI; 3 giugno 2014, n. 2837). Come a più riprese è stato chiarito dalla giurisprudenza amministrativa, infatti, in tali ipotesi l'individuazione e la definizione del mercato rilevante è successiva rispetto all'individuazione dell'intesa nei suoi elementi oggettivi, in quanto sono l'ampiezza e l'oggetto dell'intesa a circoscrivere il mercato su cui l'abuso è commesso”. EMF |
Inserito in data 05/11/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 4 novembre 2014, n. 5419 Presupposti del risarcimento del danno da mobbing Chiamati a pronunciarsi su una domanda di risarcimento danni da mobbing, i Giudici di Palazzo Spada si conformano al costante insegnamento giurisprudenziale sul punto, che così sintetizzano. In effetti, in assenza di una definizione normativa, è stata la giurisprudenza a delineare la nozione di mobbing. Sotto il profilo soggettivo, per “mobbing” s’intende “una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, […] tenuta nei confronti di un lavoratore nell'ambiente di lavoro” Sotto il profilo oggettivo, la condotta mobbizzante si manifesta in “comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici, esorbitanti od incongrui rispetto all'ordinaria gestione del rapporto, espressivi di un disegno in realtà finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del lavoratore, tale che ne consegua un effetto lesivo”. Viceversa, “non si ravvisano gli estremi del mobbing nell'accadimento di episodi che evidenziano screzi o conflitti interpersonali nell'ambiente di lavoro e che per loro stessa natura non sono caratterizzati da volontà persecutoria essendo in particolare collegati a fenomeni di rivalità, ambizione o antipatie reciproche”. Sotto il profilo dell’onere di allegazione, “la condotta di mobbing del datore di lavoro va esposta nei suoi elementi essenziali dal lavoratore, che non può limitarsi davanti al giudice a genericamente dolersi di esser vittima di un illecito (ovvero ad allegare l'esistenza di specifici atti illegittimi), ma deve quanto meno evidenziare qualche concreto elemento in base al quale il Giudice Amministrativo possa verificare la sussistenza nei suoi confronti di un più complessivo disegno preordinato alla vessazione o alla prevaricazione”. In particolare, “nel lavoro "pubblico", per configurarsi una condotta di mobbing, è necessario un disegno persecutorio tale da rendere tutti gli atti dell'amministrazione, compiuti in esecuzione di tale sovrastante disegno, non funzionali all'interesse generale a cui sono normalmente diretti”. Inoltre, si esclude la prova dell’esistenza di un disegno persecutorio laddove non sia stata accertata l’illegittimità dei provvedimenti, poiché il lavoratore che si assume offeso non li ha impugnati; ne discende che ”la domanda di risarcimento dei danni discendenti da illecito demansionamento e mobbing non può essere accolta qualora il lavoratore non abbia tempestivamente impugnato i provvedimenti organizzativi, adottati dall'Amministrazione nell'ambito della sua attività gestionale, da cui è derivata l'asserita modifica peggiorativa del rapporto lavorativo”. TM |
Inserito in data 05/11/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 4 novembre 2014, n. 5422 Sul principio di irretroattività delle sanzioni amministrative Con la pronuncia in esame, il Consiglio di Stato conferma il principio dell’irretroattività delle sanzioni amministrative. L’esistenza di tale principio è condivisa dall’intero universo giuridico, mentre si discute in merito al suo fondamento. Certamente, il principio di irretroattività delle sanzioni amministrative si ricava dall’art. 11 delle disposizioni preliminari al codice civile (“La legge non dispone che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo”) e, nello specifico, dall’art. 1 della legge n.689 del 1981 (“nessuno può essere assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione”). Inoltre, la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, formatasi sull'interpretazione degli artt. 6 e 7 della CEDU, sostiene che il principio di legalità debba essere riferito a tutte le misure di carattere punitivo-afflittivo; per cui, finisce con l’agganciare il principio di irretroattività delle sanzioni amministrative alle predette disposizioni della CEDU. Tuttavia, non è chiaro se tale principio riceva o meno copertura costituzionale nell’art. 25 c. 2 Cost. Generalmente, l’art. 25 Cost. è interpretato in modo restrittivo e riferito alle sole sanzioni penali. Per parte della giurisprudenza, invece, “l'assimilazione tra penale e sanzionatorio amministrativo è desumibile dall'art. 25 c. 2 Cost. Il quale data l'ampiezza della sua formulazione (“Nessuno può essere punito...”) può essere interpretato nel senso che ogni intervento sanzionatorio, il quale non abbia prevalentemente la funzione di prevenzione criminale, è applicabile soltanto se la legge che lo prevede risulti già vigente al momento della commissione del fatto sanzionato” (così Corte Cost. 196/10; nello stesso senso AP 23/13). TM |
Inserito in data 04/11/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 4 novembre 2014, n. 5440 Interessi e rivalutazione nel giudizio di ottemperanza Il giudizio di ottemperanza ha ad oggetto la verifica dell'esatto adempimento da parte della PA dell'obbligo di conformarsi al giudicato per far conseguire all'interessato l'utilità o il bene della vita già riconosciutogli in sede di cognizione. Detta verifica comporta una delicata attività di interpretazione del giudicato, al fine di enucleare e precisare il contenuto del comando, sulla base della sequenza "petitum - causa petendi - motivi - decisum". In sede di ottemperanza non può essere riconosciuto un diritto nuovo ed ulteriore rispetto a quello fatto valere ed affermato con la sentenza da eseguire, anche conseguente o collegato, non potendo essere neppure proposte domande che non siano contenute nel "decisum" della sentenza da eseguire. Dunque, se il giudicato non contiene alcuna condanna alla corresponsione degli accessori sul credito, la PA, in sede di esecuzione della sentenza, non è tenuta a corrisponderli. Né è possibile desumere per implicito dal giudicato il riconoscimento degli interessi e della rivalutazione atteso che, per il principio della domanda, il giudice non può attribuire accessori non richiesti; inoltre, “l'attribuzione di tali accessori implica la soluzione di svariate questioni in tema di criteri di computo e loro cumulo, che necessitano di statuizione espressa”. Ne segue che la relativa domanda va articolata nel giudizio di cognizione e che, nel giudizio di ottemperanza, possono essere chiesti solo gli accessori maturati dopo la sentenza di cui si chiede l'esecuzione. CDC |
Inserito in data 04/11/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 4 novembre 2014, n. 5431 Giurisdizione del g.a. su procedure selettive per stipula di contratti a termine La sentenza in esame accoglie l’appello avverso una sentenza di primo grado che aveva negato la giurisdizione del giudice amministrativo con riferimento ad una procedura selettiva di reclutamento per la stipula di un contratto a termine. Infatti, in tema di impiego pubblico, sono devolute alla giurisdizione del g.a. le controversie in materia di procedure concorsuali per l’assunzione a tempo determinato, posto che a dette procedure si applicano le norme generali che governano la gestione dei concorsi pubblici; esse non hanno ragione di essere derogate per il solo fatto che l’assunzione sia stata effettuata con contratti a termine, in funzione dell’esecuzione di uno specifico progetto, ed il bando di concorso abbia considerato una selezione per soli titoli, senza prevedere lo svolgimento di prove d’esame. CDC |
Inserito in data 03/11/2014 TAR SICILIA - PALERMO, SEZ. I, 31 ottobre 2014, n. 2636 Giurisdizione per gli incarichi professionali Il TAR Palermo, da ultimo, interviene in merito alla dibattuta vicenda concernente l’ambito degli incarichi professionali conferiti dalla Pubblica Amministrazione, soffermandosi, in particolare, sul giudice competente a decidere l’impugnazione del diniego di inserimento del credito vantato da un professionista, a titolo di compenso professionale, nella massa passiva a seguito di dichiarazione di dissesto del Comune. Nel caso del quo, il ricorrente espone di aver ricevuto l’incarico per la compilazione del progetto architettonico e direzione lavori relativi alla costruzione di una chiesa, che l’incarico professionale è stato regolarmente svolto, che la parcella per il pagamento del compenso, vistata dall’Ordine degli architetti è stata consegnata al Comune, nonché che, a seguito della dichiarazione di dissesto del Comune, è stato negato l’inserimento della massa passiva con il provvedimento impugnato. Il ricorrente, lamenta, dunque, la violazione dei principi generali dell’ordinamento giuridico in materia contrattuale – validità del contratto d’opera professionale stipulato tra le parti, atteso che, contrariamente a quanto prospettato nella delibera impugnata, la pretesa del ricorrente si fonda su un valido titolo obbligatorio, la violazione dell’art. 11 disposizioni sulla legge in generale, la violazione degli artt. 1325, 1346 e 1418 c.c., nonché delle norme di cui agli artt. 1353 e 1183 del codice civile. Secondo i Giudici di Palazzo Spada, tuttavia, il ricorso è inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice adito. Alla luce di quanto emerge dalla sentenza “invero, il ricorso ha ad oggetto la legittimità della delibera con la quale è stato negato il pagamento del corrispettivo per un incarico professionale che è stato conferito al ricorrente, professionista esterno all’ente comunale, al di fuori di alcuna procedura di gara, in base ad un rapporto fiduciario” ed inoltre “secondo il consolidato indirizzo giurisprudenziale delle Sezioni unite della Corte di Cassazione (cfr. sentt. 3 luglio 2006 n. 15199, 3 gennaio 2007 n. 4 e 19 novembre 2012, n. 20222), condiviso dal Consiglio di Stato (cfr. sent. V, 12 giugno 2009, n. 3737) e dal C.G.A. (cfr. sent. 6 maggio 2008, n. 390 e 31 maggio 2011, n. 402), “il conferimento da parte di un ente pubblico di incarico a un professionista non inserito nella struttura organica dell’ente medesimo (e che mantenga, pertanto, la propria autonomia e l’iscrizione al relativo albo) costituisce espressione non di una potestà amministrativa, bensì di semplice autonomia privata, ed è funzionale all’instaurazione di un rapporto di cosiddetta parasubordinazione – da ricondurre pur sempre al lavoro autonomo…”. I Giudici, chiariscono dunque che la domanda del professionista privato che reclami, nei confronti della p.a., il pagamento di quanto dovutogli per l'opera prestata a favore della stessa, appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario, in quanto intesa a far valere il diritto al compenso per l'attività svolta quale prestatore d'opera, “in base a rapporto iure privatorum, dovendosi la giurisdizione determinare in relazione al petitum sostanziale e alla causa petendi, ossia tenendo conto della natura della posizione giuridica dedotta” (si veda, sul punto, T.a.r. Sicilia – Catania, sez. III, 28 dicembre 2012, n. 3078). Segue, da quanto emerso, l’inammissibilità del ricorso per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo adito in favore del giudice ordinario, anche ai sensi dell’art. 11 c.p.a. GMC |
Inserito in data 03/11/2014 CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONE CIVILE SESTA BIS, ORDINANZA 29 ottobre 2014, n. 22883 Multe illegittime: quando scontrino e verbale hanno orari diversi La Corte di Cassazione, interviene, con l’ordinanza de qua, sull’annosa questione delle multe registrate da metodi elettronici, quale il Telelaser, chiarendo che la multa per eccesso di velocità, è illegittima qualora l’indicazione oraria, dell’infrazione riportata sul verbale di accertamento, sia diversa rispetto a quella registrata dal Telelaser. Nella fattispecie oggetto di ordinanza, un motociclista si era opposto ad un verbale di contestazione della violazione dei limiti di velocità elevatogli dalla polizia municipale, sostenendo che non era stata affatto raggiunta la prova del superamento dei predetti limiti a causa di una netta discrepanza tra l’orario dell’infrazione riportato dal verbale e quello emergente dallo “scontrino” rilasciato dal rilevatore di velocità. Il Comune, soccombente in primo ed in secondo grado, promuoveva ricorso in Cassazione, denunziando che il giudice del merito avrebbe dovuto attribuire fede al verbale di accertamento, anziché dar rilievo allo scontrino del Telelaser, il quale riporta l'orario dell'orologio interno della stampante ad esso collegata ed appare, dunque, privo di qualunque forma attendibilità. Il Comune lamentava, altresì, che l’identificazione del veicolo doveva avvenire con esclusivo riguardo al numero di targa, e non già alla marca della moto, corrispondente, nella fattispecie, a quello di parte resistente. Tuttavia, nonostante tali argomentazioni, la Suprema Corte, ha considerato inammissibili e infondate le suddette considerazioni, respingendo il ricorso con condanna della parte ricorrente al pagamento delle spese di lite. GMC
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Inserito in data 01/11/2014 CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONE CIVILE SESTA TER - SENTENZA 28 ottobre 2014, n. 22863 Sul concetto di “contratto negoziato fuori dai locali commerciali” La Suprema Corte di Cassazione, nel pronunciarsi sulla legittimità o meno della sentenza della Corte d’Appello con la quale è stata dichiarata l’inefficacia di un contratto di compravendita concluso in uno stand fieristico per violazione delle norme poste a tutela del consumatore dal d.lgs. 50/92 (più specificamente per la mancata indicazione del diritto di recedere entro 7 giorni dall’acquisto), ha circoscritto il concetto di “contratto negoziato fuori dai locali commerciali. A parere dei giudici di Piazza Cavour, infatti, la locuzione utilizzata dal legislatore nel d.lgs. 50/92 deve essere interpretata facendo riferimento alla ratio sottesa alla Direttiva 85/577/CEE, cui ha dato attuazione. Le maggiori tutele che la direttiva prevede nei confronti del consumatore trovano giustificazione nell’esigenza di preservare lo stesso da eventuali pratiche commerciali abusive (come quelle effettuate a domicilio) e di consentirgli una maggiore e più puntuale valutazione dell’offerta che si accinge ad accettare, mancante nei cosiddetti contratti a sorpresa. “Essa è da intendere riferita, cioè, non a qualunque negoziazione avvenuta in luogo pubblico o aperto al pubblico - come ha ritenuto la sentenza impugnata - ma solo ai casi in cui siano prospettabili autentiche ed effettive esigenze di difesa del consumatore, a fronte di iniziative inattese, abusive, capziose o comunque 'sorprendenti', nel senso fatto palese dal terzo e dal quarto Considerando della Direttiva […] Tali non possono essere considerati i luoghi pubblici o aperti al pubblico che siano appositamente destinati all'esposizione ed alla vendita dei beni e servizi del 'professionista', ai quali il consumatore acceda perché tendenzialmente interessato al relativo acquisto, quale lo stand allestito all'interno di una fiera o di un salone di esposizione”. Ne consegue che, nel caso di specie, non è possibile ravvisare le suddette esigenze di tutela: lo stand fieristico, infatti, non sembra poter rientrare nella definizione di luogo pubblico od aperto al pubblico, in quanto ne è evidente la destinazione alla promozione e alla negoziazione dei prodotti esposti ed, inoltre, si tratta di un’attività solo temporaneamente dislocata ad di fuori delle ordinarie sedi commerciali; né può sostenersi che il consumatore che si rechi ad un simile evento sia colto “di sorpresa” essendo, di contro, proprio l’intento informativo e valutativo a muoverlo in tal senso. Mancando, dunque, proprio quegli elementi circostanziali che fanno sorgere particolari esigenze di tutela nei confronti del consumatore, nel caso in esame non può trovare applicazione l’art. 1 comma 1 lett. c) del d.lgs. 50/92, invero “non qualunque luogo pubblico od aperto al pubblico giustifica la peculiare tutela di cui alla normativa, bensì solo quei luoghi pubblici o aperti al pubblico che non siano di per sé destinati alle negoziazioni, ed ai quali il consumatore acceda per finalità estranee a quella di comprare, di vendere o di contrattare, si che l'eventuale iniziativa del professionista lo colga di sorpresa e impreparato alla difesa dei suoi interessi”. VA
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Inserito in data 01/11/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 31 ottobre 2014, n. 5398 Detenzione di armi, condotta di vita ed affidabilità del soggetto Con la sentenza in commento il Consiglio di Stato ha avallato le censure mosse alla sentenza del Tar di Perugia che aveva annullato il provvedimento di sospensione del porto darmi ed il divieto di detenzione delle stesse in quanto fondati sulla pendenza di procedimenti penali aventi ad oggetto reati che con comportavano l’uso di armi. I giudici di Palazzo Spada, infatti, ricordano il carattere eccezionale che presenta l’autorizzazione al possesso ed alla detenzione di armi la quale non può mai prevalere rispetto alle esigenze di tutela della incolumità generale dei cittadini. La suddetta autorizzazione, dunque, richiede una valutazione, peraltro ampiamente discrezionale, sull’affidabilità del soggetto destinatario della stessa, al fine di prevenire eventuali abusi. Il Supremo Consesso, inoltre, richiamando gli artt. 11 e 43 del r.d. 18 giugno 1931, n. 773, ricorda come, oltre alle ipotesi tipiche di diniego vincolato, collegato alla condanna per alcuni reati, sia prevista anche la possibilità di negare le autorizzazioni di polizia anche in altri casi. Più precisamente: "la licenza può essere ricusata ai condannati per delitto diverso da quelli sopra menzionati e a chi non può provare la sua buona condotta o non dà affidamento di non abusare delle armi". È evidente, dunque, che i requisiti di buona condotta e di affidabilità sono del tutto carenti nel caso in esame, essendo di fronte ad un soggetto posto in stato di detenzione e soggetto a misure di sicurezza (fatti ontologicamente contrastano con un condotta di vita rispettosa dei principi di legalità, di ordine pubblico e del comune vivere civile). Peraltro, l’ampiezza della discrezionalità valutativa garantita alla pubblica autorità fa sì che “il giudizio di "non affidabilità" è giustificabile anche in situazioni che non hanno dato luogo a condanne penali o misure di pubblica sicurezza, ma a situazioni genericamente non ascrivibili a "buona condotta" (CdS 4666/13). […] Pertanto, contrariamente a quanto ritenuto dal Tar, la licenza di porto d' armi può essere negata o revocata anche in assenza di pregiudizi e controindicazioni connessi al corretto uso delle armi, potendo l'Autorità amministrativa valorizzare, nella loro oggettività, sia fatti di reato, sia vicende e situazioni personali del soggetto che non assumano rilevanza penale, anche se non attinenti alla materia delle armi, da cui si possa comunque desumere la non completa "affidabilità" da parte del soggetto interessato all'uso delle stesse (CdS 3979/13). VA |
Inserito in data 31/10/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 27 ottobre 2014, n. 5281 Processo amministrativo ed improcedibilità del ricorso Nel processo amministrativo l'improcedibilità del ricorso può verificarsi in presenza della sussistenza delle seguenti condizioni: “a) il rapporto giuridico sotteso all'impugnato provvedimento è stato oggetto di una nuova regolazione intervenuta in corso di causa e questo ha fatto venir meno gli effetti dell'originario provvedimento; b) l'atto del cui annullamento si discute ha di fatto consumato la sua efficacia, con sostanziale sopravvenuta carenza d'interesse a coltivare l'impugnativa nel caso in cui nessuna concreta utilitas possa derivare alla parte ricorrente dalla decisione di merito del rimedio giurisdizionale proposto (Consiglio di Stato, sez. IV, 29 aprile 2014, n. 2209)”. Pertanto, l’adozione di un nuovo atto, quando non sia meramente confermativo di un provvedimento precedente già oggetto di impugnazione giurisdizionale ma costituisce (nuova) espressione di una funzione amministrativa, comporta “la pronuncia d'improcedibilità del giudizio in corso per sopravvenuta carenza di interesse, trasferendosi l'interesse del ricorrente dall'annullamento dell'atto impugnato, sostituito dal nuovo provvedimento, all’annullamento di quest'ultimo. Va in proposito evidenziato che affinché possa escludersi che un atto sia meramente confermativo del precedente occorre che la sua formulazione sia preceduta da un riesame della situazione che aveva condotto al precedente provvedimento, giacché solo l'esperimento di un ulteriore adempimento istruttorio, sia pure mediante la rivalutazione degli interessi in gioco ed un nuovo esame degli elementi di fatto e diritto caratterizzanti la fattispecie considerata, può dar luogo ad un atto propriamente confermativo, in grado, come tale, di dar vita ad un provvedimento diverso dal precedente e, quindi, suscettibile di autonoma impugnazione”. Non è, inoltre, “configurabile l'improcedibilità del ricorso proposto per l’annullamento di un provvedimento giurisdizionale se l'adozione del nuovo atto regolante la fattispecie da parte dell’Amministrazione non è spontanea, ma di mera esecuzione di un provvedimento giurisdizionale, con rilevanza provvisoria, in attesa che una sentenza di merito definitiva accerti se il provvedimento impugnato sia o meno legittimo; invece, nel caso in cui il contenuto di detto provvedimento giurisdizionale sia tanto condiviso dall'Amministrazione da indurla a ritirare il precedente provvedimento, sostituendolo con un nuovo atto, senza attendere il giudicato sul suo prevedibile annullamento, può senz'altro ritenersi che l'autonoma valutazione dell'Amministrazione, adeguatamente motivata, determini la sopravvenuta carenza di interesse alla decisione avverso l'atto originariamente impugnato (in caso simile: Consiglio di Stato, sez. III, 5 dicembre 2013, n. 5781)”. In conclusione, “ogni nuovo provvedimento innovativo e dotato di autonoma efficacia lesiva della sfera giuridica del suo destinatario, anche di conferma propria (che si ha quando la pubblica amministrazione, sulla scorta di una rinnovata istruttoria e sulla base di una nuova motivazione, dimostri di voler confermare la volizione espressa in un precedente provvedimento) ed anche se frutto di un riesame non spontaneo, ma indotto da un provvedimento del giudice amministrativo, che tuttavia rifletta nuove valutazioni dell'Amministrazione e implichi il definitivo superamento di quelle poste a base di un provvedimento impugnato giurisdizionalmente, comporta sopravvenienza di carenza di interesse del ricorrente alla coltivazione del relativo gravame, non potendo esso conseguire alcuna utilità da un eventuale esito favorevole dello stesso (Consiglio di Stato, sez. III, 2 settembre 2013, n. 4358; sez. IV, 25 giugno 2013, n. 3457)”. EMF |
Inserito in data 31/10/2014 CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 22 ottobre 2014, n. 239 E’ illegittimo l’art. 4-bis Ord. penit. in riferimento alle detenuti madri Con la sentenza in esame, il Giudice delle Leggi “dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui non esclude dal divieto di concessione dei benefici penitenziari, da esso stabilito, la misura della detenzione domiciliare speciale prevista dall’art. 47-quinquies della medesima legge”. Infatti, come rilevato tanto da questa Corte (sentenza n. 177 del 2009) quanto dalla giurisprudenza di legittimità (Corte di cassazione, sezione I, 7 marzo 2013-19 settembre 2013, n. 38731; Corte di cassazione, sezione I, 20 ottobre 2006-14 dicembre 2006, n. 40736), “la misura in questione partecipa, in realtà, anch’essa della finalità di reinserimento sociale del condannato, costituente l’obiettivo comune di tutte le misure alternative alla detenzione: il che è comprovato tanto dal requisito negativo di fruibilità, rappresentato dalla insussistenza del pericolo di commissione di ulteriori delitti, quanto dalla disciplina delle modalità di svolgimento della misura e delle ipotesi di revoca (art. 47-quinquies, commi 3 e seguenti, e 47-sexies della legge n. 354 del 1975)”. D’altra parte “è indubbio che nell’economia dell’istituto assuma un rilievo del tutto prioritario l’interesse di un soggetto debole, distinto dal condannato e particolarmente meritevole di protezione, quale quello del minore in tenera età ad instaurare un rapporto quanto più possibile “normale” con la madre (o, eventualmente, con il padre) in una fase nevralgica del suo sviluppo. Interesse che – oltre a chiamare in gioco l’art. 3 Cost., in rapporto all’esigenza di un trattamento differenziato – evoca gli ulteriori parametri costituzionali richiamati dal rimettente (tutela della famiglia, diritto-dovere di educazione dei figli, protezione dell’infanzia: artt. 29, 30 e 31 Cost.)”. Del resto deve rammentarsi che, seppur in riferimento ad una questione strutturalmente diversa, “questa Corte ha già avuto modo di porre in evidenza la speciale rilevanza dell’«interesse del figlio minore a vivere e a crescere nell’ambito della propria famiglia, mantenendo un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, dai quali ha diritto di ricevere cura, educazione ed istruzione»: «interesse complesso, articolato in diverse situazioni giuridiche, che hanno trovato riconoscimento e tutela sia nell’ordinamento internazionale sia in quello interno» (sentenza n. 31 del 2012; in senso analogo, sentenza n. 7 del 2013). A fianco dei richiamati imperativi costituzionali – tra cui, anzitutto, quello che demanda alla Repubblica di proteggere l’infanzia, «favorendo gli istituti necessari a tale scopo» (art. 31, secondo comma, Cost.) – vengono in particolare considerazione, sul piano internazionale, le previsioni dell’art. 3, primo comma, della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 27 maggio 1991, n. 176, e dell’art. 24, secondo comma, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo. Entrambe le disposizioni qualificano, infatti, come «superiore» l’interesse del minore, stabilendo che in tutte le decisioni relative ai minori, adottate da autorità pubbliche o istituzioni private, detto interesse deve essere considerato «preminente»: precetto che assume evidentemente una pregnanza particolare quando si discuta dell’interesse del bambino in tenera età a godere dell’affetto e delle cure materne”. Pertanto, “assoggettando anche la detenzione domiciliare speciale al regime “di rigore” sancito dall’art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975 il legislatore ha, dunque, accomunato fattispecie tra loro profondamente diversificate”. Tale omologazione di trattamento “appare senz’altro lesiva dei parametri costituzionali evocati ove si guardi alla ratio storica primaria del regime in questione, rappresentata dalla incentivazione alla collaborazione, quale strategia di contrasto della criminalità organizzata. Un conto, infatti, è che tale strategia venga perseguita tramite l’introduzione di uno sbarramento alla fruizione di benefici penitenziari costruiti – com’è di norma – unicamente in chiave di progresso trattamentale del condannato, sbarramento rimuovibile tramite la condotta collaborativa; altro conto è che la preclusione investa una misura finalizzata in modo preminente alla tutela dell’interesse di un soggetto distinto e, al tempo stesso, di particolarissimo rilievo, quale quello del minore in tenera età a fruire delle condizioni per un migliore e più equilibrato sviluppo fisio-psichico. In questo modo, il “costo” della strategia di lotta al crimine organizzato viene traslato su un soggetto terzo, estraneo tanto alle attività delittuose che hanno dato luogo alla condanna, quanto alla scelta del condannato di non collaborare”. La conclusione resta invariata anche se si guarda all’altra e concorrente ratio del regime considerato, la funzione rieducativa della pena; atteso che “la subordinazione dell’accesso alle misure alternative ad un indice legale del “ravvedimento” del condannato – la condotta collaborativa, in quanto espressiva della rottura del “nesso” tra il soggetto e la criminalità organizzata (nesso, peraltro, a sua volta presuntivamente desunto dal tipo di reato che fonda il titolo detentivo) – può risultare giustificabile quando si discuta di misure che hanno di mira, in via esclusiva, la risocializzazione dell’autore della condotta illecita. Cessa, invece, di esserlo quando al centro della tutela si collochi un interesse “esterno” ed eterogeneo, del genere di quello che al presente viene in rilievo”. Tuttavia, “è ben vero che nemmeno l’interesse del minore a fruire in modo continuativo dell’affetto e delle cure materne, malgrado il suo elevato rango, forma oggetto di protezione assoluta, tale da sottrarlo ad ogni possibile bilanciamento con esigenze contrapposte, pure di rilievo costituzionale, quali quelle di difesa sociale, sottese alla necessaria esecuzione della pena inflitta al genitore in seguito alla commissione di un reato. Come già rilevato da questa Corte (sentenza n. 177 del 2009), proprio ad una simile logica di bilanciamento risponde, in effetti, la disciplina delle condizioni di accesso alla detenzione domiciliare speciale stabilite dall’art. 47-quinquies, comma 1, della legge n. 354 del 1975: condizioni tra le quali figura anche quella, più volte ricordata, della insussistenza di un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti da parte della condannata”. Ciò posto, deve, altresì, ritenersi che “affinché l’interesse del minore possa restare recessivo di fronte alle esigenze di protezione della società dal crimine occorre che la sussistenza e la consistenza di queste ultime venga verificata, per l’appunto, in concreto – così come richiede la citata disposizione – e non già collegata ad indici presuntivi – quali quelli prefigurati dalla norma censurata – che precludono al giudice ogni margine di apprezzamento delle singole situazioni”. Alla luce di quanto suddetto, la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975 va estesa, in via consequenziale, “anche alla misura della detenzione domiciliare ordinaria prevista dall’art. 47-ter, comma 1, lettere a) e b), della legge n. 354 del 1975: ciò, per evitare che una misura avente finalità identiche alla detenzione domiciliare speciale, ma riservata a soggetti che debbono espiare pene meno elevate, resti irragionevolmente soggetta ad un trattamento deteriore in parte qua. In tale ipotesi, la concessione della misura rimane comunque subordinata alla verifica della insussistenza di un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti: condizione, come detto, non enunciata in modo esplicito dal citato art. 47-ter, ma che deve comunque ricorrere, secondo la giurisprudenza, stante l’evidenziata ratio comune delle misure alternative alla detenzione (sentenza n. 177 del 2009)”. EMF |
Inserito in data 30/10/2014 CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONE LAVORO, SENTENZA 20 ottobre 2014, n. 22154 Lavoratore ed infortunio in itinere: maggior rigore nel diritto ad essere risarcito I Giudici della Sezione lavoro, specificando la portata di taluni principi già espressi in merito da pronunce pregresse, richiamano gli aspetti principali riguardo alla possibile indennizzabilità di infortuni verificatisi lungo il percorso tra l’abitazione privata del lavoratore ed il relativo luogo di occupazione. In particolare, con riguardo all’utilizzo del mezzo proprio – come verificatosi nel caso in esame, la Corte ricorda la necessità di delimitarlo il più possibile, circoscrivendone l’uso alle sole ipotesi in cui sussista un’effettiva connessione tra il lavoro svolto, lo spostamento e le effettive esigenze professionali. Solo nel caso in cui si dimostri inconfutabilmente che la locomozione del lavoratore sia eziologicamente connessa alla prestazione lavorativa, sarà possibile estendere la copertura assicurativa anche a sinistri occorsi fuori dal comune luogo di lavoro. Ricorda il Collegio, infatti, che l'uso del mezzo proprio, con l'assunzione degli ingenti rischi connessi alla circolazione stradale, debba essere valutato con adeguato rigore, tenuto conto che il mezzo di trasporto pubblico costituisce lo strumento normale per la mobilità delle persone e comporta il grado minimo di esposizione al rischio di incidenti. CC
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Inserito in data 30/10/2014 CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONE CIVILE SESTA BIS, ORDINANZA 21 ottobre 2014, n. 22318 Art. 196 Codice della Strada: chiarimenti sulla responsabilità solidale Gli Ermellini, specificando la posizione di gran parte della giurisprudenza in merito, chiariscono la portata dell'art. 196 del Codice della Strada. Tale norma, individuando una particolare forma di responsabilità solidale, estende al proprietario del veicolo l'obbligo al pagamento delle sanzioni pecuniarie per gli illeciti commessi da altri soggetti tramite quel mezzo. I Giudici, ricordando che una simile forma di responsabilità deriva da una estensione al Codice della Strada degli illeciti aquiliani di cui al 3’ comma dell’articolo 2054 cod. civ., sottolineano la possibilità per il proprietario della vettura di esonerarsene. Occorre, infatti, dare la prova che la circolazione sia avvenuta senza il proprio consenso ("invito domino") e che la stessa abbia avuto luogo "contro la propria volontà" ("prohibente domino"). Il Collegio di piazza Cavour, riconoscendo la peculiarità sul piano probatorio, spiega che l’eventuale volontà contraria del proprietario avrebbe dovuto manifestarsi in un concreto e idoneo comportamento ostativo specificamente rivolto a vietare la circolazione ed estrinsecatosi in atti e fatti rilevatori della diligenza e delle cautele allo scopo adottate. I Giudici concludono, infine, specificando che la valutazione della diligenza del proprietario e della sufficienza dei mezzi adottati per impedire la circolazione del veicolo debba essere compiuta secondo un criterio di normalità ed in relazione al caso concreto con accertamento rimesso al giudice di merito, il cui giudizio, se adeguatamente motivato, è incensurabile in sede di legittimità. CC
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Inserito in data 30/10/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 15 ottobre 2014, n. 5151 Diniego adeguamento assegno di mantenimento erogato in qualità di testimone di giustizia I Giudici d’appello, confermando – sia pure con diversa motivazione, la pronuncia resa in primo grado, intervengono in tema di adeguatezza e congruità delle misure economiche ed assistenziali adottate dalla Commissione Centrale prevista dall’art. 10 della legge n. 82 del 1991 nei confronti di un testimone di giustizia e dei suoi familiari, nel quadro dello speciale programma di protezione deliberato ai sensi della legge predetta. In primo luogo, il Collegio ricorda la differente condizione del testimone di giustizia – come nel caso di specie - rispetto al collaboratore di giustizia. Nei confronti del primo è previsto, infatti, un trattamento differenziato e più favorevole rispetto al collaboratore di giustizia, stante il concorso delle misure di assistenza concesse al mantenimento del precedente tenore di vita. In particolare, tutto ciò emerge in sede di quantificazione dell’assegno di mantenimento, la cui determinazione non trova applicazione nei confronti dei testimoni di giustizia, i quali godono della guarentigia del mantenimento del pregresso tenore di vita. I Giudici sottolineano, quindi, che la rinnovazione del provvedimento annullato debba svolgersi in base a criteri di adeguatezza, logicità e proporzionalità dell’azione amministrativa, tenendo conto principalmente della primaria necessità di mantenere una simile guarentigia. Pertanto, in vista di tale obiettivo - vera ratio del Legislatore del 1991, il Collegio puntualizza taluni aspetti relativi all’assegno da erogare, il cui ammontare è oggetto dell’odierna contesa. In particolare, i Giudici sottolineano la detrazione, dal flusso reddituale disponibile, degli esborsi sostenuti dall’Amministrazione per spese scolastiche in favore dei figli del testimone di giustizia; sanitarie (diagnostiche e terapeutiche) per prestazioni non erogabili a carico del servizio sanitario nazionali; per vacanze annuali; per riscaldamento dell’ alloggio assegnato. Invece, pare vadano escluse tutte le specie necessitate dalla qualità di testimone di giustizia quali, a titolo di esemplificazione, quelle inerenti a esigenze di viaggio per il ritorno al luogo di provenienza (ivi comprese le spese di vitto ed alloggio) e di assistenza legale nelle ipotesi previste al punto 5 della delibera 14 settembre 2009 di adozione del programma speciale di protezione. CC |
Inserito in data 30/10/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 13 ottobre 2014, n. 5048 Prove di concorso, discrezionalità tecnica e profili di giurisdizione I massimi Giudici amministrativi, intervenendo ancora una volta in tema di giudizi resi da Commissioni esaminatrici, ne ricordano la natura tecnico – discrezionale e le conseguenti ricadute in sede di vaglio giurisdizionale. In particolare il Consesso, richiamando la copiosa giurisprudenza in materia, sottolinea come il giudizio della Commissione sulle prove si sostanzi in una valutazione unitaria, che è condizionata in modo determinante dalla completezza, dalla profondità e dalla logica interna dei singoli elaborati (Cons. di Stato, Sez. IV, 2 marzo 2011, n. 1350; Cons. di Stato, Sez. IV, 27 novembre 2008, n. 5862; Cons. di Stato, Sez. IV, 17 gennaio 2006, n. 172; Cons. di Stato, Sez. IV, 22 settembre 2005, n. 4989). Pertanto, l’eventuale errore macroscopico, ictu oculi percepibile e, come tale, sindacabile dai Giudici, deve essere delimitato alle ipotesi estreme di illogicità, irragionevolezza, arbitrarietà o travisamento dei fatti (Cons. di Stato, Sez. IV 11 aprile 2007, n. 1643). Solo in questi ultimi casi, infatti, configurandosi un eccesso di potere della Commissione esaminatrice, sarebbe possibile uno scrutinio da parte del Collegio. Occorre, però, circoscrivere l’eccesso di potere al caso specifico, onde comprendere il possibile raggio di intervento da parte dei Giudici. Nella specie, trattandosi di una mancata ammissione alle prove orali previste per il concorso notarile, la valutazione dell'elaborato non è limitata alla mera considerazione della soluzione finale offerta dal candidato alla fattispecie proposta, ma è altresì ancorata alla critica del relativo percorso logico e delle argomentazioni che le sostengono. Né, proseguono i Giudici di Palazzo Spada, può ravvisarsi eccesso di potere per disparità di trattamento con riferimento all'ammissione all'orale di candidati che abbiano dato alla fattispecie teorica sottoposta al loro esame la stessa soluzione data dal candidato non ammesso. Alla luce di ciò, il Collegio ha condiviso la posizione dei Giudici territoriali i quali, ribadendo l'ampia sfera di discrezionalità della Commissione di concorso e sottolineando il particolare tecnicismo proprio della procedura concorsuale in esame, avevano già sancito come legittima la mancata ammissione dell’odierno appellante alle prove orali del concorso per notaio. CC |
Inserito in data 29/10/2014 CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 28 ottobre 2014, n. 243 L’ATP obbligatorio previsto dall’art. 445bis c.p.c. non viola il diritto di difesa La Corte costituzionale respinge tutti i dubbi di incostituzionalità dell’art. 445bis c.p.c., disposizione che prevede l’accertamento tecnico preventivo obbligatorio per le controversie in materia di invalidità civile, cecità civile, sordità civile, handicap e disabilità, nonché di pensione di inabilità e di assegno di invalidità ex L. 222/84. Particolarmente interessante è la parte della pronuncia in cui si nega la violazione dell’art. 24 della Costituzione. Invero, “la tutela garantita dall’art. 24 Cost. non comporta l’assoluta immediatezza dell’esperibilità del diritto di azione […]; detta tutela giurisdizionale non deve necessariamente porsi in relazione di immediatezza con il sorgere del diritto, ma la determinazione concreta di modalità e di oneri non deve rendere difficile o impossibile l’esercizio di esso”. Nella specie, l’accertamento tecnico preventivo obbligatorio è previsto come condizione di procedibilità e non di proponibilità della domanda: per cui, non preclude ma posticipa la tutela giurisdizionale. Più nello specifico, “si deve osservare che la costante giurisprudenza di questa Corte ha collegato la legittimità di forme di accesso alla giurisdizione, subordinate al previo adempimento di oneri finalizzati al perseguimento di interessi generali, al triplice requisito che il legislatore non renda la tutela giurisdizionale eccessivamente difficoltosa […], contenga l’onere nella misura meno gravosa possibile ed operi un congruo bilanciamento tra l’esigenza di assicurare la tutela dei diritti e le altre esigenze che il differimento dell’accesso alla stessa intende perseguire”. Nel caso di cui ci si occupa, si può certamente affermare che: 1) l’accesso alla giurisdizione è condizionato all’espletamento di adempimenti non particolarmente onerosi (presentazione dell’istanza di accertamento tecnico preventivo prima della proposizione della domanda giudiziale o nel termine di quindici giorni assegnato dal giudice che abbia rilevato tale causa di improcedibilità alla prima udienza); 2) perciò, il legislatore ha ridotto al minimo l’aggravio per il richiedente giurisdizionale; 3) il legislatore ha operato un congruo bilanciamento tra l’interesse della parte a far valere il proprio diritto di assistenza e previdenza e gli interessi generali perseguiti attraverso l’art. 445 bis c.p.c., ossia ridurre il contenzioso previdenziale e assistenziale, contenere la durata dei relativi processi, conseguire certezza giuridica in relazione all’accertamento del requisito medico-sanitario. TM |
Inserito in data 29/10/2014 CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 28 ottobre 2014, n. 244 La legge può incidere sui giudizi in corso per attuare le pretese dei ricorrenti La sentenza afferma la legittimità dell’art. 1, commi 98 e 99, della L. 228/12, che hanno, rispettivamente, ripristinato il precedente regime del TFS per i dipendenti pubblici e stabilito l’estinzione dei giudizi per la restituzione del contributo previdenziale obbligatorio del 2,5 % sulla base contributiva utile (contributo dovuto in regime di TFS ma non di TFR). In particolare, secondo la Corte, l’art. 1, comma 98, non viola gli artt. 3 e 36 Cost., prevedendo il regime del TFS per i dipendenti pubblici assunti prima del 2001, mentre i dipendenti privati e quelli pubblici assunti successivamente restano sottoposti al regime del TFR. “Il trattamento di fine servizio è, infatti, diverso e […] normalmente “migliore” rispetto al trattamento di fine rapporto disciplinato dall’art. 2120 cod. civ., per cui il fatto che il dipendente […] partecipi al suo finanziamento, con il contributo del 2,50% (sull’80% della sua retribuzione), non integra un’irragionevole disparità di trattamento rispetto al dipendente che ha diritto al trattamento di fine rapporto. Per altro verso, il fatto che alcuni dipendenti delle pubbliche amministrazioni godano del trattamento di fine servizio ed altri del trattamento di fine rapporto è conseguenza del transito del rapporto di lavoro da un regime di diritto pubblico ad un regime di diritto privato e della gradualità che, con specifico riguardo agli istituti in questione, il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, ha ritenuto di imprimervi”. Inoltre, per il Giudice delle Leggi, l’art. 1 comma 99 summenzionato non viola gli artt. 24, 101, 102, 104 e 113 Cost. “Non illegittima è, in primo luogo, infatti, la disposta estinzione dei giudizi in corso, atteso che l’interesse dei ricorrenti alla restituzione del contributo del 2,50% […] è venuto meno con il ripristino (ad opera della normativa impugnata) del previgente regime di TFS, nel cui contesto quel contributo concorre a finanziare il fondo erogatore dell’indennità di buonuscita. Come, infatti, da questa Corte già affermato, il legislatore, intervenendo a regolare una data materia, può anche incidere sui giudizi in corso, dichiarandoli estinti, senza ledere il diritto alla tutela giurisdizionale garantito dall’art. 24 Cost., ove la nuova disciplina, lungi dal tradursi in una sostanziale vanificazione dei diritti azionati, sia tale da realizzare, come nella specie, le pretese fatte valere dagli interessati, così eliminando le basi del preesistente contenzioso”. “Neppure può dirsi, poi, irragionevole la diversità di trattamento tra i dipendenti che, nelle more, abbiano ottenuto la restituzione del 2,50% con sentenza passata in giudicato (restituzione divenuta «indebita» a seguito dell’abrogazione dell’art. 12, comma 10, del citato d.l. n. 78 del 2010) e quelli che non l’abbiano ottenuta per il sopravvenuto ripristino dell’indennità di buonuscita. Ciò essendo inevitabilmente dovuto alla successione di diverse disposizioni normative ed al generale principio di intangibilità del giudicato”. TM |
Inserito in data 28/10/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 24 ottobre 2014, n. 5278 Sindacato intrinseco debole del g.a. sulla definizione di mercato rilevante In relazione, tra l’altro, alla definizione del mercato rilevante da parte dell’AGCM, il giudice amministrativo può esercitare solo un sindacato di legittimità, che non si estende al merito, dovendo valutare i fatti, per accertare se la ricostruzione di essi risulti immune da travisamenti e vizi logici e se le disposizioni giuridiche siano state correttamente individuate, interpretate e applicate. Nel caso in cui residuino margini di opinabilità in relazione ai concetti indeterminati, il giudice amministrativo non può comunque sostituirsi all’AGCM nella definizione del mercato rilevante. In definitiva, il sindacato giurisdizionale è consentito nei limiti in cui la valutazione dell’AGCM contrasta con il principio di ragionevolezza tecnica. In particolare, in presenza di accertamenti relativi ad intese anticoncorrenziali, l’individuazione dell’ambito merceologico e territoriale è logicamente successiva rispetto all’individuazione dell’intesa. Qualora, invece, l’AGCM contesti operazioni di concentrazione e comportamenti abusivi l’individuazione del mercato rilevante costituisce un’operazione logica del tutto preliminare, in quanto l’ambito del mercato rilevante costituisce uno dei presupposti dell’illecito, delimitando l’ambito nel quale l’intesa può restringere o falsare il meccanismo concorrenziale. CDC |
Inserito in data 28/10/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 27 ottobre 2014, n. 5279 Controinteressato pretermesso non può appellare, ma solo proporre opposizione di terzo La sentenza affronta il tema della legittimazione all'appello da parte del controinteressato pretermesso che non abbia partecipato al giudizio di primo grado. Tale questione è sempre stata strettamente connessa a quella della latitudine attribuita al rimedio dell'opposizione di terzo in ambito processuale amministrativo. In passato, la tutela del terzo che avesse subìto un apprezzabile pregiudizio dalla sentenza era assicurata attraverso vari rimedi, quali la nozione estesa della legittimazione ad appellare, 1'ampia possibilità di intervento nel giudizio di secondo grado e la possibilità di introdurre nel giudizio amministrativo la chiamata di terzo iussu iudicis. Con la sentenza n. 177 del 1995, la Corte Costituzionale ha introdotto nell'ordinamento processuale amministrativo l’opposizione di terzo. Così si è posto il problema di chiarire se il terzo avesse ancora facoltà di esperire il rimedio dell'appello contro la sentenza resa in un giudizio cui fosse rimasto estraneo. In materia, è da ultimo intervenuto il codice del processo amministrativo, il quale ha espressamente disciplinato la legittimazione a proporre appello ed ha altresì regolato il rimedio straordinario dell'opposizione di terzo. A seguito di tale codificazione non residua oggettivamente spazio per l'appello del terzo, per ragioni di ordine sia testuale che sistematico. In particolare, l’art. 102, comma 1, cpa sancisce che “possono proporre appello le parti fra le quali è stata pronunciata la sentenza di primo grado”. Così si preclude la possibilità per il litisconsorte pretermesso in primo grado di proporre autonomamente appello, superando il pregresso orientamento. Ne segue che il controinteressato non evocato in giudizio può impugnare la sentenza di primo grado soltanto - laddove ne sussistano le condizioni - con il rimedio straordinario dell'opposizione di terzo. Del resto, la possibilità da parte del terzo di appellare la sentenza resa in un giudizio a cui sia rimasto estraneo è stata riconosciuta in via giurisprudenziale per assicurare a quest'ultimo una forma di tutela giurisdizionale, vista l'assenza nell'ordinamento processuale amministrativo del rimedio dell'opposizione di terzo. Una volta introdotto tale rimedio, la permanenza dell’appello del terzo risulterebbe non solo non conciliabile con i chiari disposti del codice, ma altresì foriera di complicazioni per l'attuale sistema delle impugnazioni nell'ambito del diritto processuale amministrativo. In tale ipotesi, infatti, il terzo disporrebbe di due rimedi giurisdizionali da azionare a suo piacimento, con un plus di tutela che mal si concilia con il principio della parità delle parti. CDC
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Inserito in data 27/10/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 21 ottobre 2014, n. 5174 Ricostruzione di immobili: occorre dimostrare l'esatta consistenza degli stessi Con la sentenza in epigrafe, il Consiglio di Stato si occupa del diniego opposto da un Comune in ordine alla richiesta di rilascio di un permesso di costruire per l’esecuzione di opere di ristrutturazione edilizia di un fabbricato rurale. Nel caso de quo, il proprietario di un terreno, su cui insiste un fabbricato rurale con una superficie complessiva di 19 mq, afferma che l'originaria consistenza sarebbe venuta meno a seguito di un incendio avvenuto negli anni Ottanta. Per tale immobile venne presentata, nel 2006, una richiesta di autorizzazione per un intervento di “manutenzione straordinaria di accessorio agricolo” che veniva rigettata alla luce della mancata dimostrazione della preesistente consistenza. Successivamente, nel luglio del 2008, veniva prodotta altra istanza per l’effettuazione di lavori sul predetto fabbricato, anch'essa respinta. Qualche anno più tardi, veniva presentata nuova istanza di rilascio di permesso di costruire per l’effettuazione di lavori di ristrutturazione cui faceva riscontro una determinazione dirigenziale, recante anch'essa diniego rilascio di p.d.c., opposto in ragione della non ammissibilità del chiesto intervento “in quanto il manufatto risulta nella situazione attuale alla data di adozione del PRG e, applicando, pertanto, la normativa di PRG vigente - categoria RO- non risultano consentiti ampliamenti”. L’interessato impugnava tale provvedimento innanzi al Tar che rigettava il proposto ricorso, ritenendolo infondato. Analizzando la questione oggetto di attenzione dei Giudici di Palazzo Spada, essa concerne in primo luogo i mezzi di impugnazione; il Consiglio di Stato, infatti, espone l'esistenza, a tal proposito, di differenti tesi. Ed invero, il privato che agisce giudizialmente rivendica la possibilità di eseguire il progettato intervento, “posto che si tratterebbe di ripristinare l’originaria consistenza edilizia del fabbricato venuta meno in parte per effetto di un incendio sviluppatosi nel 1984, sicchè, secondo tale prospettazione non vi sarebbe motivo alcuno per impedire la chiesta riqualificazione del preesistente manufatto”. L’Amministrazione comunale, a fronte della domanda di edificazione, oppone la circostanza ostativa data dal fatto che il progettato intervento non sarebbe ammissibile in quanto il manufatto risulterebbe alla data di adozione del PRG (1994) in una diversa situazione di stato, da non potersi assentire ampliamenti. Il primo giudice, nel dirimere la controversia ha avallato la fondatezza delle ragioni poste a sostegno dell’opposto diniego: la ristrutturazione edilizia presuppone come elemento indispensabile la preesistenza del fabbricato nella consistenza e con le caratteristiche planivolumetriche ed architettoniche proprie del manufatto che si vuole ricostruire (Cons. Stato Sez. IV 15/9/2006 n.5375). La rilevazione della preesistenza ai fini dell’intervento ricostruttivo “non può non ancorarsi alla situazione di fatto esistente alla data di presentazione della domanda e, nella specie, al momento di produzione dell’istanza di edificazione, il fabbricato esistente aveva connotazioni tipologiche di un manufatto costituito da un solo piano fuori terra”. Secondo il Consiglio di Stato, persino valutando la documentazione fotografica prodotta, è evincibile unicamente un “edificio avente una sagoma dalla quale non è possibile dedurre l’esistenza di un manufatto bipiano”. Alla luce di quanto argomentato dai Giudici di Palazzo Spada, infatti, “non è sufficiente che si dimostri che un immobile in parte poi crollato o demolito è esistente, ma è necessario che si dimostri oltre all’an anche il quantum e cioè l’esatta consistenza dell’immobile preesistente del quale si chiede la ricostruzione”. GMC |
Inserito in data 27/10/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 21 ottobre 2014, n. 5178 Difetto dei presupposti di esperibilità per il rimedio dell'ottemperanza I Giudici di Palazzo Spada, intervengono, con la sentenza de qua, in merito al difetto dei presupposti di esperibilità per il rimedio della ottemperanza. Nel caso di specie, con ricorso del 2011 innanzi al T.A.R., una ditta partecipante ad una gara per l’affidamento, tra gli altri, del servizio omnicomprensivo per il mantenimento in efficienza delle opere in verde lungo le strade statali, chiedeva l’annullamento dei seguenti atti: a) verbale di seduta riservata della gara, recante la propria esclusione dalla gara medesima; b) ogni altro atto presupposto e conseguente, ivi compreso il provvedimento di aggiudicazione definitiva della gara stessa, ove adottato, e il silenzio-rigetto formatosi sull’informativa di ricorso trasmessa dalla ditta medesima, ai sensi dell’art. 243-bis del D.L.vo 12 aprile 2006 n. 163. Il Consiglio di Stato, ritiene che il ricorso in epigrafe difetti dei presupposti di esperibilità per il rimedio dell’ottemperanza e, in particolare, il preteso comportamento inadempiente dell’amministrazione. A tal proposito, l’orientamento consolidato sia della Sezione (Cons. Stato, sez. IV, 15 ottobre 2003, n. 6334; Id., sez. IV, 26 giugno 1998, n.992) che della costante giurisprudenza del Consiglio di Stato (Cons. Stato, sez. VI, 31 maggio 2008, n. 2626; Id, sez. V, 23 settembre 2007, n. 6018; Id, sez. VI, 10 febbraio 2004, n. 501) sottolinea che l’oggetto del giudizio di ottemperanza “consiste nel verificare se la P.A. abbia o meno adempiuto all’obbligo nascente dal giudicato, e cioè se abbia o meno attribuito all’interessato quell’utilità concreta che la sentenza ha riconosciuto come dovuta”. Specificamente, la sentenza n. 2922/2012, della quale la ricorrente chiede l'esecuzione, sul punto, prevedeva: “Dall’annullamento degli atti impugnati in primo grado consegue l’aggiudicazione della gara di cui trattasi da parte dell’attuale appellante. Ove nel frattempo fosse stato stipulato un contratto per la medesima prestazione resa oggetto della gara per cui è causa, l’attuale appellante dovrà sostituirsi all’intestataria del contratto stesso per il tempo residuo della prestazione predetta, fermo – altresì – restando il suo diritto al risarcimento del danno costituito dal 10% della propria offerta in rapporto al lasso di tempo in cui il servizio non è stato da essa espletato”. Da quanto chiarito, emerge che l’obbligazione contenuta dalla sentenza, sia stata correttamente adempiuta dalla P.A. attraverso l’adozione, da un lato, del provvedimento con il quale è stata disposta l’aggiudicazione definitiva della gara in oggetto in favore della odierna ricorrente e dall’altro, tramite l’affidamento di lavori aventi ad oggetto la medesima prestazione di cui alla gara in oggetto. GMC |
Inserito in data 24/10/2014 CORTE DI CASSAZIONE - SESTA SEZIONE PENALE - SENTENZA 23 ottobre 2014 n. 44106 Obblighi di formazione dei dipendenti e infortuni sul lavoro Con la sentenza in esame la Corte di Cassazione ha fornito una nuova e più stringente lettura degli obblighi di formazione sussistenti in capo al datore di lavoro attraverso un ampliamento del rischio specifico cui fa riferimento la normativa. Più precisamente gli Ermellini hanno affermato che «l'attività di formazione del lavoratore prevista dall'art. 38 Dlgs n. 626/1994 - ed oggi dall'art. 73 Dlgs 81/2008 -, ove si tratti dell'utilizzo di macchine complesse, talune operazioni sulle quali siano riservate a personale con elevata specializzazione, non si esaurisce nell'informazione e nell'addestramento in merito ai rischi derivanti dall'utilizzo strettamente inteso ma deve tener conto anche dei rischi derivanti dalla diretta esecuzione delle operazioni ad altri riservate». Nel caso di specie l’infortunio si era verificato nel tentativo di riparare un ingranaggio del macchinario, cui era addetto l’operaio vittima dell’infortunio stesso. A parere del Supremo Consesso la suddetta attività, sebbene esulante dagli obblighi di cui era investito l’operaio, non può considerarsi fatto un “comportamento abnorme”, idoneo ad interrompere il nesso di causalità derivante dall’inveramento del rischio specifico che le norme infortunistiche mirano a prevenire. Rischio specifico che, come sottolineano i giudici della Suprema Corte, ricomprende tutti i rischi derivanti dall’utilizzo del macchinario complesso, anche quelli derivanti dal travalicamento dei limiti dell’attività che si è autorizzati a svolgere e che devono essere esattamente individuati e resi noti da parte del datore di lavoro. VA
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Inserito in data 24/10/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 23 ottobre 2014, n. 5267 Acconti e potere di autotutela per illegittimo esborso di denaro pubblico I giudici di Palazzo Spada hanno dichiarato illegittimo il ricorso presentato avverso la sentenza di primo grado che aveva condannato l’appellante alla restituzione degli acconti ricevuti a saldo della revisione dei pressi di un appalto avente ad oggetto costruzioni scolastiche. A sostegno della propria decisione il Consiglio di Stato ha rilevato la natura provvisoria degli acconti rilasciati per mezzo di delibere successivamente annullate (rimanendo, dunque, possibile un successivo controllo sugli stessi). Il Supremo Consesso osserva, inoltre, che l’art. 4 della l. 1481/63 prevede il divieto di revisione dei prezzi per i contratti di fornitura od opera in materia di edilizia scolastica prefabbricata (oggetto della controversia sottoposta alla sua attenzione), cui le parti non sono libere di derogare. Gli acconti versati, dunque, sarebbero frutto di un accordo nullo. Per questi motivi la Pubblica Amministrazione ben poteva esperire il proprio potere di autotutela essendo evidente l’esistenza e l’avvenuta valutazione del pubblico interesse sussistente nel caso in esame, individuato nell’esigenza di evitare indebiti esborsi di denaro pubblico. Inoltre, <<l'esercizio del potere di autotutela su provvedimenti che comportino un illegittimo esborso di denaro pubblico non richiede una particolare motivazione, né quindi una più specifica valutazione sulla sussistenza e prevalenza dell'interesse pubblico, essendo questo rinvenibile in re ipsa nel fatto dell'indebita erogazione di benefici a danno della finanze collettive, senza che possa assumere rilievo in senso contrario il decorso del tempo (C.d.S. 5772/12; 2539/13). […] tale motivazione permette già di escludere che la misura in contestazione fosse dettata da un mero, generico interesse astratto al ripristino della legalità. VA
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Inserito in data 23/10/2014 TAR FRIULI VENEZIA GIULIA - TRIESTE, SEZ. I, ORDINANZA 15 ottobre 2014, n. 495 Il Tar solleva la q.l.c. dell’elezione indiretta degli organi della provincia Con l’ordinanza in epigrafe, il Collegio triestino solleva la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1,2,3,4,5,12,16,33 e 35 della L.R. n. 2 del 2014 ed in genere delle norme che prevedono l’elezione indiretta degli organi della Provincia. La Regione Friuli Venezia Giulia, infatti, nell’esercizio della potestà legislativa esclusiva in materia di ordinamento degli enti locali e relative circoscrizioni in base allo Statuto di autonomia, “ha disposto, con il citato art. 1 della L.R. n. 2 febbraio 2014 n. 2, pubblicata sul BUR il 19.2.2014, un nuovo sistema di elezione degli organi della Provincia, che si sostanzia nell’introduzione di un meccanismo elettivo di secondo grado”. In particolare, tale legge, prevedendo all’art. 5 che “Il Consiglio provinciale è eletto dai Sindaci e dai consiglieri comunali dei Comuni della Provincia dei comuni della provincia” i quali “si esprimono con voto libero e segreto su liste concorrenti in un unico collegio, e detto Consiglio, così eletto elegge a sua volta il Presidente della Provincia e la Giunta provinciale”, viola il principio principio di autonomia degli enti locali territoriali, di cui agli artt. 5, 114 e 118 Cost., vincolante anche per le Regioni a statuto speciale. Verrebbe, altresì, “meno la pari ordinazione degli enti locali territoriali, affermata dal combinato disposto degli artt. 5 e 114 Cost. che presuppone la Provincia come organo a rappresentanza diretta della collettività di riferimento, con violazione del principio democratico e rappresentativo di cui all’art. 1 Cost.”. Principio, peraltro, “eluso anche dall’art. 3 della citata legge regionale, che istituisce un nuovo organo, denominato Assemblea dei Sindaci, costituito dai sindaci dei comuni della provincia, che non garantisce rappresentatività ed è vincolato a interessi comunali”. Se così è, osservano i Giudici, “l’elezione indiretta degli organi provinciali e l’istituzione dell’Assemblea dei Sindaci, vincolata ad interessi comunali, non può non violare il principio per cui le Province sono enti autonomi, rappresentativi della propria popolazione e non espressione di un‘associazione di Comuni”. D’altra parte, non pare compatibile con l’art. 5 Cost. “una legge regionale che demanda l’elezione della Provincia, elemento costitutivo dello Stato, ad una elezione di secondo grado, prescindendo dall’espressione della volontà popolare e sostituendola con quella di pochi “grandi elettori” espressione, per giunta, di interessi diversi e non omogenei ad essa, come sono quelli dei Sindaci e consiglieri dei Comuni”. Detta conclusione è rafforzata dal fatto che la giurisprudenza della Consulta, fin da tempi risalenti (cfr. Corte costit. n. 107/76; 876 del 26.7.1988; 26.7.1988) “occupandosi “a contrariis” del problema qui in esame, cioè della legittimità di leggi regionali di Regioni a statuto speciale che prevedono la costituzione di organismi dipendenti dagli enti locali, eletti a suffragio universale diretto, ne ha negato la costituzionalità, rilevando che tale modalità di elezione è propria degli organismi previsti dall’art. 114 Cost., cioè dalle Regioni, Province e Comuni, essendo propria degli enti autonomi, cioè di quelli la cui autonomia è costituzionalmente garantita. Uno di tali enti, in cui è obbligatorio il suffragio universale diretto, è la Provincia, onde sembra che non si possa decampare da detta regola costituzionale, prevedendone l’elezione in secondo grado, dato che, come notato, essi fanno parte della Repubblica democratica, come prescrive il combinato disposto degli artt. 1 e 114”. Deve, dunque, ritenersi “nei limiti di una valutazione di non manifesta infondatezza, illogica e irragionevole la legislazione regionale che fa sì che il Presidente della Provincia e il Consiglio provinciale non rispondono nemmeno all’organo di primo grado, che li ha eletti”. Ne discende che nessun soggetto “potrà far valere, né direttamente né indirettamente, un giudizio di responsabilità politica sulle modalità con cui gli organi citati esercitano le funzioni di rispettiva competenza”. Inoltre, “il declassamento, attraverso le censurate norme regionali, delle Province ad enti di secondo grado, avrebbe pertanto comportato, con tesi che non appare manifestamente infondata, la modifica dello Statuto regionale, attraverso l’apposito procedimento di revisione costituzionale ex art. 138 Cost, al fine di ridisegnare l’assetto istituzionale di detto ente, del tutto diverso a quello previsto dallo Statuto”. Alla luce di quanto suddetto, essendo determinate da altri enti, le funzioni proprie della Provincia verrebbero meno, “e, di conseguenza, sarebbe inutile e superata la funzione dei principi di sussidiarietà, di differenziazione e di adeguatezza, sanciti dall’art. 118 Cost. in quanto le necessità della collettività provinciale non potrebbero trovare un riferimento né bisogni da ritenere propri, non potendosi identificare in un organo rappresentativo che se ne occupi”. Del pari, “sfuggirebbe, con l’introduzione delle elezioni di secondo grado, il controllo democratico diretto delle popolazioni interessate sul governo delle funzioni provinciali e sull’utilizzo dei relativi tributi, non avendo i nuovi organi provinciali autonomia di spesa, in violazione dell’art. 119 Cost. perché detti tributi propri sarebbero stabiliti ed applicati da organi eletti da rappresentanti di altri enti”. Del resto, l’intervento legislativo de qua non sarebbe manifestamente infondato nemmeno con riferimento all’irrazionale disparità di trattamento nel territorio regionale nell’elezione solo dei rappresentanti provinciali (ex art. 3 Cost.), stante che il taglio dei c.d. costi della politica “si sarebbe potuto raggiungere rimodulando la rappresentanza e la stessa forma di governo provinciale, senza negare alla collettività provinciale il diritto di concorrere direttamente all’elezione degli organi rappresentativi”. In conclusione, “non è dato pertanto comprendere, se l’obiettivo è l’abolizione delle Province, perché per ora si continui a farle sopravvivere, ma, contemporaneamente, e a Costituzione invariata, le si faccia eleggere gli organi per via indiretta, in spregio ai principi di autonomia (art. 5 Cost.) sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza (artt. 114, 118 e 119 Cost.)”.EMF |
Inserito in data 23/10/2014 TAR LOMBARDIA - BRESCIA, SEZ. II, 17 ottobre 2014, n. 1080 Sulla violazione del principio di segretezza dell’offerta economica Per costante orientamento giurisprudenziale (cfr. T.A.R. Campania Napoli, sez. VIII – 18/6/2014 n. 3413 e la giurisprudenza ivi richiamata), oltre che ai sensi dell’art. 120 comma 2 del D.P.R. 207/2010, “nelle procedure di aggiudicazione col criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, le regole di segretezza dell'offerta economica e di separazione del relativo esame rispetto a quello dell'offerta tecnica impongono tassativamente che, prima della conclusione di quest'ultimo, sia interdetta alla Commissione giudicatrice l'anticipata conoscenza degli elementi dell'offerta economica, affinché, in omaggio ai canoni di imparzialità e trasparenza, la preventiva valutazione dell'offerta tecnica non ne resti (effettivamente o anche solo potenzialmente) influenzata, così da inficiare l'obiettività nell'assegnazione dei punteggi e la regolarità della selezione”. Si deve, infatti, rammentare che, “nelle gare da aggiudicare con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, la ratio del divieto di conoscenza anticipata delle offerte economiche risiede nella necessità di evitare che la Commissione possa "premiare" già in sede di offerta tecnica il concorrente che ha formulato una più conveniente offerta economica o comunque di "aggiustare" i punteggi in modo che il vincitore sia già individuato nella fase di valutazione dei progetti tecnici (T.A.R. Marche – 23/5/2013 n. 380). Per questo, tutto ciò che è diverso dall'offerta economica deve esser esaminato in una fase anteriore (e distinta) rispetto a quella concernente l'apertura della relativa busta” (Consiglio di Stato, sez. IV – 27/1/2011 n. 606). In concreto, dunque, “la conoscenza preventiva dell'offerta economica consente di modulare il giudizio sull'offerta tecnica in modo non conforme alla parità di trattamento dei concorrenti, e tale possibilità, ancorché remota ed eventuale, inficia la regolarità della procedura: ai fini dell'annullamento della gara, non è necessario che effettivamente la Commissione abbia tenuto conto della conoscenza anticipata dell’offerta economica – circostanza, questa, come il suo contrario, praticamente non dimostrabile – ma è sufficiente che le concrete modalità di svolgimento della gara non abbiano assicurato la garanzia di piena imparzialità dei giudizi e quindi il rischio di inquinamento dei medesimi” (T.A.R. Veneto, sez. I – 28/5/2014 n. 722, che richiama Consiglio di Stato, sez. V – 25/5/2009 n. 3217). EMF |
Inserito in data 22/10/2014 CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, ORDINANZA 15 ottobre 2014, n. 28 Nel processo amministrativo trova ingresso la cd. sospensione impropria Con la pronuncia in epigrafe l’Adunanza Plenaria ha confermato l’orientamento giurisprudenziale consolidato, secondo cui nel processo amministrativo “trova ingresso la c.d. sospensione impropria del giudizio principale per la pendenza della questione di legittimità costituzionale di una norma, applicabile in tale procedimento, ma sollevata in una diversa causa”. Ad avviso del Supremo Consesso, “non si rinviene, infatti, nel sistema della giustizia amministrativa (arg. ex artt. 79 e 80, c.p.a.) una norma che vieti una tale ipotesi di sospensione […], né si profila una lesione del contraddittorio allorquando (come nel caso di specie), le parti, rese edotte della pendenza della questione di legittimità costituzionale, non facciano richiesta di poter interloquire davanti al giudice delle leggi sollecitando una formale rimessione della questione; tale esegesi, inoltre, è conforme sia al principio di economia dei mezzi processuali che a quello di ragionevole durata del processo (che assumono un particolare rilievo nel processo amministrativo in cui vengono in gioco interessi pubblici), in quanto, da un lato, si evitano agli uffici, alle parti ed alla medesima Corte costituzionale dispendiosi adempimenti correlati alla rimessione della questione di costituzionalità, dall’altro, si previene il rischio di prolungare la durata del giudizio di costituzionalità (e di riflesso di quelli a quo)”. Da ultimo, l’Adunanza Plenaria ha precisato che la prosecuzione del giudizio sospeso soggiacerà al termine di 90 giorni, previsto in modo innovativo e generalizzato dall’art. 80, c. 1, c.p.a., e che tale termine decorrerà dal giorno di pubblicazione nella Gazzetta ufficiale del provvedimento della Corte costituzionale. TM |
Inserito in data 22/10/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 20 ottobre 2014, n. 5170 Precisazioni sull’ordine di esame dei ricorsi principale e incidentale Nella pronuncia in commento, i Giudici della Sesta sezione del Consiglio di Stato ricostruiscono i rapporti tra ricorso principale e ricorso incidentale alla luce della sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 9 del 2014. “La citata sentenza dell’Adunanza plenaria, […] richiamato che nel settore dei contratti pubblici l’essenziale condizione della legittimazione ad agire si dimostra, normalmente, mediante la legittima partecipazione alla gara, ha poi affermato in sintesi, sull’ordine di esame dei ricorsi principale e incidentale, che: a) il previo esame del ricorso incidentale con finalità escludente costituisce la regola generale; b) se, perciò, il ricorrente incidentale prova che quello principale avrebbe dovuto essere escluso dalla procedura, per difetto dei requisiti di partecipazione, la legittimazione ad agire del ricorrente principale viene meno; c) in eccezione alla detta regola l’esame dei motivi escludenti, proposti l’uno avverso l’altro da entrambi i ricorrenti, deve essere contestuale se i motivi sono riferiti ad un vizio identico in quanto relativo alla medesima fase del procedimento di gara”. “In questa eccezione rientra il caso di specie poiché entrambi i ricorrenti hanno dedotto vizi afferenti alle rispettive offerte con finalità escludente che, perciò, devono essere tutti esaminati”. TM |
Inserito in data 21/10/2014 CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 16 ottobre 2014, n. 235 Non incostituzionalità delle tabelle sul risarcimento del danno biologico Con la pronuncia in esame sono state ritenute infondate alcune questioni di legittimità costituzionale sollevate nei confronti dell’art. 139 d.lgs. 209/05 (c.d. codice delle assicurazioni private). Esso prevede, tra l’altro, il sistema delle tabelle ministeriali per il risarcimento del danno biologico determinato dalle lesioni di lieve entità derivanti da sinistri stradali. In particolare, non vi è violazione dell’art. 3 Cost, in quanto la prospettazione di una disparità di trattamento è smentita dal fatto che la tutela risarcitoria dei danneggiati da sinistro stradale è semmai più incisiva e sicura rispetto a quella dei danneggiati in conseguenza di eventi diversi. Solo i primi, infatti, possono avvalersi della copertura assicurativa, ex lege obbligatoria, del danneggiante. Inoltre, il giudice può aumentare fino ad un quinto l’importo liquidabile con equo e motivato apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato; ciò consente di tener conto della diversa incidenza che le varie lesioni possono avere nei confronti dei singoli soggetti. Infine, non può ritenersi che la norma sia incostituzionale per la non prevista liquidabilità del danno morale. Come affermato dalle Sezioni Unite della Cassazione, infatti, “il danno morale rientra nell’area del danno biologico, del quale ogni sofferenza, fisica o psichica, per sua natura intrinseca costituisce componente”. Pertanto, in presenza dei concreti presupposti, il giudice può avvalersi della possibilità di incremento dell’ammontare del danno biologico. CDC |
Inserito in data 21/10/2014 CORTE DI CASSAZIONE, TERZA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 10 ottobre 2014, n. 21426 L’attività di polizia può essere considerata attività pericolosa ex art. 2050 cc Agli effetti dell’art. 2050 cc, è considerata pericolosa l’attività così qualificata dalla legge, nonché quella che, per sua stessa natura o per le caratteristiche dei mezzi adoperati o per la sua spiccata potenzialità offensiva, comporti la rilevante possibilità di un danno. Deve escludersi che l’attività di polizia possa essere considerata di per sé pericolosa. Essa, infatti, costituisce compito indefettibile dello Stato, attività assolutamente doverosa, priva di intrinseca attitudine lesiva, in quanto svolta in difesa di beni e interessi dell’intera collettività. Tuttavia, essa può in determinate ipotesi assumere il connotato di attività pericolosa, per la natura dei mezzi adoperati, ed in particolare nei casi di uso delle armi e di altri mezzi di coazione fisica con pari potenzialità offensiva. Ciò accade quando non opera la scriminante dell’uso legittimo delle armi ex art. 53 cp, per carenza dei presupposti oggettivi o per eccesso colposo (art. 55 cp); in particolare, questo si verifica nel caso di uso imperito o imprudente dell’arma o del mezzo di coazione, ma anche nell’ipotesi in cui le armi o i mezzi di esercizio della forza si palesino oggettivamente anormali od eccedenti, e dunque sproporzionati rispetto alla situazione contingente, alla stregua di un giudizio di fatto. Tale giudizio non implica un sindacato sulle scelte discrezionali della PA, ma la ponderazione dei limiti esterni ad essa, i quali risiedono non solo nel rispetto delle regole, anche tecniche, dettate da norme e regolamenti, ma pure in quelle di comune prudenza. Spetta al danneggiato fornire la dimostrazione delle condizioni atte a connotare il fatto come illecito; incombe invece alla PA la prova di aver adottato tutte le misure idonee a prevenire il danno. CDC
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Inserito in data 20/10/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 17 ottobre 2014, n. 5155 Sulla obbligatorietà dell’indennità del c.d. rischio radiologico Il Consiglio di Stato, con la sentenza in epigrafe, tratta dei casi in cui è obbligatorio corrispondere, nei confronti dei medici di un presidio ospedaliero, una indennità di c.d. rischio radiologico, di cui all’art. 1 della Legge 27 ottobre 1988 n. 460. Nel caso de quo, taluni dipendenti medici di un presidio ospedaliero napoletano, nel febbraio del 2000 diffidarono a corrispondere ad una coppia di colleghi l’indennità di rischio radiologico, con interessi e rivalutazione, per il periodo dal 1° gennaio 1988 in poi. Considerata l’inerzia della P.A. datrice di lavoro, costoro proposero un’azione a seguito del silenzio innanzi al TAR Napoli, deducendo in modo articolato la violazione dell’art. 36 Cost., nonché dell’art. 2041 c.c. L’adito TAR, ne respinse la domanda azionata, non avendo i ricorrenti raggiunto, a fronte della valutazione all’uopo resa dalla Commissione ex art. 58, c. 4 del DPR 20 maggio 1987 n. 270, un livello di radiazioni ionizzanti continua e permanente. Successivamente, i due medici appellano deducendo l’erroneità dell’impugnata sentenza, laddove “non considerò che detta Commissione svolse un’indagine solo a campione sui dati, fornitile dall’esperto, di natura esposimetrica e dosimetrica, anziché sulla scorta dei criteri indicati all’art. 54, c. 5 del DPR 28 novembre 1990 n. 384”. Secondo quanto affermato dai Giudici di Palazzo Spada, “in base all’art. 54 del DPR 384/1990, sussiste un diverso trattamento ai fini della percezione della predetta indennità, a seconda che si tratti del personale (medico e tecnico) di radiologia, rispetto al personale di altre qualifiche. Nell’un caso, è necessaria e sufficiente la qualifica rivestita, alla quale l’art. 1, c. 1 della l. 460/1988 ricollega una presunzione assoluta d’esposizione al relativo rischio. Nell’altro, occorre invece che le situazioni lavorative concrete comportino un'esposizione a siffatto rischio in misura continua e permanente, per modalità, tempi, orari ed intensità dell'esposizione (cfr., così, Cons. St., III, 14 gennaio 2013 n. 141; id., 23 maggio 2013 n. 2811). Si aggiunge, altresì, che “per individuare correttamente il personale non di radiologia avente titolo all’indennità de qua, occorre procedere con le modalità previste dall'art. 58, c. 4 del DPR 270/1987 e secondo i criteri di cui al citato art. 54, c. 5.” A ciò si aggiunga che anche dopo l'emanazione dell'art. 5 della l. 23 dicembre 1994 n. 724 e del Dlg 17 marzo 1995 n. 230, i lavoratori soggetti a rischio radiologico sono individuati non in relazione alla qualifica rivestita, ma all'effettiva sottoposizione, per l'attività esercitata, a una determinata esposizione alle radiazioni ionizzanti, pur se resta ferma la testé evidenziata differenza fra i medici e i tecnici di radiologia e il restante personale sanitario, per il quale permane l’accertamento sulle singole situazioni concrete (modalità e orario di lavoro, intensità dell'esposizione. Dunque, il Consiglio di Stato, rigetta l’assunto degli appellanti in ordine alla pretesa differenza di regime tra il Dlg 230/1995 e l’art. 58, c. 4 del DPR 270/1987, poiché “entrambe le fonti, pur con differenti modi, hanno l’obiettivo della reale tutela dei soli lavoratori effettivamente esposti al rischio da radiazioni ionizzanti, la quantità di quelle assorbite servendo a fornire l’esatta dimensione del rischio stesso. In concreto, quindi, la misurazione dell’esposizione e del dosaggio delle radiazione indica il grado di potenzialità che l'attività rischiosa porti al danno vero e proprio o, comunque, ad un evento nocivo ed indesiderabile per i lavoratori”. La Commissione in questione, si badi, ha possibilità di “esprimere il proprio oggettivo convincimento, sulla scorta dei dati lavorativi dei dipendenti per ciascun anno, pure grazie alla predetta rilevazione a campione effettuata da soggetto esperto in valutazioni dosimetriche.” Alla luce di tali considerazioni, l’appello dev’essere respinto; invero, rappresenta, come dai Giudici affermato, “mera petizione di principio” asserire che il rischio de quo “sia altra cosa di tali valutazioni, giacché queste ultime escludono ogni (compiacente, o no, poco importa) empirismo nell’accertare il rischio e per prevenire il raggiungimento di quel valore-soglia, oltre il quale si ha l’indennità.” GMC |
Inserito in data 20/10/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 15 ottobre 2014, n. 5142 Sulla irricevibilità del ricorso tardivo Nel caso sottoposto all’attenzione del Consiglio di Stato, una cittadina libanese, residente in Italia sin dal 1986 e medico di medicina generale, dichiara d’aver proposto istanza al Ministero dell’interno, in data 16 novembre 2004, per ottenere la concessione della cittadinanza ai dell’art. 9, c. 1, lett. f) della l. 5 febbraio 1992 n. 21. Il Ministero, tuttavia, respinse la richiesta della dottoressa perché «…dall’attività informativa esperita sono emersi elementi ostativi di pericolo per la sicurezza della Repubblica di cui all’articolo 6, comma 1, lettera c) della legge 91/1992…». Adito il TAR Piemonte dalla stessa, ne è stato accolto il ricorso per insufficienza di tale motivazione e per l’erroneo riferimento alle cause di cui sopra. Successivamente il Ministero degli Interni appella, con il ricorso in epigrafe, deducendo l’erroneità della sentenza impugnata perché: “A) – la P.A. non può mettere a disposizione documenti riservati sulla sicurezza nazionale; B) – il riferimento, operato dall’impugnato provvedimento al ripetuto art. 6, si deve intendere al principio colà sotteso e sul quale si basò la valutazione discrezionale della vicenda inerente all’appellata; C) – il TAR non ha inteso seguire la procedura ex DPCM 11 aprile 2003 per le informazioni riservate UE. Resiste in giudizio la dottoressa, la quale eccepisce anzitutto la tardività dell’appello e, nel merito, l’infondatezza di questo”. Il Consiglio di Stato afferma che il ricorso è irricevibile, poiché tardivo, spiegandone le motivazioni: invero, la sentenza appellata è stata depositata il 21 febbraio 2009, onde il relativo termine per la sua impugnazione resta completamente regolato dal sistema previgente al c.p.a. Sul punto, i Giudici di Palazzo Spada affermano che “è evidente che la P.A. appellante ha voluto adoperare il termine c.d. “lungo”, fermo restando che al riguardo, prima dell'entrata in vigore del codice stesso, le norme del c.p.c. s’applicavano, se compatibili e salvo che non fosse diversamente previsto, al giudizio amministrativo, tra cui l'art. 327 c.p.c. per i giudizi d’appello”, aggiungendo altresì che “il termine “lungo”, che l'art. 46, c. 17 della l. 18 giugno 2009 n. 69 ha ridotto da un anno a sei mesi, nel caso in esame resta sempre annuale. Chiarendo, dunque, che nell’appello in esame s’applica, tuttora, il vecchio termine “lungo” annuale, giova rammentare che esso va computato, quando il suo decorso sia iniziato prima della sospensione per il periodo feriale ex art. 1, I c. della l. 7 ottobre 1969 n. 742, prolungandolo di 46 giorni (da calcolarsi ex numeratione dierum) dal giorno di scadenza del termine stesso (da calcolarsi ex nominatione dierum). Dunque, il deposito della sentenza impugnata, come s’è detto, è avvenuta il 21 febbraio 2009, per cui il termine “lungo “ annuale scade non il 21 febbraio 2010, ma il 46° giorno successivo, cioè l’8 aprile 2010. Sebbene il ricorso in epigrafe risulta notificato il giorno prima, ossia il 7 aprile, per cui sarebbe tempestivo, la P.A. appellante non s’è avveduta che la sentenza le è stata notificata, pertanto, la P.A. ha, fin da quella data ,perso la possibilità di notificare il proprio ricorso entro il termine lungo, soggiacendo a quello, c.d. breve, di cui all’(allora applicabile) art. 28, II c. della l. 6 dicembre 1971 n. 1034, ossia sessanta giorni. Da quanto emerso, la notificazione della sentenza da parte dell’appellata, vittoriosa in primo grado, è regolare e legittima. GMC |
Inserito in data 19/10/2014 CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA, TERZA SEZIONE - SENTENZA 9 ottobre 2014, Causa C- 268/13 Cure all’estero: è un diritto di tutti La Corte del Lussemburgo ribadisce l'importanza di garantire le cure mediche anche all'estero e la necessità, imprescindibile e prioritaria, che un simile diritto sia riconosciuto a tutti i cittadini europei. I Giudici, intervenendo riguardo alla vicenda di una cittadina romena affetta da una grave patologia cardiovascolare e ricoveratasi in Germania, riconoscono la possibilità che la Nazione di appartenenza provveda a rimborsare le ingenti spese mediche sostenute all'estero dalla paziente. Si è trattata, del resto, di una grave inadempienza dello Stato romeno, incapace di fronteggiare le gravi condizioni di salute della ricorrente in tempi ragionevoli e con farmaci di prima necessità, idonei ad offrirle una soluzione adeguata e tempestiva. Nel chiarire la vicenda, i Giudici specificano che l'impossibilità, quale quella quì occorsa alla Romania, debba essere valutata, da un lato, rispetto al complesso degli istituti ospedalieri dello Stato membro idonei a prestare le cure di cui trattasi e, dall’altro, rispetto al lasso di tempo entro il quale queste ultime debbano essere erogate ed ottenute. In guisa di ciò, la Corte, ricordando l'esperibilità della richiesta di rimborso, enuncia il seguente principio di diritto: "Secondo il diritto dell'Unione, un lavoratore subordinato o autonomo che soddisfa le condizioni richieste dalla legislazione dello Stato competente per aver diritto alle prestazioni, puo' essere autorizzato a recarsi in un altro Stato e "avere diritto a ricevere prestazioni in natura erogate, per conto dell’istituzione competente, dall’istituzione del luogo di dimora secondo le disposizioni della legislazione che essa applica, come se fosse ad essa iscritto" CC |
Inserito in data 17/10/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 14 ottobre 2014, n. 5126 Sui poteri del Giudice penale e dell'Autorità di pubblica sicurezza Il Consiglio di Stato, con la sentenza in epigrafe, si pronuncia in merito alla detenzione di armi e munizioni, nonché con riguardo ai poteri spettanti al Giudice penale ed alle Autorità di pubblica sicurezza volti al divieto della detenzione di cui sopra. Riassumendo il caso in questione, nelle ore serali, l’interessato aveva notato che nel piazzale recintato di un fabbricato di sua proprietà, prossimo alla sua abitazione, erano entrate due persone non identificate. Presumendo che si trattasse di malintenzionati in procinto di commettere reati in suo danno, questi si era avvicinato ed esploso, contro gli intrusi, due colpi di pistola, usando un’arma legittimamente detenuta. Contemporaneamente a ciò, aveva chiamato i Carabinieri; all’arrivo di questi ultimi, riferiva che gli intrusi, dopo i colpi di pistola, si erano allontanati. Richiesto, dai Carabinieri, se avesse sparato in aria o ad altezza d’uomo, aveva risposto di avere sparato ad altezza d’uomo, ciò comportando il sequestro delle armi e le munizioni in suo possesso. L'interessato, tuttavia, ha fatto rapporto all’autorità giudiziaria penale, la quale aveva, successivamente, ordinato il dissequestro, non ravvisando, nel comportamento dell’interessato, alcun illecito. L’appellato è stato, tuttavia, destinatario del provvedimento del Prefetto di Pavia con il quale, in applicazione dell’art. 39, testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, gli è stato fatto divieto di detenere armi e munizioni. Egli, dopo aver chiesto, senza successo, al Prefetto di revocare l’atto in via di autotutela, ha impugnato il provvedimento davanti al T.A.R. Lombardia, sede di Milano. Quest'ultimo, ha adottato una ordinanza cautelare di sospensione “ai fini del riesame”. Successivamente, preso atto della conferma del provvedimento, da parte del Prefetto, ha deciso la causa nel merito, accogliendo il ricorso. La sentenza del T.A.R., dopo aver dato atto dell’ampia discrezionalità concessa dalla legge per l’emanazione di provvedimenti come quello in esame, giunge ad accogliere il ricorso dell’interessato sulla base di un unico argomento, cioè che «la tempestiva rivalutazione del fatto operata dall’autorità giudiziaria, con conseguente provvedimento di dissequestro delle armi, esclude in radice, in assenza di ulteriori circostanziate valutazioni dell’amministrazione, che i fatti istruiti e citati nel provvedimento impugnato fossero suscettibili di incrinare l’immagine di affidabilità di colui che è stato autorizzato a detenere e portare armi; ciò considerando, altresì, l’incensuratezza del ricorrente e l’assenza di episodi pregressi di violazione delle normative relative a denuncia, custodia e utilizzo delle armi da fuoco (ciò sin dall’aprile 1982)». I Giudici di Palazzo Spada, affermano che il fatto che l’autorità giudiziaria penale non abbia ravvisato, nel comportamento del ricorrente, gli estremi di un illecito penale, sia condizione sufficiente, per il T.A.R., per giudicare privo di valide ragioni il provvedimento del Prefetto, aggiungendo, tuttavia, che si debba ritenere, al contrario, che i presupposti e le finalità dei provvedimenti di competenza dell’autorità giudiziaria penale e, rispettivamente, dell’autorità di pubblica sicurezza, siano ben distinti tra loro. Alla luce di ciò, è ben possibile che, le due autorità, giungano, nell’esercizio delle rispettive competenze, a decisioni apparentemente antitetiche. Secondo quanto affermato dai Giudici di Palazzo Spada, “l’autorità giudiziaria penale deve punire i reati eventualmente commessi, e non può adottare alcun provvedimento repressivo se non in quanto ritenga che vi siano stati fatti di rilevanza penale. Invece l’autorità di pubblica sicurezza, in materia di armi, ha il compito di prevenire non solo la commissione di reati futuri (quindi, per definizione, allo stato non ancora consumati e neppure tentati) ma altresì di prevenire i sinistri, non necessariamente intenzionali, che si possono verificare per effetto di un uso sconsiderato di armi pur legittimamente detenute”, dunque, “se il Prefetto, nelle sue funzioni di prevenzione e nell’esercizio della sua discrezionalità, ha ritenuto che la propensione – apertamente dichiarata e quasi vantata – del ricorrente ad un uso delle armi non semplicemente intimidatorio (“un colpo sparato in aria è un colpo sprecato”) renda costui poco affidabile dal punto di vista della pubblica sicurezza, non si può dire che tale giudizio sia viziato da manifesto travisamento dei fatti ovvero da grave ed evidente illogicità o violazione del principio dell’adeguatezza”. Alla luce di quanto argomentato, l’appello del Ministero va accolto e, annullata la sentenza del T.A.R., dev'essere respinto il ricorso proposto in primo grado. GMC |
Inserito in data 17/10/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 14 ottobre 2014, n. 5125 Sulla irregolarità amministrativa sanabile Con la sentenza in oggetto, i Giudici di Palazzo Spada si soffermano in merito ad un caso di “irregolarità amministrativa sanabile”, alla luce dell'art. 5 del t.u. n. 286/1998. Nel caso di specie, l’appellato, cittadino cinese, ha fatto ingresso, in Italia, nel 2012, con regolare visto, ottenuto sulla base della formale richiesta di un cittadino italiano di assumerlo quale lavoratore dipendente. È stata, quindi, avviata la pratica per la il perfezionamento del contratto di lavoro ed il rilascio del permesso di soggiorno da parte del Questore di Lecce. Tuttavia, il cittadino italiano, datore di lavoro, ha interrotto il rapporto di lavoro e la circostanza de qua è stata fatta verbalmente presente dallo straniero alla Questura, insistendo per il rilascio del permesso di soggiorno. Nonostante tale richiesta, è tuttavia intervenuto un decreto di “rigetto” dell’istanza di permesso di soggiorno, motivato unicamente con la considerazione che “nelle more del procedimento lo straniero aveva lasciato la residenza originariamente indicata senza comunicare un nuovo domicilio sicché egli risultava, di fatto, irreperibile”. Lo straniero interessato ha tuttavia fatto ricorso al T.A.R. Puglia, sezione di Lecce, deducendo che “mentre il procedimento era ancora pendente egli si era ripetutamente presentato presso gli uffici della Questura per sollecitare l’evasione della sua pratica [...]”. Alla luce di quanto chiesto, il T.A.R. Lecce ha accolto il ricorso osservando, in sintesi, “che anche volendo ammettere che per un certo periodo si fosse verificata una oggettiva impossibilità di conoscere il nuovo recapito dell’interessato, questa situazione – dal momento che poi l’interessato si era presentato, se non altro, per ricevere personalmente la notifica del decreto di rigetto - rientrava nella previsione della “irregolarità amministrativa sanabile” che ai sensi dell’art. 5 del t.u. n. 286/1998 consente il rilascio del permesso di soggiorno”. Il Collegio ritiene che la sentenza debba essere confermata, sottolineando altresì che “da parte dell’Amministrazione non è stato mai enunciato – neppure nelle difese giudiziali - altro motivo del diniego del permesso di soggiorno, che l’asserita irreperibilità dello straniero nel corso del relativo procedimento; irreperibilità peraltro non dichiarata con atti formali e almeno in via di fatto contrastante con la circostanza che l’interessato si è presentato personalmente negli uffici della Questura dove gli è stato notificato il decreto di rigetto.” Alla luce di quanto esposto, il permesso deve essere dunque rilasciato in considerazione dei fatti sopravvenuti e quando si tratti di irregolarità amministrative sanabili. GMC |
Inserito in data 16/10/2014 TAR PUGLIA - BARI, SEZ. II, SENTENZA 10 ottobre 2014, n. 1178 Regola dell’anonimato e segni di riconoscimento Con la sentenza in epigrafe, i Giudici baresi, nel confermare quanto già statuito in sede di provvedimento cautelare, sostengono che “…non possa essere interpretato quale segno di riconoscimento la cd. scaletta appuntata dal candidato sul foglio recante la traccia della prova giacché risponde all’evidente esigenza di organizzare la stesura del compito scritto..”; atteso che “..la regola dell’anonimato non può essere interpretata nel senso che ogni astratta possibilità di diversità tra gli elaborati vada qualificata come segno di riconoscimento ma solo quando il segno oggetto di esame assuma un carattere anomalo rispetto alle ordinarie manifestazioni del pensiero”. A tal proposito, infatti, già con la sentenza n. 2687 del 26 maggio 2014, il Consiglio di Stato ha espresso il principio secondo cui i “…contrassegni che si rinvengono nella minuta della prova… (elenco degli argomenti da sviluppare ed orario di inizio e termine delle prove) - relegati al segreto della busta - non assumono un carattere oggettivamente ed incontestabilmente anomalo, tale che ad essi possa ricondursi l'astratta idoneità a fungere da elemento identificativo delle generalità del concorrente”. EMF |
Inserito in data 16/10/2014 CORTE DI CASSAZIONE, TERZA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 10 ottobre 2014, n. 21417 Sul collegamento negoziale tra un contratto nullo e gli altri contratti collegati non nulli In tema di collegamento tra contratti, costituisce principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità, quello secondo cui, il collegamento negoziale - cui le parti, nell'esplicazione della loro autonomia possono dar vita con manifestazioni di volontà espresse in uno stesso contesto - non da luogo ad un nuovo ed autonomo contratto, ma è un meccanismo attraverso il quale le parti perseguono un risultato economico unitario e complesso, realizzato non per mezzo di un singolo contratto ma attraverso una pluralità coordinata di contratti, i quali conservano una loro causa autonoma, anche se ciascuno è finalizzato ad un unico regolamento dei reciproci interessi. Pertanto, anche quando il collegamento determini un vincolo di reciproca dipendenza tra i contratti, ciascuno di essi si caratterizza in funzione di una propria causa e conserva una distinta individualità giuridica (ex multis, Cass. 10 luglio 2008, n. 18884). La conseguenza che se ne trae è che, in caso di collegamento funzionale tra più contratti, gli stessi restano soggetti alla disciplina propria del rispettivo schema negoziale, mentre la loro interdipendenza produce una regolamentazione unitaria delle vicende relative alla permanenza del vincolo contrattuale, per cui essi "simul stabunt, simul cadent" (Cass. 22 marzo 2013, n. 7255). Ciò comporta che se un contratto è nullo, la nullità si riflette sulla permanenza del vincolo negoziale relativamente agli altri contratti. Ma, non è vero l'inverso. Se un contratto è nullo il collegamento negoziale con altri contratti non nulli non comporta la validità dell'intero complesso dei contratti collegati. Infatti, il riflesso della nullità di un contratto sulla permanenza del vincolo negoziale relativamente agli altri contratti collegati, ma con individualità autonoma, costituendo l'effetto dell'essenza del collegamento negoziale dato dalla naturale interdipendenza dei contratti collegati, non può essere impedito dalla circostanza che per ragioni estranee al fenomeno contrattuale alcuni di questi contratti siano non nulli. Se si ammettesse che il collegamento negoziale tra un contratto nullo (nella specie promessa di vendita) e gli altri contratti collegati non nulli (nella specie affitto di ramo di azienda e vendita dei beni aziendali) comportasse la validità dell'intero complesso dei contratti collegati, il collegamento tra contratti finirebbe con l'operare come mezzo per eludere la nullità del singolo contratto. EMF
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Inserito in data 15/10/2014 CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE PENALI, SENTENZA 14 ottobre 2014, n. 42858 Sentenza d’incostituzionalità e tangibilità in melius del giudicato penale Le Sezioni Unite penali hanno statuito il seguente principio di diritto: “Successivamente a una sentenza irrevocabile di condanna, la dichiarazione d’illegittimità costituzionale di una norma penale diversa dalla norma incriminatrice, idonea a mitigare il trattamento sanzionatorio, comporta la rideterminazione della pena, che non sia stata interamente espiata, da parte del giudice dell’esecuzione”. Invece, secondo l’orientamento più risalente, l’art. 30, ult. Comma, L. n. 87/53, consente di superare il giudicato solo quando la dichiarazione d’incostituzionalità colpisce la norma incriminatrice (che prevede il precetto e la sanzione) e non quando ha ad oggetto la norma che prevede un’aggravante o vieta la prevalenza di un’attenuante su un’aggravante. Tale posizione giurisprudenziale è “fondata sull’erronea parificazione tra il fenomeno della successione di leggi nel tempo (con introduzione di norme più favorevoli: art. 2m terzo comma, cod. pen., divenuto quarto comma dopo l’inserimento operato dall’art. 14 legge 24 febbraio 2006, n. 85) e quello derivante dalla declaratoria di illegittimità costituzionale”. “Infatti, come è stato chiarito dalla Corte costituzionale sin dalla sua prima sentenza del 1956 (con giurisprudenza costantemente ripetuta), gli istituti giuridici dell’abrogazione e dell’illegittimità costituzionale delle leggi non sono identici fra loro, si muovono su piani diversi, con competenze diverse e con effetti diversi”. Segnatamente, la dichiarazione d’incostituzionalità integra un momento di patologia normativa ed è tesa a ristabilire il rispetto della Costituzione; viceversa, l’abrogazione di una legge è un fenomeno fisiologico dell’ordinamento e risponde a valutazioni di opportunità politica e sociale operate dal legislatore. Inoltre, sotto il profilo degli effetti, è stato evidenziato che mentre la declaratoria d’incostituzionalità determina la caducazione ab origine della disposizione impugnata, l’abrogazione circoscrive l’ambito di applicazione della norma penale nel tempo, limitandone l’applicazione a fatti verificatisi fino ad un certo tempo. Pertanto, il giudicato penale di condanna integra un limite all’applicazione della legge sopravvenuta più favorevole, ma non preclude ai giudici di considerare gli effetti della declaratoria di incostituzionalità della norma penale sulla residua eseguibilità della pena. Invero, l’unico limite alla sopravvenuta declaratoria di incostituzionalità di una norma penale è costituito dagli effetti irreversibili, ossia non rimuovibili perché consumati come nel caso di condannato che abbia già scontato la pena. Ne discende che “Per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 251 del 2012 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, cod. pen. nella parte in cui vietava di valutare la prevalente circostanza attenuante di cui all’art. 73, comma 5, d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309, sulla recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen., il giudice dell’esecuzione […] potrà affermare la prevalenza della circostanza attenuante, sempreché una simile valutazione non sia stata esclusa nel merito del giudice della cognizione, secondo quanto risulta dalla sentenza irrevocabile”. Inoltre, “Per effetto della medesima sentenza della Corte costituzionale n. 251 del 2012, è compito del pubblico ministero […] di richiedere al giudice dell’esecuzione l’eventuale rideterminazione della pena inflitta all’esito del giudizio di comparazione”. TM
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Inserito in data 15/10/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 15 ottobre 2014, n. 5102 Tassatività dei criteri di valutazione dei c.v. degli aspiranti professori universitari I Giudici di Palazzo Spada chiariscono che la procedura comparativa per il conferimento di un posto di professore universitario di prima fascia si svolge secondo criteri di valutazione delle pubblicazioni e dei curricula dei candidati, tassativamente individuati dall’art. 4, d.p.r. 117/00. In particolare, in forza dell’art. 4, comma primo, le commissioni di concorso possono predeterminare i criteri di massima e le procedure di valutazione; alla stregua dell’art. 4, comma sesto, del d.p.r. 117/00, i criteri individuati dalla legge possono essere modificati e integrati con regolamenti emanati dalle università ai sensi dell’art. 1, comma 2, l. n. 210/88. Ad avviso del Consiglio di Stato, tali norme s’interpretano nel senso che le commissioni di concorso possono semplicemente specificare i criteri e i titoli stabiliti dalla legge, mentre “è senz’altro precluso alle singoli commissioni la possibilità di introdurre, di volta in volta, criteri di valutazione diversi ed ulteriori rispetto a quelli previsti nel citato art. 4 (e da quelli eventualmente introdotti da disposizioni modificatrici ed integrative contenute in regolamenti adottati dall’università ai sensi del comma 6)”. TM |
Inserito in data 14/10/2014 TRIBUNALE DI MILANO, PRIMA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 17 luglio 2014 La responsabilità del medico verso il paziente ha natura extracontrattuale L’art. 3, comma 1, d.l. 158/2012, convertito con l. 189/2012 (c.d. legge Balduzzi) non incide sul regime di responsabilità civile della struttura sanitaria (pubblica o privata) né su quello del medico che ha concluso con il paziente un contratto d’opera professionale. In entrambi i casi, infatti, si ha responsabilità per inadempimento, regolata dall’art. 1218 cc. Il tenore letterale dell’art. 3, comma 1 della legge Balduzzi e l’intenzione del legislatore conducono invece a ritenere che la responsabilità del medico per condotte che non costituiscono inadempimento di un contratto d’opera sia stata ricondotta alla responsabilità aquiliana ex art. 2043 cc. Per un verso, infatti, se in tal caso la responsabilità del medico costituisse pur sempre una responsabilità per inadempimento, risulterebbe errato oltre che superfluo il richiamo dell’art. 3, comma 1 all’art. 2043 cc. A ciò si aggiunge che la norma ha assunto l’attuale formulazione solo in sede di conversione del decreto legge; e le significative modifiche introdotte con la conversione contribuiscono a far escludere che la norma sia frutto di una mera svista. Per altro verso, occorre considerare l’inequivoca volontà del legislatore di restringere e di limitare la responsabilità (anche) risarcitoria derivante dall’esercizio delle professioni sanitarie, per contenere la spesa sanitaria e porre rimedio al fenomeno della c.d. medicina difensiva. Si segnala, infine, che il superamento della teoria del contatto sociale non sembra comportare un’apprezzabile compressione della possibilità per il danneggiato di ottenere il risarcimento del danno derivato dalla lesione del diritto alla salute. Il danneggiato sarà infatti portato a rivolgere in primo luogo la pretesa risarcitoria nei confronti della struttura sanitaria. Ciò dovrebbe favorire l’alleanza terapeutica tra medico e paziente, senza che essa sia inquinata da uno strisciante obbligo di risultato al quale il medico non è tenuto normativamente e che spesso è alla base di scelte terapeutiche difensive, pregiudizievoli per la collettività e talvolta anche per le stesse possibilità di guarigione del malato. CDC
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Inserito in data 14/10/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 14 ottobre 2014, n. 5086 Sul riparto di giurisdizione in tema di concessione e revoca di contributi pubblici Ribadendo quanto affermato di recente dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, la sentenza conferma che il riparto di giurisdizione tra Giudice Ordinario e Giudice Amministrativo in materia di controversie riguardanti la concessione e la revoca di contributi e sovvenzioni pubbliche deve essere attuato sulla base del criterio fondato sulla natura della situazione soggettiva azionata. Si ha giurisdizione del giudice ordinario quando il finanziamento è riconosciuto direttamente dalla legge, mentre alla Pubblica Amministrazione spetta soltanto verificare l’effettiva esistenza dei presupposti senza procedere ad alcun apprezzamento discrezionale circa l’an, il quid, il quomodo dell’erogazione. Qualora la controversia attenga alla fase di erogazione o di ripetizione del contributo per inadempimento del beneficiario alle condizioni statuite in sede di erogazione o per sviamento dei fondi rispetto al programma finanziato, la giurisdizione è del giudice ordinario. In tal caso, infatti, il privato è titolare di un diritto soggettivo perfetto, attenendo la controversia alla fase esecutiva del rapporto di sovvenzione e all'inadempimento degli obblighi cui è subordinato il concreto provvedimento di attribuzione. Viceversa, vi è una situazione d’interesse legittimo, con conseguente giurisdizione del giudice amministrativo, solo quando la controversia riguardi una fase procedimentale precedente al provvedimento discrezionale attributivo del beneficio o quando, a seguito della concessione del beneficio, il provvedimento sia stato annullato o revocato per vizi di legittimità o per contrasto iniziale con il pubblico interesse. CDC |
Inserito in data 13/10/2014 CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 10 ottobre 2014, n. 231 Le leggi provvedimento non violano automaticamente il diritto di difesa La Corte di legittimità ha dichiarato non fondate le censure mosse avverso l’art. 2 della l. regione Molise 14/2010 (Iniziative finalizzate alla razionalizzazione della spesa regionale) per violazione degli artt. 3, 24 comma 1, 111 comma 2, 113 comma 2 e 117 comma 7 Cost. con la quale, al fine di contenere la spesa pubblica, ha revocato l’incarico di Segretario generale del Consiglio affidandolo al Direttore generale della Direzione generale della Giunta regionale. Osserva la Corte Costituzionale che la legge sottoposta alla sua valutazione presenterebbe i caratteri di una legge-provvedimento (essendo rivolta ad un unico destinatario e disciplinando un aspetto che, di regola, è affidato all’autorità amministrativa). La Consulta, tuttavia, ricorda come già in passato sia stato ripetutamente affermato che «la natura di “norma-provvedimento” […], da sola, non incide sulla legittimità della disposizione» (C.Cost. 270/10)) e che la legittimità costituzionale delle leggi-provvedimento […] deve essere «valutata in relazione al loro specifico contenuto» (c.cost. 275/13; 154/13, 270/10), «essenzialmente sotto i profili della non arbitrarietà e della non irragionevolezza della scelta del legislatore» (sentenza n. 288 del 2008). Inoltre, a ben vedere, l’operare attraverso una legge, piuttosto che con atto amministrativo, non compromette il diritti alla tutela giurisdizionale comportando, di fatto, un mero spostamento di competenza in quanto «in assenza nell’ordinamento attuale di una ‘riserva di amministrazione’ opponibile al legislatore, non può ritenersi preclusa alla legge ordinaria la possibilità di attrarre nella propria sfera di disciplina oggetti o materie normalmente affidate all’azione amministrativa […] con la conseguenza che il diritto di difesa […] non risulterà annullato, ma verrà a connotarsi secondo il regime tipico dell’atto legislativo adottato, trasferendosi dall’ambito della giustizia amministrativa a quello proprio della giustizia costituzionale» (sentenza n. 85 del 2013). Pertanto nel caso di specie non vi sarebbe stata alcuna lesione del diritto alla tutela giurisdizionale il quale risulta affidato alla Corte Costituzionale. Parimenti priva di ogni fondamento, in fine, appare la censura di violazione del principio di parità delle parti nel processo, dovuta all’interferenza della legge provvedimento sulla funzione giurisdizionale, in quanto al momento di approvazione della legge non era ancora sorta alcuna controversia non potendo, dunque, trovare applicazione quella parte della giurisprudenza che afferma che «non può essere consentito al legislatore di “risolvere, con la forma della legge, specifiche controversie e di vanificare gli effetti di una pronuncia giurisdizionale divenuta intangibile, violando i principi relativi ai rapporti tra potere legislativo e potere giurisdizionale e concernenti la tutela dei diritti e degli interessi legittimi” » (sentenza n. 85 del 2013). VA |
Inserito in data 13/10/2014 CORTE DI CASSAZIONE, SECONDA SEZIONE CIVILE - SENTENZA 9 ottobre 2014, n. 21356 Art. 1322 c.c. e potere di creazione di obblighi personali diversi dalle servitù I giudici di Piazza Cavour, pur cassando la sentenza della Corte di Appello (per mancata valutazione di alcuni fatti di causa dedotti in giudizio), hanno riaffermato la facoltà delle parti private di sottrarsi alla regola della tipicità dei diritti reali su cose altrui attraverso la creazione di nuovi rapporti aventi natura meramente obbligatoria, essendogli espressamente riconosciuto tale potere dall’art. 1322 c.c. sull’autonomia contrattuale, Alla luce di quanto detto, pertanto, sarebbe ben possibile, <<invece di prevedere l'imposizione di un peso su un fondo (servente) per l'utilità di un altro (dominante), in una relazione di asservimento del primo al secondo che si configura come una 'qualitas fundi', (…) pattuire un obbligo personale, configurabile quando il diritto attribuito sia previsto per un vantaggio della persona o delle persone indicate nel relativo atto costitutivo, senza alcuna funzione di utilità fondiaria (Cass. 3091/14). VA
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Inserito in data 12/10/2014 TAR PUGLIA - LECCE, SEZ. I, 9 ottobre 2014, n. 2452 Ordinanza per lo smaltimento rifiuti: limiti e confini dell’imputabilità Il Collegio pugliese accoglie il ricorso di un cittadino, proprietario di un terreno in cui si era verificato lo sversamento di rifiuti, avverso l’ordinanza con cui l’Amministrazione comunale lo intimava di provvedere al ripristino dei luoghi. I giudici d’appello riconoscono la lacunosità, sia sul piano motivazionale che probatorio, della pronuncia resa in primo grado. Il Tribunale locale, infatti, ha previsto, data la mancata possibilità di identificare il vero responsabile dell’accaduto, il duplice accertamento della titolarità dell’area e dell’imputabilità della violazione per dolo o colpa al proprietario o a colui che risulta titolare di diritti reali o personali di godimento sulla stessa. Una simile valutazione, però, tradisce una lettura non del tutto chiara dell’articolo 192 del D. Lgs. 152/06 (T.U. in materia ambientale), oltrechè dell’interpretazione datane dalla giurisprudenza. Gran parte di essa, infatti, ha chiarito che la responsabilità per colpa, di cui all’art. 192 del d.lgs. n. 152/2006, si ravvisa tutte le volte in cui vi sia un comportamento negligente (da verificare caso per caso) da parte del soggetto ritenuto responsabile, che può anche consistere in un fatto omissivo (T.A.R. Toscana Firenze, sez. II, 23 dicembre 2010, n. 6862; T.A.R. Campania Napoli, sez. V, 08 giugno 2010, n. 13059). L’obbligo di diligenza, inoltre, deve essere valutato secondo criteri di ragionevole esigibilità, con la conseguenza che va ascritta la responsabilità per colpa al proprietario non autore dello sversamento quando sarebbe stato possibile evitare il fatto solo sopportando un sacrificio obiettivamente proporzionato. Inoltre, l’idoneità delle cautele adottate dal soggetto proprietario o utilizzatore del bene va valutata in concreto, tenendosi conto di una serie di circostanze obiettive. Tanto non è accaduto nella vicenda in esame in cui, come evidenzia il Collegio, non sono stati valutati con la dovuta proporzione e ragionevolezza gli adempimenti istruttori e formali (quali, rispettivamente, l’esibizione delle denunce svolte dall’odierno appellante ovvero la recinzione dei luoghi, dallo stesso curata) compiuti dal ricorrente, in cui favore, pertanto, si muove la decisione di secondo grado. CC |
Inserito in data 10/10/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 9 ottobre 2014, n. 5019 Sul collocamento in fuori ruolo dei docenti universitari E' oggetto di controversia la durata del fuori ruolo (cioè, il periodo di cui potevano godere i docenti, che avevano raggiunto l’età pensionabile, per prolungare la propria attività lavorativa), di un docente universitario ordinario, nato il 2 maggio 1936, a termini della norma transitoria contenuta nell’art. 2, comma 434, della legge finanziaria 24 dicembre 2007, n. 244. La predetta disposizione, concernente la riduzione progressiva della durata del collocamento fuori ruolo dei professori universitari e abolizione del fuori ruolo dal 2010, recita infatti che “A decorrere dal 1° gennaio 2008, il periodo di fuori ruolo dei professori universitari precedente la quiescenza è ridotto a due anni accademici e coloro che alla medesima data sono in servizio come professori nel terzo anno accademico fuori ruolo sono posti in quiescenza al termine dell’anno accademico. A decorrere dal 1° gennaio 2009, il periodo di fuori ruolo dei professori universitari precedente la quiescenza è ridotto a un anno accademico e coloro che alla medesima data sono in servizio come professori nel secondo anno accademico fuori ruolo sono posti in quiescenza al termine dell’anno accademico. A decorrere dal 1° gennaio 2010, il periodo di fuori ruolo dei professori universitari precedente la quiescenza è definitivamente abolito e coloro che alla medesima data sono in servizio come professori nel primo anno accademico fuori ruolo sono posti in quiescenza al termine dell’anno accademico”. Il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sede di Milano, ha accolto il ricorso proposto dal docente universitario riguardante il proprio collocamento in fuori ruolo dall’1 novembre 2008 al 31 ottobre 2000, con conseguente accertamento del diritto dell’interessato a rimanere in fuori ruolo sino al 31 ottobre 2010. Viene affermato che, il professore, collocato in fuori ruolo a partire dal 1 novembre 2008, doveva vedersi assegnato “due anni accademici in tale posizione, poiché la norma sarebbe chiara nell’affermare che “a decorrere” dal 1 gennaio 2008 il periodo di fuori ruolo è ridotto a due anni e non a uno come invece disposto”. La stessa espressione a decorrere di cui si è avvalso il legislatore chiarirebbe, infatti, che l’efficacia della norma deve ricondursi “al momento della disposizione del collocamento fuori ruolo” e non “all’anno accademico di fuori ruolo di riferimento”. Con l’appello in esame, le amministrazioni ricorrenti (Università e Miur) hanno denunciato la sentenza con unica ed articolata censura per erroneità, falsa interpretazione ed applicazione della citata norma transitoria, facendo rilevare come la disciplina in questione, necessariamente da rapportarsi alla nozione del c.d. fuori ruolo, assumerebbe invece, a termine iniziale di decorrenza dei nuovi periodi di fuori ruolo, l’inizio dell’anno accademico. Invero, a sostegno di ciò, “è ben vero che la norma individua la data dell’1 gennaio quale termine di decorrenza del regime transitorio, ma sarebbe altrettanto pacifico che la medesima norma, ad esempio, preveda che i docenti, i quali già si trovano in fuori ruolo, verranno posti in quiescenza al termine dell'anno accademico”. Successivamente, il docente appellato, ha resistito ed ha, in particolare, opposto il sopravvenuto difetto d’interesse della parte appellante ad ulteriormente coltivare l’odierno gravame. Ai fini della decisione in esame, i Giudici di Palazzo Spada, richiamano una rilevante giurisprudenza in materia (Sez. VI, 6 settembre 2010, n. 6476), disattendendo anzitutto l’istanza dell’appellato volta a suffragare una pronuncia di sopravvenuto difetto di interesse alla decisione dell’odierno appello. Invero, alla luce dell’art. 35, lettera c) del Codice del processo amministrativo, così come rilevato dai Giudici di Palazzo Spada, “la dichiarazione di improcedibilità presuppone l'accertamento del sopravvenuto difetto di interesse alla pronuncia nel merito di una domanda e, conseguentemente, dell’inutilità della decisione stessa; d’altronde, l’attuale appellato non ha rinunciato alla vittoriosa impugnativa di primo grado e agli effetti della relativa sentenza, tanto è vero che ha formulato richieste conclusionali subordinate”. Quanto al merito, l’appello è da respingere perché infondato, in relazione alla circostanza che la rettorale impugnata in primo grado, adottata nel 2008, ha limitato il collocamento fuori ruolo del ricorrente originario ad un solo anno accademico (dall’1.11.2008 al 31.10.2009), quando la disposizione in argomento prevede invece che “A decorrere dal 1° gennaio 2008, il periodo di fuori ruolo dei professori universitari precedente la quiescenza è ridotto a due anni accademici…”. GMC |
Inserito in data 10/10/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 9 ottobre 2014, n. 5031 SCIA per l’ampliamento con cambio di destinazione d’uso Il Consiglio di Stato, con la sentenza de qua, torna ad occuparsi della SCIA (Segnalazione Certificata di Inizio Attività) per l’ampliamento con cambio di destinazione d’uso. Com’è noto, essa rappresenta una dichiarazione che permette alle imprese di iniziare, modificare ovvero cessare un’attività produttiva, senza attendere i tempi e l’esecuzione di controlli, nonché verifiche, preliminari da parte degli enti a ciò designati. Nel caso di specie, la società ricorrente presentò, al Comune resistente, una SCIA, inibita con l’ordinanza n. 69 del 2011 (non opposta), per l’ampliamento con cambio di destinazione d’uso di un manufatto da “Coltivazioni in serre fisse” ad “Abitativo”, in applicazione del decreto legge 13 maggio 2011, n. 70. Successivamente alla conversione del citato decreto in legge, che ha previsto talune norme transitorie, tale SCIA è stata rinnovata dalla citata società, ma nuovamente rigettata dall’amministrazione Comunale per “la valutazione di inammissibilità dell’intervento proposto in quanto contrastante con le previsioni del RUE…”. E ciò, alla luce delle istruzioni fornite da una sopraggiunta delibera di Giunta regionale (n. 1281/2011 del 12 settembre 2011), secondo la quale sono già presenti, nella legislazione emiliano-romagnole, “misure di incentivazione corrispondenti a quelle previste dalla suindicata disciplina statale, non trovassero applicazione in ambito regionale le disposizioni transitorie di cui all’art. 5, comma 11 e 14, del decreto-legge n. 70/2011”. Con la sentenza n. 518 del 24 luglio 2012, il Tribunale amministrativo regionale per l’Emilia Romagna accoglieva il ricorso proposto dalla società interessata. L’amministrazione comunale, ha ripreso il procedimento e, all’esito, ha disposto il ripristino delle opere trasformate da serre in appartamenti abusivi. I Giudici di primo grado, puntualizzarono che “la realizzazione di unità abitative in luogo della serra assentita, andava in totale difformità dal titolo edilizio rilasciato e si poneva quale costruzione nuova in contrasto con le previsioni di PRG, dovendo avvenire l’auspicata sanzione pecuniaria alternativa ad iniziativa di parte.” Tuttavia, la società appellante ha criticato la sentenza di primo grado, denunziando la violazione dell’asserito pregresso giudicato; l’omessa rimozione della SCIA già perfezionatasi e definitivamente consolidatasi; la natura di ristrutturazione edilizia rivestita dall’intervento di trasformazione ritenuto abusivo e l’assentibilità in base al decreto-legge n. 70 del 2011; la genericità e l’indeterminatezza dell’ordine di demolizione, nonché l’ingiusta condanna alle spese di lite. Secondo i Giudici di Palazzo Spada, l’appello è infondato. Si rileva, invero, che “è appunto pacifico in atti che si discute di trasformazione abusiva di una preesistenza adibita a serre in unità abitative tramite SCIA, a parte la mancata impugnazione dell’inibizione comminata dal comune resistente sulla prima e le vicende processuali che ruotano intorno alla seconda. Né può essere richiesta, in virtù del principio di sinteticità, una motivazione che, in modo meccanico e pedissequo, assuma partitamente a riferimento ogni singolo profilo argomentativo delle parti” ed ancora “il cambio d’uso non riguarda solo il manufatto, ma investe anche il mutamento della destinazione d’uso della zona di PRG, che comporta variante urbanistica; in quanto la ristrutturazione può attenere al manufatto esistente destinato a serra e, quindi, i lavori devono consistere in interventi compatibili e complementari, mentre essa è estranea alla realizzazione di unità residenziali, che costituiscono opere nuove; posto che, in assenza di normativa regionale attuativa del decreto legge n. 70 del 2011, occorre applicare l’art. 14 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), che consente deroga esclusivamente per edifici ed impianti pubblici o d’interesse pubblico”. Dunque, alla luce di quanto esposto, non possono essere messi in discussione, né la pacifica soccombenza intervenuta, né i poteri discrezionali del giudice in materia di liquidazione delle spese processuali. L’appello è stato, dunque, conclusivamente respinto e la sentenza confermata, in virtù della totale difformità dei lavori eseguiti di trasformazione della serra in unità abitative. GMC |
Inserito in data 09/10/2014 CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 6 ottobre 2014, n. 229 Sulla conformità della norma delegata rispetto alla norma delegante Con la sentenza in epigrafe, il Giudice delle Leggi “dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 146, primo e secondo comma, della legge 16 febbraio 1913, n. 89 (Ordinamento del notariato e degli archivi notarili), come sostituito dall’art. 29 del decreto legislativo 1° agosto 2006, n. 249 (Norme in materia di procedimento disciplinare a carico dei notai, in attuazione dell’articolo 7, comma 1, lettera e, della legge 28 novembre 2005, n. 246), sollevate, in riferimento all’art. 76 della Costituzione”. In particolare, devono ritenersi coerenti con gli indirizzi della delega e compatibili con la ratio della stessa le scelte con cui il legislatore delegato ha portato da quattro a cinque anni il termine di prescrizione dell’illecito disciplinare del notaio ed ha introdotto l’istituto dell’interruzione del corso della prescrizione. Orbene, “secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, il controllo della conformità della norma delegata alla norma delegante richiede un confronto tra gli esiti di due processi ermeneutici paralleli: l’uno relativo alla disposizione che determina l’oggetto, i princìpi e i criteri direttivi della delega; l’altro concernente la norma delegata, da interpretare nel significato compatibile con questi ultimi (ex plurimis, sentenze n. 230 del 2010, n. 112 e n. 98 del 2008, n. 140 del 2007). Relativamente al primo di essi, il contenuto della delega deve essere identificato tenendo conto del complessivo contesto normativo nel quale si inseriscono la legge delega ed i relativi princìpi e criteri direttivi, nonché delle finalità che lo ispirano, verificando, nel silenzio del legislatore delegante sullo specifico tema, che le scelte del legislatore delegato non siano in contrasto con gli indirizzi generali della medesima (ex plurimis, sentenze n. 341 del 2007, n. 426 e n. 285 del 2006). I principi posti dal legislatore delegante costituiscono, poi, non soltanto base e limite delle norme delegate, ma anche strumenti per l’interpretazione della loro portata; e tali disposizioni devono essere lette, finché sia possibile, nel significato compatibile con tali principi, i quali a loro volta vanno interpretati alla luce della ratio della legge delega, per verificare se la norma delegata sia con questa coerente (ex plurimis, sentenze n. 237 del 2013, n. 119 del 2013, n. 272 del 2012 e n. 98 del 2008). Infatti, l’art. 76 Cost. non osta all’emanazione di norme che rappresentino un coerente sviluppo e, nella specie, come in precedenza posto in rilievo, un completamento delle scelte espresse dal legislatore delegante, poiché deve escludersi che la funzione del legislatore delegato sia limitata ad una mera scansione linguistica delle previsioni stabilite dal primo; dunque, nell’attuazione della delega è possibile valutare le situazioni giuridiche da regolamentare ed effettuare le conseguenti scelte, nella fisiologica attività di riempimento che lega i due livelli normativi (sentenze n. 98 del 2008 e n. 163 del 2000)”. EMF |
Inserito in data 09/10/2014 CORTE DI CASSAZIONE, PRIMA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 7 ottobre 2014, n. 21107 Sul trattamento di dati riguardanti la vita sessuale del dipendente pubblico Con la pronuncia in esame, i Giudici di Piazza Cavour si esprimono in materia di trattamento di dati personali da parte dei soggetti pubblici, che disciplinato dall'art. 18 del d.lgs. n. 196 del 2003 (c.d. codice in materia di protezione dei dati personali) stabilisce, “al comma secondo, il principio generale secondo cui tale trattamento è consentito soltanto per lo svolgimento delle funzioni istituzionali dell'ente, precisando al comma terzo che nel trattare i dati il soggetto pubblico deve rispettare i presupposti e i limiti stabiliti dal medesimo codice, anche in relazione alla diversa natura dei dati, nonché dalla legge e dai regolamenti. Con particolare riferimento ai dati sensibili, comprendenti tra l'altro quelli idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale dell'interessato (art. 4, comma primo, lett. e), i predetti limiti sono stabiliti dall'art. 20, il quale consente il trattamento solo se autorizzato da un'espressa disposizione di legge, in cui devono essere specificati i tipi di dati che possono essere trattati ed i tipi di operazioni eseguibili, nonché le finalità di rilevante interesse pubblico perseguite. Tra le predette finalità l'art. 112, comma primo, annovera specificamente quelle inerenti all'instaurazione ed alla gestione di rapporti di lavoro di qualunque tipo da parte di soggetti pubblici, in relazione alle quali il comma secondo della medesima disposizione elenca, a titolo meramente esemplificativo, i tipi di trattamenti consentiti, includendovi, tra l'altro, lo svolgimento di attività dirette all'accertamento della responsabilità civile, disciplinare e contabile e l'esame dei ricorsi amministrativi, in conformità alle norme che regolano le rispettive materie (lett. g). Poiché quest'ultima disposizione si limita ad indicare genericamente le finalità del trattamento, senza specificare i dati che possono essere trattati e le operazioni che possono essere eseguite, trova applicazione il comma secondo dell'art. 20, il quale stabilisce che in siffatti casi il trattamento è consentito solo in riferimento ai tipi di dati e di operazioni identificati e resi pubblici a cura dei soggetti che ne effettuano il trattamento, in relazione alle specifiche finalità perseguite nei singoli casi e nel rispetto dei principi di cui all'art. 22, con atto di natura regolamentare adottato in conformità al parere espresso dal Garante ai sensi dell'art. 154, comma primo, lett. g), anche su schemi tipo. La predetta disciplina riproduce fedelmente quella dettata dall'abrogata legge 31 dicembre 1996, n. 675, come modificata dal d.lgs. 11 maggio 1999, n. 135, in relazione alla quale questa Corte ha affermato il principio secondo cui il trattamento dei dati sensibili, la cui legittimità è ancorata in linea generale alla contestuale presenza del consenso scritto dell'interessato ed all'autorizzazione del Garante per la protezione dei dati personali, è consentito, da parte dei soggetti pubblici, anche in difetto del predetto consenso e della predetta autorizzazione, a condizione che sussistano a) una rilevante finalità d'interesse pubblico, b) un'espressa disposizione di legge autorizzatoria e c) una specificazione legislativa dei tipi di dati trattabili e delle operazioni eseguibili. Con particolare riguardo al trattamento di dati effettuato nell'ambito di un rapporto di lavoro per l'accertamento della responsabilità disciplinare, si è quindi precisato che l'espressa inclusione di tale finalità tra quelle d'interesse pubblico non è di per sé sufficiente ad escludere la necessità del consenso e dell'autorizzazione, occorrendo a tal fine anche l'indicazione dei tipi di dati sensibili che possono essere trattati e delle operazioni eseguibili sugli stessi, da parte dello stesso soggetto pubblico o, su sua richiesta, della Autorità garante. Si è infatti osservato che la particolare natura dei dati sensibili, e segnatamente di quelli riguardanti la salute e la vita sessuale delle persone (che appartengono alla categoria dei dati c.d. supersensibili, i quali investono la parte più intima della persona, nella sua corporeità e nelle sue convinzioni psicologiche più riservate), esige, in ragione dei valori costituzionali posti a loro presidio (artt. 2 e 3 Cost.), una protezione rafforzata, la quale trova espressione anche nelle garanzie previste per il trattamento effettuato dai soggetti pubblici, che può quindi aver luogo soltanto nel rispetto del modulo procedimentale previsto dalla legge (cfr. Cass., Sez. I, 8 luglio 2005, n. 14390)”. In particolare, gli Ermellini ritengono che l’acquisizione d'informazioni attinenti alla vita sessuale del dipendente configuri oggettivamente un trattamento di dati sensibili, a prescindere dalle motivazioni o dalle finalità della stessa, “che vengono in considerazione esclusivamente per l'individuazione delle modalità e dei limiti del trattamento”. Deve, quindi, considerarsi illegittima l’acquisizione di documenti informatici posta in essere da una P.A. allorquando il regolamento in relazione alla gestione del rapporto di lavoro, cui è indiscutibilmente preordinata l'adozione di provvedimenti disciplinari, preveda che “il trattamento di dati relativi alla vita sessuale è consentito soltanto in caso di rettificazione di attribuzione di sesso”. Peraltro, la Suprema Corte puntualizza “che la tutela apprestata dal d.lgs. n. 196 del 2003 si estende anche ai dati già pubblici o pubblicati, dal momento che colui che compie operazioni di trattamento di tali informazioni può ricavare dal loro accostamento, comparazione, esame, analisi, congiunzione, rapporto od incrocio ulteriori informazioni, e quindi un «valore aggiunto informativo», non estraibile dai dati isolatamente considerati, potenzialmente lesivo della dignità dell'interessato, valore sommo (tutelato dall'art. 3, primo comma, prima parte, e dell'art. 2 Cost.) a cui si ispira la legislazione in materia di trattamento dei dati personali (cfr. Cass., Sez. I, 8 agosto 2013, n. 18981; 25 giugno 2004, n. 11864)”. EMF
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Inserito in data 08/10/2014 CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 6 ottobre 2014, n. 228 I prelievi bancari del lavoratore autonomo non sono destinati ad un investimento Con la pronuncia in esame, la Corte costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità, in riferimento agli artt. 3 e 53 Cost. dell’art. 32, c. 1, n. 2, secondo periodo, del d.p.r. n. 600/73. “La norma dispone che i dati ed elementi trasmessi su richiesta […], rilevati direttamente […] ovvero nei controlli relativi alle imposte sulla produzione o consumo […] sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti previsti dagli artt. 38, 39, 40 e 41 del medesimo d.P.R. n. 600 del 1973, salvo che il contribuente dimostri che ne ha tenuto conto nella determinazione dei redditi o che essi non hanno rilevanza a tal fine. Prevede, poi, che i prelevamenti o gli importi riscossi nell’ambito delle predette operazioni sono posti come ricavi o compensi a base delle rettifiche e degli accertamenti (e sono quindi assoggettabili a tassazione), se il contribuente non ne indica i soggetti beneficiari e sempreché non risultino dalle scritture contabili”. “La presunzione disciplinata da tale ultima parte della norma nella sua originaria formulazione (limitata ai «ricavi») interessava unicamente gli imprenditori, l’art. 1 della legge n. 311 del 2004 (inserendo anche i «compensi») ne ha poi esteso l’ambito operativo ai lavoratori autonomi”. La presunzione secondo cui a ciascun prelevamento dal conto bancario corrisponde un costo a sua volta produttivo di un ricavo è ragionevole per l’imprenditore, la cui attività si caratterizza per la necessità di continui investimenti in beni e servizi in vista di futuri ricavi. Detta presunzione è stata irragionevolmente estesa dalla L. 311/04 ai lavoratori autonomi, la cui attività si connota per la prevalenza del lavoro proprio e per la marginalità dell’apparato organizzativo. Del resto, l’esigenza di combattere l’evasione e l’elusione fiscale dei lavoratori autonomi ha trovato già risposta nella recente normativa in tema di tracciabilità dei movimenti finanziari. “Pertanto nel caso di specie la presunzione è lesiva del principio di ragionevolezza nonché della capacità contributiva, essendo arbitrario ipotizzare che i prelievi ingiustificati da conti correnti bancari effettuati da un lavoratore autonomo siano destinati ad un investimento nell’ambito della propria attività professionale e che questo a sua volta sia produttivo di un reddito”. TM |
Inserito in data 08/10/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 6 ottobre 2014, n. 4973 Non è affetta da errore di fatto, la decisione basata su un documento inutilizzabile Il Consiglio di Stato ci ricorda che il giudizio di revocazione non è un ulteriore grado di giudizio di merito, ma un mezzo di impugnazione straordinario ammissibile solo al ricorrere dei casi di revocazione individuati dalla legge, tra i quali spicca l’errore di fatto. “L’errore di fatto revocatorio si sostanzia, in particolare, in una svista o abbaglio dei sensi, idonei a provocare l’errata percezione del contenuto degli atti del giudizio (ritualmente acquisiti agli atti di causa), determinando un contrasto tra due diverse proiezioni dello stesso oggetto, l’una emergente dalla sentenza e l’altra risultante dagli atti e documenti di causa: esso, pertanto, non può (e non deve) confondersi con quello che coinvolge l’attività valutativa del giudice, costituendo il peculiare mezzo previsto dal legislatore per eliminare l’ostacolo materiale che si frappone tra la realtà del processo e la percezione che di essa ha avuto il giudicante, proprio a causa della svista o abbaglio dei sensi”. Alla luce della pacifica ricostruzione dell’errore di fatto revocatorio come errore percettivo, i Giudici di Palazzo Spada concludono nel senso che è inammissibile il ricorso per revocazione in cui il ricorrente lamenta che la decisione del giudice di secondo grado si sia fondata su un documento prodotto tardivamente e, perciò, inutilizzabile: infatti, in questo modo, il ricorrente censura un errore di valutazione con riguardo all’utilizzabilità di un documento. TM |
Inserito in data 07/10/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 6 ottobre 2014, n. 4976 Il vincolo a verde privato ha carattere conformativo e non è indennizzabile I vincoli urbanistici non indennizzabili sono quelli che riguardano intere categorie di beni, quelli di tipo conformativo e i vincoli paesistici. Invece, i vincoli urbanistici soggetti alla scadenza quinquennale, che devono essere invece indennizzati sono: a) quelli preordinati all’espropriazione o aventi carattere sostanzialmente espropriativo in quanto implicanti uno svuotamento incisivo della proprietà; b) quelli che superano la durata non irragionevole e non arbitraria ove non si compia l’esproprio o non si avvii la procedura attuativa preordinata all’esproprio con l’approvazione dei piani esecutivi; c) quelli che superano quantitativamente la normale tollerabilità secondo la concezione della proprietà regolata dalla legge nell’ambito dell’art. 42 Cost. In altre parole, i vincoli sostanzialmente espropriativi e dunque indennizzabili sono quelli che svuotano il contenuto del diritto di proprietà, incidendo sul godimento del bene, in modo tale da renderlo inutilizzabile rispetto alla sua destinazione naturale ovvero diminuendone il suo valore di scambio. Il vincolo a verde privato deve considerarsi conformativo poiché esso è prescritto in funzione della localizzazione di un’opera pubblica la cui realizzazione non è compatibile con la proprietà privata. Esso rientra tra quelle prescrizioni che regolano la proprietà privata alla realizzazione di obiettivi generali di pianificazione del territorio ai quali non può attribuirsi una natura ablatoria e/o sostanzialmente espropriativa. CDC |
Inserito in data 07/10/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 6 ottobre 2014, n. 4987 Giudicato annullatorio, riesercizio del potere e rivalutazione di fatti già considerati A seguito dell’adozione di una sentenza di annullamento di un provvedimento amministrativo, nei casi di violazione di un interesse legittimo pretensivo, la potestà di provvedere viene restituita nuovamente alla PA perché essa si ridetermini, in base ai noti principi di continuità dell’azione amministrativa e di tendenziale “inesauribilità” del potere. Nulla osterebbe, in teoria, ad una generale libertà della PA di porre a sostegno del proprio convincimento elementi nuovi, non oggetto della propria antecedente delibazione vulnerata dal giudicato, così riconfermando il provvedimento annullato. Tuttavia, se la PA ogni volta ponesse a sostegno del nuovo provvedimento fatti nuovi (non precedentemente esaminati) verrebbe vanificata la portata accertativa e soprattutto conformativa di ogni decisione. Ogni controversia sarebbe così destinata a non concludersi mai con un definitivo accertamento sulla spettanza o meno del bene della vita. Per questo, il bilanciamento fra le opposte esigenze rappresentate dalla garanzia della inesauribilità del potere e dalla portata cogente del giudicato è stato realizzato dalla giurisprudenza imponendo alla PA - dopo un giudicato di annullamento da cui derivi il dovere o la facoltà di provvedere di nuovo - di esaminare l'affare nella sua interezza, sollevando, una volta per tutte, tutte le questioni che ritenga rilevanti, dopo di ciò non potendo tornare a decidere sfavorevolmente neppure in relazione a profili non ancora esaminati. Affinché non si voglia ridurre a pura fictio la restituzione alla PA del potere di riesercitare le proprie valutazioni, è necessario ribadire che il vincolo discendente dal giudicato non può spingersi sino ad impedire la rivalutazione e l’approfondimento di elementi che, seppur già tenuti presenti, non erano stati adeguatamente posti in luce o valorizzati nella loro interezza. Infatti, salvi i casi di giudicato puntuale, che precluda la valutazione di un elemento (in quanto espressamente ritenuto neutro o inconferente), nei casi di difetto di motivazione ordinario impedire una simile opera rivalutativa comporterebbe la vanificazione dell’effetto “restitutorio”. Sul punto, anche la pronuncia dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 2 del 2013 ha ritenuto che “non può escludersi in via generale la rivalutazione dei fatti sottoposti all’esame del giudice”. CDC |
Inserito in data 06/10/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 6 ottobre 2014, n. 4986 Favor partecipationis ed incertezza del contratto di avvalimento Il Supremo Collegio ha disatteso il ricorso avverso il provvedimento di aggiudicazione definitiva del servizio di affidamento delle operazioni invernali di sgombro neve. Nel caso di specie, infatti, si verterebbe in una situazione di carenza di interesse essendo stata la società appellante legittimamente esclusa dalla procedura di gara e non avendo la stessa addotto alcuna censura sulla legittima partecipazione degli altri concorrenti. L’esclusione dalla gara era avvenuta a causa dell’indeterminatezza del contratto di avvalimento. L’istituto dell’avvalimento nasce al fine di consentire una maggiore partecipazione alle gare di appalto consentendo, anche a soggetti che non posseggano personalmente i requisiti tecnici e/o finanziari, di prendervi parte “avvalendosi” delle risorse messe a disposizione da parte di un’altra impresa (art. 49 del TU contratti pubblici). Secondo l’opinione del Consiglio di Stato, però il favor partecipationis non può colmare eventuali lacune del contratto di avvalimento. Invero la ratio dell'istituto, diretta a favorire la più ampia partecipazione delle imprese alla gare, non potrebbe essere spinta sino a dequotare i principi generali del nostro ordinamento. Invero l’art. 49 sopra citato prevede, attraverso una dettagliata normativa, degli oneri sia in capo all’impresa ausiliaria che all’impresa ausiliata, volti a consentire l’effettiva verifica del possesso dei requisiti morali, tecnici ed economici delle concorrenti. Pertanto “la necessità della precisa indicazione delle attività assegnate a ciascun componente di un raggruppamento temporaneo di imprese sta proprio nell’esigenza di verificare se tale ripartizione è coerente con le qualificazioni di ciascuna e con il possesso dei requisiti per eseguire quella parte di attività”. Il Supremo Consesso evidenzia inoltre come l’esigenza di una puntuale individuazione dell’oggetto del contratto di avvalimento discenda anche dalle norme generali in materia di contratto. L’esclusione, dunque, sarebbe stata legittima anche ove fosse mancata una legge speciale mancando una disciplina che consenta di integrare in qualche modo le omissioni che viziano tali atti. Tali principi, secondo la giurisprudenza di merito troverebbero applicazione anche in caso di avvalimento interno (v. tar. Napoli sez. II 28/06/2013 n.3349): “la normativa comunitaria e statale di riferimento non reca alcuna distinzione in tal senso -e non consente alcuna deroga al riguardo-, sia perché le esigenze di tutela della stazione appaltante e della par condicio dei partecipanti alla gara permangono appieno anche in tale riferita specifica fattispecie”. VA |
Inserito in data 06/10/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 3 ottobre 2014, n. 4967 Il silenzio-assenso generalizzato ex art. 20 d.lgs. 241/90 e norma comunitaria Il Consiglio di Stato ha accolto il ricorso presentato dall’Agenzia delle dogane avverso la sentenza di primo grado per mezzo della quale era stato concesso il certificato A.E.O.F. (Authorized economic operator full), disciplinato dal regolamento CE n. 1875/2006 del 18 dicembre 2006, ad una società operante nel commercio degli alcolici. La concessione era avvenuta in applicazione dell’istituto del silenzio-assenso generalizzato, disciplinato dall’art. 20 del d.lgs. 241/90, essendo decorso il termine prescritto dalla normativa comunitaria per il relativo procedimento. Il Supremo Consesso, in accoglimento del ricorso presentato innanzi a sé, tuttavia, ritiene che la norma in questione non possa trovare applicazione nel caso di specie. Invero, “proprio la previsione del rilascio di un documento formale, quale il certificato, "...in conformità del modello di cui all'allegato 1 quinquies" (…), del suo rigetto mediante decisione motivata (…), di obblighi informativi nei confronti degli Stati membri sia in caso di rilascio che in caso di diniego (…) costituiscono indici testuali inequivoci e insuperabili in ordine all'esistenza dell'obbligo di adozione di un provvedimento formale” e “la fattispecie tacita abilitativa o autorizzativa di cui all'art. 20 della legge 7 agosto 1990, n. 241 (…) non è applicabile, tra l'altro, "...ai casi in cui la normativa comunitaria impone l'adozione di provvedimenti amministrativi formali...”. A sostegno della propria decisione, inoltre, rileva la natura non perentoria del termine fissato dalla normativa comunitaria per il rilascio del certificato (mancando un’espressa qualificazione in tal senso). La materia controversa, poi, rientrerebbe nelle ipotesi eccezionali previste dallo stesso art. 20 comma 4 ed attiene alla pubblica sicurezza e ambiente (materie per le quali risulta esclusa la formazione del silenzio). Infine, a parere del Consiglio di Stato, l’istituto del silenzio assenso non potrebbe trovare applicazione ove il provvedimento sia disciplinato interamente dal diritto comunitario (art. 14-quater e ss CE 1875/2006). VA |
Inserito in data 05/10/2014 TAR EMILIA ROMAGNA - PARMA, SEZ. I, 30 settembre 2014, n. 364 Modelli di accettazione candidatura a cariche elettive e autenticazione I Giudici emiliani respingono le doglianze mosse avverso la determinazione del Presidente dell'Ufficio Elettorale Provinciale della Provincia di Piacenza e del verbale relativo alle operazioni d'esame ed approvazione delle candidature per l'elezione del Presidente e del Consiglio Provinciale, tese all’annullamento delle stesse. Più nel dettaglio, assumendo un atteggiamento restrittivo e richiamando parametri normativi e giurisprudenziali in tema, i Giudici ricordano come “le firme sui modelli di accettazione della candidatura a cariche elettive e di presentazione delle liste, devono essere autenticate nel rispetto, previsto a pena di nullità, di tutte le formalità stabilite dall'art. 21, T.U. n. 445 del 2000, sicché la mancata indicazione di tali modalità rende invalida la sottoscrizione”. Il Collegio precisa, poi, che “sono elementi essenziali costitutivi della procedura di autenticazione … l'indicazione del luogo … della sottoscrizione” (Cfr. Cons. stato, Sez. V, 22 gennaio 2014, n. 3017. Negli stessi sensi, Cons. Stato, Sez. V, 1 marzo 2011, n. 1272; TAR Molise, 24 giugno 2013, n. 432). Si supera, in tal guisa, il dubbio riguardo alla possibilità che l’omessa indicazione del luogo di autenticazione possa procurare o meno irregolarità delle suddette operazioni elettorali. Si tratta, come è chiaro, di formalità che il Collegio ritiene essenziali e doverose ad substantiam, né surrogabili con elementi ulteriori e indiretti, estranei allo schema legale quali l’apposizione di un determinato tipo di timbro – come paventato nel caso in esame. Ne consegue la reiezione del ricorso presentato dal candidato, la cui vittoria elettorale – documentata in verbali evidentemente ritenuti irregolari viene, così, messa in discussione. CC |
Inserito in data 05/10/2014 TAR TOSCANA - FIRENZE, SEZ. III, 3 ottobre 2014, n. 1515 Decadenza dal permesso di costruire: occorre inquadrare l’inizio dei lavori Il Collegio toscano respinge le censure, mosse da parte ricorrente, avverso la dichiarazione di decadenza dal permesso di costruire, originariamente concesso per la realizzazione di un fabbricato. I Giudici, avallando la posizione dell’Amministrazione comunale e richiamando l’evoluzione giurisprudenziale costante in merito, chiariscono che per aversi, “inizio dei lavori”, tale da escludere la pronuncia di decadenza nel termine annuale dal rilascio del permesso di costruire, occorre aver dato avvio ad opere che denotino un <serio intento costruttivo> (Cfr. TAR Torino, sez. 1^, 3 gennaio 2014, n. 2). Di conseguenza, appaiono inidonei a configurare un effettivo “inizio dei lavori” il mero spianamento del terreno o meri scavi di sondaggio o anche la “mera picchettatura” del terreno interessato dalla costruzione ed il suo livellamento, come realizzati dall’odierna istante. Del pari, ricorda il Collegio, le lamentate cause di forza maggiore, quali in questo caso le numerose asperità del terreno o le difficili condizioni metereologiche, non potrebbero mai fondare una sospensione legale del termine di avvio e conclusione dei lavori. Semmai, avrebbero potuto giustificare la tempestiva richiesta di una proroga dei lavori che, nella vicenda concreta, non è stata compiuta. Alla luce di tali valutazioni, pertanto, è inevitabilmente respinta la doglianza di parte ricorrente. CC |
Inserito in data 03/10/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 2 ottobre 2014, n. 4930 Sul diritto di percepire le differenze retributive Con la sentenza in epigrafe, il Consiglio di Stato affronta la questione concernente il diritto di percepire le differenze retributive per prestazioni di lavoro effettuate e rientranti nello schema del contratto di lavoro subordinato. Nel caso in questione, l’interessato ha chiesto la riforma della sentenza nella parte in cui non ha riconosciuto le differenze stipendiali spettanti gli per l’attività effettivamente svolta, sulla base di un calcolo analitico e dettagliato allegato al ricorso, oltre ad oneri previdenziali, interessi e rivalutazione, “nell’assunto che essa sia lesiva della posizione dell’appellante nelle parti in cui non è stata riconosciuta la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, non sono state riconosciute le differenze retributive come determinate nel ricorso primo grado per l’effettiva prestazione lavorativa svolta alle dipendenze dell’Ente, ma solo la I.I.S. per un periodo limitato di tempo”. Ed invero, il ricorrente ha chiesto l’accertamento del diritto a percepire differenze retributive per prestazioni di lavoro “asseritamente instauratosi con il Comune di Manfredonia dall’1 gennaio 1993 al 29 novembre 1994, sulla base di atti deliberativi con i quali gli era stato affidato l’incarico di “pulizia degli Uffici Giudiziari – Pretura e Conciliazione di Manfredonia”, nonché la condanna di detto Ente al pagamento dei relativi emolumenti, degli oneri previdenziali e dell’indennità di fine rapporto, oltre ad interessi corrispettivi e rivalutazione monetaria.” Anzitutto, il T.A.R., ha, in primo luogo, “ritenuto prescritti tutti i crediti eventualmente maturati in epoca antecedente al 27 aprile 1994; poi, con riguardo ai crediti maturati dal 28 aprile 1994 al 29 novembre 1994, ha ritenuto non provata la natura subordinata del rapporto di lavoro fino alla data del 31 agosto 1994, con infondatezza, relativamente a tale periodo, delle pretese economiche azionate dal ricorrente, mentre, per il periodo dall’1 settembre 1994 al 29 novembre 1994, ha riconosciuto fondata solo la pretesa al riconoscimento dell’indennità integrativa speciale, oltre ad interessi e rivalutazione fino al 31 dicembre 1994 e soltanto interessi legali per il periodo successivo a questo e fino al definitivo soddisfo”. Il Consiglio di Stato, puntualizza che con il ricorso di primo grado, l’interessato ha sostanzialmente riproposto la medesima domanda formulata al giudice del lavoro, chiedendo l’accertamento del diritto a percepire differenze retributive per prestazioni di lavoro asseritamente instauratosi con il Comune dall’1 gennaio 1993 al 29 novembre 1994, nonché la condanna del Comune al pagamento delle relative somme, degli oneri previdenziali e delle indennità di fine rapporto, oltre ad interessi e rivalutazione, sicché, essendo stata interrotta la prescrizione con il citato ricorso al Pretore del lavoro in data 7 giugno 1995, dev’essere riformata la sentenza di primo grado laddove ha accolto l’eccezione di prescrizione formulata dal Comune. A tal proposito, si puntualizza, infatti, che “l'effetto interruttivo della prescrizione determinato dalla promozione di un'azione giudiziaria ha infatti carattere permanente, ai sensi del secondo comma dell'art. 2945 cod. civ., anche nel caso in cui il giudizio si concluda con una sentenza dichiarativa di difetto di giurisdizione, non essendo tale ipotesi assimilabile a quella di estinzione del processo, considerata dall'ultimo comma dello stesso articolo (Cassazione Civile, 12 giugno 1984, n. 3516; in senso conforme, Cassazione Civile, 14 novembre 2002, n. 16032), purché la domanda proposta dinanzi al giudice carente di giurisdizione sia la medesima poi introdotta dinnanzi al giudice dotato di giurisdizione sulla controversia (Cassazione civile, sez. I, 11 giugno 2007 n. 13662)”. Sul punto l’appello deve essere accolto e, “per l’effetto, va riformata la sentenza di primo grado, laddove riconosce l’avvenuta prescrizione del diritto dell’attuale appellante con riferimento a tutti i crediti eventualmente maturati in epoca antecedente al 27 aprile 1994”. Dunque, si specifica che in applicazione del principio devolutivo dell’appello, la fondatezza delle pretese azionate dal ricorrente va verificata non a far tempo dal 28 aprile 1994, come ritenuto dal primo giudice, bensì dall’1 gennaio 1993. Quanto alla erronea interpretazione, da parte del giudice di primo grado, della documentazione allegata, si specifica che “dalla documentazione prodotta non si evinceva con la necessaria certezza la sottoposizione del lavoratore per volontà dell’Ente al potere disciplinare di questo, almeno fino al 31 agosto 1994, e che non risultava esclusa la possibilità per il lavoratore di svolgere attività libero professionale o alle dipendenze pubbliche o private di altri Enti, sarebbero smentite dalla circostanza che dalla documentazione prodotta in primo grado si evinceva che il rapporto, così come disciplinato in convenzione, non aveva identica estrinsecazione su piano fattuale”. Il Consiglio di Stato sottolinea che il ricorrente “non ha dimostrato con la necessaria evidenza, con riguardo alla attività lavorativa da esso svolta nel periodo di interesse, la sussistenza di tutti gli indici rivelatori del pubblico impiego” nonché che tali indici “hanno la esclusiva funzione di determinare la disciplina economica e previdenziale delle prestazioni lavorative di fatto erogate (posto che il rapporto è comunque nullo ed improduttivo di effetti, in quanto instaurato al di fuori dei parametri legislativi che, nel rispetto dell'art. 97, comma 3, della Costituzione, regolano l'accesso al pubblico impiego tramite concorso), consistono, per pacifica e consolidata giurisprudenza, nella natura pubblica dell'Ente datore di lavoro, nella diretta correlazione dell'attività lavorativa prestata con i fini istituzionali perseguiti”. Inoltre, è stato “condivisibilmente non ritenuto sussistente dal primo giudice il carattere di esclusività del rapporto, non risultando esclusa da detti atti di incarico e dalla convenzione citata la possibilità, per il lavoratore di cui trattasi, di svolgere attività libero-professionale o dipendente oltre l’incarico di pulizia dei locali della Pretura”. Secondo i giudici di Palazzo Spada, altresì, il T.A.R. ha condivisibilmente asserito, oltre a quanto affermato, che, “anche se si aderisse alla prospettazione del ricorrente circa la sussistenza di un rapporto di fatto, comunque esso non avrebbe avuto alcun titolo a percepire differenze retributive in ragione del diverso trattamento economico spettante al personale di ruolo di pari qualifica stabilito dalle norme vigenti nel tempo”. Alla fattispecie è stato ritenuto che trovasse applicazione il primo comma dell’art. 2126, del c. c. che non dà titolo a percepire una retribuzione superiore a quella prevista nel titolo nullo o annullato né, tanto meno, ad un trattamento economico pari a quello spettante al pubblico dipendente che sia stato legittimamente investito del relativo “status”. GMC |
Inserito in data 03/10/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 2 ottobre 2014, n. 4931 Criteri di determinazione dei punteggi e annullamento dell’aggiudicazione I Giudici di Palazzo Spada hanno trattato, come di frequente, di un caso di annullamento dell’aggiudicazione, accogliendo l’appello e respingendo il ricorso proposto in primo grado da una società (Elettrocostruzioni s.r.l.). Nel caso di specie, Il Comune di Lusia nel 2005 indiceva un appalto concorso per l’affidamento, per la durata massima di anni venti, dei servizi di gestione, esercizio, manutenzione ordinaria e straordinaria dell’impianto di pubblica illuminazione, ivi comprese le attività di messa a norma dell’impianto, ammodernamento tecnologico e funzionale nonché delle attività finalizzate al conseguimento dal risparmio energetico, alle condizioni e modalità previste nel bando stesso, nel capitolato speciale di appalto e disciplinare di gara, per un importo complessivo di €. 996.564,09, da aggiudicarsi con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa (ai sensi del combinato disposto degli artt. 6, comma primo, lett. c), e 23, comma prima, lett. b), del D. Lgs. n. 157 del 1995), sulla base degli elementi di cui all’art. 5 del disciplinare di gara. Tuttavia, il Tribunale amministrativo regionale per il Veneto, sez I, con la sentenza n. 2720 del 5 agosto 2007, accogliendo il ricorso, integrato da motivi aggiunti, proposto dalla società Elettrocostruzioni Rovigo, terza classificata, annullava l’aggiudicazione, precisando come “(d)all’annullamento degli atti impugnati discende(sse) la vincita della gara da parte della terza graduata Elettrocostruzioni …”, la quale pertanto aveva … titolo a subentrare ad APS Sinergia nell’esecuzione del servizio e di svolgerlo per la sua durata naturale, decorrente … dalla data di stipulazione del relativo contratto in suo favore: stipulazione che, pertanto, è da reputarsi atto dovuto per il Comune di Lusia in esecuzione della presente sentenza, ferma, peraltro restando da parte della stazione appaltante la previa valutazione dell’eventuale anomalia dell’offerta della medesima ricorrente alla luce dell’art. 25 del D.L.vo 17 marzo 1995 n. 157.”. II Consiglio di Stato, sez. V, con la sentenza n. 1127 del 25 febbraio 2009, riuniti i separati appelli principali proposti dal Comune di Lusia e dalla Sinergie S.p.A. e decidendo sugli stessi, accoglieva in parte il ricorso di primo grado, limitatamente al quarto motivo di censura, relativo all'erronea applicazione della lex specialis circa la determinazione dei punteggi, dichiarando assorbito l’ulteriore motivo concernente il difetto di motivazione dei punteggi numerici, e riformava in parte la sentenza impugnata, “…dovendosi, da un lato, estendere l'annullamento, disposto in primo grado, anche agli atti di gara compiuti in violazione del corretto criterio di determinazione dei punteggi come sopra indicato e, dall'altro lato, dovendosi rimuovere dal mondo giuridico le statuizioni, recate nella pronuncia appellata, relative al preteso obbligo del Comune di Lusia di stipulare il contratto con la Elettrocostruzioni”, con la precisazione, quanto a quest’ultimo punto, che “…la parziale riforma non lambisce il profilo risarcitorio della controversia, giacché nemmeno in appello può trovare accoglimento la richiesta della Elettrocostruzioni; dovendosi rinnovare in tutto o in parte la gara (secondo modalità rimesse alla determinazione discrezionale della civica amministrazione) e non potendone prevedere l’esito, difetta, allo stato, in capo alla Elettrocostruzioni sia una pretesa all’aggiudicazione sia il titolo a richiedere il ristoro di un’aspettativa che non risulta ancora persa (considerata la durata ventennale dell’affidamento in questione)” ed aggiungendo altresì che “Sotto altro aspetto, occorre puntualizzare che la presente pronuncia travolge anche le prescrizioni conformative dettate dal Tribunale e, in particolare, non trova più fondamento l’enunciato obbligo del Comune di Lusia di stipulare il contratto di appalto con la Elettrocostruzioni…”. Tuttavia, il Tribunale amministrativo regionale per il Veneto, sez. I, con la sentenza n. 1251 del 13 novembre 2013, nella resistenza dell’intimato Comune di Lusia e della controinteressata Sinergie S.p.A., nuovamente adito dalla Elettrocostruzioni Rovigo S.p.A. ha annullato anche questa aggiudicazione, oltre che all’esclusione dalla gara della ricorrente, negando in sintesi che sussista una discrasia tra l’offerta economica e quella tecnica. In seguito, Sinergie S.p.A. ha chiesto la riforma di tale sentenza, denunciando l’erroneità e l’ingiustizia alla stregua di un unico articolato motivo di gravame, rubricato “Erroneità della sentenza sotto il profilo della non corretta interpretazione ed applicazione della lex specialis della procedura di gara. Erroneità della sentenza sotto il profilo della non corretta valutazione ed interpretazione dei documenti prodotti in giudizio. Erroneità della sentenza per difetto di istruttoria, erroneità dei presupposti, contraddittorietà interna, difetto di motivazione”. I Giudici di Palazzo Spada intervengono sul punto precisando che “La lex specialis (bando e disciplinare di gara) della procedura di appalto concorso indetta dal Comune di Lusia per l’affidamento del servizio integrato inerente la gestione, l’esercizio, la manutenzione ordinaria e straordinaria dell’impianto di pubblica illuminazione comunale, ivi compresa la fornitura di energia elettrica e delle attività (interventi) connessi alla riqualificazione globale, alla messa a norma, al collaudo e all’ammodernamento tecnologico e funzionale ed ampliamento dell’impianto di pubblica illuminazione) prevedeva che l’affidamento sarebbe avvenuto, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 6, comma primo, lett. c), e 23, comma prima, lett. b), del D. Lgs. n. 157/1995, a favore del concorrente che avrebbe ottenuto il miglior punteggio, ossia presentato l’offerta economicamente più vantaggiosa, valutata in base agli elementi riportati all’art. 5 dell’allegato disciplinare di gara” ed inoltre che “non sarebbero state ammesse offerte in aumento al prezzo a base di gara”. Occorre sottolineare, altresì, che “i criteri (fattori ponderali) di valutazione dell’offerta, previsti nel punto 5 del disciplinare di gara, erano: a) capacità economica finanziaria, fino a 3 punti; b) capacità tecnica (attrezzatura – organizzazione dell’impresa), fino a 4 punti; c) tempi e modalità del servizio di gestione, fino a 10 punti; d) progetto esecutivo dei lavori di manutenzione straordinaria, adeguamento normativo ed eventuale ampliamento degli impianti, fino a 29 punti; e) programma di miglioramento della rete ai fini del risparmio energetico e della qualità funzionale del servizio e tempi di attuazione, fino a 25 punti; f) prezzo dell’offerta economica, fino a 16 punti; g) maggior ribasso sull’elenco prezzi, fino a 3 punti” nonché che “per ognuno di essi, eccezion fatta per quelli di cui alle lettere f) ed g), venivano indicati anche ulteriori sub – criteri e sub – pesi; in particolare per quanto attiene al criterio d) - “progetto esecutivo dei lavori di manutenzione straordinaria, adeguamento normativo ed ampliamento degli impianti (massimo punti 29)” era stabilito che la valutazione sarebbe stata “…compiuta con riferimento alla descrizione ed esemplificazione delle attività e procedure previste, coerenza interna del progetto, validità delle soluzioni tecniche. Il ricordato disciplinare di gara, al successivo punto 6 (Offerte parziali e varianti), precisava altresì che non erano ammesse la facoltà di presentare offerte parziali e che, invece, erano ammesse variante aggiuntive a condizione che “non comportino ulteriori Oneri Finanziari per l’Amministrazione Comunale ed condizione che sia rispettato l’oggetto del presente bando di cui al precedente articolo”. GMC |
Inserito in data 02/10/2014 CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 28 agosto 2014, n. 27 Interpretazione ed applicazione dell’art. 37 comma 13 del Codice dei contratti L’Adunanza Plenaria è stata chiamata a pronunciarsi nuovamente sulla applicabilità o meno degli artt. 37, 41 e 42 del codice dei contratti anche agli appalti di servizi essendo stata appellata la decisione di primo grado che, facendo applicazione dell’orientamento interpretativo formatosi sotto la vigenza del vecchio art. 37 comma 13, aveva accolto il ricorso avverso il provvedimento di aggiudicazione di un appalto di servizi per violazione del principio di corrispondenza tra quote di qualificazione, quote di partecipazione e quote di esecuzione. Invero il vecchio art. 37, comma 13, del codice dei contratti pubblici disponeva che "i concorrenti riuniti in raggruppamento temporaneo devono eseguire le prestazioni nella percentuale corrispondente alla quota di partecipazione al raggruppamento". Successivamente il testo era stato modificato dalla l. 135/2012 attraverso la precisazione l’ambito operativo della norma era limitato ai soli “appalti lavori” (modifica venuta meno ad opera dell’abrogazione ex art. 12 comma 8 d.l. 47/2014). Con la decisione in commento il Supremo Consesso ha confermato il proprio indirizzo interpretativo espresso con sentenza n. 7 del 30 gennaio 2014 con la quale si era già affermato che, fino all’entrata in vigore del d.l. 47/201, che ha abrogato il comma 13 dell’art. 37 del codice dei contratti, l’obbligo di corrispondenza tra le quote di partecipazione e quelle di esecuzione rimane circoscritto ai soli appalti lavori. Per gli appalti di servizi e fornitura, dunque, continuerà a trovare applicazione escludivamente il comma 4 del medesimo articolo, che impone alle parti il meno oneroso obbligo di indicare le parti del servizio o della fornitura facenti caso a ciascuna di esse (senza necessità di corrispondenza tra quote di partecipazione e di esecuzione. A sostegno di tale assunti si invocano sia il tenore letterale della disposizione, sia la finalità di semplificazione degli oneri di dichiarazione dei raggruppamenti di imprese. Ne consegue che “Ai sensi dell’art. 37, commi 4 e 13, nel testo antecedente alle modifiche apportate dall’art. 1, comma 2-bis, lett. a), d.-l. 6 luglio 2012 n. 95, convertito nella legge 7 agosto 2012 n. 135, negli appalti di servizi da affidarsi a raggruppamenti temporanei di imprese non vige ex lege il principio di necessaria corrispondenza tra la qualificazione di ciascuna impresa e la quota della prestazione di rispettiva pertinenza, essendo la relativa disciplina rimessa alle disposizioni della lex specialis della gara”. VA |
Inserito in data 02/10/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 1 ottobre 2014, n. 4868 Varianti introdotte dal P.R.G., condono edilizio ed eccesso di potere Il Consesso ha avallato la decisione del giudice di merito ritenendo legittimo il provvedimento di diniego di condono edilizio emesso sulla base di una modifica del P.T.P. avvenuta con decreto della soprintendenza per i beni architettonici e per il paesaggio, per il patrimonio storico, artistico e demoetnoantropologico del Lazio. A tal fine ha ritenuto prive di ogni fondamento le doglianze mosse dall’appellante per violazione di legge, eccesso di potere e disparità di trattamento. I giudici di Palazzo Spada, infatti, asseriscono che, premessa la prevalenza dell’interesse alla tutela paesaggistica rispetto a quella urbanistica, come risultante dall’art. 9 della Costituzione, le varianti introdotte al p.r.g. da parte del Comune, volte ad un’azione di recupero di una zona fortemente caratterizzata dall’abusivismo edilizio, “non possono incidere in alcun modo sulla disciplina contenuta nel piano paesistico che deve esse applicato fino alla sua futura ed eventuale modifica”. Né i precedenti provvedimenti di condono edilizio potrebbero essere invocati a proprio vantaggio, sotto il profilo della disparità di trattamento. Invero,“il vizio di eccesso di potere per disparità di trattamento (…), non può essere dedotto quando viene rivendicata l’applicazione in proprio favore di posizioni giuridiche riconosciute ad altri soggetti in modo illegittimo, in quanto, in applicazione del principio di legalità, la legittimità dell’operato della p.a. non può comunque essere inficiata dall’eventuale illegittimità compiuta in altra situazione. Un’eventuale disparità non può essere risolta estendendo il trattamento illegittimamente più favorevole ad altri riservato a chi, pur versando in situazione analoga, sia stato legittimamente destinatario di un trattamento meno favorevole” (C.d.S. 2548/13). Infine, altrettanto priva di fondamento appare la censura secondo la quale il decreto della sovrintendenza, modificativo del P.T.P. risalirebbe ad un periodo successivo a quello della domanda di concessione della sanatoria. Invero l’Adunanza Plenaria, con la sentenza n. 20 emessa il 22 luglio 1999, ha dichiarato che : “La pronuncia dell’autorità preposta alla tutela del vincolo, in sede di annullamento del concesso nulla - osta in relazione a domanda di sanatoria, deve tener conto del momento in cui deve essere valutata detta domanda, a prescindere dall’epoca di introduzione del vincolo”. Alla luce di queste considerazioni il Supremo Consesso ha ritenuto legittimo il provvedimento di concessione del condono edilizio a dispetto delle precedenti opere di sanatoria che avevano interessato la zona circostante. VA |
Inserito in data 01/10/2014 TAR EMILIA ROMAGNA – BOLOGNA, SEZ. II, 26 settembre 2014, n. 915 Sulla liberalizzazione delle attività commerciali L’’art. 3, lett. d), della normativa di liberalizzazione delle autorizzazioni di cui al D.L. n. 223 del 2006 prescrive l’abrogazione con effetto immediato delle precedenti disposizioni “…in cui erano previsti limiti alle autorizzazioni aventi ad oggetto quote di mercato predefinite o calcolate sul volume delle vendite a livello territoriale sub regionale.”. Posto che il sopra richiamato art. 3 del c.d. Decreto “Bersani” si applica a tutte le attività commerciali, il Collegio romagnolo dichiara illegittimo il diniego ad avviare un’attività di vendita di giornali e riviste motivato in base alla circostanza che il piano comunale delle relative rivendite non prevede il rilascio, per una determinata zona, di alcuna autorizzazione per l’apertura di punti vendita non esclusivi. Il suddetto principio, invero, “è stato successivamente confermato, in ambito europeo, dall’art. 15 della direttiva 2006/123/CE, relativa ai servizi nel mercato interno, in attuazione del Trattato CE, (in particolare degli artt. 3 e 49 del Trattato), che ha vietato alle autorità nazionali e locali l'applicazione di qualsivoglia misura restrittiva delle nuove aperture di esercizi commerciali, fondata su restrizioni quantitative o territoriali sotto forma, in particolare, di restrizioni fissate in funzione della popolazione o di una distanza geografica minima tra prestatori. Gli stessi principi sono stati da ultimo confermati dal Decreto Legge n° 201 del 2011 convertito dalla legge n° 214 del 2011, il cui art. 31 stabilisce che, secondo la disciplina dell’Unione Europea e nazionale in materia di concorrenza, libertà di stabilimento e libera prestazione di servizi, costituisce principio generale dell’ordinamento nazionale la libertà di apertura di nuovi esercizi commerciali sul territorio senza contingenti, limiti territoriali od altri vincoli di qualsiasi altra natura, esclusi quelli connessi alla tutela della salute, dei lavoratori, dell’ambiente e dei beni culturali (v. in termini: T.A.R. Veneto, sez. II, 7/2/2012 n. 184)”. EMF |
Inserito in data 01/10/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 26 settembre 2014, n. 4841 Sulla cessione totale o parziale del diritto di uso dei sepolcri La giurisprudenza in tema di “ius sepulchri”, ossia il diritto, spettante al titolare di concessione cimiteriale, ad essere tumulato nel sepolcro, “garantisce al concessionario ampi poteri di godimento del bene e si atteggia come un diritto reale nei confronti dei terzi. Ciò significa che, nei rapporti interprivati, la protezione della situazione giuridica è piena, assumendo la fisionomia tipica dei diritti reali assoluti di godimento. Tuttavia, laddove tale facoltà concerna un manufatto costruito su terreno demaniale, lo ius sepulchri non preclude l’esercizio dei poteri autoritativi da parte della pubblica amministrazione concedente, sicché sono configurabili interessi legittimi quando sono emanati atti di autotutela. In questa prospettiva, infatti, dalla demanialità del bene discende l'intrinseca "cedevolezza" del diritto, che trae origine da una concessione amministrativa su bene pubblico (Consiglio Stato, sez. V, 14 giugno 2000 , n. 3313)”. Peraltro, “come accade per ogni altro tipo di concessione amministrativa di beni o utilità, la posizione giuridica soggettiva del privato titolare della concessione tende a recedere dinnanzi ai poteri dell'amministrazione in ordine ad una diversa conformazione del rapporto”, trattandosi “…di una posizione soggettiva che trova fonte, se non esclusiva, quanto meno prevalente nel provvedimento di concessione”; di guisa che, a fronte di successive determinazioni del concedente, il concessionario può chiedere ogni tutela spettante alla sua posizione di interesse legittimo. Lo ius sepulchri soggiace, altresì, all'applicazione del regolamento di polizia mortuaria. Trattasi, invero, di disciplina che “si colloca ad un livello ancora più elevato di quello che contraddistingue l'interesse del concedente e soddisfa superiori interessi pubblici di ordine igienico-sanitario, oltre che edilizio e di ordine pubblico”. I Giudici di Palazzo Spada hanno anche chiarito che, “una volta costituito il rapporto concessorio, questo può essere disciplinato da una normativa entrata in vigore successivamente, diretta a regolamentare le concrete modalità di esercizio del ius sepulchri, anche con riferimento alla determinazione dall'ambito soggettivo di utilizzazione del bene”. Ciò posto, deve ritenersi non pertinente il richiamo all’art. dell'articolo 11 delle preleggi, in materia di successione delle leggi nel tempo, allorquando “la nuova normativa comunale applicata dall'amministrazione non agisce, retroattivamente, su situazioni giuridiche già compiutamente definite e acquisite, intangibilmente, al patrimonio del titolare, ma detta regole destinate a disciplinare le future vicende dei rapporti concessori, ancorché già costituiti” (v. anche Cons. St., sez. V, 27 agosto 2012, n. 4608). Alla luce di quanto suddetto, è valido il rapporto concessorio sottoposto alla disciplina regolamentare entrata in vigore successivamente alla costituzione dello stesso, tra cui è ricompresa anche la disposizione sulla “nullità degli atti di cessione totale o parziale del diritto di uso dei sepolcri”. EMF |
Inserito in data 30/09/2014 CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 29 settembre 2014, n. 20448 Crisi familiare: il comodante deve consentire continuazione del godimento dell’immobile La sentenza in esame si occupa della disciplina applicabile al comodato concesso da un terzo su un proprio immobile perché sia destinato a casa familiare, a seguito di provvedimento di assegnazione in favore del coniuge affidatario di figli minorenni o convivente con figli maggiorenni non autosufficienti senza loro colpa, emesso in un giudizio di separazione o divorzio. Le Sezioni Unite della Cassazione confermano l’orientamento già espresso dalle stesse Sezioni Unite con la sentenza n. 13603 del 2004, secondo la quale il rapporto resta regolato dalla disciplina del comodato, con la conseguenza che il comodante è tenuto a consentire la continuazione del godimento per l'uso previsto nel contratto, salva l'ipotesi di sopravvenienza di un urgente ed impreveduto bisogno, ai sensi dell'art. 1809, comma 2, cc. Secondo la pronuncia, infatti, le preoccupazioni dell’ordinanza di rimessione possono essere superata con un’attenta lettura e una prudente applicazione della sentenza del 2004. Anzitutto, essa non intendeva affermare che, una volta concesso un immobile in comodato con destinazione abitativa, si debba sempre riconoscergli durata pari alle esigenze della famiglia del comodatario. Occorre infatti valutare la sussistenza dell’eventuale pattuizione di un termine finale di godimento del bene, che potrebbe emergere dalle motivazioni espresse quando è stato concesso il bene. Inoltre, si deve verificare l’intenzione delle parti, che tenga conto delle loro condizioni personali e sociali, della natura dei loro rapporti, degli interessi perseguiti. Né può prospettarsi l’iniquità di uno sviluppo contrattuale che è stato voluto dalle parti. È comprensibile, infatti, che la novità derivante dalla crisi del nucleo familiare porti ad interrogarsi sulla ragionevolezza del permanere della destinazione, ma la risposta non può che rispettare il potere di disposizione del bene, quale esercitato al sorgere del contratto. Occorre però escludere che trovino immeritata tutela i comportamenti ostruzionistici dei beneficiari dell’alloggio, finalizzati a protrarre indebitamente il godimento della casa familiare. Infine, le esigenze del comodante sono comunque soddisfatte dalla corretta ricostruzione della facoltà di recedere per bisogno impreveduto ed urgente. Infatti, la portata del bisogno non deve essere grave, dovendo essere solo imprevisto, cioè sopravvenuto rispetto alla stipula, e urgente, cioè imminente, attuale, concreto, e non soltanto astrattamente ipotizzabile. Ed inoltre, non solo la necessità di uso diretto, ma anche il sopravvenire imprevisto del deterioramento della condizione economica consente di porre fine al comodato. CDC
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Inserito in data 30/09/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 26 settembre 2014, n. 4854 Esclusione dalla partecipazione alle gare d’appalto solo per gravi irregolarità fiscali L’art. 38, comma 1, lett. g), d.lgs. 163/06, nel testo previgente e applicabile al caso esaminato, prevedeva l’esclusione dalla partecipazione alle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti di lavori, forniture e servizi i soggetti “che hanno commesso violazioni, definitivamente accertate, rispetto agli obblighi relativi al pagamento delle imposte e tasse, secondo la legislazione italiana o quella dello Stato in cui sono stabiliti”. La ratio della norma risponde all'esigenza di garantire la PA in ordine alla solvibilità e alla solidità finanziaria del soggetto con il quale contrae. Inoltre, essa mira a contemperare la tendenza dell'ordinamento ad ampliare la platea dei soggetti ammessi alle procedure di gara (canone del favor partecipationis), con la necessaria tutela dell'interesse pubblico ad evitare la stipulazione con soggetti gravati da debiti tributari che incidono in modo significativo sulla loro affidabilità. Anche se solo il nuovo testo normativo richiede l’ulteriore elemento della “gravità” della irregolarità fiscale, la sentenza in esame afferma che, anche secondo il testo previgente, l’interpretazione più conforme alla ratio della norma sia quella che tenga conto concretamente della sussistenza del requisito dell’affidabilità e solidità finanziaria del concorrente e attribuisca rilievo sia all’importo del debito tributario, che non deve essere irrisorio in relazione alla complessiva dimensione societaria del concorrente, sia all’intervenuto ravvedimento operoso. CDC |
Inserito in data 29/09/2014 TAR LOMBARDIA - MILANO, SEZ. IV, 26 settembre 2014, n. 2401 Per la CGE è legittima la proroga automatica delle concessioni sul demanio marittimo? La sentenza in esame solleva nuovamente la questione della compatibilità comunitaria della legge italiana sulle modalità di attribuzione delle concessioni sul demanio marittimo. Com’è noto, nel 2008, la Commissione europea aveva aperto una procedura d’infrazione contro lo Stato italiano ritenendo che il diritto di preferenza riconosciuto al concessionario uscente nell’ambito della procedura di affidamento delle concessioni del demanio pubblico marittimo (cd. diritto d’insistenza ex art. 37 c.2 del codice della navigazione) contrastasse con l’art. 43 del Trattato CE, perché determinava una restrizione della libertà di stabilimento. Conseguentemente, con d.l. n. 194/09, il legislatore italiano aveva disposto l’abrogazione dell’art. 37 c.2 cod. nav. Tuttavia, in sede di conversione era stata inserita una nuova norma, che produceva l’effetto di consentire il rinnovo automatico delle concessioni di sei anni in sei anni. Con lettera di messa in mora del 2010, la Commissione europea aveva segnalato come la modifica intervenuta in sede di conversione ponesse nuovamente la legge italiana in contrasto col principio della libertà di stabilimento. Di conseguenza, con L. 217/11, era stato soppresso tale meccanismo di proroga automatica. Chiusa la procedura d’infrazione nei confronti dello Stato italiano, l’art. 34-duodecies d.l. 179/12 aveva previsto la proroga automatica della durata delle concessioni in cadenza su beni demaniali marittimi, lacuali e fluviali con finalità turistico - ricreative, fino al 31 dicembre 2020. Nel frattempo, la Corte costituzionale aveva dichiarato l’incostituzionalità di varie leggi regionali che prevedevano il rinnovo o la proroga automatica delle concessioni in tema di demanio marittimo, perché si ponevano in contrasto coi principi comunitari di libertà di stabilimento e concorrenza e, quindi, in via mediata con l’art. 117 Cost. (Corte cost. nn. 123/11, 171/2013 e 2/14). Con la sentenza in esame, il Tribunale dubita che il regime di proroga automatica fino al 2020, introdotto dal d.l. 179/12, sia compatibile con i principi comunitari di tutela della concorrenza e, pertanto, solleva innanzi alla C.G.U.E. la seguente questione pregiudiziale d’interpretazione della normativa comunitaria: “I principi della libertà di stabilimento, di non discriminazione e di tutela della concorrenza, di cui agli articoli 49, 56, e 106 del TFUE, nonché il canone di ragionevolezza in essi racchiuso, ostano ad una normativa nazionale che, per effetto di successivi interventi legislativi, determina la reiterata proroga del termine di scadenza di concessioni di beni del demanio marittimo, lacuale e fluviale di rilevanza economica, la cui durata viene incrementata per legge per almeno undici anni, così conservando in via esclusiva il diritto allo sfruttamento a fini economici del bene in capo al medesimo concessionario, nonostante l’intervenuta scadenza del termine di efficacia previsto dalla concessione già rilasciatagli, con conseguente preclusione per gli operatori economici interessati di ogni possibilità di ottenere l’assegnazione del bene all’esito di procedure ad evidenza pubblica”. TM |
Inserito in data 29/09/2014 CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 26 settembre 2014, n. 227 Non viola l’art. 117 c.1 Cost la L. 296/2006 in tema di pensioni di reversibilità La Corte costituzionale ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 117 Cost, dei commi 774 e 776 dell’art. 1 della legge n. 296 del 2006. La disposizione censurata detta una regola interpretativa di una legge previgente, e segnatamente, stabilisce che “per le pensioni di reversibilità sorte a decorrere dall’entrata in vigore della legge 8 agosto 1995, n. 335, indipendentemente dalla data di decorrenza della pensione diretta, l’indennità integrativa speciale già in godimento da parte del dante causa, parte integrante del complessivo trattamento pensionistico percepito, è attribuita nella misura percentuale prevista per il trattamento di reversibilità”. Per il Giudice rimettente, tali disposizioni violerebbero il principio di certezza del diritto e dell’equo processo ex art. 6 C.E.D.U., norme interposte ai sensi dell’art. 117, c. 1, Cost. Ciò in quanto tale disciplina favorirebbe lo Stato nelle controversie in corso, privando i ricorrenti della possibilità di conseguire il riconoscimento della più favorevole liquidazione della pensione di reversibilità, pur in assenza di motivi imperativi d’interesse generale. Confermando una propria precedente sentenza (n. 1/2011), la Corte costituzionale rigetta la q.l.c., rilevando come tali interventi legislativi sono legittimi in due casi: 1) se imposti da ragioni storiche-epocali; 2) al fine di ristabilire l’interpretazione più coerente con l’intento legislativo. Quest’ultima situazione si è verificata nel caso in esame, posto che con la norma censurata il legislatore ha scelto uno dei possibili significati della norma interpretata, sebbene ascrivibile ad un indirizzo giurisprudenziale minoritario. Seppure in modo non esplicito, si può ipotizzare che il Giudice delle Leggi abbia ravvisato i motivi imperativi d’interesse generale giustificativi della disciplina de qua nell’ obiettivo di armonizzare e perequare tutti i trattamenti pensionistici, pubblici e privati. TM |
Inserito in data 27/09/2014 CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 23 settembre 2014, n. 19977 Sulla decorrenza del termine di durata dell’equo processo per gli eredi di parte civile “Il processo penale presenta un significativo elemento di differenza rispetto al processo civile costituito dal fatto che alla morte della persona costituitasi parte civile - evento disciplinato dall'art. 111 cod. proc. civ. - in mancanza di specifica disciplina nel codice di rito penale non conseguono gli effetti interruttivi del rapporto processuale, previsti dall'art. 300 cod. proc. civ. ma inapplicabili al processo penale, che è ispirato all'impulso di ufficio. La costituzione resta valida 'ex tunc' e gli eredi del defunto titolare del diritto possono pertanto intervenire nel processo senza effettuare una nuova costituzione, ma semplicemente spendendo e dimostrando la loro qualità di eredi. (Cass. pen. 23676/05; Cass. pen. 46200/03; Cass. pen. 460/98). Né - in virtù del predetto principio dell'immanenza della parte civile - possono integrare comportamento equivalente a revoca tacita o presunta la mancata comparizione in appello e il mancato deposito di conclusioni del difensore che si limiti a depositare solo il certificato di morte della parte civile, in quanto l'art. 82, comma secondo, cod. proc. pen., limita i casi di revoca presunta o tacita della costituzione di parte civile alle sole ipotesi di omessa presentazione delle conclusioni nel corso della discussione in fase di dibattimento di primo grado. (Cass. pen. 15308/09). In conseguenza di ciò deve ritenersi nel giudizio di equa riparazione il principio secondo cui gli eredi della parte deceduta acquistano la qualità di parte in giudizio al momento della loro costituzione e da tal momento può essere computata nei loro confronti l'eccessiva durata del processo possa applicarsi solo per i processi civili ma non anche per quelli penali posto che in questi gli effetti della costituzione di parte civile si estendono agli eredi senza necessità di una loro costituzione. Ciò però non sta necessariamente a significare che i presupposti per l'inizio del termine di eccessiva durata del processo per gli eredi decorrano automaticamente dalla data del decesso del loro dante causa e quindi del loro subentro nella qualità di parti civili. Costituisce principio basilare in tema di equa riparazione per l'eccessiva durata dei processi che il momento a partire dal quale si verifica il patema e lo stato di sofferenza psicologica per la parte deve individuarsi, ai sensi dell'art. 2, comma 2 bis della legge 89/01, nel momento in cui questa ha avuto conoscenza del processo. (ex plurimis Cass. 13803/11). La giurisprudenza di questa Corte ha infatti costantemente affermato in relazione ai processi civili che, il 'dies a quo' in relazione al quale valutare la durata del processo deve essere normalmente individuato, con riguardo ai processi introdotti con atto di citazione, nel momento della notifica di tale atto, con la quale il processo stesso inizia. (Cass. 6323/11; Cass. 7389/05). Analogo principio è stato riconosciuto anche riguardo ai processi penali. Questa Corte ha infatti affermato che nella valutazione della durata di un procedimento penale, il tempo occorso per le indagini preliminari può essere computato esclusivamente a partire dal momento in cui l'indagato abbia avuto la concreta notizia della sua pendenza poiché solo da tale conoscenza sorge la fonte d'ansia e patema suscettibile di riparazione. Se poi detta notizia sia stata acquisita in un momento anteriore alla notificazione del decreto di citazione in giudizio, i ricorrenti sono gravati dall'onere di allegare specificamente quando abbiamo appreso di essere stati assoggettati ad indagine penale. (Cass. 17917/10; Cass. 27239/09)”. Ne discende, pertanto, che “gli eredi, ancorché subentranti automaticamente nella posizione di parte civile costituita facente capo al de cuius, devono tuttavia allegare e documentare il momento in cui hanno avuto conoscenza dell'esistenza del processo perché è solo a partire da tale momento che per essi inizia il patema e l'interesse ad una rapida soluzione della controversia”. La mancata osservanza di detto adempimento comporta la decorrenza del termine di durata dell'equo processo “dal momento in cui gli eredi sono intervenuti in giudizio”. EMF
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Inserito in data 27/09/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 22 settembre 2014, n. 4780 Sulla rimozione della dichiarazione di inizio attività L’art. 19 legge n. 241 del 1990, in presenza di una d.i.a. illegittima, “consente certamente all’Amministrazione di intervenire anche oltre il termine perentorio di cui all’art. 23, comma 6, d.P.r. n. 380 del 2001, ma solo alle condizioni (e seguendo il procedimento) cui la legge subordina il potere di annullamento d’ufficio dei provvedimenti amministrativi e, quindi, tenendo conto, oltre che degli eventuali profili di illegittimità dei lavori assentiti per effetto della d.i.a. ormai perfezionatasi, dell’affidamento ingeneratosi in capo al privato per effetto del decorso del tempo, e, comunque, esternando le ragioni di interesse pubblico a sostegno del provvedimento repressivo”. Pertanto, deve considerarsi illegittima l’adozione, da parte di un’Amministrazione comunale, di un provvedimento repressivo-inibitorio della d.i.a. (già consolidatasi) oltre il termine perentorio di sessanta giorni dalla presentazione della d.i.a. e senza le garanzie e i presupposti previsti dall’ordinamento per l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio. I Giudici di Palazzo Spada, infatti, osservano come la d.i.a. già perfezionatasi “costituisce un titolo abilitativo valido ed efficace (sotto tale profilo equiparabile quoad effectum al rilascio del provvedimento espresso), che può essere rimosso, per espressa previsione legislativa, solo attraverso l’esercizio del potere di autotutela decisoria”. EMF |
Inserito in data 26/09/2014 CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 18 settembre 2014, n. 19665 Datore di lavoro, omissione contributiva e diritto del lavoratore effettivamente reintegrato Il massimo Collegio di piazza Cavour dirime un contrasto sorto riguardo all’obbligo del datore di lavoro di provvedere alla ricomposizione della posizione contributiva del lavoratore, limitatamente al lasso di tempo intercorso fra il licenziamento e la effettiva reintegra dello stesso, a seguito della sentenza dichiarativa di illegittimità del recesso datoriale. La pronuncia è significativa poiché, ricordando la dicotomia codicistica tra nullità ed annullabilità del licenziamento, specifica la differente natura delle pronunce con cui si provvede al riguardo. Più nel dettaglio, i Giudici distinguono tra l’ipotesi di licenziamento poi dichiarato nullo od inefficace, rispetto al caso di licenziamento privo di giusta causa o di giustificato motivo e quindi annullabile. Nel primo presupposto, come sottolineano i Giudici, il datore di lavoro è tenuto in ogni caso a ricostruire la posizione contributiva del lavoratore, sì che essa non abbia soluzione di continuità, ed è soggetto alle sanzioni previste dall’articolo 116 – co. 8 – L. n. 388/00 per l'ipotesi dell'omissione contributiva maturata nelle more. Le Sezioni Unite hanno ritenuto che questo sia l’effetto conseguente alla natura dichiarativa della pronuncia di nullità/inefficacia del licenziamento - in forza dell'articolo 18 della legge 300/1970 nel testo precedente la Riforma Fornero (Legge 92/2012). Nel caso, invece, di interruzione ingiustificata del rapporto di lavoro, i Giudici ricordano la natura costitutiva della relativa pronuncia di illegittimità/annullabilità. In questo caso, all'obbligo datoriale di ricostituire ex tunc la posizione contributiva del lavoratore, non si aggiunge quello di sanzioni civili per l'ipotesi dell'omissione contributiva con riferimento al periodo ricompreso tra la data del licenziamento e l'ordine di reintegrazione. Il rapporto, pertanto, si ricostituisce de iure anche sul piano previdenziale. CC
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Inserito in data 26/09/2014 TAR LOMBARDIA - MILANO, SEZ. III, 11 settembre 2014, n. 2345 Pareri congruità emessi dai Consigli degli Ordini degli Avvocati e giurisdizione I Giudici lombardi, aderendo all’orientamento prevalente in materia, conferiscono alla giurisdizione amministrativa le controversie insorte riguardo ad eventuali pareri congruità emessi dai Consigli degli Ordini degli Avvocati. La conclusione cui approda il Collegio milanese è supportata da due criteri significativi. In primo luogo, la natura giuridica del Consiglio dell'Ordine degli Avvocati, quale Ente pubblico non economico, giustifica già la devoluzione del relativo contenzioso all’Autorità giurisdizionale amministrativa. Parimenti, si riconosce natura pubblicistica al cd. parere di congruità rilasciato da tale Organo. Si tratta, infatti, di un atto soggettivamente ed oggettivamente amministrativo, emesso nell'esercizio di poteri autoritativi. Ricorda, infatti, il Tribunale lombardo, come già acclarato in altre sedi, che il parere non si esaurisce in una mera certificazione della rispondenza del credito alla tariffa professionale, ma implica, altresì, la valutazione di congruità del quantum. In presenza, quindi, di un tale esercizio di discrezionalità, oltrechè di una soggettività di matrice pubblicistica, è corretto il radicarsi della giurisdizione amministrativa. CC |
Inserito in data 25/09/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 23 settembre 2014, n. 4784 Sull’indennità di buonuscita dovuta dall’E.N.P.A.S. Nel caso sottoposto all’attenzione dei Giudici di Palazzo Spada, il ricorrente, unitamente ad altri appartenenti alle forze di polizia, adiva il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio per ottenere l’accertamento del diritto a vedersi computare, nel calcolo dell’indennità di buonuscita dovuta dall’E.N.P.A.S., anche l’indennità pensionabile prevista dagli art. 43, terzo comma, della legge 1° aprile 1981, n. 121, 2 della legge 20 marzo 1984, n. 34 e 5 del d.P.R. 27 marzo 1984, n. 69. L’I.N.P.D.A.P., tuttavia, aveva respinto la domanda sul rilievo che l’indennità in oggetto non era assoggettata a contribuzione previdenziale. Il giudice di primo grado, ha respinto il ricorso richiamando la giurisprudenza formatasi a seguito dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato 17 settembre 1996, n. 19, successivamente, è stato proposto ricorso in appello, lamentando sostanzialmente la violazione dell’art. 38, comma 2, del d.P.R. n. 1032 del 1973 e dell’art. 43, comma 3, della legge 1° aprile 1981 n. 121. Occorre sottolineare che, nel caso in esame, il ricorso è infondato ed il Collegio ha richiamato principalmente quanto affermato dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato 17 settembre 1996, n. 19, alla luce della quale “Dal riconosciuto carattere retributivo dell’indennità di polizia, non discende implicitamente che questa debba essere computata ai fini dell’indennità di buonuscita. Di detta indennità è stabilita espressamente soltanto la pensionabilità, ma non sussiste una corrispondenza biunivoca necessaria tra la pensionabilità di un emolumento e la sua inclusione nell’indennità di buonuscita. In effetti, l’indennità di buonuscita corrisposta dall’E.N.P.A.S. agli ex dipendenti dello Stato (R.D. 26 febbraio 1928, n. 619; legge 25 novembre 1957, n. 1139; T.U. delle norme sulle prestazioni previdenziali in favore dei dipendenti civili e militari dello Stato, approvato con d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1032; legge 29 aprile 1976, n. 177; legge 20 marzo 1980, n. 75; legge 29 gennaio 1994, n. 87) ha chiaramente una funzione previdenziale (Corte costituzionale, 19 giugno 1979, n. 82) e non costituisce una forma di retribuzione differita, come il trattamento di fine rapporto per i lavoratori privati di cui agli artt. 2120 e 2121 c.c. o come l’indennità di anzianità spettante ai dipendenti degli enti pubblici non economici in forza dell’art. 13 della legge 20 marzo 1975 n. 70. Il Fondo di previdenza che la eroga, infatti, è alimentato anche dai contributi degli stessi iscritti ed è gestito ed amministrato non già dal datore di lavoro (Stato), ma da un terzo soggetto (E.N.P.A.S.) del rapporto previdenziale trilatero. Ora, nell’ambito di un tale assetto giuridico, tipico dell’attuale sistema di previdenza obbligatoria (laddove l’esistenza di leggi speciali comporta la deroga al c.d. principio dell’“automatismo delle prestazioni” di cui all’art. 2116 c.c.) è imprescindibile il nesso sinallagmatico che intercorre tra la contribuzione obbligatoria e la prestazione previdenziale, nel senso che questa non può essere garantita senza quella”. Ed ancora, “la tecnica impiegata per la determinazione di tali elementi è quella della tassativa enumerazione che viene effettuata, specificatamente e direttamente, dalla legge”. Il Consiglio di Stato precisa, altresì, che “attualmente la base contributiva di calcolo dell’indennità di buonuscita è costituita dall’80% dello stipendio annuo, della tredicesima mensilità (art. 2 Legge n. 75/1980), dell’indennità integrativa speciale (art. 1 Legge n. 87/1994) e dei soli assegni ed indennità tassativamente indicati dall’art. 38 d.P.R. n. 1032 del 1973, fra le quali non è compresa la c.d. indennità di polizia di cui all’art. 43, terzo comma, della legge 1° aprile 1981, n. 121 ed agli artt. 2 della legge 20 marzo 1984, n. 34 e 5 del d.P.R. 27 marzo 1984, n. 69. Infatti, sia lo stesso art. 38 che l’art. 2 della legge 20 marzo 1980 n. 75 (che ha espressamente riconosciuto la XIII mensilità come utile ai fini della liquidazione dell’indennità di buonuscita), precisano che possono concorrere a formare la citata base contributiva soltanto gli assegni e le indennità specificatamente indicati, nonché, come norma di chiusura, quelli previsti dalla legge come utili ai fini del trattamento previdenziale, mentre le citate disposizioni normative concernenti l’indennità di polizia non contemplano affatto l’utilizzabilità di tale emolumento ai fini previdenziali”. Emerge, che il termine retribuzione, contenuto nell’art. 38 del testo unico in esame, non è ricomprensivo di “qualsiasi emolumento continuativamente erogato a corrispettivo dell’opera prestata” e che, d’altra parte, la locuzione <<stipendio>> nel pubblico impiego va, in linea di massima, intesa come paga tabellare e non come comprensiva di tutti gli emolumenti erogati con continuità ed a scadenza fissa. Dunque, al fine di “stabilire l’idoneità di un certo compenso a fare parte della base contributiva dell’indennità di buonuscita, ciò che rileva non è il carattere sostanziale di esso (natura retributiva o meno), ma il dato formale e cioè il regime impresso dalla legge a ciascun emolumento”, secondo quanto precisato dal Cons. St., Sez. VI, 3 aprile 1985, n. 121 e 5 novembre 1990, n. 946; Cons. St., Sez. IV, 9 ottobre 1991 n. 783. A conclusione di quanto esposto, nel caso ivi in oggetto, nessuna disposizione di legge stabilisce la computabilità ai fini dell’indennità di buonuscita dell’indennità di polizia. GMC |
Inserito in data 25/09/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 23 settembre 2014, n. 4785 Annullamento dell’autorizzazione paesaggistica Con la pronuncia in epigrafe, i Giudici di Palazzo Spada intervengono sullo spinoso argomento concernente le autorizzazioni paesaggistiche. Ripercorrendo il caso in esame, con sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania, è stato respinto un ricorso avverso il decreto della Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio di Napoli e Provincia 2007, di annullamento dell’autorizzazione paesaggistica, rilasciata dal Comune di Capri al fine di realizzare una piscina e l’ampliamento di un portico esistente. Nella suddetta sentenza si riteneva corretta – nonché sufficiente per giustificare l’emanazione del provvedimento gravato – la motivazione riferita alle modalità di realizzazione dell’intervento, tramite “sbalzo in aggetto sul muro di contenimento in pietrame”, quale “elemento del tutto estraneo alle caratteristiche costruttive dell’isola di Capri”, con ulteriore costruzione di un portico chiuso su tre lati, in violazione dell’art. 11, punto 4, del P.T.P. vigente, preclusivo di qualsiasi incremento volumetrico. L’Amministrazione statale appellata, costituitasi in giudizio, ribadiva la riferibilità dell’atto di annullamento impugnato non solo a difetto di motivazione del nulla osta comunale, ma a “palese violazione di legge”, essendo vietato dal Piano Territoriale Paesistico, nell’area interessata dagli interventi edilizi di cui trattasi, qualsiasi incremento dei volumi esistenti, con sostanziale imposizione di un vincolo di inedificabilità assoluta, preclusivo anche della realizzazione di una piscina, quale manufatto richiedente permesso di costruire, ai sensi degli articoli 3 e 10 d.P.R. 6 giugno 2001 n. 380. Secondo quanto precisato dal Consiglio di Stato, “la valutazione di legittimità in questione deve ritenersi espressione di un potere non di controllo, ma di attiva co-gestione del vincolo, funzionale all’ “estrema difesa” dello stesso, con conseguente riferibilità di detto potere a qualsiasi vizio di legittimità riscontrabile nella concreta attività di gestione dell’ente territoriale, ivi compreso l’eccesso di potere in ogni figura sintomatica (sviamento, insufficiente motivazione, difetto di istruttoria, illogicità manifesta)”. Nella situazione in esame, la Soprintendenza, ha espresso una valutazione tecnico-discrezionale in concreto per quanto riguarda la piscina, mentre per il portico ha censurato un incremento volumetrico, non consentito dalla normativa di zona. Per quanto concerne la piscina, a detta dei Giudici di Palazzo Spada “non possono accogliersi le controdeduzioni comunali che, postulando l’esistenza di un vincolo di inedificabilità assoluta sull’area, vorrebbero introdurre una considerazione di legittimità estranea al provvedimento impugnato, la cui motivazione non può essere integrata in via difensiva. La Soprintendenza non ha infatti contestato l’intervento edilizio in sé, ma le relative modalità di realizzazione, in quanto la piscina, da realizzare su un terrazzamento circostante all’abitazione, comporterebbe – come in precedenza riportato – “uno sbalzo in aggetto sul muro di contenimento in pietrame” e sotto tale esclusivo profilo costituirebbe “elemento del tutto estraneo alle caratteristiche costruttive dell’isola di Capri”. A diverse conclusioni, invece, il Collegio ritiene di dover pervenire per quanto concerne il porticato. Invero, si precisa che “nell’area in questione, infatti, sono ammessi come già ricordato solo interventi di riqualificazione estetica degli immobili, ma senza “creazione di nuovi volumi”: la tipologia dei profondi portici già esistenti, come documentata in atti, appare tale da realizzare, almeno dal punto di vista della visibilità e dunque dell’impatto paesaggistico, un ampliamento volumetrico delle costruzioni, nella cui muratura gli stessi vengono ad inserirsi, fino a costituire integrazione in ampliamento della facciata, nonostante le aperture frontali e laterali”. Non avendo il Comune – né lo stesso appellante – segnalato normative, implicanti una specifica regolamentazione derogatoria per i porticati, non resta che applicarsi a questi ultimi la nozione base, utile anche ai fini paesaggistici, di volumetria edilizia. Alla luce di quanto esposto, nel censurare l’ampliamento del porticato esistente, pertanto, deve ritenersi che la Soprintendenza abbia esercitato un puro e condivisibile controllo di legittimità, “in rapporto al quale non hanno rilievo le censure formali, contenute nel quarto motivo di gravame, ai sensi dell’art. 21-octies della legge n. 241 del 1990, che inibisce l’annullamento per vizi di forma degli atti vincolati”. Concludendo, secondo quanto evidenziato, il Consiglio di Stato ritiene che l’appello debba essere accolto per quanto riguarda la realizzazione della piscina e respinto, invece, con riguardo al porticato. GMC |
Inserito in data 24/09/2014 CORTE DI CASSAZIONE, PRIMA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 19 settembre 2014, n. 19790 Applicabili ai giudizi in corso le norme su dichiarazione di maternità o paternità L'art. 276 cc, nella versione previgente, stabiliva che la domanda per la dichiarazione di paternità o maternità potesse essere proposta esclusivamente nei confronti del presunto genitore e dei suoi eredi. Al contrario, nell'azione di disconoscimento della paternità o maternità, qualora il presunto padre o la madre o il figlio fossero morti, in mancanza di discendenti diretti, l'azione doveva essere proposta nei confronti di un curatore speciale nominato dal giudice. La differenza di regime giuridico nelle due azioni, rivolte entrambe a stabilire la verità degli status genitoriali e filiali, aveva destato perplessità in dottrina e in giurisprudenza, anche sotto il profilo della compatibilità con gli artt. 3, 29 e 30 Cost. Si era però infine ritenuto che la limitazione della legittimazione passiva di cui all'art. 276 cc costituisse un'opzione rientrante nella discrezionalità del legislatore. Nell’attuale formulazione, l'art. 276, primo comma, cc prevede che “la domanda per la dichiarazione di paternità e maternità deve essere proposta nei confronti del presunto genitore o, in sua mancanza, nei confronti dei suoi eredi. In loro mancanza, la domanda deve essere proposta nei confronti di un curatore nominato dal giudice davanti al quale il giudizio deve essere promosso”. La sentenza in esame affronta la questione dell’applicabilità di tale norma ai giudizi in corso. Essa è regolata dalla disciplina di diritto transitorio di cui all’art. 104 del successivo d.lgs 154/2013, il quale contiene anche regole di diritto intertemporale riguardanti le norme sostanziali della l. 219/2012. Il principio fondamentale è quello dell'applicabilità immediata delle nuove norme, salvo che i rapporti non siano stati definiti con sentenza passata in giudicato prima della data di entrata in vigore della l. 219/2012 (1/1/2013). Il legislatore ha voluto favorire, rispetto alla stabilità dei rapporti preesistenti, l'adeguamento immediato e più esteso possibile (con il solo baluardo del giudicato) della nuova configurazione del rapporto di filiazione. In particolare, al caso di specie è applicabile il comma settimo del citato art. 104, secondo il quale “Fermi gli effetti del giudicato formatosi prima dell'entrata in vigore della legge 10 dicembre 2012, n. 219, le disposizioni del codice civile relative al riconoscimento dei figli, come modificate dalla medesima legge, si applicano anche ai figli nati o concepiti anteriormente all'entrata in vigore della stessa”. Fra queste norme immediatamente applicabili, vi è anche l’art. 276 cc, il quale mira a rimuovere gli ostacoli, i limiti ed i pregressi divieti all'accertamento della filiazione, in ossequio all'opzione legislativa di dare preminenza all'interesse del figlio verso la propria discendenza biologica. Questa soluzione è l'unica costituzionalmente sostenibile, creandosi nell'ipotesi opposta una disparità di regime transitorio del tutto ingiustificata, in quanto relativa soltanto a tale norma. CDC
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Inserito in data 24/09/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 23 settembre 2014, n. 4798 Atti del commissario nella liquidazione coatta amministrativa: giurisdizione del G.A. La sentenza ribadisce l’orientamento delle Sezioni Unite della Cassazione, secondo cui, con riguardo alle imprese escluse dal fallimento perché soggette alla liquidazione coatta amministrativa (nonché dei soggetti coinvolti dalla procedura), la tutela spetta al giudice amministrativo, sia con riferimento al decreto ministeriale che ordina la liquidazione, sia ai successivi atti posti in essere dal commissario liquidatore. Infatti, gli uni e gli altri sono caratterizzati da un contenuto autoritativo e strumentali alla cura di interessi pubblici, così da fondare soltanto posizioni giuridiche soggettive qualificabili come di interesse legittimo. Secondo la pronuncia, tali considerazioni sono estensibili anche all’ipotesi (ricorrente nel caso di specie) dell’impugnazione in sede giurisdizionale degli atti con cui i Commissari liquidatori operano ai fini della liquidazione dell’attivo. Ciò è confermato dall’ampiezza dei poteri – di carattere latamente discrezionale – di cui godono i commissari liquidatori in sede di liquidazione dell’attivo ai sensi dell’articolo 210 l.f. Infatti, ai fini della liquidazione dell’attivo, il Commissario non deve attendere la chiusura dello stato passivo per procedere, né resta vincolato ad autorizzazioni o pareri di sorta; eventuali limiti alla sua attività possono essere imposti solo dall'amministrazione centrale. Infine, quanto alle procedure di vendita, il Commissario risulta svincolato dalle forme del III libro del Codice di procedura civile., per cui può procedere sempre a trattativa privata, con la semplice osservanza delle norme in materia di contratti di cui al titolo secondo del IV libro del Codice civile. Ne segue che gli atti posti in essere dai commissari liquidatori nell’ambito delle procedure di liquidazione coatta amministrativa sono caratterizzati dalla spendita di discrezionalità amministrativa e posti in essere nell’esercizio di poteri conferiti per la tutela di interessi pubblici, pe per cui l’impugnativa avverso tali atti deve essere proposta dinanzi al giudice amministrativo. CDC |
Inserito in data 23/09/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 22 settembre 2014, n. 4773 L’AGCM può accettare gli impegni, sebbene gli effetti dell’infrazione siano irreversibili Secondo i Giudici di Palazzo Spada, gli impegni proposti dall’impresa che ha violato la normativa concorrenziale ex art. 14ter L. 287/90 possono essere accettati dall’AGCM pure a fronte di condotte che hanno consumato i loro effetti e sebbene l’impresa che s’impegna non sia in grado di rimuovere tali effetti retroattivamente. Infatti, nell’ambito degli strumenti previsti dall’ordinamento a tutela della concorrenza e del mercato, non è possibile sovrapporre il public enforcement (esercitato dall’AGCM) e il private enforcement (esercitato dal giudice civile), trattandosi di strumenti autonomi e distinti, diversi per natura e finalità perseguita. Invero, mentre il public enforcement ha natura punitiva ed è finalizzato a garantire l’interesse pubblico ad un assetto concorrenziale dei mercati, il private enforcement ha natura risarcitoria ed è teso ad assicurare l’interesse del privato vittima di specifiche condotte anticoncorrenziali. Ne consegue che il l’AGCM può esimersi, mediante l’atto di accettazione degli impegni, dall’accertare l’eventuale infrazione ormai verificatasi in modo irreversibile, quantunque i privati potranno poi far valere tale infrazione innanzi al giudice ordinario per ottenere il risarcimento del danno. D’altronde, altrimenti, si arriverebbe alla inaccettabile e paradossale conclusione di piegare l’esercizio dei poteri di public enforcement alle esigenze proprie del diverso sistema di private enforcement. TM |
Inserito in data 23/09/2014 CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA, QUINTA SEZIONE - SENTENZA 11 settembre 2014, Causa C-19/13 Aggiudicazione dell’appalto senza pubblicazione del bando e sorte del contratto Con la presente decisione, la Corte di Lussemburgo risolve due questioni pregiudiziali sollevate dal giudice italiano. 1) La norma interpretata con la prima questione pregiudiziale è l’articolo 2 quinquies, paragrafo 4, della direttiva 89/665, ove si prevede un’eccezione alla regola di cui al medesimo articolo, paragafo 1, lettera a). Segnatamente, la regola è che l’organo responsabile delle procedure di ricorso dichiara il contratto privo di effetti se l’amministrazione aggiudicatrice ha aggiudicato un appalto senza previa pubblicazione di un bando di gara nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea senza che ciò fosse consentito a norma della direttiva 2004/18. L’eccezione consiste nel fatto che la regola suddetta non si applica: - se l’amministrazione aggiudicatrice ritiene che l’aggiudicazione di un appalto senza previa pubblicazione di un bando di gara nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea sia consentita a norma della direttiva 2004/18; - se l’amministrazione aggiudicatrice abbia pubblicato nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea un avviso del tipo descritto all’articolo 3 bis della direttiva 89/665 in cui ha manifestato l’intenzione di concludere il contratto; - se il contratto non sia stato concluso prima dello scadere di un termine di almeno dieci giorni civili a decorrere dal giorno successivo alla data di pubblicazione di tale avviso. Ad avviso della Corte di Giustizia, “l’articolo 2 quinquies, paragrafo 4, della direttiva 89/665 deve essere interpretato nel senso che, qualora un appalto pubblico sia aggiudicato senza previa pubblicazione di un bando di gara nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea quando ciò non era consentito a norma della direttiva 2004/18, tale disposizione esclude che il corrispondente contratto sia dichiarato privo di effetti laddove ricorrano le condizioni che essa stessa pone, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare”. Pertanto, si rimette al giudice nazionale il compito di stabilire se nel caso concreto ricorrano i presupposti per l’aggiudicazione senza gara. 2) In secondo luogo, si esclude che la disciplina così ricostruita violi il diritto ad una tutela giurisdizionale effettiva (art. 47 della Carta dei diritti dell’Unione) o il principio di non discriminazione. Sotto il primo profilo, si evidenzia come il diritto ad una tutela giurisdizionale effettiva sia compatibile con la previsione di termini di decadenza, purché questi non siano tali da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti attribuiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione. Pertanto, il termine di dieci giorni previsto nell’articolo 2 quinquies, paragrafo 4, terzo trattino è considerato adeguato, essendo teso a contemperare l’interesse dell’impresa lesa con l’interesse alla stabilità giuridica dell’amministrazione aggiudicatrice e dell’impresa stipulante e considerato che, decorso tale termine, l’impresa lesa può comunque proporre ricorso per risarcimento dei danni. Si esclude anche la violazione del principio di non discriminazione, poiché “l’articolo 2 quinquies, paragrafo 4, secondo trattino, della direttiva 89/665 si propone di garantire che tutti i candidati potenzialmente interessati siano in condizione di venire a conoscenza della decisione dell’amministrazione aggiudicatrice di concludere il contratto senza previa pubblicazione di un bando di gara e, pertanto, di proporre ricorso avverso una decisione del genere perché ne sia verificata la legittimità”. TM |
Inserito in data 22/09/2014 CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 18 settembre 2014, n. 19633 Danno non patrimoniale: risarcimento ai condomini solo se parti nel processo Le S.U., dopo aver ripercorso il dibattito giurisprudenziale formatosi in merito alla legittimazione o meno dei singoli condomini a richiedere il risarcimento del danno non patrimoniale derivante dall’ingiusta protrazione di un procedimento, hanno affermato che <<nel caso di giudizio intentato dal Condominio e del quale, pur trattandosi di diritti connessi alla partecipazione di singoli condomini al condominio, costoro non siano stati parti, spetta esclusivamente al Condominio, in persona del suo amministratore, a ciò autorizzato da delibera assembleare, far valere il diritto alla equa riparazione per la durata irragionevole di detto giudizio>>. Invero, l’art. 6 della Convenzione EDU, sì come richiamato dall’art. 2 l. 89/2001, riconosce il diritto alla trattazione delle cause entro un ragionevole lasso di tempo solo con riferimento alle cause “proprie”, ne consegue che requisito imprescindibile per la richiesta ad un equo indennizzo è la qualità di parte nella causa con riferimento alla quale si è verificata la violazione. La ratio sottesa alla norma in questione risiede nell’esigenza di impedire la duplicazione dei risarcimenti dovuti. La soluzione adottata dalla Suprema Corte ha evidenziato come, anche in assenza di un espresso riconoscimento della personalità giuridica in capo al condominio, molto spesso qualificato come “ente di gestione”, la riforma legislativa intervenuta in materia (l. 220/2012) abbia esaltato l’autonomia dello stesso e le sue capacità processuali (v. art. 1129 co. 12 n. 4 c.c. che impone una distinta tenuta della gestione del patrimonio del condominio e di quello dei singoli condomini), nonché il riconoscimento di una soggettività giuridica, seppur attenuata. Rigettata, dunque, la tesi che esclude in modo assoluto il riconoscimento della personalità giuridica in capo al condominio e sulla quale si fonda l’automatismo della qualità di parte processuale dei singoli condomini (cass. 7119/2002) non è più possibile affermare che <<il diritto all’equo indennizzo per la irragionevole durata di un processo non spetti all’ente condominiale, che è preposto unicamente alla gestione della cosa comune, in quanto l’eventuale patema d’animo conseguente alla pendenza del processo incide unicamente sui condomini che quindi sono titolari uti singuli del diritto al risarcimento>> ma, di contro, il condominio appare l’unico legittimato alla presentazione della suddetta richiesta laddove non sia data prova che i singoli condomini abbiano effettivamente assunto la qualità di “parte” nel procedimento all’interno del quale si è verificata la violazione. VA
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Inserito in data 22/09/2014 TAR SARDEGNA - CAGLIARI, SEZ. I, 19 settembre 2014, n. 725 Cause di esclusione dalla gara e legittimazione ad agire Il tribunale di merito è stato chiamato a pronunciarsi in merito ad un ricorso presentato avverso un provvedimento di esclusione di diverse imprese dalla partecipazione ad una gara a procedura aperta, indetta con il criterio di aggiudicazione del prezzo più basso, per la mancata allegazione all’offerta economica del documento di identità. In primis il Tribunale amministrativo si è pronunciato sulla censura di inammissibilità del ricorso per mancanza di un interesse all’azione sul rilievo che la «non rileva (…)che l’illegittima esclusione dalla gara di alcune imprese partecipanti vulneri innanzi tutto le imprese non ammesse, ben potendo le medesime non avere interesse a far valere giudizialmente tale vulnus ove il calcolo delle probabilità escluda che la riammissione in gara possa far loro conseguire una qualche utilitas. Al contrario, tale illegittimità,(…) è spendibile dagli altri partecipanti alla gara per finalità processuale propria, ove abbia condizionato e direzionato in maniera non corretta l’esito della gara con lesione dell’interesse all’aggiudicazione in proprio favore della gara.» (Cons. Stato, sez. V, 30 settembre 2013, n. 4833). Sarebbe questa l’ipotesi del caso in esame, laddove l’esclusione delle altre ditte avrebbe impedito la Corretta determinazione della soglia di rilevanza dell’anomalia, inficiando in tal modo l’esito della gara. Risolte le questioni preliminari il giudice è entrato nel merito del processo avvallando le ragioni del ricorrente. La soluzione del giudice di primo grado si fonda sia sul rilievo della mancanza di specificità della lex specilis, la quale non contemplerebbe espressamente la mancata allegazione del documento di identità tra le cause di esclusione; sia sul principio generale di tassatività delle cause di esclusione dalla gara: << l’art. 46 comma 1-bis del Codice dei contratti pubblici consente alle stazioni appaltanti di disporre l’esclusione, oltre che per violazione di prescrizioni normative, solo in ipotesi di incertezza assoluta del contenuto sulla provenienza dell’offerta >>, dovendosi in caso contrario fare ricorso al principio del raggiungimento dello scopo (si veda sul punto C.d.S. 2681/2013). VA |
Inserito in data 21/09/2014 TAR EMILIA ROMAGNA - BOLOGNA, SEZ. I, 17 settembre 2014, n. 893 Decadenza dall’espletamento prove orali: eccesso di potere della Commissione Il Collegio bolognese si pronuncia a favore di un candidato all’espletamento della prova orale dell’esame di abilitazione alla professione forense, superando le censure mosse a suo carico dalla Commissione esaminatrice. I componenti di quest’ultima, infatti, a seguito della ricezione del secondo certificato medico presentato dall’odierno ricorrente a sostegno della propria impossibilità a concludere la prova, ne dichiaravano la decadenza dalla stessa. Il Collegio provvedeva a supportare un tale assunto sulla base della genericità del certificato e della mancata allegazione del referto specialistico da esso richiamato. Di contro, il candidato lamentava il vizio di eccesso di potere in cui sarebbe incorsa la Commissione, in ragione del difetto di istruttoria ex articolo 6 L. 241/90. Il TAR emiliano, condividendo la posizione del ricorrente, richiama l’orientamento giurisprudenziale costante secondo il quale la Commissione può disattendere le risultanze della certificazione medica (con eventuale soccorso istruttorio ex art. 6 legge 241/90) soltanto previo puntuale controllo da parte di Organo sanitario pubblico, salvo che non risulti in modo inequivocabile la falsità del documento o di quanto ivi attestato. Tanto non è accaduto nel caso di specie in cui la Commissione non ha svolto alcun accertamento riguardo all’integrità o veridicità del documento, limitandosi a rilevarne genericità ed incompletezza. In sostanza, prima di pronunciare la decadenza dalle prove a carico del candidato, avrebbe dovuto acclarare la mancata allegazione della diagnosi specialistica e, di conseguenza, l’insufficienza del supporto probatorio prodotto. In difetto di ciò, invece, la Commissione è incorsa in eccesso di potere: è necessario, dunque, annullare l’odierno provvedimento impugnato e sciogliere ogni riserva sulla partecipazione del ricorrente alla prova orale. CC |
Inserito in data 20/09/2014 CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE PENALI, SENTENZA 18 settembre 2014, n. 38343 Dolo eventuale, colpa cosciente e responsabilità vertici aziendali ex D. Lgs 231/01 Le Sezioni Unite penali della Suprema Corte di Cassazione intervengono, con una pronuncia di indubbio rilievo, sulla triste vicenda occorsa, anni addietro, in una nota acciaieria torinese. Il Massimo Collegio, discostandosi con fermezza dalla sentenza del secondo grado di giudizio, sancisce la responsabilità – ex D. Lgs. 231/01 – dei vertici dell’azienda piemontese, imputando a questi ultimi una pesante condanna per omicidio colposo con sanzioni pecuniarie, nonché la confisca del profitto per equivalente. I supremi Giudici ricompongono la vicenda, partendo dalla ricostruzione del nesso di causalità e da una differente rilettura dell’elemento psicologico, al punto da approdare ad un esito diverso e di maggiore aggravio per i responsabili dell’azienda. Con riguardo al primo punto, la Suprema Corte esclude qualsivoglia forma di responsabilità imputabile agli operai, come descritta dalla Corte d’Assise di Appello torinese sulla base di una ritenuta negligenza – da parte di costoro – nell’adozione delle dovute misure precauzionali e sulla conseguente, ritenuta possibilità che – altrimenti – il tremendo epilogo avrebbe potuto essere scongiurato. Si desume, infatti, dall’odierna pronuncia che “sono infondate le diffuse censure difensive che pongono in luce condotte ritenute scorrette dei lavoratori quali fattori di interruzione del nesso causale o causa di imprevedibilità dell’evento”. Scrivono ancora i Giudici delle Sezioni Unite della Suprema Corte che «Gli operai non avevano il compito di sorvegliare continuamente l’impianto in tutta la sua lunghezza e non può neppure parlarsi quindi di ritardo nell’intervento di emergenza. Eventuali condotte improprie degli operai erano agevolmente prevedibili in un contesto di forte scadimento dell’efficienza della produzione e della sicurezza delle lavorazioni». Come si vede, sottolineando l’inefficienza dell’intero apparato aziendale, il sommo Collegio solleva gli operai da responsabilità ed inasprisce, invece, l’atteggiamento punitivo a carico dei responsabili dell’acciaieria. Questi ultimi, infatti, avrebbero dovuto evitare l’incendio, avvalendosi di un modello organizzativo valido e adoperando, pertanto, le misure precauzionali più adeguate. Tanto non è accaduto, al punto da spingere i Giudici delle Sezioni Unite a qualificare i vertici aziendali come “aderenti al tragico evento”. Se costoro, infatti, avessero predisposto un contesto aziendale di maggiore sicurezza, il rogo non si sarebbe verificato. Pertanto, appare non più condivisibile l’idea di un omicidio colposo con colpa cosciente ma, nel ricostruire l’elemento psicologico, la Suprema Corte vi ravvisa un dolo eventuale. I responsabili, infatti, trascurando la predisposizione dei doverosi meccanismi di sicurezza aziendale, avrebbero sostanzialmente aderito all’evento dannoso, con il conseguente aggravio di responsabilità cui andranno incontro nel c.d. giudizio di appello bis – cui le Sezioni Unite sono tenute a rinviare. Si attende, pertanto, la riedizione di tale giudizio, nel corso del quale il Collegio d’Assise dovrà confermare il profilarsi di nuovi e più accesi margini di responsabilità ex D. Lgs. 231/01 ed il conseguente inasprimento in sede sanzionatoria, come chiarito dai Massimi Giudici i quali, frattanto, hanno valorizzato nuovi e significativi profili afferenti all’elelemnto soggettivo del reato. CC
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Inserito in data 19/09/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 16 settembre 2014, n. 4702 Sul rinnovo del permesso di soggiorno per attesa occupazione Nel caso sottoposto all’attenzione del Consiglio di Stato, l’appellante aveva impugnato dinanzi al Tribunale Amministrativo Regionale per la Emilia Romagna, il provvedimento con il quale l’Amministrazione gli ha negato il rinnovo del permesso di soggiorno per attesa occupazione sul presupposto di una riportata condanna ad anni 3, mesi 2, e multa di 14.000,00 €, per cessione di sostanze stupefacenti continuata in concorso, deducendo la violazione dell’art. 5, comma 5, del d. lgs. n. 286/1998. Il TAR ha respinto il ricorso affermando che “per il combinato disposto degli artt 4, comma 3, e 5, comma 5, del t.u. n. 286/1998, la condanna (anche non definitiva) per un qualsivoglia reato in materia di stupefacenti, non importa se più o meno grave, comporta automaticamente il divieto ope legis del rilascio. Sotto questo profilo, pertanto, il diniego del rinnovo era un atto vincolato”. (Cons. St., Sez. III, 25 settembre 2012, n. 5089). Tuttavia, l’appellante contesta la sentenza che ha omesso di considerare che il reato commesso “era di lieve entità, riconosciuta dal giudice penale, che ha anche concesso le attenuanti generiche, segno evidnte di un giudizio sulla personalità dello straniero interessato confermato anche dalla ulteriore concessione degli arresti domiciliari per scontare la pena, dal percorso educativo e socio riabilitativo svolto e successivamente dal permesso di esercitare la professione di commerciante ambulante, che comporta continuo contatto con il pubblico. Tutto ciò attesta un giudizio di assoluta mancanza di pericolosità sociale”. La sentenza, come il provvedimento impugnato, hanno anche ignorato il pregresso radicamento lavorativo e sociale dello straniero e anche gli importanti legami familiari in Italia che ha in Italia, egli ha dunque richiamato quindi l’ampia giurisprudenza che “non giudica legittimo l’automatismo conseguente a condanne per reati ostativi quando il reato è di minore entità e costituisce un episodio un unico e isolato in un contesto di regolarità e radicamento sociale e familiare”. I giudici di Palazzo Spada, hanno respinto l’istanza cautelare, osservando che “il carattere ostativo al rilascio o rinnovo del permesso di soggiorno delle condanne in materia di stupefacenti è stabilito dalle disposizioni di cui all’art. 4, comma 3, del d.lgs. n. 286/1998 e non ravvisando elementi che possono attenuare l’automatismo di tali effetti ai sensi dell’art. 5, comma 5, secondo periodo, del medesimo decreto”. Infine, l’appello è infondato, confermandosi l’orientamento già espresso e non essendo, nel frattempo, sopravvenuti fatti nuovi né mutamenti legislativi o derivanti dalla giurisprudenza costituzionale, che possano influire sul carattere automaticamente ostativo della condanna riportata dall’appellante ai sensi delle disposizioni di legge richiamate nella ordinanza medesima. GMC |
Inserito in data 19/09/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 18 settembre 2014, n. 4724 Annullamento del bando di concorso I Giudici di Palazzo Spada sono stati chiamati a pronunciarsi circa l’annullamento di un bando di concorso emanato con decreto del DG del Ministero dell’Istruzione, dell’università e della ricerca. Nel caso di specie, gli appellati hanno chiesto, al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, l’annullamento del bando suddetto, del 13 luglio 2011, avente ad oggetto, specificamente, l’indizione del concorso per esami e titoli per il reclutamento di dirigenti scolastici, nella parte in cui, all’art. 3, comma 1 (requisiti di ammissione), prescrive (in applicazione dell’art. 1, comma 618, della L. 27 dicembre 2006, n. 296) che il requisito del servizio d’insegnamento effettivamente prestato di almeno cinque anni deve essere maturato dopo la nomina in ruolo, con esclusione, dunque, del complessivo servizio scolastico preruolo, riconosciuto pleno iure ai docenti assunti con contratto a tempo indeterminato in virtù del decreto di ricostruzione della carriera. Essi – insegnanti di ruolo delle istituzioni scolastiche ed educative statali, in possesso di laurea, che hanno maturato un servizio effettivamente prestato di almeno cinque anni per effetto del decreto di ricostruzione giuridica della carriera e, dunque, cumulando il servizio di ruolo con il servizio preruolo prestato con i contratti a tempo determinato (annuali o fino al termine delle attività didattiche) – hanno fondato la loro domanda sulla interpretazione dell’art. 1, comma 618, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 che ritengono costituzionalmente esatta e aderente ad orientamenti di derivazione comunitaria poiché una diversa interpretazione della stessa norma primaria or ora citata, tale da negare ogni validità, ai fini della partecipazione al concorso per cui è causa, al servizio d’insegnamento preruolo nelle scuole statali, determinerebbe un’insanabile antinomia con il principio di non discriminazione di cui alla clausola 4 dell’Accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, allegato alla direttiva del Consiglio dell’Unione europea 28 giugno 1999, n. 70. Ripercorrendo la vicenda, il giudice di primo grado, ha evidenziato che “non basta a giustificare una differenza di trattamento tra i lavoratori a tempo determinato e i lavoratori a tempo indeterminato il fatto che tale differenza è stata prevista da una norma nazionale generale e astratta quale una legge o un contratto collettivo”. Alla luce della sentenza impugnata, alla non ammissibilità del cumulo del rapporto temporaneo con quello indeterminato “può pervenirsi non già sulla base della mera rilevanza di una naturale diversità dei rapporti ma soltanto ove si configuri una emergente situazione che abbia imposto il ricorso a soluzioni di durata necessariamente temporanea e che deve trasparire da indicazioni rinvenibili nello stesso modulo di assunzione”. Dunque, “la sentenza ha accolto il ricorso, senza esaminare individualmente le posizioni di ciascun ricorrente, nei confronti di coloro che versassero nelle seguenti condizioni: a) avessero svolto insegnamenti in posizione non di ruolo a tempo determinato anche prima della assunzione con contratti a tempo indeterminato per periodi utili ai fini del raggiungimento dei complessivi cinque anni che si richiedono; b) avessero superato le prove dello stesso concorso (preselettive e successive) cui abbiano comunque partecipato anche in virtù dei provvedimenti intervenuti nella fase del giudizio cautelare; c) avessero presentato, in riferimento ad apposita censura formulata nel ricorso introduttivo, domanda di ammissione anche in forma cartacea, nei quali sensi il Collegio ritiene definibile la stessa censura che i ricorrenti hanno formulato sin dal ricorso introduttivo (secondo motivo). Ha proposto ricorso in appello il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca avverso la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione terza bis, del 4 settembre 2013, n. 8086.” L’appello si fonda essenzialmente sulla considerazione secondo la quale “la carriera di dirigente scolastico nelle istituzioni scolastiche ed educative statali è una carriera dirigenziale (come si ricava dalle disposizioni dell’art. 28 del d.lgs. n. 165 del 2001, non per nulla inserite nella sezione dedicata all’accesso alla dirigenza), che non può essere considerata una progressione verticale rispetto alla carriera del personale scolastico ed educativo, trattandosi di un ruolo diverso cui si accede mediante un diverso concorso pubblico. Ne consegue che, nel caso di specie, non si pone affatto un problema di discriminazione tra lavoratori che, con identica professionalità, siano chiamati a svolgere le medesime mansioni nel settore pubblico, e che si distinguano solamente per il fatto di aver stipulato contratti di lavoro diversi con la p.a., poiché, in tal caso, non vi è alcun contratto di lavoro e, conseguentemente, non ricorre un diverso trattamento in costanza di rapporto di lavoro”, ed inoltre, “quel che rileva, nell’odierna vicenda, è esclusivamente la determinazione legislativa dei soggetti che possono accedere ad una certa carriera dirigenziale. (…)”. Infine, ad accogliere la tesi sostenuta dal TAR Lazio, finiscono con l’essere discriminati i lavoratori a tempo indeterminato, con il riconoscimento di “una preferenza per i docenti non di ruolo”, ragion per cui il ricorso in appello non può trovare accoglimento. GMC |
Inserito in data 18/09/2014 TAR CAMPANIA - SALERNO, SEZ. I, 16 settembre 2014, n. 1577 Sul procedimento di cui all’art. 42 bis D.P.R. 327/01 Con la sentenza in epigrafe, i Giudici salernitani sono chiamati ad esprimersi in ordine alla “tutela del privato in presenza di occupazioni che, per quanto in origine legittime, siano divenute sine titulo per mancata adozione, nei termini di legge, di rituale misura ablatoria”. A tal proposito, deve precisarsi che: “la c.d. occupazione appropriativa per trasformazione irreversibile dell'immobile, come modo di acquisto della proprietà a titolo originario, fondato sul principio della accessione c.d. invertita mutuato per analogia dall’art. 938 c.c. … è stata ormai inesorabilmente espunta dal nostro ordinamento, in virtù delle reiterate e decisive pronunzie della Corte di Strasburgo (v., in termini perspicui, Cons. Stato, ad. plen., 29 aprile 2005, n. 2, cui giova complessivamente rinviare)”; “di conseguenza, ricondotta la vicenda della occupazione illegittima ad una “ordinaria” ipotesi di illecita ingerenza nella sfera dominicale altrui, al proprietario leso spetteranno (ove si prescinda, per un momento, dalla già ventilata possibilità che l’ente espropriante eserciti il distinto potere di cui all’attuale art. 42 bis, di cui si dirà) tutte le ordinarie azioni a difesa della proprietà e del possesso, non potendo godere la pubblica amministrazione di uno status privilegiato se non in presenza di poteri esercitati in conformità del paradigma legale di riferimento”. Peraltro, deve osservarsi che “il privato resta, a fronte della illecita ingerenza, proprietario del bene, con la conseguenza che può, anzitutto, attivare (a parte, ovviamente, il risarcimento del danno per il periodo di occupazione) la tutela restitutoria, previa ripristino dello status quo ante…” (v. Cass. sez. I, 23 agosto 2012, n. 14609). Per tali ragioni, “al privato dovrebbe, in principio, ritenersi preclusa la tutela risarcitoria (naturalmente diversa da quella relativa alla mera occupazione, finché la stessa sia di fatto durata), difettando – ai fini del riconoscimento del diritto al rivendicato controvalore venale del bene – il presupposto della perdita della proprietà”. Pertanto, può ritenersi sostanzialmente appagante l’eventualità “che l’Amministrazione adotti l’autonomo potere ablatorio codificato dall’art. 42 bis del t.u. n. 327/2001, in quanto: a) per un verso, la legalità dell’azione amministrativa viene, in certo modo, “recuperata” dalla creazione di un (nuovo ed autonomo) titulus adquirendi di natura provvedimentale, munito di idonea base legale e frutto di doverosa e rigorosa ponderazione comparativa degli interessi in gioco, complessivamente intesa alla salvaguardia di quello pubblico concretamente preminente (così superando la logica, stigmatizzata in sede CEDU, dell’occupazione acquisitiva, che consentiva l’acquisto in virtù di un mero comportamento di fatto, per di più concretante fattispecie di illecito); b) per altro verso, si garantisce al privato una tutela piena e satisfattiva (in prospettiva dichiaratamente “indennitaria” piuttosto che “risarcitoria”, non trattandosi, nell’auspicio “ricostruttivo”, per quanto valer possa l’intento qualificatorio trasfuso nella norma, dei conditores, di non più plausibile acquisto ex re illicita, come ancora autorizzava a ritenere la formulazione del previgente art. 43) al conseguimento dell’integrale valore del bene (per giunta maggiorato – a dire il vero, non senza una sottile contraddizione “sistematica” – del pregiudizio non patrimoniale forfetizzato, oltre che, naturalmente, del danno da occupazione), senza neppure precludergli (in tesi astratta) la possibilità di impugnare (se interessato soprattutto alla reintegra) il provvedimento”. Ciò posto, la giurisprudenza: “ha ritenuto (così TAR Lecce, sez. I, 24 novembre 2010, n. 2683) che l’irreversibile trasformazione del bene continui a rappresentare fatto idoneo a far acquistare la proprietà alla pubblica amministrazione (non già, peraltro, per il principio dell’accessione invertita, ma in virtù della c.d. specificazione ex art. 940 c.c., consistente nella utilizzazione della altrui “materia” per realizzare una “nuova cosa”)”. Invero, tale ricostruzione è rimasta isolata, stante che la specificazione, quale modo civilistico di acquisto della proprietà a titolo originario, si attaglia alle cose mobili e non a quelle immobili; “ha ventilato l’applicazione della regola (ordinaria e tradizionale) della accessione ex art. 934 c.c., in forza della quale non solo (come è pacifico) il proprietario delle aree occupate non perde il proprio diritto in conseguenza dell’altrui ingerenza, ma diventa anche il proprietario degli immobili realizzati sul proprio suolo: con il che peraltro – del tutto paradossalmente – il privato sarebbe esposto anche ad un arricchimento “imposto” ed una consequenziale obbligazione indennitaria a suo danno”; ha statuito (già nella vigenza dell'art. 43) che, “a fronte della domanda risarcitoria, la P.A. avrebbe potuto (alternativamente ma doverosamente) pervenire ad un accordo transattivo ovvero emettere un formale e motivato decreto, con cui disporre o la restituzione dell'area a suo tempo occupata, previa ripristino dello status quo ante, ovvero l'acquisizione coattiva: con il che, in caso di inerzia conseguente al giudicato “ad esito alternativo”, l'interessato avrebbe potuto chiedere, in sede di ottemperanza, l'esecuzione della decisione, per la adozione delle misure consequenziali (rientrando nei poteri del giudice, in tal caso estesi come è noto al merito, la nomina di un commissario ad acta per l’adozione della scelta più opportuna): così Cons. Stato, sez. IV, 21 maggio 2007, n. 2582, seguito, tra le altre, da TAR Campania Napoli, sez. V, 28 maggio 2009)”. Trattasi di orientamento che ha ripreso vigore, specie nella giurisprudenza di prime cure, con l’introduzione dell'art. 42 bis D.P.R. 327/2001. Deve, altresì, rammentarsi “come altra impostazione abbia inteso andare oltre il prospettato esito decisionale, escludendo ogni alternativa, anche quella della restituzione, rendendo non più nascosto ma esplicito e vincolante l'obiettivo di addivenire all'acquisizione: se il provvedimento di acquisizione è (o si vuole che sia) l'unico modo per sistemare la vicenda e la P.A. rimane inerte, vorrà dire che a tale provvedimento si dovrà ineludibilmente pervenire per ordine del giudice, con eventuale esercizio di poteri sostitutivi in sede di esecuzione: in tal caso l'accoglimento del ricorso si risolve, direttamente, in una condanna specifica ad adottare il provvedimento di acquisizione ai sensi dell'art. 42 bis”. Così operando, da un lato, si trasferisce la proprietà e si evita la restituzione e, d'altro lato, si concede indirettamente il risarcimento del danno per equivalente al privato (v., tra le altre, T.A.R. Campania Napoli, Sez. V, 13 gennaio 2012, n. 176; T.A.R. Sicilia, Palermo, Sez. II, 23 febbraio 2012, n. 428; T.A.R. Lombardia Brescia, Sez. II, 26 gennaio 2012, n. 115). E’ evidente come la prospettiva della condanna a provvedere ex art. 42 bis consente, a favore del privato, “di superare in radice ogni problematico rilievo del distinguo tra domanda restitutoria e domanda di risarcimento per equivalente, poiché, quale che sia l'esatto contenuto della domanda, soltanto nella suddetta condanna può risolversi il processo”. In tale contesto, una recente pronuncia del Consiglio di Stato (la n. 1514 del 16 marzo 2012, resa dalla sez. IV), oltre ad escludere la tutela risarcitoria in assenza di adozione del provvedimento acquisitivo, ha negato che possa darsi luogo (quando, ovviamente, richiesta) a quella restitutoria, in quanto verrebbe eliso di per sé ed automaticamente “il potere (discrezionale e non conculcabile) di acquisizione sanante ex art. 42 bis (non esistendo più la c.d. acquisizione giudiziale consentita dal previgente art. 43, che autorizzava l’Amministrazione ad invocare ope exceptionis la limitazione della domanda alla erogazione del risarcimento del danno, nella prospettiva della futura e “preannunziata” determinazione acquisitiva)”; di guisa che “la domanda (comunque formulata) è ritenuta accoglibile (avuto riguardo al c.d. principio di atipicità scolpito dall’art. 34 c.p.a.) nei (soli) sensi dalla condanna all’obbligo generico di provvedere ex art. 42 bis, restando impregiudicata la scelta discrezionale tra acquisizione sanante (unita al ristoro per la perdita della proprietà e per il periodo di occupazione illegittima) e restituzione (preceduta dalla restitutio in integrum e dal ristoro del solo periodo di occupazione illegittima)”. Sarebbe, dunque, preferibile strutturare “la tutela del privato nei sensi della condanna (pura) a provvedere, nelle forme del rito avverso il silenzio (in tal senso, per esempio, TAR Campania Napoli, sez. V, 11 gennaio 2012, n. 86, confermata da Cons. Stato, sez. IV, 8 ottobre 2012, n. 5207)”. EMF
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Inserito in data 18/09/2014 CORTE DI CASSAZIONE, SECONDA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 16 settembre 2014, n. 19488 Sulla configurabilità dell’atto scritto richiesto “ad substantiam” Con la pronuncia in esame, gli Ermellini affermano che “ai fini della configurabilità dell'atto scritto richiesto 'ad substantiam' per la validità di una compravendita immobiliare, occorre che in esso risulti inequivocabilmente la manifestazione specifica della volontà di concludere il suddetto contratto, con la conseguenza che non è possibile ricorrere ad elementi esterni all'atto scritto per accertare l'esistenza di tale volontà”. A tal proposito, infatti, la giurisprudenza ha ritenuto che “la manifestazione scritta della volontà di uno dei contraenti non può essere sostituita da una dichiarazione confessoria dell'altra parte, non valendo tale dichiarazione né quale elemento integrante il contratto, né - quand'anche contenga il preciso riferimento ad un contratto concluso per iscritto - come prova del medesimo (Cass. 28-5-1997 n. 4709; Cass. 18-6-2003 n. 9687; Cass. 7-4-2005 n. 7274)”. EMF
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Inserito in data 17/09/2014 CORTE DI CASSAZIONE, PRIMA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 12 settembre 2014, n. 19319 Esclusa l’impugnabilità per simulazione dell’accordo di separazione omologato La sentenza ribadisce l’orientamento (già espresso da Cass 17607/2033) per cui, anche se non si può dubitare della natura negoziale dell'accordo di separazione consensuale tra coniugi, e pur non essendo ravvisabile, nell'atto di omologazione, una funzione sostitutiva o integrativa della volontà delle parti, è esclusa l’impugnabilità per simulazione dell'accordo di separazione una volta omologato. Infatti, l'iniziativa processuale diretta ad acquisire l'omologazione si risolve in una iniziativa nel senso della efficacia della separazione, che vale a superare il precedente accordo simulatorio, ponendosi in antitesi con esso. È evidentemente insostenibile, del resto, che i coniugi possano "disvolere" con detto accordo la condizione di separati ed al tempo stesso "volere" l'emissione di un provvedimento giudiziale destinato ad attribuire determinati effetti giuridici a detta condizione. CDC
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Inserito in data 17/09/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 15 settembre 2014, n. 4674 Iter evolutivo della responsabilità precontrattuale della PA; quantificazione del danno La sentenza affronta, fra l’altro, il tema della responsabilità precontrattuale della PA, istituto che trova regolamentazione nell’art. 1337 cc e di cui è delineato l’iter evolutivo. Fino alla fine degli anni ’50, si riteneva non configurabile una tale forma di responsabilità in capo alla PA, per due ragioni: la PA non poteva, nel corso della sua attività, compiere atti illeciti, essendo la sua attività preordinata al raggiungimento di un interesse pubblico; l’indagine del giudice ordinario si sarebbe trasformata in un inammissibile sindacato giudiziale sulle modalità di esercizio dei poteri discrezionali. Con la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 1675/1961 è stata riconosciuta, per la prima volta, la configurabilità della responsabilità precontrattuale della PA. Ciò poteva valere con riferimento a due sole ipotesi: ingiustificato recesso da una trattativa privata (c.d. pura) e violazione del dovere di correttezza e buona fede, nel rapporto instauratosi successivamente all’aggiudicazione della gara (es.: omissione o ritardo nell’approvazione del contratto). Solo in queste ipotesi, infatti, si riteneva che la PA si spogliasse dei propri doveri pubblicistici ed operasse come un qualunque altro soggetto. Al contrario, la responsabilità precontrattuale della PA non poteva configurarsi nell’ipotesi di pubblico incanto e di licitazione privata. Con la sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 6/2005 è stata affermata la responsabilità precontrattuale anche nell’ipotesi di svolgimento di attività amministrativa legittima, la quale può essere lesiva del principio di affidamento e buona fede. Da ultimo, la giurisprudenza amministrativa ha altresì affermato la possibilità della configurazione di responsabilità precontrattuale della PA anche in presenza di un provvedimento amministrativo illegittimo, ove il comportamento della PA sia anche contrario ai principi di correttezza e buona fede e il danneggiato non chieda il risarcimento per lesione del bene della vita. Ciò si ricollega alla distinzione tra regole “di validità” e “di condotta”, le quali operano su piani distinti: mentre la violazione delle prime comporta illegittimità e annullabilità del provvedimento, la violazione delle seconde dà luogo a responsabilità precontrattuale. Quanto alla quantificazione del danno, esso deve ritenersi limitato all’interesse negativo, comprensivo, però, sia del danno emergente sia del lucro cessante. Quindi, in caso di responsabilità precontrattuale per mancata stipula di un contratto d’appalto o in relazione all’invalidità dello stesso, esso comprende le spese sostenute dall’impresa per aver partecipato alla gara (danno emergente), ma anche la perdita di ulteriori occasioni di stipulazione di altri contratti altrettanto o maggiormente vantaggiosi (lucro cessante), con esclusione del mancato guadagno che sarebbe derivato dalla stipulazione ed esecuzione del contratto non concluso. Per ottenere il risarcimento del lucro cessante, è necessario che il danneggiato dimostri, anche in via presuntiva, ma pur sempre sulla base di circostanze di fatto certe e puntualmente allegate, la sussistenza di un valido nesso causale tra la condotta lesiva e la ragionevole probabilità del conseguimento del vantaggio alternativo perduto (nella specie: aggiudicazione di altri appalti). Secondo la giurisprudenza amministrativa, si richiede a tal fine la produzione delle dichiarazioni formulate dalla ditta di rinuncia alla prosecuzione della partecipazione a gare nelle quali aveva presentato domanda, mentre non possono ritenersi sufficienti eventuali dichiarazioni con cui la parte ha rinunciato a partecipare a gare d’appalto “per impegni in precedenza assunti” in quanto in queste ultime manca l’elemento della concretezza delle opportunità contrattuali perdute. CDC |
Inserito in data 16/09/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 16 settembre 2014, n. 4711 Penalità di mora in caso di giudicato di condanna al pagamento di una somma di denaro “Quanto alla domanda relativa alla c.d. penalità di mora (astreinte), ex art. 114, comma 4, lettera e), cod. proc. amm., il Collegio deve tener conto che la prevalente giurisprudenza ha risolto in senso positivo la questione dell’esperibilità dell’istituto anche quando l’esecuzione del giudicato consista nel pagamento di una somma di denaro (ciò, essenzialmente sulla base del rilievo secondo il quale l’istituto assolve ad una finalità sanzionatoria e non risarcitoria, in quanto non è volto a riparare il pregiudizio cagionato dalla non esecuzione della sentenza ma a sanzionare la disobbedienza alla statuizione giudiziaria e stimolare il debitore all’adempimento)”. “Per ciò che concerne i presupposti previsti dall’art. 114, comma 4, lettera e), nel caso in esame l’applicazione della penalità non sembra poter determinare un effetto “manifestamente iniquo”, considerato che l’inadempimento, dopo l’annullamento dell’interdittiva, si è protratto a lungo senza (che, come esposto, sia stata in questa sede prospettata, né risulti altrimenti) alcuna giustificazione e che i comportamenti imposti dalla sentenza non presentano particolare complessità, né riguardano interessi sensibili dell'Amministrazione debitrice; parimenti, non sono state rappresentate, né comunque si ravvisano “altre ragioni ostative” all’applicazione della sanzione pecuniaria”. “Poiché, peraltro, la misura compulsoria, strumento di coercizione indiretta dell’esecuzione del giudicato, viene richiesta dalla azienda ricorrente cumulativamente alla nomina del commissario ad acta, strumento di diretta esecuzione in via surrogatoria, il Collegio ritiene di accordare all’impresa ricorrente una penalità di mora, […] soltanto a decorrere dalla scadenza del termine di trenta giorni assegnato alla Regione per l’adempimento dell’obbligo suindicato e fino all’insediamento del commissario ad acta incaricato di provvedere in via sostitutiva […] o all’integrale effettivo pagamento di quanto dovuto da parte della Regione, se antecedente”. TM |
Inserito in data 16/09/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 16 settembre 2014, n. 4713 Diritto alla maggiore retribuzione per l’esercizio di fatto delle mansioni superiori Nel pubblico impiego, “per giurisprudenza consolidata l’esercizio di fatto delle mansioni superiori (quand’anche la prestazione sia incontroversa, come nella fattispecie) non comporta il diritto alla maggiore retribuzione, se non quando (e nei limiti in cui) vi sia stato un formale atto di incarico per la copertura di un posto vacante in organico. In questo contesto, per “atto formale” si intende un atto proveniente non semplicemente da un superiore gerarchico (come nel caso degli ordini di servizio) bensì dall’organo competente ad adottare i provvedimenti in materia di stato giuridico e trattamento economico del personale. Ed invero, perché l’incarico possa produrre effetto anche in ordine al trattamento economico dell’impiegato, è necessario che l’organo che lo conferisce sia competente, appunto, ad emanare atti che incidono sul bilancio dell’ente e sulle previsioni di spesa; e possa assumersene la relativa responsabilità”. TM |
Inserito in data 15/09/2014 CORTE DEI CONTI - SEZIONE GIURISDIZIONALE REGIONALE PER IL LAZIO - SENTENZA 10 settembre 2014, n. 665 Sulla responsabilità per danno erariale dei dirigenti La Corte dei Conti ha condannato due dirigenti alla rifusione del danno erariale causato all’INPDAP a seguito della condanna della stessa, ad opera del giudice del lavoro, al pagamento delle differenze retributive spettanti ai lavoratori per le superiori mansioni dirigenziali espletate in esecuzione del conferimento di incarichi di reggenza. Dopo aver rigettato le eccezioni di prescrizione e di difetto di giurisdizione rispettivamente sul rilievo della decorrenza del dies a quo dalla sentenza di condanna, non già da quello del conferimento dell’incarico (momento in cui si è effettivamente verificato il danno), e che “l’indagine sulla giurisdizione ha per oggetto il petitum e la causa petendi, cioè le ragioni della pretesa, mentre ogni questione attinente l’effettiva sussistenza dei concreti elementi di imputazione della correlata responsabilità si riflette sul merito”, la Corte ha proceduto all’esame delle questioni di fatto. Il Collegio ha osservato che la contestazione della procura attiene alle modalità con cui la P.A., nella persona dei propri dirigenti, ha esercitato le proprie funzioni, contravvenendo a quelli che sono i limiti di legge. Nel caso di specie, infatti, i convenuti, al fine di rispondere alle esigenze di riorganizzazione dell’istituto a seguito di vari trasferimenti di personale e funzioni, avevano proceduto all’attribuzione di incarichi di reggenza senza procedere alla determinazione del periodo di durata degli stessi il quale, di fatto, si era protratto ben oltre il termine di 12 mesi tassativamente fissato dalla legge. Il meccanismo previsto dalla legge ha carattere intrinsecamente temporaneo in quanto preordinato alla copertura di carenze di organico per il periodo strettamente necessario all’espletamento delle procedure ordinarie. Invero, laddove la suddetta temporaneità non venisse rispettata si verrebbe a creare una consolidazione di fatto delle posizioni conferite in violazione delle leggi di attribuzione degli incarichi e con le generali regole sull’organizzazione amministrativa, quale quella relativa alla necessaria indizione di concorsi pubblici per assunzione di specifici profili professionali, a garanzia della quale è posto il divieto di cui all’art. 52 del D.lgs. n. 165/2001. “Di tale garanzia è fatto carico ai soggetti che, per le loro competenze, sono in grado di incidere sull’esistenza e sulla protrazione degli incarichi in questione, i quali devono porre in essere le condizioni affinché gli incarichi conferiti rimangano entro i limiti di legge”. Invero, a parere della Corte dei Conti, il termine espressamente previsto dalla legge rileva solo ai fini della legittimità o meno del conferimento dell’incarico, non incidendo direttamente sulla validità dello stesso. Pertanto solo la fissazione del termine di durata del conferimento ad opera del dirigente è in grado di evitare il risultato contrario alla legge. A ben vedere, dunque, ai dirigenti è assegnata una funzione di garanzia che nel caso di specie non è stata svolta, dando luogo ad una responsabilità quanto meno colposa degli stessi: di tipo commissivo per il dirigente che ha conferito l’incarico; omissiva per il suo successore che non ha provveduto alla rimozione dello stesso. Inoltre a parere del Collegio “la circostanza che sulle determinazioni di incarico sia stata apposta da parte del D.G la sigla […] non costituisce una esimente, né per la conferente gli incarichi, né per il suo successore, in quanto entrambi erano i soggetti direttamente ed unicamente investiti delle funzioni e competenze in merito all’attribuzione degli incarichi di reggenza ed alla relativa gestione, avendo detti provvedimenti diretta efficacia solo per effetto della firma del dirigente Generale della D.C.S.I. all’interno della quale essi sono stati disposti”. Parimenti priva di ogni fondamento è apparsa la tesi difensiva che escludeva la configurabilità del danno a seguito dell’erogazione della differenza retributiva in quanto relativa ad un’indennità contrattualmente prevista per il personale direttivo cui siano conferiti mansioni dirigenziali e non quale corrispettivo per le superiori mansioni. Invero, ritiene il Collegio, “la circostanza che tale emolumento sia previsto contrattualmente, fatto questo che ha costituito titolo per il diritto dei dipendenti alla liquidazione delle somme in questione, non comporta necessariamente che sempre ed in ogni caso la sua corresponsione sia lecita, nel senso che essa non costituisca un danno erariale, come infatti accade nelle ipotesi in cui l’incarico sia stato conferito o sia proseguito in violazione dei termini di legge”. Inoltre nel caso di specie, in considerazione dei più stringenti requisiti richiesti per l’attribuzione delle funzioni dirigenziali, non sarebbe nemmeno possibile una valutazione dell’utilità derivante dall’effettiva prestazione dell’attività prestata dai dipendenti incaricati. Tale valutazione, infatti, è subordinata all’esistenza di una previsione legislativa che indichi i suddetti requisiti dovendosi, pertanto negare rilevanza alle assegnazioni di mansioni superiori disposte oltre i casi previsti dalle citate disposizioni, al punto da sancirne la nullità. VA |
Inserito in data 15/09/2014 CORTE DI CASSAZIONE - PRIMA SEZIONE PENALE, SENTENZA 12 settembre 2014, n. 37596 Molestie su social network e nozione di “luogo aperto al pubblico” La Suprema Corte di Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi in merito all’applicabilità dell’art. 660 del codice penale ai casi di molestia perpetrati mediante l’uso dei social network. Più precisamente ci si è interrogati sulla riconducibilità degli stessi all’interno del concetto di “luogo pubblico o aperto al pubblico” quale locus commissi delicti, siccome richiesto dalla norma in questione. Il Collegio ha dichiarato che la possibilità di considerare un luogo privato, pubblico (inteso quale “luogo di fatto continuamente libero a tutti o a un numero indeterminato di persone”) o aperto al pubblico (quale “luogo cui un numero indeterminato di persone o intere categorie possono accedere senza limiti”) è una questione di fatto da risolversi in considerazione delle concrete modalità che disciplinano quel determinato luogo. La Suprema Corte, peraltro, ha ricordato che, nel rispetto del principio di legalità e tassatività, non è possibile estendere analogicamente l’applicazione della norma in commento equiparando l’uso del telefono ai mezzi telematici. Nel caso di specie, inoltre, i fatti contestati erano stati commessi mediante l’uso della chat-line (dunque mediante messaggi privati) e non attraverso la pubblicazione degli stessi nella c.d. bacheca, potenzialmente accessibile a tutti. Tuttavia gli Ermellini, pur avallando il ricorso avverso la sentenza di condanna pronunciata in secondo grado, hanno dato vita ad un’importante intervento interpretativo che ha messo in debita considerazione la diffusione del fenomeno. La Suprema Corte ha così affermato che “la riconducibilità delle condotte alla fattispecie di cui all’art. 660 c.p. non dipenderebbe tanto dalla assimilabilità della comunicazione telematica alla comunicazione telefonica, quanto dalla natura stessa di “luogo” virtuale aperto a chiunque utilizzi la rete, di un social network o community quale facebook”, assimilato ad una “piazza virtuale”. Il Collegio, infatti, ricorda che, se è vero che il nostro ordinamento esclude la possibilità di applicare in via analogica le norme penali, è altresì vero che ne è ammessa un’interpretazione evolutiva che riesca ad adattare le stesse alla realtà storica e culturale del tempo tenendo conto della ratio in esse sottesa. Sulla base di tali considerazioni la Corte di Cassazione ha annullato con rinvio la sentenza di condanna emessa in secondo grado al fine di procedere ad una più attenta disamina dei fatti alla luce dei principi sopra esposti. VA
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Inserito in data 14/09/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 12 settembre 2014, n. 4662 Sulle modifiche introdotte dal Decreto Sviluppo alla norma sul soccorso istruttorio La norma sul soccorso istruttorio (ex art. 46 D. Lgs. 163/2006, come modificato dal D. L. 70/2011) deve essere intesa, alla luce di quanto affermato con la sentenza n. 9 del 2014 dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, “nel senso che occorre tenere separati i concetti di regolarizzazione documentale e di integrazione documentale: la prima, consistendo nel «completare dichiarazioni o documenti già presentati» dall’operatore economico, è ammessa, per i soli requisiti generali, al fine assicurare, evitando inutili formalismi, il principio della massima partecipazione; la seconda, consistendo nell’introdurre nel procedimento nuovi documenti, è vietata per garantire il principio della parità di trattamento. La distinzione è superabile, si afferma sempre nella citata sentenza, in presenza di «clausole ambigue» che autorizzano il soccorso istruttorio anche mediante integrazione documentale”. Pertanto, “le prescrizioni contenute nel bando di gara che contengono clausole contrarie alla suddetta norma imperativa, così come interpretata, devono ritenersi nulle. Esse, infatti, si risolverebbero nella previsione di una causa di esclusione non consentita dalla legge”. Ciò posto, il Supremo Consesso ha ritenuto che, “in ragione della valenza innovativa dell’art. 46 rispetto ai precedenti orientamenti della giurisprudenza, lo stesso non possa trovare applicazione in relazione: i) alle procedure disciplinate dal d.lgs. n. 163 del 2006 prima dell’entrata in vigore del decreto stesso (14 maggio 2011); ii) alle procedure selettive non disciplinate direttamente o indirettamente (per autovincolo dell’amministrazione procedente) dal d.lgs. n. 163 del 2006”. EMF |
Inserito in data 14/09/2014 CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA - TERZA SEZIONE, SENTENZA 10 settembre 2014 Causa C-491/13 Cittadini di Paesi terzi: diritto a permessi per motivi di studio La Corte del Lussemburgo, intervenendo riguardo alla vicenda di un cittadino tunisino intento a proseguire i propri studi in Germania, chiarisce il ruolo di ciascuno Stato membro della Comunità – come previsto dalla Direttiva 2004/114/CE del Consiglio Europeo del 13 dicembre 2004. In primo luogo, il Collegio individua, nel potenziale pregiudizio all’ordine pubblico ed alla sicurezza e sanità della Nazione, il principale limite al rilascio incondizionato di permessi di soggiorno per motivi di studio a cittadini provenienti da Paesi esterni alla Comunità europea. Specifica, al tempo stesso, che – al di fuori di ipotesi simili - è comunque necessario delimitare la discrezionalità di ciascuno Stato nel respingere le domande di visto proposte dagli studenti extracomunitari. Occorre effettuare, in sostanza, una ponderazione tra il perseguimento dei legittimi obiettivi di ciascuna Nazione ed i rischi connessi ad un impiego abusivo della Direttiva. Si creerebbe, altrimenti, un’area di valutazione insindacabile talmente vasta da deflazionare il valore della Fonte del 2004, il cui scopo ultimo è, per l’appunto, quello di fare dell’Europa un centro di grande eccellenza universitaria. I Giudici, pertanto, circoscrivendo l’area di intervento di ciascuno Stato alla valutazione delle condizioni già siglate dalla Direttiva, non consentono l’inserimento di requisiti di ammissione ultronei che, altrimenti, inciderebbero sulla realizzazione di uno spazio universitario comune – cui la Direttiva è, da sempre, rivolta. CC
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Inserito in data 13/09/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 9 settembre 2014, n. 4578 In materia di appalti pubblici le soluzioni migliorative vanno distinte dalle varianti “Secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, in materia di gare pubbliche da aggiudicarsi con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggioso, le soluzioni migliorative si differenziano dalle varianti: infatti le prime possono liberamente esplicarsi in tutti gli aspetti tecnici lasciati aperti a diverse soluzioni sulla base del progetto posto a base di gara ed oggetto di valutazione dal punto di vista tecnico, salva la immodificabilità delle caratteristiche progettuali già stabilite dall'Amministrazione, mentre le seconde si sostanziano in modifiche del progetto dal punto di vista tipologico, strutturale e funzionale, per la cui ammissibilità è necessaria una previa manifestazione di volontà della stazione appaltante, mediante preventiva autorizzazione contenuta nel bando di gara e l'individuazione dei relativi requisiti minimi che segnano i limiti entro i quali l'opera proposta dal concorrente costituisce un aliud rispetto a quella prefigurata dalla Pubblica amministrazione (Cons. St., sez. V, 20 febbraio 2014, n. 814; 24 ottobre 2013, n. 5160). E’ stato anche puntualizzato che le varianti progettuali migliorative riguardanti le modalità esecutive dell'opera o del servizio sono ammesse, purché non si traducano in una diversa ideazione dell'oggetto del contratto (Cons. St., sez. V, 17 settembre 2012, n. 4916)”. EMF
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Inserito in data 12/09/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 10 settembre 2014, n. 4618 Diritto a fruire dei riposi giornalieri ex art. 40 T.U. 151/2001 Con la pronuncia in epigrafe, i giudici di Palazzo Spada esaminano la questione concernente l'assimilazione dell'attività lavorativa all'attività domestica, richiamando altresì alcune pronunce della Suprema Corte in materia. Specificamente, con ricorso proposto dinanzi al Tribunale Amministrativo Regionale per la Liguria, l'appellante ha chiesto il riconoscimento del diritto a fruire dei riposi giornalieri di cui all’art. 40 del T.U. n. 151/2001 con decorrenza dal giorno successivo al compimento del terzo mese di vita del figlio, previo annullamento del provvedimento del Ministero dell’interno, Dipartimento della pubblica sicurezza, Questura di Genova, del 12.12.2012, con il quale l’Amministrazione resistente ha respinto l’istanza volta al godimento dei riposi stessi, nonché il pagamento delle somme corrispondenti alle ore di lavoro effettivamente prestate per mancata fruizione di detti riposi. In primo grado, il T.A.R., premesso che il diniego censurato è stato motivato dall’Amministrazione con il fatto che la moglie dell’istante è nella condizione di casalinga, laddove le ipotesi contemplate dall’art. 40 del D. Lgs. 151/2001 prevedono la fruizione dei riposi in argomento da parte del padre nel caso di rinuncia della madre lavoratrice, ha respinto il ricorso, ritenendo “che, essendo i riposi giornalieri concessi al fine essenziale di garantire al figlio, entro l’anno di vita, la presenza alternativa di uno dei genitori, non sia giustificata, nel caso di madre casalinga, la concessione del beneficio al padre lavoratore dipendente”. I giudici di Palazzo Spada, facendo leva sul principio espresso con sentenza del C.d.S. n. 4293 del 9.9.2008 – che, esaminando la medesima problematica oggetto di causa, di sostituzione del padre nella fruizione dei permessi qualora la madre sia non lavoratrice autonoma bensì casalinga, palesava la piena assimilazione della lavoratrice casalinga alla lavoratrice non dipendente – osservano che l’opposto diniego si riveli illegittimo. Specificamente, quella esaminata è “una norma rivolta a dare sostegno alla famiglia ed alla maternità in attuazione delle finalità generali di tipo promozionale scolpite dall'art. 31 della Costituzione”, dunque, non può che valorizzarsi la ratio della stessa, volta a beneficiare il padre di permessi per la cura del figlio allorquando la madre non ne abbia diritto in quanto lavoratrice non dipendente e pur tuttavia impegnata in attività (nella fattispecie, quella di “casalinga”), che la distolgano dalla cura del neonato. Infine, a sostegno della condivibisibilità di tale interpretazione, dev'essere altresì richiamata la pronuncia della Suprema Corte n. 20324 del 20.10.2005, che, esaminando la questione della risarcibilità del danno da perdita della capacità di lavoro, assimila l'attività domestica ad attività lavorativa, richiamando i principi di cui agli artt. 4, 36 e 37 della Carta costituzionale. GMC
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Inserito in data 12/09/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 10 settembre 2014, n. 4619 Sul provvedimento di espulsione di stranieri extracomunitari Con la pronuncia in epigrafe, i giudici di Palazzo Spada si occupano del provvedimento di nuova reiezione della dichiarazione di emersione di lavoro irregolare resa, ai sensi dell'art. 1 del d.l. 9 settembre 2002 n. 195, in favore di un lavoratore subordinato cittadino nigeriano. Secondo quanto affermato dal Consiglio di Stato, “il diniego si basa, in fatto, sui seguenti elementi rappresentati nella nota 14 maggio 2005 della Questura di Ravenna: a) oltre alla pendenza di procedimento penale presso il Tribunale di Ravenna (pendenza che aveva dato luogo al precedente diniego, contestualmente revocato per l’intervento della sentenza 10 febbraio 2005 n. 78 della Corte costituzionale, dichiarativa dell’illegittimità costituzionale dell’art. 1, co. 8, lett. c, del d.l. n. 195 del 2002 nella parte prevedente l’automatica causa ostativa dell’esistenza di denuncia per uno dei reati di cui agli artt. 380 e 381 cod. proc. pen.), la sentenza 11 marzo 2004 della Corte di appello di Torino, di condanna ad un anno di reclusione, pena sospesa, per il reato di abbandono di minori (art. 591 cod. pen.), nonché la sentenza 10 maggio 2005 del Tribunale di Ravenna, di condanna ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen. a 15 giorni di reclusione, sostituita da multa, per i reati di false dichiarazioni a pubblico ufficiale e sostituzione di persona (artt. 495 e 494 cod. pen.); b) due espulsioni emesse dal Prefetto di Viterbo il 9 novembre 1992 (con l’alias -OMISSIS-) e dal Prefetto di Ravenna il 20 giugno 2002, nonché rientro in Italia senza la prescritta autorizzazione dopo aver ottemperato all’intimazione, come riferito e documentato dallo stesso cittadino nigeriano”. Il Prefetto di Campobasso, ha posto a base del diniego l’art. 1, co. 8, lett. a), del d.l. n. 195 del 2002, il quale dispone che “la legalizzazione del lavoro irregolare non si applica ai rapporti di lavoro riguardanti lavoratori extracomunitari “a) nei confronti dei quali sia stato emesso un provvedimento di espulsione per motivi diversi dal mancato rinnovo del permesso di soggiorno, salvo che sussistano le condizioni per la revoca del provvedimento in presenza di circostanze obiettive riguardanti l'inserimento sociale”. Ed ancora, la revoca, fermi restando i casi di esclusione di cui alle lettere b) e c), non può essere in disposta nell'ipotesi in cui il lavoratore extracomunitario sia o sia stato sottoposto a procedimento penale per delitto non colposo che non si sia concluso con un provvedimento che abbia dichiarato che il fatto non sussiste o non costituisce reato o che l'interessato non lo ha commesso, ovvero risulti destinatario di un provvedimento di espulsione mediante accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica, ovvero abbia lasciato il territorio nazionale e si trovi nelle condizioni di cui all'articolo 13, comma 13, del testo unico di cui al decreto legislativo n. 286 del 1998, e successive modificazioni. Nel caso di specie, s'è ritenuto che sussistessero tutti i presupposti richiesti: la presenza di espulsione (nella specie due) per motivi diversi dal mancato rinnovo del permesso di soggiorno e la impossibilità di revoca dell’espulsione per entrambe le ipotesi previste, cioè sia per la sottoposizione a procedimento penale per delitto non colposo che non sia concluso con la dichiarazione che il fatto non sussiste o non costituisce reato o l’interessato non lo ha commesso (nella specie le due citate condanne), sia perché a seguito dell’espulsione l’interessato ha lasciato l’Italia e poi vi è rientrato in assenza della prescritta autorizzazione. Dunque, se è vero che è irrilevante che le sentenze di cui trattasi siano state emesse ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen. (c.d. patteggiamento) perché pur sempre di condanna, vale a dire relative a procedimenti penali conclusi diversamente da quanto la norma prescrive, è peraltro vero che non sussiste il principale presupposto della esistenza di provvedimenti di espulsione per motivi diversi dal mancato rinnovo del permesso di soggiorno. GMC |
Inserito in data 11/09/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 10 settembre 2014, n. 4586 Responsabilità PA: irrilevanza dell’elemento soggettivo e risarcimento per equivalente I Giudici della quinta Sezione, con la pronuncia in oggetto, riepilogano gli aspetti essenziali della responsabilità di un’Amministrazione in sede di appalti pubblici. In primo luogo, confermando la doglianza della ditta appellante, il Collegio ricorda l’irrilevanza dell’elemento soggettivo posto che, in materia di appalti pubblici, la colpa dell’Amministrazione sarebbe rinvenibile in re ipsa, una volta accertata l’illegittimità degli atti da questa posti in essere. Un simile traguardo, fortemente voluto dalla giurisprudenza comunitaria e, conseguentemente recepito da quella interna, si spiega alla luce dei principi di effettività e pienezza della tutela, nonché di equivalenza delle condizioni di partecipazione che, altrimenti, rischierebbero di essere vulnerate laddove ciascuno Stato perseguisse il rimedio risarcitorio e sanzionatorio secondo criteri propri. Ricorda il Collegio, infatti, che “La disciplina della concorrenza è rivolta essenzialmente alla tutela delle posizioni soggettive delle imprese, cui dovrebbe corrispondere in capo alla Pubblica Amministrazione l’obbligo di tenere un comportamento verso i concorrenti nelle gare pubbliche; tale intento rischierebbe con ogni probabilità di essere frustrato da una disciplina nazionale che subordinasse l’ottenimento del risarcimento dei danni, da parte dell’offerente offeso, al previo positivo riscontro dell’elemento soggettivo della responsabilità della Pubblica Amministrazione”. E, pertanto, si sottolinea ancora che “L’ordinamento comunitario dimostra che ciò che rileva è l’ingiustizia del danno e non l’elemento della colpevolezza; ciò determina ipso facto la creazione di un diritto amministrativo comune a tutti gli Stati membri nel quale i principi che si elaborano a livello comunitario, in applicazione dei Trattati, trovano humus negli ordinamenti interni, e costituiscono una sorta di sussunzione unificante di regole riscontrabili in tali ordinamenti. In questo processo di astrazione è inevitabile che i principi di diritto interno vengano sostituiti dai principi caratterizzati da una più larga acquisizione, poiché il riavvicinamento e l’armonizzazione normativa premia il principio maggiormente condiviso, come è quello della responsabilità piena della P.A. senza aree di franchigia.” D’altra parte, proseguono i Giudici della quinta Sezione, la mancata ricerca della colpa – in capo all’Amministrazione appaltante - si spiega, altresì, al fine di rendere più semplice l’eventuale pretesa risarcitoria vantata dal candidato estromesso. La richiesta di una forfettizzazione monetaria, ove – come avviene di solito – la riedizione del potere amministrativo fosse difficilmente realizzabile, non potrebbe, infatti, essere ostacolata dalla prova circa la sussistenza o meno di un elemento soggettivo. Si rischierebbe, infatti, di far diventare il risarcimento per equivalente, residuale rispetto a quello in forma specifica, ma di maggiore applicazione data la più frequente impraticabilità di quest’ultimo, una via impervia, con il serio pregiudizio, incombente sul privato, di rimanere sprovvisto di qualsivoglia forma di tutela. CC |
Inserito in data 11/09/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 11 settembre 2014, n. 4632 Delimitata la nozione di errore di fatto revocatorio ex artt. 106 CpA e 395 n. 4) cpc La pronuncia è significativa perché, ripercorrendo la vicenda oggetto dell’odierna controversia, evidenzia gli aspetti essenziali riguardo al rimedio impugnatorio della revocazione di sentenza. Più nel dettaglio, il Collegio ricorda che l’errore di fatto ex artt. 106 CpA e 395 n. 4) cpc, che consente di rimettere in discussione il decisum giudiziale con il rimedio straordinario della revocazione, è solo quello che non coinvolge l’attività valutativa dell’organo decidente, ma tende ad eliminare l’ostacolo materiale frapposto fra la realtà del processo e la percezione che di questa il giudice abbia avuto. Occorre, peraltro, che il fatto oggetto dell’asserito errore non abbia costituito un punto controverso, sul quale la sentenza impugnata per revocazione abbia pronunciato. In questo modo, infatti, potrebbe verificarsi il serio rischio che il giudizio revocatorio, da rimedio eccezionale – quale originariamente previsto, possa trasformarsi in un ulteriore grado di giudizio, incidendo, dunque, sul principio del doppio grado di tutela giurisdizionale. In forza di tali principi, più volte richiamati dalla giurisprudenza amministrativa e poi definitivamente ricostruiti dall’Adunanza Plenaria del 17 maggio 2010, n. 2, i Giudici respingono l’odierna istanza revocatoria, stante la natura decisiva del punto controverso sul quale la sentenza, di cui si chiede la revocazione, si è pronunciata e la conseguente necessità di evitare un ulteriore esame giurisdizionale della vicenda. CC
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Inserito in data 10/09/2014 CORTE DI CASSAZIONE, PRIMA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 8 settembre 2014, n. 18869 Le spese straordinarie non possono essere forfettizzate nell’assegno di mantenimento Sono spese straordinarie quelle che, per la loro rilevanza, imprevedibilità ed imponderabilità esulano dall’ordinario regime di vita dei figli. La loro inclusione in via forfettaria nell’ammontare dell’assegno, posto a carico di uno dei genitori, può rivelarsi in contrasto con il principio di proporzionalità e di adeguatezza de mantenimento, nonché recare grave nocumento alla prole, che potrebbe essere privata di cure necessarie o di altri indispensabili apporti. Pertanto, la soluzione di stabilire in via forfettaria ed aprioristica ciò che è imponderabile ed imprevedibile introduce un’alea incompatibile con i principi che regolano la materia. CDC
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Inserito in data 10/09/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 9 settembre 2014, n. 4546 Il documento ritrovato che consente la revocazione deve essere antecedente all’atto impugnato Ai fini dell'impugnazione per revocazione, ai sensi dell'art. 395 cpc, n. 3, è decisivo il documento (trovato dopo la sentenza, che la parte non abbia potuto produrre in giudizio per cause di forza maggiore o per fatto dell'avversario), quando, se acquisito agli atti, sarebbe stato in astratto idoneo a formare un diverso convincimento del giudice, e perciò a condurre ad una diversa decisione, attenendo a circostanze di fatto risolutive che il giudice non abbia potuto esaminare. Proprio perché il documento deve essere decisivo, esso deve attenere a fatti o atti pienamente rientranti nel thema decidendum. Quindi, quando si tratti di giudizio impugnatorio di atti nell’ambito della generale giurisdizione di legittimità, il documento “decisivo” deve essere necessariamente antecedente al provvedimento impugnato in I grado, e tale da determinare una diversa articolazione dei motivi di impugnazione e, dunque, il conseguente convincimento del giudice, di segno diverso da quello espresso nella sentenza revocanda. Tale ricostruzione risulta indirettamente confermata anche dall’art. 104, comma 3, cpa, il quale consente motivi aggiunti in appello solo qualora la parte venga a conoscenza di documenti “nuovi”, nel senso di non prodotti dalle altre parti nel giudizio di primo grado, a condizione che da tali documenti “emergano vizi degli atti o provvedimenti amministrativi impugnati”. Ciò significa che il documento – che legittima i motivi aggiunti in appello e dunque la deroga alla non proponibilità di domande nuove in tale grado – deve essere necessariamente antecedente al provvedimento impugnato e tale da determinarne la illegittimità. Poiché avverso le sentenze dei Tribunali amministrativi regionali il ricorso per revocazione è ammesso solo “se i motivi non possono essere dedotti con l’appello” (art. 106, comma 3, cpa), non è ammissibile un ricorso per revocazione fondato su documenti successivi al provvedimento impugnato in I grado, poiché ciò – contraddicendo la ratio dell’art. 395 cpc e dell’art. 106 cpa – consentirebbe la revocabilità della sentenza per ragioni diverse e “più ampie” di quelle stesse che – inerendo al thema decidendum – legittimano l’appello e la proposizione di motivi aggiunti contro la sentenza. CDC |
Inserito in data 09/09/2014 CORTE DI CASSAZIONE - TERZA SEZIONE PENALE, SENTENZA 3 settembre 2014, n. 36700 È reato pure il commercio di sostanze dopanti non ricomprese nelle tabelle L’art. 9 L. n. 367/00 punisce il reato di commercio di sostanze dopanti. Trattasi di norma penale in bianco, in quanto rimette alla competenza di organi tecnici l’individuazione di un elemento essenziale della condotta illecita. Segnatamente, al fine di assicurare che le sostanze e i metodi in concreto vietati siano sempre al passo con l’evoluzione scientifica, essi sono individuati con decreto del Ministero della Sanità. Risolvendo un conflitto giurisprudenziale sul punto, le Sezioni Unite (sentenza n. 3087 del 29.11.05) hanno chiarito che le tabelle ministeriali recanti la classificazione dei farmaci e delle pratiche vietate hanno valore ricognitivo ed esemplificativo (non costitutivo e tassativo), con la conseguenza che: da un lato, sono punibili le condotte di commercio di sostanze dopanti, sebbene antecedenti all’adozione del decreto attuativo (ma successive all’entrata in vigore della L. n. 367/00); per altro verso, la normativa antidoping può applicarsi anche a sostanze non esplicitate nel decreto. Con la pronuncia in commento, la terza sezione della Corte di Cassazione ha ribadito il carattere meramente ricognitivo del decreto ministeriale richiamato, deducendo da ciò che il reato ex art. 9, L. n. 367/00 si configura in presenza di sostanze produttive di effetti dopanti, a prescindere dalla circostanza che dette sostanze siano o meno incluse nelle tabelle predette (e addirittura non rilevando la mancata acquisizione delle tabelle suddette). TM
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Inserito in data 08/09/2014 CORTE DI CASSAZIONE - SESTA SEZIONE PENALE - SENTENZA 28 agosto 2014. n. 36382 L'art. 416-ter c.p. sì come modificato è legge più favorevole La Suprema Corte di cassazione, accogliendo il ricorso presentato avverso una sentenza di condanna per scambio elettorale politico-mafioso ai sensi dell’art. 416-ter c.p. ha affermato che la norma in questione, siccome modificata dalla L. 62/2014 costituisce norma più favorevole. La condanna, infatti, si fondava sulla semplice prova dell’avvenuto accordo tra il candidato ed alcuni esponenti di una nota associazione mafiosa al fine di ottenere voti in cambio di denaro. Nel prendere la propria decisione, dunque, il giudice aveva ritenuto irrilevante la mancanza di prove in merito all’effettivo oggetto dell’accordo. Più precisamente non aveva ritenuto necessario che lo stesso comprendesse anche il metodo da utilizzare per il procacciamento dei voti: il ricorso all’intimidazione o alla prevaricazione da parte del sodalizio mafioso. Ai sensi del nuovo dettato normativo, infatti, “il reato deve consumarsi mediante le modalità di cui al terzo comma dell’art. 416-bis c.p.”, modifica introdotta con la l. 32/2014, insieme all’estensione dell’ambito di applicazione della fattispecie attraverso il riferimento alle “altre utilità”, risolvendo espressamente l’annoso dibattito che aveva interessato la norma in commento. È utile osservare che la modifica è intervenuta a dispetto di quanto affermato nella relazione al codice n. 204 nella quale si è sostenuto che la richiesta della prova dell’utilizzo del metodo mafioso costituisce una prova diabolica, non costituendo, tra l’altro, un elemento della struttura del reato. La stessa, dunque, avrebbe inciso sulla corretta individuazione dell’ambito di applicazione. La locuzione definitivamente utilizzata, dunque, è frutto di un’attenta ponderazione degli interessi in gioco che ha visto prevalere l’esigenza di punire l’accordo avente ad oggetto l’uso del metodo mafioso e non il mero accordo volto al procacciamento dei voti. Sulla base delle considerazioni sopra esposte il Supremo Consesso ha applicato retroattivamente la l’art. 416-ter c.p. che, nella nuova formulazione, introduce un ulteriore elemento costitutivo della fattispecie, rendendo complessivamente più favorevole la norma in esame. VA
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Inserito in data 08/09/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 5 settembre 2014, n. 4525 Il consigliere comunale di minoranza ha un diritto non condizionato all’accesso Il Consiglio di Stato, con la sentenza in commento, ha rigettato il ricorso presentato avverso la decisione del giudice di primo grado con la quale il Tar Campania ha riconosciuto l’illegittimità del silenzio serbato dall’amministrazione sull’istanza di accesso presentata da un consigliere di minoranza asserendo che lo stesso costituisce un ostacolo all’effettivo esercizio della pubblica funzione. In primo luogo i giudici di Palazzo Spada hanno ritenuto infondata l’eccezione di inammissibilità del ricorso di primo grado per mancata notifica al revisore dei conti, qualificato come controinteressato. Nell’ambito del processo amministrativo, infatti, il controinteressato è colui il qual risulta essere portatore di un interesse qualificato alla conservazione dell’assetto di interessi che si intende qualificare e che, nel caso di specie, dovrebbe essere individuato nell’ente nei cui confronti il revisore svolge una funzione di ausilio e di assistenza tecnico contabile sull’attività finanziaria e contabile dello stesso. Passando al merito il Supremo Consenso ricorda, inoltre, come “secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, da cui non vi è motivo di discostarsi (C.d.S. 6963/10; 5264/07), i consiglieri comunali hanno un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere d'utilità all'espletamento delle loro funzioni, ciò anche al fine di permettere di valutare - con piena cognizione - la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'Amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio, e per promuovere, anche nell'ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale. Il diritto di accesso loro riconosciuto ha in realtà una ratio diversa da quella che contraddistingue il diritto di accesso ai documenti amministrativi riconosciuto alla generalità dei cittadini [...]; quello riconosciuto ai consiglieri comunali è strettamente funzionale all’esercizio delle loro funzioni […] e si configura come peculiare espressione del principio democratico dell’autonomia locale e della rappresentanza esponenziale della collettività (Cons. Stato, sez. V, 8 settembre 1994, n. 976)”. Proprio in ragione delle peculiarità del diritto in questione si ritiene che non sussista in capo al consigliere comunale un onere di motivazione della richiesta di accesso a meno di non consentire un controllo del suo operato da parte dell’ente. Gli unici limiti rinvenibili in capo agli stessi, dunque, attengono alla limitazione dell’aggravi dell’attività degli uffici comunali e non deve trattarsi di atti emulativi, caratteristiche, peraltro, assenti nel caso in esame. Alla luce dei motivi sopra esposti i giudici di Palazzo Spada hanno confermato la decisione assunta in primo grado e dichiarato illegittimo il silenzio serbato dalla Pubblica Amministrazione. VA
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Inserito in data 08/09/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA 4 settembre 2014, n. 4508 Rimessione alla CGUE dei dubbi ermeneutici sulla disciplina del programma di clemenza Con la pronuncia de qua, i Giudici di Palazzo Spada sono stati chiamati a risolvere la disputa tra vari operatori economici che, in applicazione del programma di clemenza UE, avevano denunciato volontariamente la loro partecipazione ad un cartello al fine di andare esenti da sanzione. In forza del programma di clemenza UE, infatti, la prima impresa che coopera beneficia della piena immunità, mentre i benefici si riducono per i cooperanti successivi. Nel caso in esame, l’appellante aveva presentato per prima la domanda alla Commissione relativamente al trasporto aereo, via mare e su strada, mentre non aveva inizialmente fatto riferimento al trasporto su strada nella domanda in forma semplificata presentata all’AGCM; al punto che, l’AGCM l’aveva qualificata come terzo cooperante in relazione al settore del trasporto su strada. Perciò, la soluzione della causa passa attraverso la definizione dei rapporti tra domanda principale rivolta all’AGCM e domanda in forma semplificata proposta alle singole Autorità nazionali di concorrenza (ANC). A tal fine, il Consiglio di Stato ha ritenuto necessario sottoporre, ai sensi dell’art. 267 del TFUE, alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea le seguenti questioni pregiudiziali: “Se l’art. 101 TFUE, l’art. 4, n. 3 TUE, l’art. 11 del regolamento (CE) n. 1/2003, debbano interpretarsi nel senso che: (i) le ANC non possono discostarsi nella propria prassi applicativa dagli strumenti definiti e adottati dalla Rete europea della concorrenza, in particolare dal programma modello di clemenza in un caso quale quello di cui alla causa principale, senza che ciò contrasti con quanto affermato dalla Corte di giustizia dell’Ue ai punti 21 e 22 della sentenza 14 giugno 2011, causa C-360/09; ii) tra la domanda principale d’immunità che un’impresa abbia presentato o si appresti a presentare alla Commissione e la domanda semplificata d’immunità da essa presentata a un’ANC per lo stesso cartello esiste una connessione giuridica tale che l’ANC […] è tenuta […]: a) a valutare la domanda semplificata d’immunità alla luce della domanda principale e sempre che la domanda semplificata rispecchi fedelmente il contenuto della domanda principale; b) in subordine – qualora ritenga che la domanda semplificata ricevuta abbia un ambito materiale più ristretto di quello della domanda principale presentata dalla stessa impresa, per la quale la Commissione ha concesso l’immunità condizionale a detta impresa – a contattare la Commissione, ovvero la stessa impresa, al fine di accertare se successivamente alla presentazione della domanda semplificata essa abbia nel prosieguo delle sue indagini interne individuato esempi concreti e specifici di condotte nel segmento asseritamente coperto dalla domanda d’immunità principale ma non da quella semplificata; III) […] un’ANC che all’epoca dei fatti di causa nel giudizio a quo applicava un programma di clemenza quale quello di cui alla causa principale poteva legittimamente ricevere, per un dato cartello segreto per il quale una prima impresa avesse presentato o si apprestasse a presentare alla Commissione domanda principale d’immunità: a) soltanto una domanda semplificata di immunità da parte di quella impresa, oppure b) anche domande semplificate d’immunità ulteriori presentate da imprese diverse, che alla Commissione avessero presentato, in via principale, una domanda d’immunità “non accettabile” ovvero una domanda di riduzione dell’ammenda, in particolare qualora le domande principali di queste ultime imprese fossero successive alla concessione dell’immunità condizionale alla prima impresa”. TM |
Inserito in data 07/09/2014 TAR CALABRIA - CATANZARO, SEZ. I, ORDINANZA 4 settembre 2014, n. 472 Calabria: indette nuove elezioni. Occorre ricostituire gli organi regionali Il Collegio di Catanzaro, accogliendo le istanze presentate da un gruppo di associazioni di cittadini calabresi, ordina alla Presidente della Regione facente funzioni di indire e consentire l’espletamento delle operazioni elettorali nel più breve tempo possibile. Il territorio calabrese, infatti, rimasto privo di guida ormai da mesi, a seguito delle dimissioni presentate dal soggetto allora in carica per aver subìto condanna penale, e della conseguente abdicazione della Giunta regionale e susseguente scioglimento dell’Organo consiliare, appariva destituito di ogni forma di rappresentanza popolare. I Giudici della prima Sezione, accogliendo le doglianze dei cittadini ricorrenti, inevitabilmente danneggiati da una simile lacuna sul piano democratico - costituzionale, superano il vuoto della legislazione regionale e lo stato di impasse dell’Amministrazione locale ed impongono di adottare il provvedimento di indizione delle consultazioni elettorali regionali a dieci giorni successivi alla data della comunicazione in via amministrativa dell’odierna ordinanza, ovvero della sua notifica se anteriore. A conferma dell’improcrastinabilità di tale adempimento, il TAR calabrese nomina, altresì, il Commissario ad acta nella persona del Prefetto di Catanzaro, affinchè, in caso di mancata adozione del decreto di indizione entro il predetto termine di dieci giorni, adempia entro i successivi cinque giorni, in luogo del Vice Presidente della Giunta Regionale, a questo deputato. Come si vede, il Collegio catanzarese, interpretando l’espressione “indizione” nel senso che le elezioni abbiano luogo e non semplicemente siano indette entro un certo lasso temporale – alla stregua della giurisprudenza costituzionale (Cfr. Corte Costituzionale - sentenza 5 giugno 2013 n. 196), suggella le istanze dei cittadini e l’imprescindibile, relativa necessità di un’adeguata rappresentanza popolare. CC |
Inserito in data 06/09/2014 CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA, NONA SEZIONE - SENTENZA 4 settembre 2014, Causa C-452/13 Ritardi aerei: il diritto UE fissa orario di arrivo effettivo ed univoco La Corte del Lussemburgo, al fine di evitare il continuo contenzioso derivante dalla disparità di situazioni e di contingenze legate al trasporto aereo, precisa la nozione di orario di arrivo. In particolare, il Collegio europeo ha precisato che «gli articoli 2, 5 e 7 del regolamento (CE) n. 261/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 febbraio 2004, che istituisce regole comuni in materia di compensazione ed assistenza ai passeggeri in caso di negato imbarco, di cancellazione del volo o di ritardo prolungato e che abroga il regolamento (CEE) n. 295/91, devono essere interpretati nel senso che la nozione di «orario di arrivo», utilizzata per determinare l’entità del ritardo subito dai passeggeri di un volo, indica il momento in cui si apre almeno uno dei portelloni dell’aeromobile, posto che, in tale momento, i passeggeri sono autorizzati a lasciare il velivolo». In tal guisa, dando una definizione univoca del termine “landed”, i Giudici consentono la corretta individuazione dei casi in cui le Compagnie aeree saranno o meno tenute alla compensazione pecuniaria. CC
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Inserito in data 04/09/2014 CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA, SEZIONE QUINTA, SENTENZA 4 settembre 2014, cause C-184/13 a 187/13 , C-194/13, C–195/13 e C-208/13 Diritto trasporti: costi minimi iniqui Il Collegio avente sede a Lussemburgo interviene, finalmente, con una pronuncia attesa negli ultimi mesi in tema di determinazione dei costi minimi di esercizio dell’autotrasporto. Più nel dettaglio, i Giudici sanciscono l’illegittimità di misure simili, stante la contrarietà rispetto alla tutela della concorrenza e alla realizzazione di un libero mercato, obiettivi propri della giurisprudenza comunitaria. Spiega la Corte, infatti, che “la determinazione di costi minimi d'esercizio, resi obbligatori da una normativa nazionale quale quella di cui trattasi nei procedimenti principali, impedendo alle imprese di fissare tariffe inferiori a tali costi, equivale alla determinazione orizzontale di tariffe minime imposte". Perciò, "occorre chiarire che la determinazione dei costi minimi d'esercizio per l'autotrasporto, è idonea a restringere il gioco della concorrenza nel mercato interno". Peraltro, proseguendo su questo filone, la Corte rigetta anche il richiamo – effettuato dalla normativa nazionale censurata – riguardo ad una maggiore sicurezza stradale presuntivamente perseguibile ove fossero rispettati i parametri, oggetto dell’odierno contenzioso. Spiega la Corte, infatti, che "anche se non si può negare che la tutela della sicurezza stradale possa costituire un obiettivo legittimo, la determinazione dei costi minimi d'esercizio non risulta tuttavia idonea né direttamente né indirettamente a garantirne il conseguimento". A tale riguardo, infatti, va rilevato che la normativa di cui trattasi nei procedimenti principali si limita a prendere in considerazione, in maniera generica, la tutela della sicurezza stradale, senza stabilire alcun nesso tra i costi minimi d'esercizio e il rafforzamento della sicurezza stradale. Di conseguenza, precisa il Collegio, posto che "una normativa nazionale è idonea a garantire la realizzazione dell'obiettivo addotto solo se risponde realmente all'intento di raggiungerlo in modo coerente e sistematico", tanto non può dirsi accada con la predeterminazione delle tariffe, oggi censurate. Ne consegue, quindi, la relativa declaratoria di illegittimità statuita dai Giudici del Lussemburgo. CC |
Inserito in data 31/07/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 31 luglio 2014, n. 4064 In merito ai finanziamenti erogati dalla Pubblica Amministrazione ai privati I giudici di Palazzo Spada, con la sentenza in epigrafe, intervengono in merito all'articolata questione concernente i finanziamenti erogati dalla Pubblica Amministrazione ai privati, soffermandosi prevalentemente sugli aspetti concernenti la giurisdizione, spettante, rispettivamente, al giudice amministrativo od al giudice ordinario. Nel caso di specie, il Ministero dell’industria, del commercio e dell’artigianato, con decreto, ha concesso, in via provvisoria, alla Carpenterie Campane s.r.l., il contributo in conto capitale di euro 415.644,51, erogando alla medesima società la metà di detto contributo pari ad euro 207.822,26. Successivamente, il Ministero dello sviluppo economico, con decreto 4 ottobre 2013, n. 56677, ha revocato il contributo e disposto il recupero della somma corrisposta. Specificamente, nel decreto in questione, si afferma che le ragioni della sua adozione risiedono nel fatto che “l’impresa […] «non ha mai provveduto a trasmettere la documentazione necessaria per gli accertamenti finali»”. La ricorrente ha proposto appello, rilevando come la giurisdizione sia del giudice amministrativo, in quanto, nella specie, l’attività posta in essere dal Ministero pare esser caratterizzata da discrezionalità. Invero, “ciò sarebbe dimostrato dal fatto che l’amministrazione statale abbia: i) «più volte avviato il procedimento di revoca per poi arrestarlo»; ii) concesso nel tempo proroghe che sarebbero state incompatibili con «un’attività amministrativa assolutamente dovuta». Recentemente, il Consiglio di Stato, con sentenza 29 luglio 2013, n. 17, ha affermato che in tema finanziamenti erogati dalla pubblica amministrazione a privati e, in particolare, di agevolazione di cui all’art. 1 del decreto-legge 22 ottobre 1992, n. 415, convertito, con modificazioni, dalla legge 19 dicembre 1992, n. 488, «il riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo deve essere attuato distinguendo le ipotesi in cui il contributo o la sovvenzione è riconosciuto direttamente dalla legge (e alla p.a. è demandato esclusivamente il controllo in ordine all'effettiva sussistenza dei presupposti puntualmente indicati dalla legge stessa) da quelle in cui la legge attribuisce invece alla p.a. il potere di riconoscere l'ausilio previa valutazione comparativa degli interessi pubblici e privati in relazione all'interesse pubblico primario apprezzando discrezionalmente l'an, il quid ed il quomodo dell’erogazione». Dunque, nel primo caso la giurisdizione spetta al giudice ordinario, nel secondo caso al giudice amministrativo. I giudici di Palazzo Spada puntualizzano altresì che l' Adunanza plenaria, con sentenza 29 gennaio 2014, n. 6, ha stabilito, con affermazioni suscettibili di applicazione generalizzata a tutte le controversie riguardanti la concessione e la revoca di contributi e sovvenzioni pubbliche, che il riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo in materia «deve essere attuato sulla base del generale criterio di riparto fondato sulla natura della situazione soggettiva azionata». Ne consegue, si aggiunge, che «qualora la controversia attenga alla fase di erogazione o di ripetizione del contributo sul presupposto di un addotto inadempimento del beneficiario alle condizioni statuite in sede di erogazione o dall’acclarato sviamento dei fondi acquisiti rispetto al programma finanziato, la giurisdizione spetta al giudice ordinario, anche se si faccia questione di atti formalmente intitolati come revoca, decadenza o risoluzione, purché essi si fondino sull’inadempimento alle obbligazioni assunte di fronte alla concessione del contributo». In tal caso, infatti, si sottolinea, «il privato è titolare di un diritto soggettivo perfetto, come tale tutelabile dinanzi al giudice ordinario, attenendo la controversia alla fase esecutiva del rapporto di sovvenzione e all’inadempimento degli obblighi cui è subordinato il concreto provvedimento di attribuzione». GMC |
Inserito in data 31/07/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 31 luglio 2014, n. 4054 Sul provvedimento di condono edilizio La questione, posta all’esame del Collegio, attiene alla legittimità – contestata da un terzo leso – del provvedimento di condono edilizio, rilasciato dal Comune, avente ad oggetto un fabbricato di proprietà dell’appellante. Ripercorrendo per ordine la vicenda ivi esaminata, con un primo motivo, si deduce l’erroneità della sentenza nella parte in cui non ha rilevato la tardività del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado; il Codice del processo amministrativo, prevede che l’azione di annullamento si propone nel termine perentorio di sessanta giorni decorrenti dalla «notificazione, comunicazione o piena conoscenza» (alla luce dell'art. 41, secondo comma). Nel caso di specie, nelle azioni proposte da terzi, i quali fanno valere un interesse legittimo oppositivo al rilascio di provvedimenti favorevoli per i destinatari dell’azione amministrativa, il requisito legale si realizza, normalmente, con la piena conoscenza «del titolo giuridico» ovvero «della realtà materiale». Così come i giudici di Palazzo Spada puntualizzano, “la prima forma di conoscenza, che rileva in questa sede, si ha nel caso in cui l’interessato venga «informato dall’amministrazione degli estremi del provvedimento»”, alla luce della pronuncia del Cons. Stato, sez. VI, 18 aprile 2012, n. 2209. Ed ancora, “la piena conoscenza, infatti, «non postula necessariamente la conoscenza di tutti i suoi elementi, essendo sufficiente quella degli elementi essenziali quali l’autorità emanante, la data, il contenuto dispositivo e il suo effetto lesivo, salva la possibilità di proporre motivi aggiunti ove dalla conoscenza integrale del provvedimento e degli atti presupposti emergano ulteriori profili di illegittimità». La ragione sottesa a questo orientamento è quella di assicurare «il principio della certezza delle situazioni giuridiche», che impone di non lasciare l’interessato «nella perpetua incertezza sulla sorte del proprio titolo edilizio» (Cons. Stato, sez. IV, 13 giugno 2011, n. 3583)”. Nella fattispecie in esame e da quanto risulta esposto in fatto, il terzo era già a conoscenza (verificando, da un punto di vista temporale, gli atti emanati) anche delle possibili ragioni di illegittimità del provvedimento adottato: nell’esposto del 2005 ha, infatti, chiaramente descritto la vicenda in tutti i suoi passaggi e ha indicato i motivi della non accoglibilità della domanda di condono. Secondo quanto sottolineato, “la parte, nella specie, non avrebbe, pertanto, neanche dovuto proporre un “ricorso al buio”, l’esito del procedimento di accesso avrebbe potuto fare emergere altri eventuali aspetti rilevanti della vicenda che comunque non potevano giustificare una protrazione temporale delle forme di tutela”. GMC |
Inserito in data 29/07/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 24 luglio 2014, n. 3949 Sulla certificazione di qualità Con la pronuncia in epigrafe, i Giudici di Palazzo Spada puntualizzano che la certificazione di qualità, riguardando anche la capacità tecnica dell'imprenditore, è del tutto coerente con l'istituto dell'avvalimento. Invero, nelle gare pubbliche, la certificazione di qualità, caratterizzata dallo scopo di valorizzare gli elementi di eccellenza dell'organizzazione complessiva, è da considerarsi anch'essa requisito di idoneità tecnico organizzativa dell'impresa, da inserirsi tra quegli elementi idonei a dimostrare la capacità tecnico professionale di un'impresa. In tal modo, si assicura che l'impresa cui sarà affidato il servizio, o la fornitura, sarà in grado di effettuare la prestazione nel rispetto di un livello minimo di qualità accertato da un organismo a ciò predisposto. La certificazione in questione, è altresì coerente con l'istituto dell'avvalimento, così come disciplinato dall'art. 49 del d. lgs. n. 163 del 2006. GMC
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Inserito in data 29/07/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 25 luglio 2014, n. 3969 Vacanza del posto in organico e conferimento di mansioni Nel caso in oggetto, l’appellante, nella qualità di dipendente USL, ha dedotto di avere svolto le mansioni superiori di collaboratore amministrativo, chiedendo l’accertamento del suo diritto di percepire le relative differenze stipendiali. Successivamente, il TAR ha respinto il ricorso, rilevando che non risulta alcun ordine di servizio che abbia attribuito all’interessata lo svolgimento delle mansioni superiori, né tanto meno è stata comprovata l’esistenza di un corrispondente posto vacante in pianta organica. Secondo l'appellante, la vacanza del posto in organico ed il conferimento delle mansioni superiori con un atto formale, sarebbero requisiti rilevanti unicamente per l’inquadramento nella qualifica superiore, ai sensi della legge n. 207 del 1985, ma non avrebbero alcun rilievo per la spettanza delle differenze retributive ed ha altresì contestato la rilevanza della copertura in organico dei due posti di collaboratore amministrativo. Alla luce della consolidata giurisprudenza del Consiglio di Stato, salvo che la legge disponga altrimenti, “lo svolgimento da parte di un pubblico dipendente di mansioni superiori rispetto a quelle dovute sulla base del provvedimento di nomina o di inquadramento non rileva ai fini sia giuridici che economici, sia perché il provvedimento di inquadramento è presupposto indefettibile delle mansioni e del correlativo trattamento economico, sia perché, ancor più in generale, il rapporto di pubblico impiego non è assimilabile al rapporto di lavoro privato, vista anche la natura indisponibile degli interessi coinvolti, non potendo essere il trattamento economico del dipendente liberamente determinabile da parte degli organi amministrativi”, si considerino, ad esempio, Cons. Stato, V, 28 dicembre 2011, n. 6966; Sez. V, 31 maggio 2011, n. 3251; Sez. V, 12 maggio 2011, n. 2811; Sez. V, 28 aprile 2011, n. 2539; Sez.., 7 aprile 2011, n. 2166. Oltre a ciò, non può poi essere richiamato l’art. 36 Cost., il quale afferma il principio di corrispondenza della retribuzione dei lavoratori alla quantità e qualità del lavoro prestato, infatti – alla luce di quanto disposto dai Giudici di Palazzo Spada – “tale norma non può trovare incondizionata applicazione del rapporto di pubblico impiego, dovendo concorrere in tale ambito con altri principi di pari rilevanza costituzionale, quali l’art. 97, per il quale l’esercizio delle mansioni superiori rispetto alla qualifica rivestita contrasta con i principi di buon andamento e di imparzialità dei pubblici uffici e quindi con la rigida determinazione delle sfere di competenza, funzioni e responsabilità dei funzionari, e l’art. 98, dal quale discende il divieto che la valutazione del rapporto di pubblico impiego sia ridotta alla mera logica del rapporto di scambio”, così come altresì statuito da Cons. Stato, VI, 19 settembre 2000, n. 4871; id., 11 luglio 2000, n. 3882. Inoltre, è bene chiarire che le disposizioni della legge n. 207 del 1985, appaiono del tutto coerenti con il principio generale della “irrilevanza delle mansioni superiori”, invero “essa ha previsto in alcuni casi la ‘sanatoria’ in base ai relativi presupposti, ma non ha attribuito rilievo al loro svolgimento al di là dei casi ivi tassativamente previsti”. Dunque, “se anche nel corso del giudizio fosse stata acquisita la prova della esistenza di un posto vacante in pianta organica, dell’emanazione di un atto formale di conferimento delle mansioni superiori nonché del loro effettivo svolgimento – comunque la domanda dell’appellante sarebbe risultata infondata”. GMC
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Inserito in data 24/07/2014 CORTE DI CASSAZIONE - QUINTA SEZIONE PENALE, SENTENZA 21 luglio 2014, n. 32035 Ex art. 4 LAC, il giudice penale non può modificare la graduatoria concorsuale La Corte di Cassazione ci ricorda che l’approvazione da parte dell’amministrazione competente della graduatoria di concorsi a pubblico impiego è provvedimento di amministrazione attiva, mediante il quale l’amministrazione fa proprio l’operato della commissione esaminatrice. “Spetta, pertanto, all’amministrazione competente il potere di modificare la graduatoria, qualora risulti che essa sia stata illegittimamente formata”. “Ne consegue che il giudice penale, ove pure accerti e dichiari, ai sensi dell’art. 537, c.p.p., la falsità di atti o di documenti che costituiscono presupposto per l’inserimento di un soggetto nella graduatoria di un pubblico concorso, non potrà autonomamente modificarla, depennando il soggetto dalla graduatoria stessa, trattandosi di un potere esercitabile esclusivamente dall’amministrazione competente nelle forme proprie dei provvedimenti amministrativi”. Questa conclusione è logica conseguenza dei limiti interni della giurisdizione del giudice ordinario in ordine agli atti amministrativi, risultanti dall’art. 4, c. 2°, L. n. 2248/1865, all. e (Legge abolitrice del contenzioso, cd. LAC); in forza di tale disposizione, infatti, “L'atto amministrativo non potrà essere revocato o modificato se non sovra ricorso alle competenti autorità amministrative, le quali si conformeranno al giudicato dei Tribunali in quanto riguarda il caso deciso”. TM
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Inserito in data 24/07/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 23 luglio 2014, n. 3917 È legittimo il DM 18.10.2012, che fissa le tariffe massime per prestazioni sanitarie Intervenendo sulla vexata questio della determinazione delle tariffe per prestazioni sanitarie erogate da strutture accreditate, il Consiglio di Stato afferma la legittimità del D.M. 18.10.2012, adottato dal Ministero della Salute di concerto col Ministero dell’Economia e delle finanze, in attuazione dell’art. 15, c. 15, d.l. n. 95/12. Infatti, ai sensi dell’art. 15 d.l. n. 95/12, si possono individuare due diverse procedure per la determinazione delle tariffe, la seconda attivabile a conclusione della prima: 1) “La prima procedura è disciplinata dal co.15 con un iter procedurale semplificato e derogatorio attraverso la utilizzazione dei “dati di costo disponibili”, la utilizzazione dei tariffari regionali ove ritenuti congrui e adeguati, l’acquisizione del parere della Conferenza Stato/Regioni”; 2) “La seconda procedura, di “aggiornamento delle tariffe determinate ai sensi del co.15”, disciplinata dal co. 17 bis, introdotta, nel decreto legge n.95/2012, dalla legge di conversione n.189/2012 di altro provvedimento di urgenza, il cd. decreto Balduzzi (n.158/2012) che, al contrario del precedente, opera solo in materia sanitaria, ha previsto il confronto con le associazioni di categoria, evidenziando chiaramente la volontà del legislatore di un approfondimento e rivalutazione delle tariffe rispetto a quelle già determinate in via di urgenza con procedura semplificata, con ripristino delle ordinarie forme di consultazione e confronto ex art.8 sexies co.5 del d.lgs. 502/1992”. “Risulta quindi evidente, da tale contesto normativo, che la procedura di determinazione tariffaria ex co.15 dell’articolo 15, sia una procedura drasticamente semplificata, con modalità istruttorie limitate ai dati esistenti e disponibili e, ove ritenuti congrui ed adeguati a quelli regionali, finalizzata alla adozione di un tariffario nazionale da prendere a riferimento immediato, da parte delle regioni, per recuperare margini di inappropriatezza esistenti a livello locale e nazionale. Del resto la procedura è inserita nell’ambito di decreto di “spending review” rivolto a realizzare consistenti e immediati livelli di risparmio in diversi settori, compreso quello sanitario”. “Non sono quindi condivisibili le varie doglianze diffusamente e variamente articolate nell’ odierno appello, così come in altri appelli (tutti chiamati alla udienza del 5 giugno 2014) e dirette a stigmatizzare soprattutto la carenza di istruttoria e di certezza dei dati assunti dal Ministero per la determinazione tariffaria con conseguente mancata copertura, da parte delle nuove tariffe, dei costi di produzione e dell’utile di impresa”. TM |
Inserito in data 23/07/2014 CORTE DI CASSAZIONE, SESTA SEZIONE PENALE, sentenza 18 luglio 2014, n. 31735 Presupposti del sequestro probatorio di materiale posseduto da un giornalista Come affermato dalla Corte EDU, il diritto del giornalista di proteggere le proprie fonti rientra nella libertà di ricevere o comunicare informazioni o idee senza ingerenza alcuna da parte delle autorità pubbliche, garantito dall’art. 10 Cedu. Quindi, il provvedimento giudiziario che dispone il sequestro di materiale posseduto da un giornalista, poiché rischia di condurre all’individuazione delle fonti, può costituire una violazione della libertà di espressione. Ne segue che tale forma di ingerenza nel diritto alla tutela delle fonti giornalistiche deve essere accompagnata da garanzie proporzionate, quale la garanzia del controllo da parte di un organo terzo ed imparziale, investito del potere di determinare se il requisito dell’interesse pubblico, prevalente sul principio della protezione delle fonti giornalistiche, possa ritenersi sussistente prima della consegna del materiale pertinente. Pertanto, è compito del giudice procedere ad un cauto bilanciamento fra le contrapposte esigenze, rappresentate dal doveroso accertamento dei fatti e delle responsabilità in presenza di accadimenti che integrino un’ipotesi di reato e dalla necessità di preservare il diritto del giornalista a cautelare le proprie fonti, in vista dell’espletamento della funzione informativa. Il giudice può ordinare al giornalista di indicare la fonte delle sue informazioni in presenza di due condizioni previste dall’art. 200, comma 3, cpp: a) che la rilevanza della fonte sia indispensabile per la prova del reato per il quale si procede; b) che le notizie non possano essere altrimenti accertate. Occorre, in altre parole, che l’ingerenza rispetto alle fonti rappresenti l’extrema ratio cui ricorrere per poter conseguire la prova necessaria per perseguire il reato. CDC
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Inserito in data 23/07/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 22 luglio 2014, n. 3905 L’avvalimento si applica anche in presenza di una concessione di servizi L’art. 49, primo comma, d.lgs. 163/2006 prevede che il concorrente, singolo o consorziato o raggruppato, in relazione ad una specifica gara di lavori, servizi, forniture può soddisfare la richiesta relativa al possesso dei requisiti di carattere economico, finanziario, tecnico, organizzativo, ovvero di attestazione della certificazione SOA avvalendosi dei requisiti di un altro soggetto o dell’attestazione SOA di altro soggetto (c.d. avvalimento). A tal fine, come precisato in giurisprudenza, deve risultare con chiarezza che l’ausiliaria presti “le proprie risorse e il proprio apparato organizzativo, in tutte le parti che giustificano l’attribuzione del requisito di qualità (a seconda dei casi: mezzi, personale, prassi e tutti gli altri elementi aziendali qualificanti)” (Cons. Stato, 13 giugno 2013, n. 7755; 18 aprile 2011, n. 2344). L’esigenza di una puntuale individuazione dell’oggetto del contratto di avvalimento trova la propria essenziale giustificazione funzionale nella necessità di non permettere agevoli aggiramenti del sistema dei requisiti di ingresso alle gare pubbliche. L’art. 88, comma 1, lett. a) del d.P.R 207/2001 ha recepito questi principi, stabilendo che il contratto di avvalimento deve riportare “in modo compiuto, esplicito ed esauriente (…) le risorse e i mezzi prestati in modo determinato e specifico”. L’esigenza di determinazione dell’oggetto sussiste anche con riferimento alla dichiarazione unilaterale dell’impegno negoziale, in quanto “l’impresa ausiliaria non è semplicemente un soggetto terzo rispetto alla gara, dovendosi essa impegnare non soltanto verso l’impresa concorrente ausiliata ma anche verso la stazione appaltante a mettere a disposizione del concorrente le risorse di cui questi sia carente, sicché l’ausiliario è tenuto a riprodurre il contenuto del contratto di avvalimento in una dichiarazione resa nei confronti della stazione appaltante” (Cons. Stato, 13 maggio 2010, n. 2956). La sentenza afferma che l’istituto dell’avvalimento può trovare applicazione anche in presenza di una concessione di servizi. Infatti, l’art. 30 d.lgs. 163/2006 prevede che, nella scelta del concessionario, devono applicarsi i principi generali contenuti nel decreto stesso e la giurisprudenza ha più volte affermato che l’istituto dell’avvalimento è espressione di principi generali a tutela della concorrenza, consentendo la partecipazione di soggetti che senza l’ausilio di altra impresa non avrebbero i requisiti richiesti per la partecipazione stessa. È bene puntualizzare che non è possibile enucleare dall’art. 49 soltanto alcune regole, ritenendo solo esse espressione di principi generali. Una volta individuata la struttura e la ratio dell’avvalimento le regole che presiedono al suo funzionamento si applicano, nel settore in esame, in modo unitario e non parcellizzato. CDC |
Inserito in data 22/07/2014 CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 18 luglio 2014, n. 212 Sulla partecipazione degli ee.ll. al procedimento istitutivo di aree protette Con la pronuncia in epigrafe, il Giudice delle Leggi “dichiara l’illegittimità costituzionale degli artt. 6, comma 1, e 28, commi 1 e 2, della legge della Regione siciliana 6 maggio 1981, n. 98 (Norme per l’istituzione nella Regione siciliana di parchi e riserve naturali), nella parte in cui stabiliscono forme di partecipazione degli enti locali nel procedimento istitutivo delle aree naturali protette regionali diverse da quelle previste dall’art. 22 della legge 6 dicembre 1991, n. 394 (Legge quadro sulle aree protette)”. Infatti, posto che la disciplina delle aree protette, contenuta nella legge n. 394 del 1991, “rientri nella competenza esclusiva dello Stato in materia di «tutela dell’ambiente» prevista dall’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. (ex plurimis, sentenze n. 263 e n. 44 del 2011)”, non è controversa “la rilevanza che, nel contesto della normativa-quadro di cui si è detto, assume la specifica disciplina diretta a regolare le forme della partecipazione dei diversi soggetti al procedimento istitutivo delle aree protette”. L’art. 22 della legge statale, infatti, “stabilisce – quali «princìpi fondamentali per la disciplina delle aree naturali protette regionali» – che, nel procedimento destinato all’istituzione delle aree medesime, sono chiamate a partecipare le Province, le comunità montane ed i Comuni, attraverso forme articolate e puntuali, quali «conferenze per la redazione di un documento di indirizzo relativo all’analisi territoriale dell’area da destinare a protezione, alla perimetrazione provvisoria, all’individuazione degli obiettivi da perseguire, alla valutazione degli effetti dell’istituzione dell’area protetta sul territorio». Enti locali chiamati, poi, alla gestione dell’area protetta. Stabilisce, poi, il comma 2 dello stesso articolo – ad ulteriore contrassegno della importanza annessa al livello ed alle forme di partecipazione delle comunità locali –, che, fatte salve le rispettive competenze per le Regioni a statuto speciale e per le Province autonome di Trento e di Bolzano, «costituiscono princìpi fondamentali di riforma economico-sociale la partecipazione degli enti locali alla istituzione e alla gestione delle aree protette e la pubblicità degli atti relativi alla istituzione dell’area protetta e alla definizione del piano per il parco»”. Il censurato art. 6 della legge regionale in discorso, invece, “si limita, al comma 1, a stabilire che, in attuazione del piano regionale dei parchi e delle riserve naturali, di cui all’art. 5 della legge medesima, si provvede alla istituzione dei parchi e delle riserve con decreto dell’Assessore regionale per il territorio e l’ambiente, previo parere del Consiglio regionale. I decreti istitutivi – puntualizza il successivo comma 3 – «conterranno la delimitazione definitiva delle singole riserve, l’individuazione dell’affidatario e la statuizione degli obblighi dello stesso, in rapporto alle indicazioni tecniche fissate dal Consiglio regionale per la realizzazione dei fini istituzionali delle riserve medesime. Detti decreti recheranno in allegato il regolamento con cui si stabiliscono le modalità d’uso e i divieti da osservarsi». Alla interlocuzione di soggetti estranei alla amministrazione regionale è dedicato il solo art. 28, il quale stabilisce, al comma 2, che, entro trenta giorni dalla pubblicazione, fra l’altro, della proposta di piano regionale dei parchi e delle riserve naturali, predisposto dal Consiglio regionale per la protezione del patrimonio naturale, a norma dell’art. 4, comma 1, lettera a), «privati, enti, organizzazioni sindacali, cooperativistiche, sociali potranno presentare osservazioni su cui motivatamente dovrà dedurre l’ente o l’ufficio proponente e che dovranno formare oggetto di motivata deliberazione da parte dell’ente preposto all’approvazione degli strumenti suddetti contestualmente alla stessa approvazione»”. Pertanto, tali previsioni omettono di “assicurare, in particolare ai Comuni, la possibilità di rappresentare sul piano procedimentale, secondo le opportune forme, i molteplici interessi delle relative comunità”. EMF |
Inserito in data 22/07/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 21 luglio 2014, n. 3874 Legittima la richiesta di informazioni antimafia anche per gli appalti sottosoglia Con la sentenza in commento, il Consiglio di Stato ribadisce la legittimità della “richiesta di informazioni antimafia da parte della stazione appaltante al Prefetto, anche per gli appalti cc.dd. sottosoglia, come del tutto legittimo è il rilascio di informazioni da parte del Prefetto circa il possibile rischio di infiltrazioni mafiose anche nelle imprese concorrenti a tali appalti”. Di recente, infatti, la stessa Terza Sezione ha avuto modo di chiarire come l’obbligo di acquisire l’informazione esclusivamente nel caso di appalti di importo superiore alla soglia di rilevanza comunitaria “non vale a fondare la tesi contraria relativamente agli appalti sotto soglia, per i quali, pertanto, l’informazione deve ritenersi valida” (Cons. St., sez. III, 23.4.2014, n. 2040). Trattasi, in sostanza, “di una legittima prerogativa della p.a., sebbene l’obbligo in argomento non sussista normativamente per gli appalti cc.dd. sottosoglia (Cons. Giust. Amm., 17.1.2011, n. 26), sicché legittimamente l’Amministrazione può richiedere anche per essi le opportune informazioni antimafia al Prefetto”. EMF |
Inserito in data 21/07/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 18 luglio 2014, n. 3850 Tassatività dell’art. 51 c.p.c e rapporti accademici La vicenda sottoposta all’attenzione del Consiglio di Stato verte in merito alle cause di incompatibilità previste dall’art. 51 c.p.c. e alla relativa asserita irregolarità di svolgimento di una procedura concorsuale. Dopo aver esaminato e risolto positivamente la questione relativa all’ammissibilità o meno del ricorso straordinario ricordando che <<ciò che rileva ai fini dell’ammissibilità del ricorso straordinario è (soprattutto e soltanto) che nel termine previsto avvenga la notifica ad almeno un controinteressato e che entro lo stesso termine avvenga la notifica o presentazione dell’atto all’autorità>> (c.cost. 148/1982) il Consiglio di Stato ha affrontato nel merito la questione confermando la decisione assunta in primo grado. Ai fini della risoluzione della controversia è stata richiamata quella giurisprudenza secondo cui <<la semplice sussistenza di rapporti accademici o di ufficio tra commissario e candidato non è idonea di per sé ad integrare gli estremi delle cause di incompatibilità normativamente cristallizzate, salva la spontanea astensione di cui al capoverso dell’art. 51 c.p.c.. le cui fattispecie assumono carattere tassativo>> […] la conoscenza personale o la instaurazione di rapporti lavorativi od accademici non sono di per sé motivo di astensione, a meno che i rapporti personali o professionali siano di rilievo ed intensità tali da fare sorgere il sospetto che il candidato sia giudicato non in base al risultato delle prove, ma in virtù delle conoscenze personali (Cons. Stato, VI, 13 marzo 2013, n.1512)>>. Come precisato dallo stesso Consiglio, dunque, si deve trattare di rapporti che si concretino un autentico sodalizio professionale che presenti anche il carattere della stabilità e reciprocità di interessi. I giudici di Palazzo Spada, dunque, osservata la consistenza quantitativa e qualitativa dei lavori scientifici coinvolgenti anche un membro della Commissione addetta alla valutazione dei candidati, ha dichiarato l’esistenza di un vizio nella procedura di gara, confermando in tal modo la decisione del tribunale di merito. VA
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Inserito in data 21/07/2014 CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 18 luglio 2014, n. 216 E' legittima la restrizione della vendita di farmaci nelle parafarmacie La Corte Costituzionale è stata chiamata a pronunciarsi in merito all’illegittimità costituzionale dell’art. 5, comma 1, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 per contrasto con gli articoli 3 e 41 della Costituzione «nella parte in cui non consente agli esercizi commerciali ivi previsti (c.d. parafarmacie) la vendita di medicinali di fascia C soggetti a prescrizione medica». In particolar modo il giudice a quo ha contestato l’irragionevolezza di un sistema che, con riferimento ad un’attività imprenditoriale, qual è quella farmaceutica, pone un divieto di vendita di farmaci il cui costo è posto interamente a carico del cittadino. Il giudice remittente, infatti, ha osservato come in questa ipotesi non possa essere invocata la tutela dell’utilità sociale e del contenimento della spesa pubblica destinata all’assistenza farmaceutica. Tuttavia il Supremo Consesso nel merito ha rigettato le accuse mosse alla suddetta normativa ponendo l’attenzione sulla materia cui può essere ricondotta la disciplina in questione. Più precisamente la Corte Costituzionale ha affermato che il regime delle farmacie deve essere ricondotto nell’ambito della “tutela della salute” «in quanto la complessa regolamentazione pubblicistica della attività economica di rivendita dei farmaci è preordinata al fine di assicurare e controllare l’accesso dei cittadini ai prodotti medicinali ed in tal senso a garantire la tutela del fondamentale diritto alla salute, restando solo marginale, sotto questo profilo, sia il carattere professionale sia l’indubbia natura commerciale dell’attività del farmacista» (sent. 87/2006). Questo controllo viene effettuato sia attraverso una pianificazione territoriale, sia attraverso una disciplina particolareggiata dell’attività stessa (ad es. tenendo conto anche del rilievo terapeutico dei diversi farmaci e, conseguentemente, sottoponendoli ad una regolamentazione differenziata; ponendo a carico dei farmacisti tutta una seri di obblighi e funzioni assistenziali). Ne consegue che, con riferimento all’art. 3 Cost., non può essere sollevata alcuna accusa di irragionevolezza alla previsione che imponga la prescrizione medica per determinati medicinale (i quali vengono individuati periodicamente dal Ministero della saluta, sentita l’Agenzia Italiana del Farmaco) ed il conseguente divieto di vendita nelle parafarmacie proprio sulla scora delle differenze che permangono tra i due esercizi. Ad analoga conclusione si perviene con riferimento all’art. 41 Cost. ed al principio di tutela della concorrenza. A sostegno della compatibilità tra la disciplina sottoposta alla valutazione dei giudici costituzionali e la norma sopra citata soccorre anche la pronuncia della Corte di Giustizia Europea che con la sentenza Venturini del 5 dicembre 2013 ha affermato che <<l’art. 49 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) deve essere interpretato nel senso che esso non osta ad una normativa nazionale che non consente a un farmacista, abilitato e iscritto all’ordine professionale, ma non titolare di una farmacia compresa nella pianta organica, di distribuire al dettaglio, in una parafarmacia, anche quei farmaci soggetti a prescrizione medica che non sono a carico del Servizio sanitario nazionale, bensì vengono pagati interamente dall’acquirente. […], la riserva della distribuzione di detti farmaci alle sole farmacie è atta a garantire la tutela della salute e che la normativa italiana al riguardo è proporzionata e necessaria. La salute e la vita delle persone occupano una posizione preminente tra i beni e gli interessi protetti dal Trattato e che spetta agli Stati membri stabilire il livello al quale essi intendono garantire la tutela della salute pubblica e il modo in cui tale livello debba essere raggiunto. Poiché quest’ultimo può variare da uno Stato membro all’altro, si deve riconoscere agli Stati membri un margine di discrezionalità>>. VA |
Inserito in data 18/07/2014 CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA – GRANDE SEZIONE, SENTENZA 17 luglio 2014, C- 58 e C - 59/13 Non abusa del diritto di stabilimento l’italiano che consegue l’abilitazione forense in Spagna Al fine di “facilitare l’esercizio permanente della professione di avvocato in uno Stato membro diverso da quello nel quale è stata acquisita la qualifica professionale”, la direttiva 98/5 “istituisce un meccanismo di mutuo riconoscimento dei titoli professionali degli avvocati migranti che desiderino esercitare con il titolo conseguito nello Stato membro di origine”. Con la pronuncia in epigrafe, la Corte di Giustizia ha chiarito che “L’articolo 3 della direttiva 98/5/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 febbraio 1998 […] dev’essere interpretato nel senso che non può costituire una pratica abusiva il fatto che il cittadino di uno Stato membro si rechi in un altro Stato membro al fine di acquisirvi la qualifica professionale di avvocato a seguito del superamento di esami universitari e faccia ritorno nello Stato membro di cui è cittadino per esercitarvi la professione di avvocato con il titolo professionale ottenuto nello Stato membro in cui tale qualifica professionale è stata acquisita”. Infatti, “L’accertamento dell’esistenza di una pratica abusiva richiede che ricorrano un elemento oggettivo e un elemento soggettivo”. “Per quanto riguarda l’elemento oggettivo, deve risultare da un insieme di circostanze oggettive che, nonostante il rispetto formale delle condizioni previste dalla normativa dell’Unione, l’obiettivo perseguito da tale normativa non è stato raggiunto”. “Quanto all’elemento soggettivo, deve risultare che sussiste una volontà di ottenere un vantaggio indebito derivante dalla normativa dell’Unione mediante la creazione artificiosa delle condizioni necessarie per il suo ottenimento”. Nel caso in esame, il cittadino italiano che consegue l’abilitazione forense in Spagna e torna in Italia per esercitare la professione di avvocato realizza l’obiettivo proprio della direttiva 98/5 e, perciò, non abusa del diritto di stabilimento. Da ultimo, si evidenzia che l’art. 3, direttiva 98/5, non viola l’art. 4, paragrafo 2, TUE, che impone all’Unione di rispettare l’identità nazionale degli Sati membri. Difatti, tale disposizione “riguarda unicamente il diritto di stabilirsi in uno Stato membro per esercitarvi la professione di avvocato con il titolo professionale ottenuto nello Stato membro di origine”, mentre non disciplina l’accesso alla professione di avvocato, che, conformemente all’art. 33, c. 5, Cost., resta subordinato al superamento di un esame di Stato. TM |
Inserito in data 18/07/2014 CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 17 luglio 2014, n. 16379 La convivenza osta alla delibazione della sentenza canonica di nullità del matrimonio Ai sensi dell’art. 8 dell’Accordo, dell’art. 4, lett.b del Protocollo addizionale del 1984, dell’art. 797 cpc (abrogato), della sentenza n. 18/82 della Corte costituzionale, il giudice italiano dichiara l’efficacia nel nostro ordinamento della sentenza ecclesiastica che accerta la nullità del matrimonio concordatario, purché tale sentenza non contrasti con l’ordine pubblico italiano (costituito dalle “regole fondamentali poste dalla Costituzione e dalle leggi a base degli istituti giuridici in cui si articola l’ordinamento positivo nel suo perenne adeguarsi all’evoluzione della società”). Tale limite all’efficacia interna delle sentenze ecclesiastiche è coerente con il supremo principio costituzionale di laicità o non confessionalità dello Stato (art. 7, c. 1, Cost.). Nell’ambito della Prima Sezione della Corte di Cassazione, si è sviluppato un contrasto in merito alla possibilità di considerare in contrasto con l’ordine pubblico interno, la sentenza ecclesiastica che dichiara la nullità del matrimonio concordatario, a fronte di una convivenza tra i coniugi protrattasi per un certo periodo di tempo. Secondo l’orientamento tradizionale (S.U., sentenze nn. 4700, 4701, 4702 e 4703 del 1988; Cass. civ., n. 8926/12), la convivenza tra i coniugi non osta alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità, quantunque impedisca l’impugnazione del matrimonio civile ex art. 123, c.2, c.c.; quest’ultima norma, infatti, è norma imperativa ma non costituisce espressione dei principi o regole fondamentali con cui la Costituzione e le leggi italiane delineano l’istituto del matrimonio. Inoltre, nelle norme costituzionali, non si evince chiaramente il principio della prevalenza del matrimonio rapporto sul matrimonio atto. Per l’indirizzo più recente (S.U. n. 19809/08, in un obiter dictum; sentenze nn. 1343 del 2011, 1780 e 9844), invece, l’ordine pubblico interno preclude la delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario, in caso di convivenza dei coniugi.
A giudizio delle Sezioni Unite, occorre premettere che sia la legge (cfr. art. 143 cc) che la Costituzione (cfr. art. 29 Cost.) conoscono la distinzione tra matrimonio atto e matrimonio rapporto: tali aspetti del matrimonio, proprio perché distinti, soggiacciono a principi e regole fondamentali diversi. La convivenza – che, alla luce della Costituzione (artt. 2, 3, 29, 30, 31), delle Carte europee dei diritti (art. 8, par. 1, CEDU; art. 7 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea) come interpretate dalla Corte EDU, e del codice civile, deve essere intesa non come mera coabitazione ma come “consuetudine di vita coniugale comune, stabile e continua nel tempo, ed esteriormente riconoscibile in corrispondenti fatti e comportamenti dei coniugi, e come fonte di una pluralità di diritti inviolabili, di doveri inderogabili, di responsabilità anche genitoriali in presenza dei figli” - integra un aspetto essenziale e costitutivo del matrimonio rapporto, tale da potersi ricomprendere nella nozione di ordine pubblico interno. Ai fini della risoluzione del contrasto, le Sezioni Unite reputano indispensabile individuare “secondo diritto e ragionevolezza, il periodo di tempo dalla celebrazione del matrimonio, trascorso il quale dalla convivenza coniugale con dette caratteristiche può legittimamente inferirsi anche una piena ed effettiva “accettazione del rapporto matrimoniale”, tale da implicare anche la sopravvenuta irrilevanza giuridica dei vizi genetici eventualmente inficianti l’”atto” di matrimonio, che si considerano perciò “sanati” dall’accettazione del rapporto”. Al riguardo, le Sezioni Unite ritengono di poter applicare analogicamente l’art. 6, l. n. 184/1983, poiché anch’esso distingue tra matrimonio-atto e matrimonio rapporto, connotando quest’ultimo come rapporto stabile e continuativo, caratterizzato da diritti, doveri e responsabilità: pertanto, “la convivenza dei coniugi, connotata dai più volte sottolineati caratteri e protrattasi per almeno tre anni dopo la celebrazione del matrimonio, in quanto costitutiva di una situazione giuridica disciplinata e tutelata da norme costituzionali, convenzionali ed ordinarie, di <
Le Sezioni Unite aggiungono che tale limite alla delibazione non dipende dalla natura del vizio genetico del matrimonio accertato e dichiarato dalla sentenza canonica, poiché si tratta di un “limite generale”.
Infine, si precisa che la convivenza coniugale integra un’eccezione in senso stretto, ossia può essere fatta valere solo dal coniuge, parte del rapporto matrimoniale; ciò in quanto inerisce alla sfera personalissima dello svolgimento del rapporto matrimoniale. TM
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Inserito in data 17/07/2014 CORTE DI CASSAZIONE, QUARTA SEZIONE PENALE, ORDINANZA 11 luglio 2014, n. 30559 Applicabilità della messa in prova ai processi pendenti: rimessione alle SU La pronuncia affronta il tema dell’applicabilità dell’istituto della messa alla prova, introdotto dalla legge 28 aprile 2014, n. 67. Attraverso tale istituto il legislatore ha previsto la messa alla prova sia quale causa di estinzione del reato, sia come possibilità di definizione alternativa della vicenda processuale. Ciò serve ad offrire un percorso di reinserimento alternativo ai soggetti processati per reati di minore allarme sociale, con finalità di ravvedimento e di recupero. Inoltre, l’istituto presenta finalità riparatorie e di tutela della vittima. Infatti, la messa in prova comporta la prestazione di condotte volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato, nonché il risarcimento del danno. Occorre poi valutare l’idoneità del domicilio indicato nel programma di trattamento ad assicurare le esigenze di tutela della persona offesa. La legge 67/2014 pone però la questione della sua applicabilità anche nel processo che abbia già superato la fase processuale indicata dal nuovo art. 464-bis cpp, secondo comma, entro la quale può essere formulata, a pena di decadenza, la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova. Da un lato, gli effetti di carattere sostanziale dell’istituto sopra indicati potrebbero deporre per una interpretazione estensiva della norma anche ai fatti pregressi ed ai procedimenti pendenti, in base all’art. 2, comma 4, cp e all’evoluzione giurisprudenziale sulla retroattività della lex mitior. Tuttavia, la stessa giurisprudenza non ha escluso la possibilità che, in presenza di particolari situazioni, il principio di retroattività della lex mitior possa subire deroghe o limitazioni. Inoltre, il novum normativo riguarda anche l’ambito processuale, per cui potrebbe essere applicabile il principio tempus regit actum, che escluderebbe l’applicazione dell’istituto ai fatti pregressi e per i procedimenti pendenti. D’altra parte, però, ritenere l’inapplicabilità della messa alla prova nei processi in corso che si trovano in una fase processuale successiva a quella indicata rischierebbe di dar luogo ad una disparità di trattamento tra gli imputati. Dunque, attesa la delicatezza della materia e la possibilità di soluzioni interpretative in radicale contrasto, la pronuncia ha rimesso la questione alle Sezioni Unite. CDC
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Inserito in data 17/07/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 16 luglio 2014, n. 3759 Interdittiva prefettizia antimafia e sindacato del giudice amministrativo La sentenza ribadisce la costante giurisprudenza secondo cui l'interdittiva prefettizia antimafia, prevista dall’art. 4 del d. lgs. 490/1994 e dall’art. 10 del D.P.R. 252/1998 (ed oggi dagli artt. 91 e ss. del d. lgs. 159/2011), costituisce una misura preventiva volta a colpire l'azione della criminalità organizzata impedendole di avere rapporti contrattuali con la PA. Pertanto, essa prescinde dall'accertamento di singole responsabilità penali nei confronti dei soggetti che, nell’esercizio di attività imprenditoriali, hanno rapporti con la PA e si fonda sugli accertamenti compiuti dai diversi organi di polizia. Tale valutazione costituisce espressione di ampia discrezionalità, che può essere assoggettata al sindacato del giudice amministrativo solo sotto il profilo della sua logicità, in relazione alla rilevanza dei fatti accertati. La misura interdittiva non deve necessariamente collegarsi ad accertamenti in sede penale di carattere definitivo e certi sull'esistenza della contiguità dell’impresa con organizzazione malavitose, ma può essere sorretta da elementi sintomatici e indiziari da cui emergano sufficienti elementi del pericolo che possa verificarsi il tentativo di ingerenza nell’attività imprenditoriale della criminalità organizzata. Anche se occorre che siano individuati idonei e specifici elementi di fatto, obiettivamente sintomatici e rivelatori di concrete connessioni o possibili collegamenti con le organizzazioni malavitose, non è necessario un grado di dimostrazione probatoria analogo a quello richiesto per dimostrare l’appartenenza di un soggetto ad associazioni di tipo camorristico o mafioso, potendo l’interdittiva fondarsi su fatti e vicende di valore sintomatico e indiziario che possono risalire anche ad eventi verificatisi a distanza di tempo. Il mero rapporto di parentela con soggetti risultati appartenenti alla criminalità organizzata di per sé non basta a dare conto del tentativo di infiltrazione, dovendo l’informativa antimafia indicare anche ulteriori elementi dai quali si possano ragionevolmente dedurre possibili collegamenti tra i soggetti sul cui conto l’autorità prefettizia ha individuato i pregiudizi e l’impresa esercitata da loro congiunti. Gli elementi raccolti non vanno considerati separatamente, dovendosi piuttosto stabilire se sia configurabile un quadro indiziario complessivo, dal quale possa ritenersi attendibile l’esistenza di un condizionamento sull’impresa da parte della criminalità organizzata. CDC |
Inserito in data 16/07/2014 CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA, SEZIONE SECONDA, SENTENZA 10 luglio 2014, causa C-138/13 Contrario al diritto UE conoscere la lingua nazionale: bocciata norma tedesca La Corte del Lussemburgo, intervenendo in tema di ricongiungimenti familiari, boccia la normativa tedesca che aveva aggravato il relativo procedimento. Più nel dettaglio, la doglianza proviene da una cittadina turca cui era stato opposto l’obbligo di possedere almeno una conoscenza elementare della lingua tedesca, per ottenere il visto di ingresso – in vista del ricongiungimento con il proprio coniuge, ivi residente. I Giudici europei, analizzando la vicenda, condividono le censure e respingono la posizione del Legislatore tedesco. Questi, infatti, ha aggiunto la suddetta previsione in data successiva a quella del Protocollo addizionale del 1970 - con cui la Germania, unitamente agli altri Stati dell’allora Comunità europea, ha creato una convenzione in omaggio alla libertà di stabilimento. E’ evidente, infatti, che la normativa tedesca, richiedendo ed imponendo una previa conoscenza della lingua nazionale, introduca una reformatio in peius a carico degli stranieri che richiedono asilo per il ricongiungimento familiare. Come sottolinea il Collegio dell’UE, la norma censurata si pone in palese contrasto con la clausola di standtstill contenuta nel suddetto Protocollo di intesa e, come tale, va respinta e va accolta, per l’effetto, l’istanza della donna ricorrente. CC |
Inserito in data 16/07/2014 CORTE DI CASSAZIONE, PRIMA SEZIONE CIVILE - SENTENZA 10 luglio 2014, n.15861 Abbandono e stato di adottabilità: il diritto del minore ha sempre carattere prioritario Il Collegio di piazza Cavour, intervenendo su una pronuncia proveniente dalla sezione per i minori di una Corte d’appello piemontese, ci ricorda la ratio della Legge n. 184/83. Con essa, infatti, il Legislatore volle garantire il diritto del minore a crescere ed essere educato nella propria famiglia naturale, attraverso la predisposizione d'interventi diretti a rimuovere l'insorgere di situazioni di difficoltà e di disagio che possano compromettere la crescita in essa del minore.
Questo aspetto, avente carattere assolutamente prioritario, può subire delle deroghe solo in presenza di difficoltà oggettive, ovvero in caso di cure materiali e morali carenti, da parte dei genitori e degli stretti congiunti, tali da pregiudicare in modo grave e non transeunte lo sviluppo e l'equilibrio psicofisico del minore stesso. Laddove, infatti, come nella vicenda oggetto di ricorso, si accerti che la vita offerta al minore dai congiunti sia inadeguata al suo normale sviluppo psico-fisico, diventa inevitabile rescindere l’originario legame familiare e provvedere in vista dell'adottabilità, proprio al fine di evitare un più grave pregiudizio del soggetto più debole. CC
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Inserito in data 15/07/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 14 luglio 2014, n. 3676 L'interdittiva antimafia può fondarsi su fatti meramente sintomatici ed indiziari Il Consiglio di Stato, chiamato a pronunciarsi in merito alla legittimità del provvedimento di risoluzione del contratto di appalto emanato a seguito di un’informativa interdittiva antimafia, ha confermato la sentenza del Tar Campania il quale, già in primo grado, aveva respinto il ricorso per l’annullamento di tali atti. Muovendo dalle medesime motivazioni il Supremo Consesso richiama l’orientamento giurisprudenziale consolidato mettendo in luce il diverso grado di accertamento probatorio richiesto per l’adozione della misura interdittiva “tipica” (avente natura cautelare e preventiva volta ad anticipare l’azione di prevenzione) per la quale è sufficiente la sola presenza di ‹‹una serie di indizi in base ai quali, se considerati in modo complessivo, non sia illogico o inattendibile ritenere la sussistenza di un collegamento con organizzazioni mafiose o di un condizionamento da parte di queste›› (si veda anche C.d.S., III, 5 marzo 2013, n. 1329). Si precisa, inoltre, che ‹‹Ai fini dell’adozione dell’interdittiva, i fatti sintomatici ed indizianti che sostengono la plausibilità della sussistenza di un collegamento tra impresa e criminalità organizzata possono anche incentrarsi nelle relazioni familistiche dell’interessato con contesti e persone che non lasciano seriamente propendere per la loro affidabilità›› (Cons. Stato, III, 4 settembre 2013, n. 4414). Tuttavia, i Giudici di Palazzo Spada concordano nel ritenere insufficiente ai fini della dimostrazione di un tentativo di infiltrazione la mera esistenza di un rapporto di parentela (C.d.S, III, 10 gennaio 2013, n. 96). Nel caso di specie, peraltro, l’esistenza di un collegamento familiare con soggetto svolgente attività imprenditoriale in società dello stesso settore (precedentemente colpite da interdittive antimafia confermate nei giudizi di impugnazione), l’acquisizione improvvisa da parte dell’appellante dell’azienda, o di un ramo di essa, del familiare colpito dall’informativa antimafia, pur se priva di alcuna qualifica imprenditoriale, nonché la mancata esperienza nel settore sono stati ritenuti elementi sufficienti ad inquadrare la vicenda traslativa di cessione o affitto di ramo d’azienda in un tentativo di sostanziale ‹‹intestazione fittizia della gestione imprenditoriale utile ad aggirare le verifiche antimafia, o comunque dettata dall’intenzione di esercitare l’attività di impresa nei rapporti con la Pubblica Amministrazione attraverso schermi societari››. La decisione assunta, dunque, non sembra fondarsi sul mero rapporto di parentela, avendo preso in considerazione altri elementi indiziari collocati in una visione complessiva che ha messo in luce il rischio di infiltrazioni mafiose. Per questi motivi l’appello risulta privo di ogni fondamento. VA |
Inserito in data 15/07/2014 CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 11 luglio 2014, n. 197 Illegittimità costituzionale degli art. 33 e 34 legge della regione Piemonte 3/13 Con la sentenza in esame la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 33 e 34 della legge Regione Piemonte del 25/3/2013, recante «Modifiche alla legge regionale 5 dicembre 1977, n. 56 (Tutela ed uso del suolo) e ad altre disposizioni regionali in materia di urbanistica ed edilizia, già modificate dalla sopravvenuta legge regionale 17/2013. A parere della consulta, infatti, le modifiche introdotte non sono sufficienti ad elidere i profili di illegittimità costituzionale della norma censurata e, conseguentemente, a far dichiarare cessata la materia del contendere. Nel merito si afferma che l’art. 33 della legge regionale 3/2013 si pone in contrasto con l’art. 117 comma 1 e 2 lettera s) Cost. «in ragione della arbitraria limitazione del campo di applicazione della disciplina statale contenuta nell’art. 6, comma 2, lettere a) e b), comma 3, comma 3-bis e comma 4, e nell’art. 12 del d.lgs. n. 152 del 2006, attuativo dei principi comunitari contenuti nella direttiva 2001/42/CE, che stabiliscono il campo di applicazione della disciplina della VAS e della verifica di assoggettabilità a VAS, disponendo l’esclusione della stessa solo per particolari tipi di piani e programmi tassativamente elencati e solo per le varianti riguardanti singoli progetti, nonché per contrasto con l’art. 3 della stessa direttiva 27 giugno 2001, n. 2001/42/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio concernente la valutazione degli effetti di determinati piani e programmi sull’ambiente)». A sostegno della decisione assunta viene richiamata quella giurisprudenza costituzionale che riconduce la tutela dell’ambiente all’interno delle materie di competenza legislativa riservata esclusivamente allo Stato. Ne consegue che la disciplina legislativa regolamentante questo settore funge da limite negativo alla disciplina delle Regioni (anche a statuto speciale) le quali potrebbero introdurre solo una normativa che offra una tutela ambientale più alta e nel rispetto del bilanciamento delle esigenze contrapposte già effettuato dallo Stato (si veda sul punto C.Cost. 145/13; 225/12). La stessa giurisprudenza costituzionale, inoltre, riconduce la valutazione ambientale strategica e la relativa disciplina (d.lgs. 152/06) alla materia della «tutela dell’ambiente» (sentenze n. 227, n. 192, n. 129 e n. 33 del 2011), di competenza esclusiva dello Stato. Risultano, dunque, consentiti specifici interventi da parte delle regioni solo in presenza di interessi espressivi di una competenza propria delle stesse, quand’anche questi intercettino trasversalmente interessi ambientali. ‹‹É indubbio, pertanto, «che il significativo spazio aperto alla legge regionale dallo stesso d.lgs. n. 152 del 2006 non possa giungere fino a invertire le scelte che il legislatore statale ha adottato in merito alla sottoposizione a VAS di determinati piani e programmi; scelte che in ogni caso sono largamente condizionate dai vincoli derivanti dal diritto dell’Unione» (sentenza n. 58 del 2013). Da quanto detto segue che la norma censurata, nel prevedere una generale sottrazione delle varianti disciplinate dalla stessa dal processo di valutazione ambientale strategica ed anche alla stessa verifica di assoggettabilità viola la tutela offerta dal d. lgs. 152/2006 ed in particolare l’art. 6 commi 3 e 3-bis, a nulla rilevando la possibilità di applicare la disciplina in materia di VIA. Come ricordato dalla Corte Costituzionale, infatti, la VAS e la VIA sono istituti che vanno tenuti distinti. Ugualmente meritevole di accoglimento è la censura mossa avverso l’art. 34 l. reg. 3/2013 nella parte in cui dispone che le varianti del piano regolatore generale (PRG) debbano essere «conformi agli strumenti di pianificazione territoriale e paesaggistica regionali e provinciali», senza prevedere la partecipazione del Ministero competente. Questa disposizione normativa, ponendosi in contrato con l’art. 145 comma 5 d.lgs. 42/2004, che impone la partecipazione dello stato alla verifica di conformità del PRG al PPT, violerebbe anch’essa l’art. 117 comma 2 lett. s) cost. ‹‹Costituisce, infatti, affermazione costante […] quella secondo cui l’impronta unitaria della pianificazione paesaggistica «è assunta a valore imprescindibile, non derogabile dal legislatore regionale in quanto espressione di un intervento teso a stabilire una metodologia uniforme nel rispetto della legislazione di tutela dei beni culturali e paesaggistici sull’intero territorio nazionale» (sentenza n. 182 del 2006). Al contrario, nella specie, la generale esclusione della partecipazione degli organi ministeriali nei procedimenti di adozione delle varianti, nella sostanza, veniva a degradare la tutela paesaggistica da valore unitario prevalente e a concertazione rigorosamente necessaria, in mera esigenza urbanistica (sentenza n. 437 del 2008). VA |
Inserito in data 14/07/2014 TAR PUGLIA - LECCE, SEZ. I, 11 luglio 2014, n. 1776 Revoca patente di guida post misura di sicurezza: natura giuridica e giurisdizione Il Collegio pugliese, aderendo ad un orientamento giurisprudenziale già consolidato, delimita la natura giuridica della situazione soggettiva sottesa al provvedimento di revoca della patente di guida – emesso a seguito dell'irrogazione, a carico del titolare, di una misura di sorveglianza speciale di p.s. I Giudici, infatti, precisano che “il provvedimento prefettizio col quale, ai sensi degli artt. 120 e 219 Cod. strad. – applicabile ratione temporis al caso di specie - , viene disposta la revoca della patente di guida a seguito dell'irrogazione, a carico del titolare, della misura della sorveglianza speciale di p.s., non può essere assimilato alle sanzioni amministrative, poiché esso non costituisce conseguenza accessoria della violazione di una disposizione in tema di circolazione stradale, bensì la constatazione dell'insussistenza, originaria o sopravvenuta, dei requisiti morali prescritti per il conseguimento del titolo di abilitazione alla guida” (Cfr. Cass. civ, II, 4.11.2010, n. 22491). Non ricorre, pertanto, una sanzione accessoria – ex art. 120, 2’ co. del Codice della strada, irrogabile al fine di impedire l’uso del veicolo per eventuali, successivi reati: in casi simili, infatti, si compirebbe una valutazione discrezionale da parte dell’Amministrazione e la conseguente situazione giuridica vantata dal ricorrente sarebbe di interesse legittimo. Ricorre, invece, un accertamento vincolato– ex art. 120, 1’ co. del Codice della strada, volto alla valutazione della sussistenza – in capo all’odierno ricorrente – dei requisiti morali necessari ai fini della circolazione stradale. Si configura, pertanto, un diritto soggettivo perfetto ed occorre, di conseguenza, devolvere l’odierna controversia all’attenzione dell’AGO, in applicazione dei principi della translatio iudicii (art. 59 l. n. 69/09; art. 11 2° co. c.p.a). CC |
Inserito in data 14/07/2014 CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA, DECIMA SEZIONE - SENTENZA 10 luglio 2014, Causa C-358/12 DURC irregolare, esclusione giustificata I Giudici dell’Unione europea avallano la normativa italiana in materia di appalti pubblici, con riguardo ad una particolare ipotesi di esclusione dalla gara. E’ condiviso, infatti, l’intento del Legislatore italiano di estromettere dall’aggiudicazione un'impresa non in regola con il pagamento dei contributi previdenziali (DURC), una volta che sia stata superata una determinata soglia, definita «grave», e cioè di importo superiore sia a 100 euro che al 5% delle somme dovute. CC
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Inserito in data 12/07/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 11 luglio 2014, n. 3570 Caratteri e disciplina degli oneri reali La sentenza del Consiglio di Stato è interessante perché ci ricorda i caratteri e la disciplina degli oneri reali. “In primo luogo, è configurabile questo istituto nei casi di prestazioni a carattere periodico dovute dal colui che permane nel godimento di un determinato bene immobile. Fonte dell’obbligo è in questo caso la cosa e il rapporto che la lega al titolare (res, non personam, debet), per cui il creditore potrà soddisfarsi sulla stessa esercitando un’azione reale”. “In secondo luogo, […] nel caso di alienazione di un bene sottoposto all’onere reale, il creditore acquista nei confronti dell’avente causa i medesimi diritti che aveva nei confronti dell’originario proprietario, il quale però continua ad essere in proprio obbligato, secondo le regole della solidarietà”. TM |
Inserito in data 12/07/2014 CORTE DI CASSAZIONE - SECONDA SEZIONE CIVILE - SENTENZA 8 luglio 2014, n. 15824 Responsabilità del rivenditore di bene difettoso verso l’acquirente-produttore La Seconda sezione civile della Corte di Cassazione si occupa della responsabilità del rivenditore per i danni cagionati al compratore-operatore professionale dal prodotto difettoso: nella specie, un noto operatore professionale nel settore alimentare aveva acquistato da un rivenditore peperoncino rosso adulterato con un colorante cancerogeno (il “Sudan rosso I”) e lo aveva utilizzato per condire delle olive destinate ai consumatori. A giudizio della Suprema Corte, la responsabilità del rivenditore è soggettiva (per colpa). Per la giurisprudenza consolidata, “in tema di vizi della cosa venduta, ai sensi dell’art. 1494 cod. civ., il rivenditore è responsabile nei confronti del compratore del danno a lui cagionato dal prodotto difettoso de non fornisce la prova di aver attuato un idoneo comportamento positivo tendente a verificare la qualità della merce ed a controllare in modo adeguato l’assenza di vizi, anche alla stregua della destinazione della merce stessa, giacché i doveri professionali del rivenditore impongono senz’altro, secondo l’uso della normale diligenza, controlli periodici o su campione, al fine di evitare che notevoli quantitativi di merce presentino gravi vizi di composizione”. In particolare, la Corte di Cassazione si sofferma sul contenuto dei controlli cui è tenuto il rivenditore: “onde individuare la contaminazione di alimenti da parte di inquinanti non codificati, la diligenza professionale richiede di affiancare alle analisi mirate di routine (da svolgersi secondo metodiche accreditate) anche ulteriori analisi di controllo […] volte ad escludere la presenza di, talora massicce, contaminazioni e sofisticazioni alimentari identificabili”; infatti, “se è ignoto il componente estraneo, è ben noto invece quello che ci deve essere; se, individuato questo, risulta che c’è anche dell’altro, è su questo ‘altro’ incognito che le ricerche si devono appuntare per stabilire di cosa si tratti”. Pertanto, non viene meno la responsabilità del rivenditore sebbene, al tempo dei fatti per cui è causa, non era stato ancora dato l’allarme sulla presenza di questa sostanza cancerogena negli alimenti, né la Commissione europea aveva imposto agli Stati membri di effettuare i controlli sulle partite di peperoncino rosso per verificare la presenza del Sudan rosso I. Tuttavia, per la Corte di Cassazione, l’acquirente dell’alimento adulterato, operatore professionale e produttore, intenzionato ad utilizzare la spezia acquistata per la produzione di una sostanza alimentare destinata all’uso umano ha un onere di diligenza che gli impone di effettuare, a sua volta, controlli a campione tesi ad escludere la presenza di additivi nocivi nella spezia comprata prima del suo utilizzo nel prodotto finale; infatti, l’acquirente di merce destinata al consumo alimentare umano, che sia operatore professionale del settore, non può fare esclusivo affidamento sull’osservanza del dovere del rivenditore di fornire cose non adulterate né contraffatte. Tale onere di diligenza trova fondamento nell’obbligo di sicurezza alimentare del produttore nei confronti del consumatore finale e rileva quale dovere di cooperazione del creditore ai sensi dell’art. 1227, c.2, cc, riducendo la responsabilità del rivenditore nei confronti dell’acquirente professionale per i danni provocati dalla vendita del bene difettoso (costi di produzione, distribuzione e ritiro delle olive in cui è presente il peperoncino oggetto della fornitura; danno all’immagine). TM
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Inserito in data 11/07/2014 CORTE DI CASSAZIONE, TERZA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 8 luglio 2014, n. 15491 Sulla risarcibilità del danno non patrimoniale Per la Suprema Corte, “nel caso in cui intercorra un apprezzabile lasso di tempo tra le lesioni colpose e la morte causata dalle stesse è configurabile un danno biologico risarcibile, da liquidarsi in relazione alla menomazione della integrità psicofisica patita dal danneggiato per il periodo di tempo indicato, e il diritto del danneggiato a conseguire il risarcimento del danno è trasmissibile agli eredi 'iure hereditatis'; in questo caso, l'ammontare del danno biologico terminale sarà commisurato soltanto all'inabilità temporanea, e tuttavia la sua liquidazione dovrà tenere conto, nell'adeguare l'ammontare del danno alle circostanze del caso concreto, del fatto che, se pure temporaneo, tale danno è massimo nella sua entità ed intensità, tanto che la lesione alla salute è così elevata da non essere suscettibile di recupero ed esitare nella morte (Cass., 30 ottobre 2009, n. 23053; Cass., 23 febbraio 2004, n. 3549)”. Il danno biologico è, altresì, risarcibile iure proprio anche in capo ai prossimi congiunti della vittima allorquando “sia adeguatamente provato il nesso causale tra la menomazione dello stato di salute dell'attore ed il fatto illecito (Cass., 23 febbraio 2004, n. 3549)”. In conclusione, gli Ermellini puntualizzano che il danno da perdita del rapporto parentale (c.d. 'danno edonistico') “deve essere valutato unitamente al risarcimento del danno morale iure proprio”. Il carattere unitario della liquidazione del danno non patrimoniale (ex art. 2059 c.c.) preclude, infatti, “la possibilità di un separato ed autonomo risarcimento di specifiche fattispecie di sofferenza patite dalla persona (danno alla vita di relazione, danno estetico, danno esistenziale, ecc.), che costituirebbero vere e proprie duplicazioni risarcitorie, fermo restando, però, l'obbligo del giudice di tenere conto di tutte le peculiari modalità di atteggiarsi del danno non patrimoniale nel singolo caso, tramite l'incremento della somma dovuta a titolo risarcitorio, in sede di personalizzazione della liquidazione (Cass., 23 settembre 2013, n. 21716)”. EMF
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Inserito in data 11/07/2014 CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 9 luglio 2014, n. 193 Alterità del Giudice e medesima res iudicanda Con la sentenza in epigrafe, il Giudice delle Leggi “dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 17, primo e secondo comma, lettera c), del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 13 settembre 1946, n. 233 (Ricostituzione degli Ordini delle professioni sanitarie e per la disciplina dell’esercizio delle professioni stesse), nella parte in cui non prevede la nomina di membri supplenti della Commissione centrale per l’esame degli affari concernenti la professione dei farmacisti, che consentano la costituzione, per numero e categoria, di un collegio giudicante diversamente composto rispetto a quello che abbia pronunciato una decisione annullata con rinvio dalla Corte di cassazione”, per violazione degli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione. In via consequenziale, dichiara, altresì, ”l’illegittimità costituzionale dell’art. 17, primo e secondo comma, lettere a), b), d) ed e), del d.lgs. C.p.S. n. 233 del 1946, nella parte in cui non prevede la nomina di membri supplenti della Commissione centrale per l’esame degli affari concernenti le professioni dei medici chirurghi, dei veterinari, delle ostetriche e degli odontoiatri, che consentano la costituzione, per numero e categoria, di un collegio giudicante diversamente composto rispetto a quello che abbia pronunciato una decisione annullata con rinvio dalla Corte di cassazione”. In particolare, “la Commissione centrale esercita «funzioni di giurisdizione speciale» (art. 15, comma 3-bis, del d.l. n. 158 del 2012), in virtù di una qualificazione pacifica nella giurisprudenza di legittimità (Corte di cassazione, Sezioni unite civili, 7 agosto 1998, n. 7753) e, svolgendo un’attività di natura giurisdizionale, avverso le decisioni pronunciate dalla stessa è ammesso ricorso per cassazione, ex art. 111, settimo comma, Cost.”. Il procedimento disciplinare nei confronti degli esercenti le professioni sanitarie si articola, infatti, “in una prima fase, svolta davanti all’ordine professionale locale, che ha natura amministrativa; nel caso di impugnazione dell’atto che la definisce, alla stessa segue un’ulteriore fase che è svolta, invece, davanti ad un “giudice” ed ha natura giurisdizionale”. Tuttavia, i caratteri giurisdizionali del procedimento non escludono “ che lo stesso possa essere caratterizzato da profili strutturali e funzionali peculiari, in coerenza con la specificità delle funzioni esercitate ed alla luce degli interessi allo stesso sottesi, tra questi anche quello di garantire l’indefettibilità e continuità dell’attività svolta dalla Commissione centrale. Nondimeno, tali interessi vanno sempre subordinati al «principio di imparzialità-terzietà della giurisdizione, che ha pieno valore costituzionale ai sensi degli artt. 24 e 111 della Costituzione, con riferimento a qualunque tipo di processo, “pur nella diversità delle rispettive discipline connessa alle peculiarità proprie di ciascun tipo di procedimento”» (C. Cost., sentenza n. 262 del 2003). In sostanza, il giudice deve sempre rimanere super partes rispetto agli interessi oggetto del processo e deve assicurare «quel “minimo” di garanzie ragionevolmente idonee allo scopo» (C. Cost., sentenza n. 78 del 2002). Pertanto, in tutti i tipi di processo “devono essere previste regole in grado di proteggere in ogni caso il valore fondamentale dell’imparzialità del giudice, impedendo, in particolare, che quest’ultimo possa pronunciarsi due volte sulla medesima res iudicanda (sentenza n. 335 del 2002), specie nel caso di rinvio proprio o prosecutorio (sentenza n. 341 del 1998)”. D’altra parte, “la diversità del giudice-persona fisica salvaguarda la stessa effettività del sistema delle impugnazioni, poiché queste «rinvengono, in linea generale, la loro ratio di garanzia nell’alterità tra il giudice che ha emesso la decisione impugnata e quello chiamato a riesaminarla» ed opera anche in senso “discendente”, con riguardo, cioè, al giudizio di rinvio dopo l’annullamento (sentenza n. 183 del 2013) tutte le volte in cui sia stata effettuata una valutazione definitiva sulla stessa res iudicanda”. Alla luce di quanto suddetto, la Consulta, in passato, ha “dichiarato costituzionalmente illegittima la norma che, non prevedendo la nomina di ulteriori membri supplenti della Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, non impediva, in caso di annullamento con rinvio di una decisione dalla stessa pronunciata, che lo stesso collegio giudicante si pronunciasse due volte sulla medesima res iudicanda (sentenza n. 262 del 2003; analogamente, con riguardo alla mancata previsione della nomina di supplenti in grado di assicurare meccanismi di sostituzione del componente astenuto, ricusato o legittimamente impedito del Tribunale superiore delle acque pubbliche, in relazione proprio ad un giudizio di rinvio, sentenza n. 305 del 2002)”. EMF |
Inserito in data 10/07/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 8 luglio 2014, n. 3482 Presupposti di ammissibilità del ricorso in ottemperanza La terza sezione del Consiglio di Stato ci ricorda che il giudizio di ottemperanza è ammissibile, al ricorrere di un comportamento della P.A. che viola o elude il giudicato, in assenza di situazioni nuove. A fronte di un giudicato, in sede di riedizione del potere, l’Amministrazione può tenere due condotte: 1) riesercitare il potere, valutando differentemente situazioni che, esplicitamente o implicitamente, sono state oggetto di esame da parte del giudice; 2) riesercitare il potere, tenendo conto non solo della decisione del giudice, ma anche di situazioni nuove e non contemplate in precedenza. Nel primo caso, la riedizione del potere soggiace a vincoli e limiti precisi, derivanti dal giudicato: ciò in linea con “l’orientamento interpretativo della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, per la quale l’Amministrazione, in sede di esecuzione di una decisione esecutiva del giudice amministrativo, non può rimettere in discussione quanto accertato in sede giurisdizionale (in questo senso, cfr. C.E.D.U., 18 novembre 2004, Zazanis c. Grecia)”. Pertanto, il superamento di tali limiti lascia emergere un comportamento elusivo, sindacabile in sede di ottemperanza. Nel secondo caso, l’esigenza di certezza, propria del giudicato, non è tale da proiettare il suo effetto vincolante. “Resta inteso comunque che l’art. 112, comma 1, del c.p.a. imponga a tutte le parti l’obbligo di dare esecuzione ai provvedimenti del giudice, e ciò soprattutto per la Pubblica Amministrazione, in un’ottica di leale ed imparziale esercizio del munus publicum e in esecuzione dei principi costituzionali scanditi dall’art. 97 Cost. e dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (ove il diritto alla esecuzione della pronuncia del giudice è considerato quale inevitabile e qualificante completamento della tutela offerta dall’ordinamento in sede giurisdizionale)”. TM |
Inserito in data 10/07/2014 CORTE DI CASSAZIONE - SECONDA SEZIONE PENALE - SENTENZA 4 luglio 2014 n. 29009 Sull’aggravante del metodo mafioso e sugli atti di concorrenza ex art. 513 bis cp La sentenza della seconda sezione della Cassazione penale è interessante sotto due profili. In primis, individua i presupposti di applicabilità dell’aggravante del “metodo mafioso”, prevista dall’art. 7, D.L. 13 maggio 1991, n. 152. Aderendo all’orientamento prevalente, la Corte afferma che per la configurabilità di tale aggravante, “non è necessario che sia stata dimostrata o contestata l’esistenza di un’associazione a delinquere, essendo sufficiente che la violenza o la minaccia assumano veste tipicamente mafiosa” . In secundis, s’interroga sull’interpretazione degli “atti di concorrenza”, elemento costitutivo del delitto di cui all’art. 513 bis (illecita concorrenza con minaccia o violenza). Condividendo l’indirizzo giurisprudenziale più recente e ormai prevalente, si afferma che “l’art. 513-bis cod. pen. punisce soltanto quelle condotte illecite tipicamente concorrenziali (quali il boicottaggio, lo storno dei dipendenti, il rifiuto di contrattare, etc.) attuate, però, con atti di coartazione che inibiscono la normale dinamica imprenditoriale, non rientrando, invece, nella fattispecie astratta, gli atti intimidatori che siano finalizzati a contrastare o ostacolare l’altrui libera concorrenza” . In altri termini, si procede ad una lettura restrittiva del delitto in esame, in base alla quale la limitazione della concorrenza non è solo il fine perseguito dall’agente, bensì anche un carattere intrinseco della condotta del reo. Questa lettura restrittiva va preferita perché conforme alla lettera della norma – che distingue gli atti di concorrenza dagli atti di violenza o minaccia – e rispettosa dei principi di legalità e tassatività. Evidenziata, poi, la diversità dei beni giuridici protetti dal delitto de quo (ordine economico e, quindi, normale svolgimento delle attività produttive connesse) e dal delitto di estorsione (patrimonio dei singoli), la seconda sezione afferma la configurabilità di un concorso formale dei delitti predetti, quando si realizzino contemporaneamente gli elementi costitutivi di entrambi i reati; con la conseguenza che, laddove non si ravvisino gli atti di concorrenza propri del delitto ex art. 513 bis cp, può comunque configurarsi il delitto di estorsione, consumato o tentato. TM
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Inserito in data 09/07/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, ORDINANZA DI RIMESSIONE all’ADUNANZA PLENARIA, 3 luglio 2014 n. 3347 Sui poteri sostitutivi del giudice dell’ottemperanza: rimessione alla Plenaria Con l’ordinanza in epigrafe, l’Adunanza Plenaria è chiamata a dirimere il seguente quesito di diritto: “se nella fase di ottemperanza - con giurisdizione, quindi, estesa al merito - ad una sentenza avente ad oggetto una domanda demolitoria di atti concernenti una procedura espropriativa, rientri o meno tra i poteri sostitutivi del giudice, e per esso, del commissario ad acta, l’adozione della procedura semplificata di cui all’art. 42 bis“. A tal proposito, parte della giurisprudenza (Cons. St., nn. 1222 e 1344 del 2014) nega tali poteri sulla scorta del principio di corrispondenza tra “chiesto” e “pronunciato”: si assisterebbe, infatti, “alla singolare situazione per cui lo stesso giudice, che in sede di cognizione ha ritenuto che il bene dovesse essere restituito al legittimo proprietario, in sede di ottemperanza ordinerà invece all’amministrazione di impossessarsi dello stesso bene, anzi addirittura la sostituirà, mandando un suo ausiliario a mettere in atto tale proposito”. D’altronde, “tale conclusione risulterebbe ulteriormente confermata dalla maggiore incidenza economica che avrebbe l’adozione del provvedimento ex art. 42-bis: per cui deve essere lasciata all’esclusiva valutazione dell’amministrazione la ponderazione comparativa delle alternative possibili”. Per contro, un secondo filone interpretativo ritiene “che il commissario ad acta possa sostituirsi all’amministrazione competente al fine di portare a compimento la procedura espropriativa per il tramite del provvedimento di cui all’art 42-bis, dando così rilievo ai poteri concessi al giudice amministrativo in sede di ottemperanza” ” (cfr. Cons. St., Sez. VI, n. 6351 del 2011). Siffatta ricostruzione, invero, fornirebbe una tutela sostanziale al proprietario (ex art. 24 Cost.), “nel senso di impedire che eventuali ulteriori dilazioni da parte dell’amministrazione nell’adempimento della sentenza possano continuare a nuocere all’interessato, con evidente perdita di efficacia dei poteri sostitutivi del giudice in sede di ottemperanza e, conseguentemente, di quelli del commissario ad acta nominato in tale sede”. Del resto, “anche secondo l’orientamento formatosi nel vigore dell’art. 43, l’atto di acquisizione sanante era applicabile in sede di giudizio di ottemperanza” (cfr. Cons. St., sez. IV, 03.09.2008 n. 4114). Ciò posto, il Collegio ritiene doveroso rammentare che “le Sezioni Unite della Cassazione, con ordinanza 13.01.2014, n. 441, hanno rimesso alla Corte Costituzionale la questione di legittimità costituzionale della norma di cui all’art. 42 bis del T.U. appr. con d.P.R. n. 327 del 2001, sotto diversi profili”. EMF |
Inserito in data 08/07/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 7 luglio 2014, n. 3435 Requisiti soggettivi ed elementi oggettivi dell’offerta negli appalti integrati Il Supremo Consesso ha accolto l’appello principale avverso la pronuncia di primo grado concernente una procedura di appalto integrato da svolgersi secondo il criterio di scelta dell’offerta economicamente più vantaggiosa, in tal modo confermando il provvedimento di aggiudicazione emanato in favore della società appellante. Il Consiglio di Stato ha preliminarmente esaminato e rigettato le censure mosse in sede di ricorso incidentale promosso in primo grado da parte della società appellante avverso l’illegittima partecipazione e mancata esclusione dalla procedura concorsuale della società appellata. Particolare rilievo sembra assumere l’esclusione della indeterminatezza dell’offerta fondata sulla esatta interpretazione del concetto di “variante” rispetto al progetto predisposto dalla stazione appaltante. A parere del Supremo Consesso, infatti, <<costituiscono varianti ex art. 76 d.lgs. n. 163 del 2006 le modifiche progettuali e non già le soluzioni tecniche consentite proprio sulla base del progetto predisposto dalla stazione appaltante e che non comportino uno stravolgimento dell’ideazione sottesa a quest’ultimo (C.d.S. 819/14; 5160/13; 4916/12) […] queste ultime “sono consustanziali alle procedure di affidamento secondo il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa”, come tipicamente sono gli appalti integrati, nel quale la finalità perseguita è quella di giovarsi degli apporti tecnici dei privati al fine di meglio conseguire gli obiettivi prestazionali prefigurati dall’amministrazione con il progetto posto a gara>>. Accertata, dunque, la consequenziale legittimazione della società appellata a contestare in giudizio il provvedimento di ammissione e di aggiudicazione in favore dell’appellante, il Consiglio di Stato ha proceduto all’esame del ricorso principale, le cui censure sono state riproposte dinanzi allo stesso e vertevano sostanzialmente sul possesso dei requisiti soggettivi necessari alla partecipazione o sulla carenza di elementi oggettivi nell’offerta da presentata. In particolare veniva contestata la mancanza della figura del geologo, prevista dal bando di gara, in seno alla società di ingegneria indicata dall’aggiudicataria nella propria offerta. Più precisamente, il motivo d’appello verteva sulle disposizioni della normativa di gara che in cui imponevano di indicare un geologo tra i progettisti. Sul punto si è osservato che <<l’indicazione del geologo richiesta dal disciplinare deve essere letta in relazione al disposto dell’art. 91, comma 3, cod. contratti pubblici, il quale consente di sub-affidare le indagini geologiche, geotecniche, sismiche, i sondaggi, i rilievi, le misurazioni e picchettazioni, strumentali allo sviluppo dell’attività di progettazione esecutiva oggetto dell’appalto integrato, a soggetti non facenti parte dei progettisti a ciò espressamente designati e direttamente responsabili nei confronti della stazione appaltante>>. Ciò in quanto <<gli interessi dell’amministrazione non sono minimamente pregiudicati, potendo la stessa confidare sulla responsabilità dei predetti progettisti, ai sensi dell’ultimo inciso del predetto art. 91, comma 3>>. Inoltre l’amministrazione risulterebbe sufficientemente tutelata dalla disciplina del subappalto di cui all’art. 118 d.lgs. n. 163 del 2006, applicabile nel caso di specie in virtù del rinvio ad essa da parte dell’art. 252, comma 5, del regolamento di esecuzione. Pertanto, mancando un rapporto diretto tra il soggetto indicato e la pubblica amministrazione, non risulta necessaria la dichiarazione dei requisiti generali prevista dall’art. 38 del codice dei contratti pubblici mentre le verifiche in ordine al possesso dei requisiti di affidabilità morale seguono la disciplina del subappalto. Per lo stesso motivo, non essendo configurabile un raggruppamento temporaneo, ma solo l’affidamento di attività strumentali alla progettazione esecutiva, non risultano violate le prescrizioni di cui all’art. 253 comma 5 d.p.r. 207/10. Si eccepiva, inoltre, l’inammissibilità della variante operata in relazione alla scelta dei materiali da utilizzare in quanto asseritamente peggiorativa in ragione della maggiore onerosità della gestione e manutenzione dell’infrastruttura. Anche il suddetto motivo è stato considerato privo di ogni fondamento da parte dei giudici di Palazzo Spada i quali hanno affermato che <<il TAR ha in sostanza ricavato una conclusione in contrasto con le possibilità aperte dalle disposizioni di gara, che hanno ammesso la modifica del progetto predisposto dalla stazione appaltante, senza espressamente escludere alcuni materiali utilizzabili. […] D’altra parte la legislazione in materia di appalti pubblici (ed a ben vedere il criterio selettivo dell’offerta economicamente più vantaggiosa) consente che l’amministrazione acquisisca apporti dell’offerente sin dalla fase della progettazione inerente al contratto da affidare, al fine di reperire le soluzioni maggiormente in grado di soddisfare le proprie esigenze. Inoltre il Consiglio di Stato ha ritenuto di dover considerare che <<l’offerta migliorativa era stata formulata dall’appellante nell’ambito del sub-elemento di valutazione dell’offerta tecnica relativo “all’ottimizzazione della funzionalità della nuova conduttura, anche in relazione alla gestione del moto viario ed alle gestione delle pressioni di esercizio”(per un massimo di 15 punti)>>. La valutazione di questa “miglioria”, pertanto, rientrava nella valutazione discrezionale della pubblica amministrazione, censurabili in sede giurisdizionale solo per manifesta illogicità o irragionevolezza, vizi non presenti nel caso in questione. VA |
Inserito in data 08/07/2014 COSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 7 luglio 2014, n. 3445 Dies a quo del termine per promuovere il procedimento disciplinare Il Consiglio di Stato ha dichiarato infondate le censure di intempestività mosse avverso la sanzione disciplinare del licenziamento senza preavviso inflitta a seguito di una pronuncia penale irrevocabile. Il Supremo Consesso ha precisato che il termine di 180, previsto dall’art. 38 comma 8 del c.c.n.l. del 5 aprile 1996 del comparto del personale delle aziende ed amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, entro il quale l’Amministrazione deve iniziare il procedimento disciplinare comincia, è sospeso fino alla sino alla sentenza definitiva con ciò intendendosi che, laddove la denuncia penale non sia presentata dalla stessa amministrazione, è lo stesso temine iniziale del procedimento disciplinare che deve essere sospeso. Invero, l’art. 38, commi 5 e 6, del c.c.n.l. deve essere interpretato nel senso che <<laddove l'Amministrazione sia venuta a conoscenza di gravi fatti illeciti penalmente rilevanti e sia tenuta per legge a denunciarli, e' anche facoltizzata ad attivare subito il procedimento disciplinare, che rimane sospeso fino alla sentenza definitiva. Ma ciò non si verifica allorché la denuncia dei “gravi fatti illeciti” sia stata fatta da un terzo ed abbia comportato l’avvio del procedimento penale>>. In queste ipotesi, dunque, la Pubblica amministrazione può attendere sino alla conclusione del giudizio penale prima di dar vita al procedimento disciplinare (si veda Cass. civ., sez. lav., 10/03/2010 n. 5806). L’art. 5, comma 4 L. 97/2001, inoltre, dispone che <<nel caso sia pronunciata sentenza penale irrevocabile di condanna nei confronti dei dipendenti pubblici privatizzati, ancorché a pena condizionalmente sospesa, l'estinzione del rapporto di lavoro o di impiego può essere pronunciata a seguito di procedimento disciplinare; e il procedimento disciplinare deve avere inizio, o, in caso di intervenuta sospensione, deve proseguire, entro il termine di novanta giorni dalla comunicazione della sentenza all'amministrazione o all'ente competente per il procedimento disciplinare>>. Alla luce del dettato normativo appare evidente che il decorso del termine sia legato alla “notizia” della sentenza irrevocabile e risponde all’esigenza di dare certezza e stabilità ai rapporti contrattuali, evitando che si protragga indefinitamente lo stato di incertezza del rapporto ed il relativo potere disciplinare dell’Amministrazione. Il dettato normativo, inoltre, evita <<che il termine decorra in un periodo nel quale la predetta Amministrazione sia oggettivamente impossibilitata ad esercitare ogni valutazione in ordine alla instaurazione, ovvero alla riattivazione, della procedura disciplinare>> (Cass.civ., sez. lav., 22/10/2009 n. 22418 ). Altrettanto priva di fondamento è apparsa l’accusa di genericità delle contestazioni rilievo che l’Amministrazione, nel promuovere il procedimento disciplinare, può effettuare le contestazioni richiamando l’imputazione fatta nel processo penale conclusosi con sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione. Nessun avallo, in fine, hanno avuto le accuse relative alla violazione dell’obbligo di motivazione e alla sussistenza del fatto oggetto di contestazione. VA |
Inserito in data 07/07/2014 CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 4 luglio 2014, n. 191 Sul principio di parità delle armi processuali (ex art. 111 Cost.) Con la pronuncia in esame, la Consulta dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 7, del decreto-legge 29 dicembre 2010, n. 225 (Proroga di termini previsti da disposizioni legislative e di interventi urgenti in materia tributaria e di sostegno alle imprese e alle famiglie), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 26 febbraio 2011, n. 10 nella parte in cui, introducendo l’art. 2, comma 196-bis, della legge 23 dicembre 2009, n. 191 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2010), stabilisce che il Commissario straordinario del Governo per il Comune di Roma «deve essere in possesso di comprovati requisiti di elevata professionalità nella gestione economico-finanziaria, acquisiti nel settore privato, necessari per gestire la fase operativa di attuazione del piano di rientro». Tale disposizione viola il principio di “parità delle armi processuali”. Il Governo, infatti, da un lato, si è sovrapposto al G.A., che ha disposto l’annullamento del provvedimento di revoca del Commissario straordinario di prima nomina, e, dall’altro, gli ha imposto di “prendere in considerazione, come requisito indispensabile per la validità della nomina, il dato della professionalità maturata nel settore privato, in possesso solo del secondo Commissario nominato e non di quello sostituito”. D’altra parte, per il Giudice delle Leggi (ex plurimis, sentenza n. 186 del 2013) è ravvisabile la violazione dell’art. 111 Cost. “quando il legislatore statale immette nell’ordinamento una fattispecie di ius singulare che determina lo sbilanciamento fra le due posizioni in gioco”. A tal proposito, la Corte di Strasburgo ha più volte ribadito che «in linea di principio non è vietato al potere legislativo di stabilire in materia civile una disciplina innovativa a portata retroattiva dei diritti derivanti da leggi in vigore, ma il principio della preminenza del diritto e la nozione di processo equo sanciti dall’art. 6 della Convenzione, ostano, salvo che per motivi imperativi di interesse generale, all’ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia al fine di influenzare l’esito giudiziario di una controversia» (sentenze 11 dicembre 2012, De Rosa contro Italia; 14 febbraio 2012, Arras e altri contro Italia; 7 giugno 2011, Agrati e altri contro Italia; 31 maggio 2011, Maggio e altri contro Italia; 10 giugno 2008, Bortesi e altri contro Italia; 29 marzo 2006, Scordino e altri contro Italia). Per tale ragione, le circostanze addotte per giustificare misure retroattive devono essere «trattate con la massima circospezione possibile» (sentenza 14 febbraio 2012, Arras e altri contro Italia). A ciò si aggiunga che “lo stato del giudizio, il grado di consolidamento dell’accertamento e la prevedibilità dell’intervento legislativo (sentenza 27 maggio 2004, Ogis Institut Stanislas e altri contro Francia), nonché la circostanza che lo Stato sia parte in senso stretto della controversia (sentenze 22 ottobre 1997, Papageorgou contro Grecia; 23 ottobre 1997, National & Provincial Building Society e altri contro Regno Unito) sono tutti elementi valorizzati dal giudice di Strasburgo per affermare la violazione dell’art. 6 della CEDU da parte di norme innovative che incidono retroattivamente su controversie in corso”. EMF |
Inserito in data 05/07/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 3 luglio 2014, n. 3357 Caratteri essenziali del sindacato del g.a. sulla discrezionalità tecnica La sentenza si occupa del sindacato del giudice amministrativo sulla discrezionalità tecnica, ovvero sull’apprezzamento effettuato dalla PA sulla base di discipline tecnico-scientifiche (nel caso in esame, di regole di valutazione didattica, riconducibili allo svolgimento di prove di esame, implicanti riscontro del grado di maturità raggiunto e delle conoscenze acquisite dagli allievi). A partire dalla decisione del Consiglio di Stato n. 601 del 1999, si è ritenuto che spetta al giudice amministrativo una piena cognizione del fatto, secondo i parametri della disciplina in concreto applicabile. Nell’ambito del giudizio di legittimità non può infatti non essere valutata, anche attraverso idonea consulenza tecnica, l’eventuale erroneità dell’apprezzamento della PA, ove tale erroneità sia in concreto valutabile. Appare dunque censurabile ogni valutazione che si ponga al di fuori dell'ambito di esattezza o attendibilità, quando non appaiano rispettati parametri tecnici di univoca lettura, ovvero orientamenti già oggetto di giurisprudenza consolidata, o di dottrina dominante in materia. In altre parole, l’esercizio della discrezionalità tecnica deve rispondere ai dati concreti, deve essere logico e non arbitrario. Ciò mira a garantire, con l’effettività della tutela giurisdizionale, l’esclusione di ambiti franchi da tale tutela, al fine di assicurare un giudizio coerente con i principi, di cui agli articoli 24, 111 e 113 Cost, nonché 6, par.1, CEDU. Al contrario, si ha eccesso di potere giurisdizionale solo quando l’indagine del giudice di legittimità si sia estesa alla opportunità o alla convenienza dell’atto, con oggettiva sostituzione della volontà dell’organo giudicante a quella della PA competente in materia. CDC |
Inserito in data 05/07/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 3 luglio 2014, n. 3359 Non c’è diritto all’assunzione per i vincitori di concorso pubblico È inammissibile l’accertamento di un diritto alla nomina, in base al consolidato indirizzo giurisprudenziale che non riconosce ai vincitori di concorso, per servizi da svolgere presso PA, un diritto incondizionato all’assunzione. Infatti, la PA ha il potere di non procedere alla nomina in presenza di valide e motivate ragioni di interesse pubblico, che facciano venire meno la necessità o l’opportunità di copertura del posto, disponibile al momento della pubblicazione del bando, pur dovendosi valutare la ragionevolezza e la coerenza delle scelte successivamente compiute. Il diverso indirizzo della giurisprudenza della Cassazione, che configura il bando di concorso – per i lavori a contratto anche presso PA – come “offerta al pubblico”, idonea a costituire presupposto di un vero e proprio diritto all’assegnazione del posto, non rileva nel caso affrontato. Infatti, il posto da assegnare richiedeva un atto unilaterale di nomina, implicante la stabile collocazione in ruolo della dipendente interessata, in base ai posti disponibili nella pianta organica per la qualifica di riferimento. La collocazione poteva quindi essere controbilanciata da ragioni di interesse pubblico, da cui poteva derivare una rideterminazione dell’organico. CDC |
Inserito in data 03/07/2014 CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 25 giugno 2014, n. 184 Parziale illegittimità costituzionale dell’art. 517 c.p.p. La Corte Costituzionale, essendo stata sollevata una questione di legittimità costituzionale avverso l’art. 517 c.p.p. dal Tribunale ordinario di Roma con ordinanza del 21/02/2014, ha dichiarato la parziale illegittimità costituzionale della norma in questione, per violazione degli artt. 3 e 24 Cost. << nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento l’applicazione di pena, a norma dell’art. 444 del codice di procedura penale, in seguito alla contestazione nel dibattimento di una circostanza aggravante che già risultava dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale>>. La problematica trae spunto da un procedimento penale nei confronti di un soggetto imputato del reato di cui all’art. 186 comma 2 lett. b) del nuovo codice della strada, poi aggravato in fase di dibattimento a seguito dell’escussione di alcuni testimoni, avendo il pubblico ministero contestato le circostanze aggravanti previste dai commi 2-bis e 2. Sexies dell’art. 186 sopra citato. A seguito della modifica della contestazione, infatti, l’imputato aveva presentato una richiesta di patteggiamento, pur essendo decorso il termine previsto dagli artt. 556 comma 2 e 555 comma 2 c.p.p. Il giudice remittente, tuttavia, rileva come la richiesta fosse stata <<originata dalla contestazione da parte del pubblico ministero ai sensi dell’art. 517 c.p.p. delle circostanze aggravanti previste dai commi 2-bis e 2-sexies dell’art. 186 Cod. d. Strada […] suscettibili di un significativo mutamento sanzionatorio in danno dell’imputato […] La possibile richiesta di applicazione della pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità, peraltro, era stata rappresentata dall’imputato fin dagli atti introduttivi del dibattimento, «attraverso la produzione della dichiarazione di disponibilità» del presidente di una onlus a far lavorare l’imputato nel caso di sostituzione della pena>>. Secondo il giudice rimettente, dunque, la norma violerebbe l’art. 24 comma 2 Cost. e dell’art. 3 Cost. rispettivamente laddove osti alla restituzione in termini dell’imputato per la richiesta di patteggiamento a fronte di una contestazione tardiva, da parte del pubblico ministero, di circostanze aggravanti note già nella fase delle indagini preliminari, non consentendo all’imputato un’adeguata valutazione della possibilità di rinuncia al dibattimento e discriminando la possibilità di accesso al rito speciale in ragione della completezza ed esaustività delle indagini. La Suprema Corte di legittimità ha avallato le censure mosse dal giudice a quo richiamando dei propri precedenti giurisprudenziali (sentenze n. 237 del 2012 e n. 333 del 2009), nei quali viene chiarita la ratio della disciplina delle nuove contestazioni dibattimentali; la norma in questione introdurrebbe una certa flessibilità, all’interno di un sistema accusatorio che prevede la formazione della prova in sede dibattimentale, consentendo di adattare gli esiti della suddetta istruttoria, <<quando alcuni profili di fatto risultino diversi o nuovi rispetto a quelli emersi dagli elementi acquisiti nel corso delle indagini e valutati dal pubblico ministero ai fini dell’esercizio dell’azione penale>>. Presupposto indefettibile per l’applicabilità degli artt. 516 e 517 c.p.p. è, dunque, << la diversità del fatto, il reato concorrente e le circostanze aggravanti debbono emergere nel corso dell’istruzione dibattimentale>>. Il Supremo Consesso, inoltre, ricorda come le Sezioni Unite della Cassazione, attraverso un’interpretazione estensiva, abbiano consentito l’utilizzo delle contestazioni anche come strumento correttivo per eventuali incompletezze od errori commessi dal pubblico ministero (S.U. Cass. 4/1998; Cass. 333/09). Questa lettura estensiva delle norme, però, deve poter tener conto anche delle esigenze difensive: a tal fine il codice di procedura penale prevede la possibilità, per l’imputato, di richiedere un termine a difesa non inferiore a quello previsto dall’art. 429 c.p.p. , nonché l’acquisizione di nuove prove (art. 519 c.p.p.). Rimanevano, però, preclusi i riti alternativi a contenuto premiale che <<costituiscono anch’essi «modalità, tra le più qualificanti (sentenza 148 del 2004), di esercizio del diritto di difesa (ex plurimis, sentenze n. 219 del 2004, n. 70 del 1996, n. 497 del 1995 e n. 76 del 1993)» (sentenza n. 237 del 2012), tali da incidere, in senso limitativo, sull’entità della pena inflitta>>. La Corte Costituzionale, superando l’orientamento giurisprudenziale che subordinava la tutela dell’interesse dell’imputato ai benefici dei riti speciali alle ipotesi in cui la sua condotta consentisse effettivamente di evitare il dibattimento (sentenze n. 593/90; 129/93; n. 316/92) e che riteneva non imprevedibili le modificazioni delle imputazioni, ha affermato che <<le valutazioni dell’imputato circa la convenienza del rito alternativo vengono infatti a dipendere, anzitutto, dalla concreta impostazione data al processo dal pubblico ministero: sicché, quando, in presenza di una evenienza patologica del procedimento, quale è quella derivante dall’errore sulla individuazione del fatto e del titolo del reato in cui è incorso il pubblico ministero, l’imputazione subisce una variazione sostanziale, risulta lesivo del diritto di difesa precludere all’imputato l’accesso ai riti speciali. Anche il principio di eguaglianza viene violato perché l’imputato è irragionevolmente discriminato rispetto alla possibilità di accesso ai riti alternativi, in dipendenza della maggiore o minore esattezza o completezza della valutazione delle risultanze delle indagini preliminari da parte del pubblico ministero e delle correlative contestazioni (sentenza n. 265/94). A parere della Suprema Corte Costituzionale le medesime esigenze difensive sopra esposte sussisterebbero anche nella fattispecie sottoposta alla sua attenzione che ha visto la trasformazione dell’imputazione in un’ipotesi circostanziata: tale modificazione, infatti, comporterebbe comunque un non indifferente aggravamento del quadro sanzionatorio, a nulla rilevando che l’aggravamento sia solo potenziale in quando affidato alla discrezionale valutazione del giudice ed al suo potere di bilanciamento. <<In conclusione, poiché «le valutazioni dell’imputato circa la convenienza del rito speciale vengono a dipendere anzitutto dalla concreta impostazione data al processo dal pubblico ministero», non vi è dubbio che, in seguito al suo errore e al conseguente ritardo nella contestazione dell’aggravante, l’imputazione subisce una variazione sostanziale, sì che «risulta lesivo del diritto di difesa precludere all’imputato l’accesso ai riti speciali» (sentenza n. 265 del 1994)>>. VA |
Inserito in data 03/07/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 30 giugno 2014, n. 3274 Curatore fallimentare e responsabilità per la rimozione di rifiuti Il Supremo Consesso si è pronunciato in merito alla possibilità di configurare in capo al curatore fallimentare una responsabilità per lo smaltimento dei rifiuti prodotti dall’impresa fallita, con particolare attenzione all’ipotesi in cui, come nel caso di specie, lo stesso non sia stato autorizzato alla prosecuzione dell’attività aziendale. Dopo aver risolto in senso positivo le questioni preliminari, relative all’ammissibilità o meno del ricorso, facendo leva sulla natura provvedimentale dell’ordinanza emessa dal comune e sul carattere innovativo della stessa sul versate della legittimazione passiva, il Consiglio di Stato ha affrontato la questione principale: se l’avvicendamento del curatore nel rapporto di locazione dell’immobile interessato comporti il subingresso anche nell’obbligo di dare esecuzione alle ordinanze emesse dal comune (nelle quale, appunto, si ordinava di procedere alla rimozione dei rifiuti). I giudici di Palazzo Spada, richiamando alcune precedenti pronunce, hanno affermato che <<l'ordinanza sindacale è rivolta al fallimento in conseguenza dell'inottemperanza dell'impresa ad un precedente provvedimento. In tal modo, si evidenzia l'estraneità della curatela fallimentare alla determinazione degli inconvenienti sanitari riscontrati nell'area>> (decisione n. 4328 del 29 luglio 2003); <<il riferimento alla disponibilità giuridica degli oggetti, qualificati dal comune come rifiuti inquinanti, non è sufficiente per imporre l'adempimento di un obbligo gravante sull'impresa fallita>>. Invero, <<Il potere di disporre dei beni fallimentari (secondo le particolari regole della procedura concorsuale e sotto il controllo del giudice delegato) non comporta necessariamente il dovere di adottare particolari comportamenti attivi, finalizzati alla tutela sanitaria degli immobili destinati alla bonifica da fattori inquinanti>>. A tanto si giunge sulla base della considerazione che l’attività che ha originato i rifiuti risale a condotte antecedenti ed indipendenti dal fallimento in capo al quale, pertanto, non può configurarsi alcun tipo di responsabilità, neppure in forma omissiva. Il Supremo Consesso afferma, inoltre, che quanto affermato è ancor più fondato laddove, come nel caso di specie, <<il fallimento non è stato autorizzato a proseguire l'attività precedentemente svolta dall'impresa fallita. Pertanto, l'obbligo di bonifica del sito non potrebbe essere nemmeno collegato allo svolgimento di operazioni potenzialmente inquinanti>>. Ne consegue la completa estraneità dell’organo fallimentare all’illecito ambientale. Lo stesso, inoltre, sarebbe anche privo di poteri gestori che travalichino quelli relativi alla liquidazione ed al soddisfacimento della massa dei creditori. In fine il Consiglio di Stato, richiamando la decisione n. 3885/2009, rileva come una diversa soluzione comporterebbe un sovvertimento del principio giuridico “chi inquina paga” sotteso all’art. 192 d.lgs. 152/06 (che addossa gli obblighi in questione al responsabile dell’illecito e, solidalmente, al proprietario dell’area, o titolare di altro diritto di godimento, cui la violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa). Infatti, laddove si estendesse questa responsabilità anche alla curatela i costi relativi allo smaltimento dei rifiuti andrebbero a ricadere indirettamente sui creditori, intaccando la massa attiva del fallimento (estranei all’attività illecita e già pregiudicati nei loro diritti dal dissesto finanziario dell’impresa). Alla luce di queste considerazione il Consiglio di Stato ritiene che questa soluzione non possa essere sovvertita neanche dal disposto dell’art. 192 comma 4 d.lgs. 152/06 ai sensi del quale <<Qualora la responsabilità del fatto illecito sia imputabile ad amministratori o rappresentanti di persona giuridica ai sensi e per gli effetti del comma 3, sono tenuti in solido la persona giuridica ed i soggetti che siano subentrati nei diritti della persona stessa, secondo le previsioni del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, in materia di responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni>>. Ciò in quanto la società fallita rimane un soggetto distinto e separato dagli organi fallimentari, conservando il proprio patrimonio e la propria soggettività giuridica: a seguito della dichiarazione del fallimento, infatti, la società perde solo la disponibilità e non anche la titolarità dello stesso. <<Correlativamente, il Fallimento non acquista la titolarità dei suoi beni, ma ne è solo un amministratore con facoltà di disposizione […]; il curatore del fallimento, pertanto, pur potendo sottentrare in specifiche posizioni negoziali del fallito (cfr. l’art. 72 R.D. n. 267/1942), in via generale “non è rappresentante, né successore del fallito, ma terzo subentrante nell'amministrazione del suo patrimonio per l'esercizio di poteri conferitigli dalla legge” (Cassazione civile, sez. I, 23/06/1980, n. 3926); […] il curatore, nell'espletamento della pubblica funzione, non si pone come successore o sostituto necessario del fallito, su di lui non incombono né gli obblighi dal fallito inadempiuti volontariamente o per colpa, né quelli che lo stesso non sia stato in grado di adempiere a causa dell'inizio della procedura concorsuale, ancorché la scadenza di adempimento avvenga in periodo temporale in cui lo stesso curatore possa qualificarsi come datore di lavoro nei confronti degli stessi dipendenti, o di alcuni di essi>>. Per tali motivi è da escludere la sussistenza di una responsabilità del curatore per gli illeciti ambientali e del correlativo obbligo di porvi rimedio. VA |
Inserito in data 02/07/2014 CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, 25 giugno 2014, n. 15 Le penalità di mora si applicano anche alle condanne al pagamento di somme di denaro La questione affrontata concerne l’applicabilità dell’istituto delle penalità di mora, di cui all'art. 114, comma 4, lett. e), cpa, quando il ricorso per ottemperanza sia proposto in ragione della non esecuzione di una sentenza che abbia imposto alla PA il pagamento di una somma di denaro. Com’è noto, tale norma prevede che il giudice dell’ottemperanza possa fissare una somma di denaro dovuta dal resistente per ogni violazione o inosservanza successiva della sentenza o per ogni ritardo nell’esecuzione del giudicato. Si delinea così una misura coercitiva indiretta a carattere pecuniario, rientrante fra le pene private o sanzioni civili indirette, la quale mira a vincere la resistenza del debitore, inducendolo ad adempiere all’obbligazione sancita a suo carico dall’ordine del giudice. Ciò assicura i valori dell’effettività e della pienezza della tutela giurisdizionale, a fronte della mancata o non esatta o non tempestiva esecuzione delle sentenze emesse. Secondo l’Adunanza Plenaria, l’istituto opera per tutte le sentenze di condanna del giudice amministrativo, comprese quelle aventi ad oggetto prestazioni pecuniarie. In tal senso depone, anzitutto, un argomento di diritto comparato. Infatti, l’istituto in questione discende dal modello francese delle astreintes, nel quale non vi sono limiti strutturali legati alla natura della sentenza di condanna. Ciò si salda con un argomento letterale. La norma, infatti, non contiene un limite analogo a quello, stabilito dall’art. 614-bis cpc nell’ambito dell’esecuzione civile, della riferibilità del meccanismo al solo caso di inadempimento degli obblighi aventi ad oggetto un non fare o un fare infungibile. La soluzione è coerente anche sul piano sistematico. Infatti, nel processo civile la previsione delle penalità di mora per le sole pronunce di condanna ad un non fare o ad un fare infungibile, cioè per le sole pronunce non eseguibili in modo forzato, mira ad introdurre una coercizione indiretta che colmi l’assenza di un’esecuzione diretta. Tale esigenza non si pone nel giudizio di ottemperanza, in cui tutte le prestazioni sono surrogabili, vista la possibilità di nominare un commissario ad acta con poteri sostitutivi. Infine, la tesi non è scalfita dall’argomento equitativo, secondo il quale vi sarebbe il rischio di una duplicazione di risarcimenti, con correlativa locupletazione del creditore. Infatti, la penalità di mora, come si è detto, assolve ad una funzione coercitivo-sanzionatoria, e non ad una funzione riparatoria. Trattandosi di una pena, e non di un risarcimento, non viene allora in rilievo un’inammissibile doppia riparazione di un unico danno, ma l’aggiunta di una misura sanzionatoria ad una tutela risarcitoria. Semmai, l’esigenza di evitare locupletazioni eccessive o sanzioni troppo afflittive potranno rilevare al momento dell’esercizio del potere discrezionale di graduazione dell’importo. CDC |
Inserito in data 02/07/2014 CORTE DI CASSAZIONE, SESTA SEZIONE PENALE, SENTENZA 27 giugno 2014, n. 28009 Finalità di terrorismo e rapporti tra delitti di attentato e dolo eventuale La sentenza si occupa, fra l’altro, della nozione di finalità di terrorismo (art. 270-sexies cp) e del rapporto tra reati di attentato e dolo eventuale. Sotto il primo profilo, si analizza in particolare l’elemento soggettivo, che opera in una duplice direzione. Da un lato, l’agente vuole un “grave danno per un Paese od una organizzazione internazionale”. Dall’altro, persegue un fine alternativo, fra i tre indicati dalla norma: intimidire la popolazione, destabilizzare o distruggere strutture politiche fondamentali, costringere il potere pubblico o una organizzazione internazionale a compiere o non compiere un atto. Quanto alla nozione di “grave danno”, la legge esige l’obiettivo compimento di condotte che possono determinare quel danno (e dunque sono idonee in quel senso). Non basta l’intenzione del danno, in quanto la condotta deve creare la possibilità che si verifichi. Si tratta, dunque, di un evento di pericolo concreto. L’azione deve poi essere anche finalizzata ad uno dei tre ulteriori eventi, che non deve necessariamente verificarsi, secondo lo schema tipico del dolo specifico. La sentenza esamina, in particolare, la nozione di “costrizione”. Si nota, anzitutto, che l’essenza della politica consiste nel dispiegamento di forze individuali e sociali al fine di orientare o imporre le scelte rimesse agli organi del potere pubblico; dunque, il fine di condizionamento politico è di per sé solo inidoneo a selezionare le condotte con finalità terroristiche. Allora, la nozione di costrizione deve essere interpretata e ricostruita valorizzando i seguenti profili. In primo luogo, l’atto terroristico deve mirare ad orientare un affare particolarmente rilevante, capace di influenzare le condizioni della vita associato, per il suo oggetto o per le sue implicazioni. Occorre, poi, che vi sia una pressione indebita, cioè illecita. Tuttavia, non qualsiasi azione illecita o violenta può farsi rientrare nella nozione di costrizione, ma solo quella che miri al sovvertimento dei principi fondamentali, che formano il nucleo intangibile dell’assetto ordinamentale. La sentenza delinea poi i caratteri essenziali dei delitti di attentato, sottolineando come essi siano segnati dall’univoca direzione degli atti verso un evento determinato e dall’idoneità degli atti a produrre la relativa lesione. Si tratta di caratteri analoghi a quelli del delitto tentato: pertanto, anche i delitti di attentato (come il delitto tentato) sono incompatibili con il dolo eventuale. Infatti, la forma del dolo non può che allinearsi alla struttura oggettiva del fatto, e cioè sulla percezione e sulla volizione di una destinazione univoca del proprio agire verso la produzione di un evento dato. CDC
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Inserito in data 01/07/2014 CORTE DI CASSAZIONE, SECONDA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 23 giugno 2014, n. 14220 L’appaltatore è tenuto a denunciare i difetti della materia La giurisprudenza è unanime nel ritenere che “l'appaltatore risponde dei difetti dell'opera quando accetti senza riserve i materiali fornitigli dal committente, sebbene questi presentino vizi o difformità riconoscibili da un tecnico dell'arte o non siano adatti all'opera da eseguire ed i difetti denunziati dal committente derivino da quei vizi o da quella inidoneità (Cass. nn. 470/10, 10580/94, 1569/87 e 1771/65). Egli, inoltre, è tenuto ad avvisare il committente che i materiali che questi gli abbia fornito, essendo di cattiva qualità o, comunque, inidonei rispetto all'opera commessagli, non siano tali da assicurare la buona riuscita di questa, con la conseguenza che, in difetto di tale avviso, non può eludere la responsabilità per i vizi dell'opera adducendo che i materiali erano difettosi”. Tali principi, ricavati dall’esegesi “degli artt. 1655 c.c. (secondo cui l'appaltatore è tenuto a compiere l'opera con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio) e 1663 c.c. (in base al quale l'appaltatore è altresì tenuto a dare pronto avviso al committente dei difetti della materia che quest'ultimo gli abbia fornito, se si scoprono nel corso dell'opera e possono comprometterne la regolare esecuzione), sono agevolmente estensibili alla diversa ipotesi in cui i materiali forniti dal committente, sebbene né difettosi né inadatti, richiedano tuttavia per la loro corretta utilizzazione l'osservanza di una particolare procedura”. Pertanto, l’appaltatore “ha l'obbligo di valutare previamente il materiale consegnatogli e, ove non l'abbia mai impiegato prima, di informarsi sulle sue caratteristiche intrinseche e sulle tecniche di applicazione che esso richieda, tecniche il cui eventuale apprendimento è a carico dell'appaltatore stesso ed è esigibile al pari del possesso delle ordinarie nozioni dell'arte”. EMF
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Inserito in data 01/07/2014 TAR PIEMONTE - TORINO, SEZ. I, 27 giugno 2014, n. 1153 Sui criteri di selezione delle offerte L’art. 81, comma 1, del Codice dei Contratti prevede che “Nei contratti pubblici…la migliore offerta è selezionata con il criterio del prezzo più basso o con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa”. Ciò posto, è “principio consolidato in giurisprudenza quello per cui la scelta del criterio più idoneo per l'aggiudicazione di un appalto (tra quello dell'offerta economicamente più vantaggiosa e quello del prezzo più basso) costituisce espressione tipica della discrezionalità della stazione appaltante e, riguardando il merito dell'azione amministrativa, risulta sottratta al sindacato giurisdizionale di legittimità; né sussiste obbligo di motivazione al riguardo in capo alla P.A.”. A tal proposito, il Collegio sabaudo osserva che “la norma di cui all’art. 286 del Regolamento di Esecuzione è norma di natura regolamentare, recessiva rispetto al principio generale sancito dalla norma primaria”. Tuttavia, esso “non impone l’adozione del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, ma ne disciplina i contenuti allorchè la stazione appaltante l’abbia adottato nel caso di specie”. Peraltro, “il regime delle incompatibilità previsto dall’art. 84 D. Lgs. 163/2006 non trova applicazione nelle gare da aggiudicare con il criterio del prezzo più basso, ma solo nelle gare da aggiudicare secondo il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa; e ciò in quanto l’applicazione del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa implica l’esercizio di un potere di scelta tecnico-discrezionale da parte della commissione, mentre al criterio del prezzo più basso fa da sponda una scelta pressoché automatica da effettuare mediante il mero utilizzo dei parametri tassativi prescritti dal disciplinare di gara” (TAR Milano, sez. I, 10 gennaio 2012, n. 57; TAR Brescia, sez. II, 28 ottobre 2009, n. 1780; Cons. Stato, sez. IV, 23 settembre 2008, n. 4613). EMF
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Inserito in data 27/06/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 19 giugno 2014, n. 3115 Sulla lottizzazione abusiva Nel caso in esame, il Consiglio di Stato precisa che, in tema di lottizzazione, le difformità riscontrate rivelavano una destinazione d’uso differente da quella assentita, essendo indice di una destinazione residenziale. Il mutamento della destinazione, accompagnato, tra l’altro, dalla creazione – in seguito all’attribuzione delle particelle al N.C.E.U. - dei subalterni 2, 3, 4, 5, 6, 7 e 8, integrava, infatti, un’ipotesi di lottizzazione abusiva, in quanto, nell’ambito di una valutazione complessiva dello stato dei luoghi, rivelava una trasformazione urbanistica ed edilizia dei terreni in contrasto con le previsioni dello strumento urbanistico. Sotto altro profilo, inoltre, l’Amministrazione aveva operato sulla base di una compiuta istruttoria, per cui era platealmente infondata l’asserzione secondo la quale l’Amministrazione si sarebbe limitata a porre a fondamento della propria motivazione gli elementi contenuti nella domanda di condono successivamente ritirata. Né poteva fondatamente ritenersi, come invece a torto sostenutosi nel mezzo di primo grado, che il riferimento alla tipologia di frazionamento fosse “sibillino” e “poco chiarificatore”. Inoltre, il Tar, preso atto della circostanza che l’ Amministrazione aveva fornito prova che, con note prot. nn. 1329, 1330, 1331 e 1332 del 29 gennaio 2007, si era provveduto a comunicare alla società Dueffe Costruzioni l’avvio del procedimento “finalizzato all’emanazione eventuale dei provvedimenti di cui ai commi 7 e 8 dello stesso art. 30 D.P.R. 380/2001” (tanto che la società era stata nella condizione di produrre in data 15 febbraio 2007 memorie “ex art. 10 L. n. 241/90”), ha escluso la fondatezza della dedotta violazione sub art. 7 della legge n. 241/1990. Inoltre, è stata disattesa l’ultima doglianza incentrata nel primo mezzo per motivi aggiunti, laddove si era sostenuto che l’Amministrazione aveva erroneamente ritenuto le difformità denunciate soggette a permesso di costruire, “anziché a semplice d.i.a.”. Il primo giudice ha fatto presente che l’esposta censura faceva riferimento agli artt. 22 e 32 del D.P.R. n. 380/01, con ciò “intendendosi sostanzialmente dimostrare la possibilità di sanare gli interventi in contestazione in forza di d.i.a.: senonché trattava di motivi estranei all’ipotesi in esame e, dunque, non pertinenti in quanto il provvedimento impugnato non era interessato da problematiche di tal genere, risultando adottato esclusivamente in applicazione della diversa previsione di cui all’art. 30 del medesimo D.P.R.” Nel caso in esame, l’acquisizione di diritto delle aree abusivamente lottizzate - intervenuta in seguito alla maturazione del termine di 90 giorni prescritto dall’art. 30, comma 8, del D.P.R. n. 380/01, richiamato nelle ordinanze nn. 6, 7, 8 e 9, oggetto di impugnativa con i primi motivi aggiunti, ritenuti infondati - non poteva che aver “assorbito ex se l’ordine di demolizione”. L’area lottizzata e, unitamente ad essa, ovviamente anche i manufatti sulla stessa insistenti non rientravano più nel patrimonio della originaria ricorrente in quanto acquisiti dall’Amministrazione, alla quale, tra l’altro, competeva, ai sensi di legge, il compito di provvedere “d’ufficio, e con spese a carico dei responsabili, alla demolizione delle opere”. Dunque, ricorrevano pertanto le condizioni per affermare che gli ordini imposti con le ordinanze di immediata sospensione dei lavori e rimozione delle opere nn. 14, 15, 16 e 17 in questione erano venuti meno, né in capo alla originaria ricorrente, non più proprietaria, poteva essere riscontrato alcun interesse all’annullamento degli stessi. In tema di lottizzazione abusiva, si rammenta che in seno ad una recente decisione (la n. 3381/2012) la Sezione ha avuto modo di rivisitare la fattispecie, pervenendo ad alcune conclusioni traslabili alla fattispecie. A tal proposito, è stato affermato che “al fine di valutare un'ipotesi di lottizzazione abusiva c.d. materiale, appare necessaria una visione d'insieme dei lavori, ossia una verifica nel suo complesso dell'attività edilizia realizzata, atteso che potrebbero anche ricorrere modifiche rispetto all'attività assentita idonee a conferire un diverso assetto al territorio comunale oggetto di trasformazione”. Specificamente, sussiste lottizzazione abusiva in tutti i casi in cui si realizza un'abusiva interferenza con la programmazione del territorio; la verifica dell'attività edilizia realizzata nel suo complesso, può condurre a riscontrare un illegittimo mutamento della destinazione all'uso del territorio autoritativamente impressa anche nei casi in cui le variazioni apportate incidano esclusivamente sulla destinazione d'uso dei manufatti realizzati. Invero, il Consiglio di Stato precisa che “è proprio la formulazione dell'art. 30 del D.P.R. n. 380/01 che impone di affermare che integra un'ipotesi di lottizzazione abusiva qualsiasi tipo di opere in concreto idonee a stravolgere l'assetto del territorio preesistente, a realizzare un nuovo insediamento abitativo e, quindi, in ultima analisi, a determinare sia un concreto ostacolo alla futura attività di programmazione (che viene posta di fronte al fatto compiuto), sia un carico urbanistico che necessita adeguamento degli standards. Come già affermato dalla giurisprudenza di merito il concetto di "opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia" dei terreni deve essere, dunque, interpretato in maniera "funzionale" alla ratio della norma, il cui bene giuridico tutelato è costituito dalla necessità di preservare la potestà programmatoria attribuita all'Amministrazione nonché l'effettivo controllo del territorio da parte del soggetto titolare della stessa funzione di pianificazione (cioè il Comune), al fine di garantire una ordinata pianificazione urbanistica, un corretto uso del territorio ed uno sviluppo degli insediamenti abitativi e dei correlativi standards compatibile con le esigenze di finanza pubblica. Ciò che rileva è il concetto di "trasformazione urbanistica ed edilizia" e non quello di "opera comportante trasformazione urbanistica ed edilizia"”. Ne discende, ad avviso del Collegio, che il mutamento di destinazione d'uso di edifici già esistenti può influire sull'assetto urbanistico dei terreni sui quali essi insistono e può altresì comportare nuovi interventi di urbanizzazione. Il concetto di "opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia", deve quindi essere interpretato in maniera "funzionale" alla ratio della norma (il cui bene giuridico tutelato è costituito, come si diceva in precedenza, dalla necessità di preservare la potestà pianificatoria attribuita all'amministrazione nonché l'effettivo controllo del territorio da parte del Comune), che tende, lo si diceva, appunto, a garantire una ordinata pianificazione urbanistica, un corretto uso del territorio ed uno sviluppo degli insediamenti abitativi e dei correlativi standards compatibili con le esigenze di finanza pubblica. La verifica circa la conformità della trasformazione realizzata e la sua rispondenza o meno alle previsioni delle norme urbanistiche vigenti deve essere effettuata con riferimento non già alle singole opere in cui si è compendiata la lottizzazione, eventualmente anche regolarmente assentite (giacché tale difformità è specificamente sanzionata dagli artt. 31 e ss. D.P.R. n. 380/2001), bensì alla complessiva trasformazione edilizia che di quelle opere costituisce il frutto, sicché essa conformità ben può mancare anche nei casi in cui per le singole opere facenti parte della lottizzazione sia stato rilasciato il permesso di costruire. GMC |
Inserito in data 26/06/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 19 giugno 2014, n. 3118 Sulle procedure di avanzamento di carriera Il Consiglio di stato, con la sentenza in epigrafe, si occupa della procedura di avanzamento, nell’ambito della quale, allorchè si controverta della promozione a gradi sì elevati della scala gerarchica, vengono valutati i curricula di candidati di eccelso valore, concludendosi con, come affermano i Giudici di Palazzo Spada, “il posizionamento dei candidati a distanza ristrettissima tra loro”. Nel caso di specie, tra il primo classificato ed il sesto, intercorrevano soltanto cinque centesimi di punto, mentre tra il primo classificato e l’appellante intercorrevano appena quattro centesimi di punto. Secondo il Consiglio di Stato, il dato numerico appare “indicativo di due emergenze processuali di rilievo: la prima di esse è dimostrativa del gravoso compito demandato alla Commissione di Avanzamento nel graduare carriere impeccabili e certamente luminose e, soprattutto, nel discernere tra i possibili elementi di contrario segno rinvenibili nei curricula a quale di essi dare prevalenza. La seconda, riposa nel convincimento per cui vi sarebbe già da dubitare se in simile fattispecie si possa razionalmente predicare la sussistenza di indici di “eccesso di potere assoluto” nei termini ipotizzati da parte appellante”. Anzitutto, i giudici di Palazzo Spada hanno immediatamente sgombrato il campo da un argomento critico, ossia la possibile fondatezza della censura di “eccesso di potere assoluto”, che sembra certamente infondato, per concentrarsi sugli argomenti di maggior spessore critico. La doglianza di “eccesso di potere assoluto”, non sussiste certamente in quanto lo stesso, per pacifica giurisprudenza, presupporrebbe la individuazione di una figura di ufficiale con precedenti di carriera costantemente ottimi (tutti giudizi finali apicali, massime aggettivazioni nelle voci interne, conseguimento del primo posto nei corsi basici, di applicazione ed in quelli successivi di aggiornamento professionale), ed esenti da qualsiasi menda o attenuazione di rendimento. Invero, i profili sintomatici di tale vizio, potrebbero cogliersi esclusivamente quando nella documentazione caratteristica risulti un livello tanto macroscopicamente elevato dei precedenti dell’intera carriera dell’ufficiale, da rendere a prima vista il punteggio attribuito del tutto inadeguato. Il percorso professionale dell’appellante, pur connotato da estrema brillantezza, non presenta “quelle caratteristiche di assoluta, costante e incondizionata eccellenza dal che discende l’insussistenza di quella rara ipotesi di assoluta preminenza che potrebbe consentire l’ipotizzabilità dell’eccesso di potere in senso assoluto”. L’appellante sostiene che il Tar avrebbe errato nell’avere enfatizzato il dato del primo conseguimento della qualifica apicale, obliando il ben più significativo dato del mantenimento dell’eccellenza in rapporto tra la data di conseguimento e l’anzianità totale. Ha, in proposito, richiamato la sentenza n. 1363/2011, laddove era già stato stigmatizzato il richiamo a flessioni di rendimento remote; ha fatto presente che egli vantava più note aggiuntive e 26 ricompense morali in più; anche i titoli dell’appellante erano maggiormente pregnanti: egli aveva retto comandi ex art. 27 del dLgs n. 69/2001 (comando isolato operativo) per 251 mesi (il controinteressato per 192 mesi) Tuttavia, va esclusa l’automatica trasponibilità delle valutazioni rese in sede giurisdizionale dalla Sezione nella sentenza richiamata dalla difesa dell’appellante e recante n. 1363/2011, anche in relazione alla circostanza che in detta procedura i controinteressati Ufficiali “destinatari” della comparazione volta a dimostrare la sussistenza dell’eccesso di potere in senso relativo erano più d’uno. Ad avviso dei Giudici di Palazzo Spada, il Tar, valutando sinotticamente il percorso di carriera dell’appellante e del controinteressato, ha “utilizzato” in chiave reiettiva un argomento del tutto neutro: nella sentenza gravata, infatti, si pone in luce che il “generale Gentili “attenzionato” dal ricorrente risulta – pur arruolatosi nel Corpo due anni dopo il ricorrente – non aver mai riportato flessioni della qualifica finale, a differenza dello stesso ricorrente, e soprattutto risulta aver conseguito la qualifica apicale di “eccellente” con continuità dopo 5 anni dall’immissione in servizio”. Il Tar, ha, successivamente, valorizzato la circostanza che il controinteressato non ha mai riportato flessioni della qualifica finale, ha conseguito notazioni di “lode” con continuità già nel grado di maggiore e comunque per un periodo equipollente all’originario ricorrente pur con minore anzianità di servizio, ed ha riportato in carriera un numero significativamente inferiore di flessioni di giudizio nelle singole voci. Quanto a tale ultimo profilo, il Collegio condivide quanto affermato nella decisione già richiamata n. 1363/2011 circa la non assoluta significatività del dato numerico assoluto delle flessioni di rendimento riportate da ciascun ufficiale, con riguardo ai giudizi per le voci interne delle schede valutative. Quanto agli incarichi ricoperti, il Tar ha valorizzato nella posizione del controinteressato la circostanza che questi avesse maturato, a fronte della minore anzianità, un maggior periodo di comando rispetto all’odierno appellante e l’oggettivo e particolare rilievo degli incarichi da ultimo espletati dal controinteressato quale Sottocapo di Stato Maggiore del Comando Generale e quindi come Comandante Regionale della Sicilia. Il Collegio, condivide il risalto che la giurisprudenza amministrativa attribuisce all’incarico ricoperto dal Gen. Gentili di Sottocapo di Stato Maggiore del Comando Generale e vuol porre in luce che, anche considerando tali emergenze processuali, non pare possa emergere un profilo del controinteressato superiore a quello dell’appellante, il che lascia inspiegato il divario di punteggio. Infine, tale carenza motivazionale si accentua laddove si prendano in considerazione gli altri parametri valutativi. Concludendo, secondo il Consiglio di Stato, l’appello va accolto e per l’effetto, in riforma della gravata decisione, va accolto il mezzo di primo grado con conseguente annullamento dei gravati provvedimenti, salvi gli ulteriori provvedimenti dell’Amministrazione. GMC |
Inserito in data 25/06/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 19 giugno 2014, n. 3126 Espropriazione per p.u. di immobili privati per interventi alberghieri Il Consiglio di Stato, con la pronuncia in epigrafe specifica che l’oggetto della controversia consiste, in sostanza, nello stabilire se, pur a seguito della abrogazione delle norme che consentivano l’espropriazione per pubblica utilità di immobili privati per finalità di realizzazione di interventi alberghieri, sia tuttora possibile disporre tale espropriazione. In tale sede, viene ribadito che l’art. 24, co. 1, d.l. n. 112/2008, conv. in l. 133/2008, ha abrogato la l. 7 aprile 1938 n. 475, recante “Conversione in legge del R.D.L. 21 ottobre 1937, n. 2180”, contenente provvedimenti per la dichiarazione di pubblica utilità delle espropriazioni per la costruzione di nuovi alberghi e per l'ampliamento e la trasformazione di quelli esistenti in Comuni di particolare interesse turistico. In particolare, l’art. 1 del R.D.L. n. 2180/1937, ora abrogato, prevedeva che “le opere occorrenti per la costruzione di nuovi alberghi, per l'ampliamento e la trasformazione di quelli esistenti nei Comuni riconosciuti di particolare interesse turistico dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri - Commissariato per il turismo - sono dichiarate di pubblica utilità con decreto del Presidente della Repubblica su proposta del Ministro per i lavori pubblici”. La dichiarazione di pubblica utilità dell’intervento, avrebbe dovuto avvenire sulla base di piani di massima (art. 1, co. 2), che, a loro volta, avrebbero dato luogo a piani particolareggiati da adottarsi nei singoli Comuni (art. 3). Inoltre, l’art. 4 dichiarava applicabile la legge 25 giugno 1865 n. 2359, sia per le espropriazioni che per la determinazione dell’indennità. Nel caso in esame, l’intervenuta abrogazione di tale disciplina normativa, è nota anche all’appellante ed è senza dubbio esatto che il vigente ordinamento dell’espropriazione per pubblica utilità, pur come delineato a seguito del DPR n. 327/2001, prevede l’istituto anche nei casi in cui occorra realizzare opere private di pubblica utilità. A tal proposito, infatti, l’art. 1 prevede che il Testo Unico espropriazioni regola l’espropriazione di beni immobili “anche a favore di privati”; così come l’art. 2, co. 1, lett. c) prevede anche il soggetto privato quale “beneficiario dell’espropriazione”; l’art. 6, co. 9 individua l’autorità competente all’espropriazione finalizzata “alla realizzazione di opere private” ed infine l’art. 36 la misura dell’indennità nei casi in cui l’espropriazione è finalizzata alla realizzazione di opere private di pubblica utilità, indicandola nel “valore venale del bene”. Tuttavia, secondo quanto specificato dalla Corte “la persistenza della possibilità di espropriazione per opere private di interesse pubblico, e la disciplina di quest’ultima a livello generale, non implicano che ciò possa trovare immediata e specifica applicazione per la realizzazione di alberghi ex novo ovvero per l’ampliamento di quelli esistenti”. Ciò che il Legislatore, in virtù dell’abrogazione della l. n. 475/1938, ha fatto venir meno è sia, per un verso, la possibilità di ritenere gli interventi di tipo alberghiero quali opere di pubblica utilità ai fini espropriativi, sia, per altro verso, il conferimento del potere espropriativo così finalizzato in capo all’autorità amministrativa, come invece richiesto dall’art. 2, co. 1, DPR n. 327/2001, ma – soprattutto – dall’art. 42 Cost. I giudici di Palazzo Spada precisano che, posto che “la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge” (come prevede il secondo comma dell’art. 42), l’espropriazione della stessa è possibile “per motivi di interesse generale” e soprattutto “nei casi preveduti dalla legge” (comma terzo). Dunque, gli interventi di costruzione e ampliamento di alberghi, per effetto dell’intervenuta abrogazione della relativa disciplina, non rappresentano più una ipotesi che la legge prevede come finalità tale da consentire l’espropriazione della proprietà privata. Quindi, per tal motivo, appare evidente che non può assumere alcun rilievo, onde giungere a diverse conclusioni, la circostanza che gli interventi “alberghieri” siano considerati di pubblico interesse da altre e distinte previsioni normative (ad esempio a fini edilizi, come indicato dall’appellante: pag. 13 app.), trattandosi, secondo quanto precisato, “della causa di attribuzione di distinto potere amministrativo e mancando comunque l’espressa previsione legislativa di attribuzione del potere espropriativo con riferimento al caso di specie”. Concludendo, secondo il Consiglio di Stato, non appare fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 24, co. 1, d.l. n. 112/2008, nella parte in cui abroga la l. n. 475/1938, posto che la individuazione di opere di “pubblica utilità”, rientra nella discrezionalità del legislatore, da esercitarsi con maggior rigore nei casi in cui il sacrificio della proprietà privata debba essere disposto in favore di interventi privati, pur riconosciuti di pubblica utilità. Nel caso di specie, l’intervenuta abrogazione non appare affetta da irragionevolezza. GMC |
Inserito in data 24/06/2014 CORTE DI CASSAZIONE - QUINTA SEZIONE PENALE, SENTENZA 13 giugno 2014, n. 25490 Caratteristiche dei beni sottoponibili a confisca per equivalente Respingendo le difese del ricorrente, la Corte di Cassazione indica le caratteristiche che devono presentare i beni suscettibili di formare oggetto di confisca per equivalente: a) ha ad oggetto beni di cui il reo ha la disponibilità; b) non occorre accertare che tali beni siano pertinenti al reato (e in ciò si differenzia della confisca diretta); c) “Quanto alla data di acquisto dei beni oggetto del provvedimento ablativo, essa è del tutto irrilevante sia perché trattasi di elemento non contemplato dalla norma, sia perché il principio di irretroattività in materia penale attiene al momento della condotta e non invece al tempo ed alle modalità di acquisizione dei beni destinatari in concreto della sanzione. Sebbene alla confisca per equivalente […] debba attribuirsi natura eminentemente sanzionatoria […] la irretroattività deve intendersi riferita al fatto di reato […] e non certo alla data di acquisizione dei beni su cui cade la sanzione”. TM
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Inserito in data 24/06/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 20 giugno 2014, n. 3127 Sulla determinazione della indennità di residenza ai titolari di farmacie L’art. 2 della Legge n. 221/1968, nel testo vigente prima del d.lgs. n. 153/2009, attribuisce l’indennità di residenza «ai titolari delle farmacie rurali, ubicate in località con popolazione inferiore a 3.000 abitanti». L’articolo unico della legge n. 40/1973 ha inoltre precisato che «ai fini della determinazione della indennità di residenza (...) si tiene conto della popolazione della località o agglomerato rurale in cui è ubicata la farmacia prescindendo dalla popolazione della sede farmaceutica prevista dalla pianta organica». Con tale pronuncia, i giudici di Palazzo Spada precisano che il d.lgs. n. 153/2009, ha devoluto, alla contrattazione collettiva, la disciplina dell’indennità di residenza dei farmacisti rurali, aggiungendo tuttavia che «fino a quando non viene stipulato l'accordo collettivo nazionale... l'indennità di residenza in favore dei titolari delle farmacie rurali continua ad essere determinata sulla base delle norme preesistenti». Le parti in questione, si sono riferite alla normativa anteriore come se fosse tuttora vigente; d’altro canto, secondo quanto affermato dal Consiglio di Stato “anche se le nuove disposizioni pattizie fossero già intervenute, la controversia resterebbe di interesse attuale per le pretese relative al periodo anteriore”. Nel caso di specie, la farmacia di cui si discute è “l’unica farmacia istituita nel Comune di Péccioli, che non supera i 5000 abitanti; e non è smentito che sia qualificabile “farmacia rurale””; inoltre, nel quadro normativo richiamato, il limite dei 3000 abitanti deve essere verificato con riferimento non già alla popolazione dell’intero Comune, bensì a quella del capoluogo comunale che è il centro abitato nel quale è ubicato l’esercizio farmaceutico – con esclusione degli abitanti dei centri minori e delle case sparse. Deve specificarsi altresì che la legge n. 40/1973, appare assolutamente inequivoca, poiché dettata a guisa di interpretazione autentica. GMC |
Inserito in data 23/06/2014 CORTE DI CASSAZIONE - TERZA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 13 giugno 2014, n. 13537 C’è danno catastrofale se la vittima ha compreso che la propria fine era imminente Con la decisione in esame, la Suprema Corte precisa, peraltro, che il danno non patrimoniale per la paura di dover morire (cd. danno catastrofale) si configura solo quando la vittima non solo era cosciente, ma era pure in grado di comprendere che la propria fine era imminente. Nel caso in esame, invece, l’offeso non aveva avuto consapevolezza della propria morte: infatti, era morto per un infarto, complicanza imprevista delle lesioni procurate dal fatto illecito; anzi, tale circostanza non era sta messa in conto neppure dai medici che lo avevano avuto in cura, tant’è che essi lo avevano tranquillamente dimesso. TM
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Inserito in data 23/06/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 10 giugno 2014, n. 2964 Sul danno da ritardo In tema di danno da ritardo, i giudici di Palazzo Spada precisano che il termine previsto dall’art. 2 della legge n. 241/1990 per l’adozione di provvedimenti amministrativi, vanta una natura ordinatoria e non già perentoria e, dunque, l’inosservanza, da parte dell’Amministrazione, non esaurisce affatto il potere di provvedere, né, tanto meno, determina, di per sé, l’illegittimità dell’atto adottato fuori dal termine.
Specificamente, si tratta di un termine c.d. “acceleratorio” ai fini della definizione del procedimento, non contenendo, la legge, alcuna prescrizione circa la sua eventuale perentorietà, né circa la decadenza della potestà amministrativa, né riguardo l’illegittimità del provvedimento adottato.
Nel caso di danno da ritardo della P.A., occorrerà verificare la sussistenza dei presupposti di carattere oggettivo (ossia prova del danno e del suo ammontare, ingiustizia dello stesso, nesso causale) e di quelli di carattere soggettivo (dunque, dolo o colpa del danneggiante).
La valutazione sarà di natura relativistica e dovrà tener conto sia della specifica complessità procedimentale, che di eventuali condotte dilatorie dell’amministrazione.
Invece, non vi sarà danno da ritardo nel caso in cui non sia ravvisabile alcuna colpa nell’operato dell’amministrazione e la tempistica procedimentale consenta in modo semplificato di escludere un atteggiamento dilatorio in capo alla P.A. Concludendo, il mero ritardo nell’adozione di un provvedimento amministrativo, non potrà far presumere, di per sé, la sussistenza di un danno risarcibile, bensì il danneggiato deve, ex art. 2697 c.c., provare tutti gli elementi costitutivi della relativa domanda. GMC |
Inserito in data 20/06/2014 CORTE DI CASSAZIONE, SECONDA SEZIONE CIVILE, ORDINANZA INTERLOCUTORIA 13 giugno 2014, n. 13526 Danno a terzi per omessa esecuzione di lavori su lastrico solare condominiale Secondo la giurisprudenza maggioritaria (ex plurimis, Cass SU 3672/97 e Cass 12606/05), in caso di danni a terzi, cagionati dall’omessa esecuzione di lavori di manutenzione straordinaria su lastrico solare in edificio condominiale, i singoli condomini sono tenuti a concorrere al risarcimento dei danni secondo i criteri di cui all’art. 1126 cc. Infatti, la responsabilità discende direttamente dalla titolarità del diritto reale e dall’inadempimento delle obbligazioni, ad esso relative, di conservazione delle parti comuni. Secondo la pronuncia in esame, invece, tale orientamento effettua un’indebita applicazione delle norme, quali l’art. 1126 cc, fissate per stabilire il contributo alle riparazioni o ricostruzioni, concepite dal legislatore per tener conto della maggiore utilità che i condomini aventi l’uso esclusivo traggono rispetto agli altri. Tale norma, però, non può riguardare l’allocazione del danno subito dai terzi, il quale risale alla mancata solerzia del condominio nell’apprestare tempestivamente ricostruzioni e riparazioni. Pertanto, l’illecito risale alla condotta omissiva o commissiva dei condomini, che fonda una responsabilità aquiliana, da scrutinarsi secondo le rispettive colpe dei condomini e, in caso di responsabilità condominiale, secondo i criteri millesimali. Pertanto, visto il ripensamento dell’orientamento maggioritario, la pronuncia rimette gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite. CDC
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Inserito in data 20/06/2014 CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, 20 giugno 2014, n. 14 Dopo la stipula del contratto la PA non può esercitare la revoca, ma solo il recesso La questione affrontata è se con il potere di revoca attribuito dall’art. 21-quinquies della l. 241/90 la PA possa incidere sul contratto stipulato e come ciò si concili con il carattere paritetico delle posizioni fondate sul contratto, di cui è espressione l’istituto del recesso, regolato in generale dall’art. 21-sexies l. 241/90 e dall’art. 134 cod. contr. per gli appalti di lavori pubblici. Quest’ultima norma, infatti, attribuisce alla PA “il diritto di recedere in qualunque tempo dal contratto”, con obbligo di ristoro dei lavori eseguiti e dei materiali utili in cantiere, oltre al decimo delle opere non eseguite. Si premette, sul punto, che la fase conclusa con l’aggiudicazione della gara ha carattere pubblicistico, in quanto retta da poteri amministrativi attribuiti alla stazione appaltante per la scelta del miglior contraente nella tutela della concorrenza, mentre la fase che ha inizio con la stipulazione del contratto e prosegue con l’attuazione del rapporto negoziale ha carattere privatistico ed è retta dalle norme civilistiche. Pertanto, nella fase privatistica la PA si pone con la controparte in posizione di parità, ma “tendenziale”, in quanto sono apprestate per la PA norme speciali, derogatorie del diritto comune, di autotutela privatistica; ciò perché l’attività della PA, pur se esercitata secondo moduli privatistici, è sempre volta al fine primario dell’interesse pubblico. Nel codice dei contratti pubblici, fra le norme speciali relative all’esecuzione del contratto per la realizzazione di lavori pubblici vi è l’art. 134. Esso regola il recesso della PA dal contratto in modo diverso rispetto all’art. 1671 cc, prevedendo il preavviso all’appaltatore e, quanto agli oneri, la forfetizzazione del lucro cessante nel dieci per cento delle opere non eseguite e la commisurazione del danno emergente, fermo il pagamento dei lavori eseguiti, al “valore dei materiali utili esistenti in cantiere”; invece, per l’art. 1671 cc, il lucro cessante è dovuto per intero e per il danno emergente vanno rimborsate tutte le spese sostenute. Allora, deve ritenersi insussistente, in tale fase, il potere di revoca, poiché presupposto di questo potere è la diversa valutazione dell’interesse pubblico a causa di sopravvenienze; il medesimo presupposto è alla base del recesso, basato su sopravvenuti motivi di opportunità; la specialità della previsione del recesso di cui all’art. 134 preclude, di conseguenza, l’esercizio della revoca. Se, infatti, è stata prevista per gli appalti di lavori pubblici una norma che attribuisce il diritto di recesso, non si può ritenere che sul medesimo rapporto negoziale si possa incidere con la revoca, basata su presupposti comuni a quelli del recesso (la rinnovata valutazione dell’interesse pubblico per sopravvenienze) e avente effetto analogo sul piano giuridico (la cessazione ex nunc del rapporto negoziale). In caso contrario, la norma sul recesso sarebbe sostanzialmente inutile, dal momento che la PA potrebbe sempre ricorrere alla meno costosa revoca ovvero decidere di esercitare il diritto di recesso secondo il proprio esclusivo giudizio, conservando nel rapporto una posizione privilegiata; peraltro, per la PA la maggiore onerosità del recesso è bilanciata dalla mancanza dell’obbligo di motivazione e del contraddittorio procedimentale. Ciò vale con riferimento alla revoca nella fase aperta con la stipulazione del contratto nel procedimento per l’affidamento dell’appalto di lavori pubblici. Restano perciò impregiudicati: 1) la revoca nella fase procedimentale della scelta del contraente fino alla stipulazione del contratto; 2) l’annullamento d’ufficio dell’aggiudicazione definitiva anche dopo la stipulazione del contratto, ai sensi dell’art. 1, comma 136, l. 311/04, con la caducazione automatica degli effetti negoziali del contratto; 3) il recesso della stazione appaltante quando si verifichino i presupposti previsti dalla normativa antimafia; 4) la revoca, ex art. 21-quinques l. 241/90, di atti amministrativi incidenti sui rapporti negoziali originati dagli ulteriori e diversi contratti stipulati dalla PA, di appalto di servizi e forniture, relativi alle concessioni contratto, nonché in riferimento ai contratti attivi. In conclusione, secondo il principio di diritto affermato, “nel procedimento di affidamento di lavori pubblici le pubbliche amministrazioni se, stipulato il contratto di appalto, rinvengano sopravvenute ragioni di inopportunità della prosecuzione del rapporto negoziale, non possono utilizzare lo strumento pubblicistico della revoca dell’aggiudicazione ma devono esercitare il diritto potestativo regolato dall’art. 134 del d.lgs. n. 163 del 2006”. CDC |
Inserito in data 19/06/2014 CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE PENALI, SENTENZA 13 giugno 2014, n. 25191 Negato concorso tra art. 416 bis c.p. e reimpiego di beni provenienti dal delitto associativo Con la pronuncia in epigrafe, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione penale hanno negato la configurabilità del concorso tra il reato di associazione mafiosa e i delitti di riciclaggio e reimpiego, quando le operazioni dirette ad ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa o di reimpiego riguardano i proventi del delitto associativo. Ad avviso delle Sezioni Unite, “la previsione che esclude l’applicabilità dei delitti di riciclaggio e reimpiego di capitali nei confronti di chi abbia commesso o concorso a commettere il delitto presupposto costituisce una deroga al concorso di reati che trova la sua ragione di essere nella valutazione, tipizzata dal legislatore, di ritenere l’intero disvalore dei fatti ricompreso nella punibilità del solo delitto presupposto”. Inoltre, “Il Collegio, condividendo l’orientamento giurisprudenziale maggioritario, ritiene che il delitto di associazione di tipo mafioso sia autonomamente idoneo a generare ricchezza illecita, a prescindere dalla realizzazione di specifici delitti, rientrando tra gli scopi dell’associazione anche quello di trarre vantaggi o profitti da attività lecite per mezzo del metodo mafioso”. Infatti, differentemente dall’associazione a delinquere, l’associazione mafiosa può anche essere costituita per perseguire scopi leciti, come quello di gestire attività lecite produttive di profitto, accentrando il proprio disvalore nell’uso del metodo mafioso. Del resto, nel senso dell’idoneità a generare lucro del reato associativo de quo, depone l’art. 416bis, c. 7, cp, nella parte in cui prevede la confisca del provento di tale reato. Pertanto, “Il delitto presupposto dei reati di riciclaggio (art. 648-bis cod. pen.) e di reimpiego di capitali (art. 648-ter cod. pen.) può essere costituito dal delitto di associazione mafiosa, di per sé idoneo a produrre proventi illeciti”. Relativamente alla valenza della clausola di riserva (“Fuori dei casi di concorso nel reato”), le Sezioni Unite aderiscono alla tesi eziologica secondo cui “il criterio per distinguere la responsabilità in ordine a tale titolo di reato dalla responsabilità per il concorso nel reato presupposto […] non può essere unicamente quello temporale, ma occorre verificare, caso per caso, se la preventiva assicurazione di “lavare” il denaro o di reimpiegarlo abbia realmente (o meno) influenzato o rafforzato, nell’autore del reato principale, la decisione di delinquere”. Inoltre, è pacifico che la clausola di riserva può operare solo se l’agente era consapevole di cooperare con altri nella realizzazione del delitto presupposto, secondo gli ordinari principi in tema di concorso di persone. Di conseguenza, è possibile distinguere varie ipotesi: a) Il soggetto che non concorre né nel reato associativo, né nei delitti scopo può rispondere ex artt. 648bis c.p. o art. 648ter c.p. per aver riciclato o reimpiegato il denaro, i beni o le altre utilità provenienti da tali reati; b) colui che prima concorre nel reato scopo, poi ricicla o reimpiega i relativi proventi, risponde dei delitti scopo, aggravati ai sensi dell’art. 7 d.l. 152/91; c) l’associato che ripulisce (o reimpiega) i proventi dei delitti scopo, risponde sia del reato associativo, che del reato di riciclaggio (o reimpiego); d) l’associato che ripulisce (o reimpiega) i le utilità derivanti dall’associazione in quanto tale, risponde solo del reato associativo; e) risponde di concorso esterno in associazione mafiosa l’extraneus che, attraverso l’attività di riciclaggio o di reimpiego dei proventi associativi, fornisce un contributo causalmente efficiente alla conservazione o al rafforzamento delle capacità operative dell’associazione o di una sua articolazione; f) risponde della fattispecie aggravata prevista dall’art. 416bis, c. 6, cp, l’associato che ha commesso il delitto che ha generato i proventi oggetto di successivo reimpiego da parte sua; g) risponde del reato punito dall’art. 12quinquies del d.l. n. 306/92, l’autore del delitto presupposto che attribuisce fittiziamente ad altri la disponibilità di beni o altre utilità, di cui rimane effettivamente dominus, al fine di agevolarne una successiva circolazione nel tessuto finanziario, economico e produttivo (cioè che commette auto-riciclaggio attraverso l’intestazione dei beni provenienti dal reato ad un prestanome); h) risponde di concorso nel reato punito dall’art. 12quinquies del d.l. n. 306/92, il prestanome che accetta di vedersi fittiziamente intestati i beni provenienti da un delitto, con la consapevolezza che l’attribuzione è finalizzata ad eludere le norme sulle misure di prevenzione patrimoniale o agevolare la commissione di reati di ricettazione, riciclaggio o reimpiego. TM
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Inserito in data 19/06/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 16 giugno 2014, n. 3050 Ratio del principio dispositivo con onere acquisitivo La pronuncia in epigrafe è d’interesse anche perché chiarisce bene la ratio del principio dispositivo con onere acquisitivo: difatti, l’onere del ricorrente di introdurre solo un principio di prova media tra l’esigenza dell’onerato di non essere gravato di una probatio diabolica e l’interesse della PA resistente alla parità delle armi e, quindi, a non subire ricorsi meramente esplorativi. “Nel processo amministrativo, infatti, anche dopo l’entrata in vigore del codice del processo amministrativo (art. 64, comma 2, c.p.a.) il sistema probatorio è retto dal c.d. principio dispositivo con metodo acquisitivo, ol quale comporta l'onere per il ricorrente di presentare almeno un indizio di prova perché il giudice possa esercitare i propri poteri istruttori e ciò, per l'appunto, è contemplato dal “sistema” proprio in quanto il ricorrente, di per sé non ha la disponibilità delle prove, essendo queste nell'esclusivo possesso dell'amministrazione ed essendo quindi sufficiente che egli fornisca un principio di prova. Nel caso di specie, tuttavia, il ricorrente si è limitato a contestare genericamente l’assenza di autorizzazione senza allegare il minimo principio di prova, il minimo indizio a sostegno di tale censura”. Per altro verso, si esclude “che i poteri officiosi del giudice possano essere utilizzati per sopperire ad una mancanza nella pur attenuta iniziativa probatoria di cui il ricorrente è comunque onerato (nei limiti del richiamato principio di prova) anche nel processo amministrativo”. TM |
Inserito in data 18/06/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 16 giugno 2014, n. 3050 Adeguatezza della motivazione numerica del giudizio sulle prove concorsuali Con la pronuncia in esame, i Giudici di Palazzo Spada ci rammentano che il giudizio su una prova concorsuale può essere motivato in forma numerica, senza incorrere nella violazione dell’art. 3 della L. n. 241/90. “Il voto numerico, infatti, specie nell’ambito delle procedure concorsuali caratterizzate da un numero molto elevato di partecipanti, vale ad integrare, anche alla luce dei criteri di valutazione predeterminati dalla commissione, l’adempimento dell’obbligo motivazionale. Il voto numerico, infatti, esprime e sintetizza il giudizio tecnico-discrezionali delle commissioni esaminatrici, contenendo in sé la motivazione, senza bisogno di ulteriori spiegazioni e chiarimenti. La motivazione espressa numericamente, oltre a rispondere ad un evidente principio di economicità amministrativa, assicura infatti la necessaria chiarezza e graduazione delle valutazioni compiute e del potere amministrativo esercitato (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 29 settembre 2009, n. 5751)”. TM |
Inserito in data 18/06/2014 CORTE DI CASSAZIONE - TERZA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 13 giugno 2014, n. 13537 Compensatio tra risarcimento del DP da morte del parente e pensione di reversibilità Con la sentenza in esame, la sezione terza della Corte di Cassazione afferma la “compensabilità” tra il danno patrimoniale consistente nella perdita delle elargizioni che il coniuge ucciso corrispondeva e la pensione di reversibilità. Secondo la giurisprudenza finora maggioritaria, invece, tale situazione non giustificherebbe l’applicazione della compensatio lucri cum damno, atteso che il vantaggio non deriva direttamente dal fatto illecito ma dalla legge (ex pluribus, C. 5504/14 e C. 2530/64). A giudizio della terza sezione sussistono innumerevoli ragioni per superare tale orientamento: a) la giurisprudenza tradizionale non motiva la propria asserzione, se non rifacendosi alla sentenza “capostipite”, che però riguardava un caso del tutto diverso (ossia la non compensabilità tra danno patrimoniale per la perdita del congiunto e vantaggio conseguente all’accettazione dell’eredità); b) la tesi tradizionale è affetta da un vulnus logico, nella misura in cui pretende che danno e vantaggio scaturiscano dalla medesima fonte, come se si trattasse di una compensazione in senso tecnico ex art. 1241 cc; viceversa, la stessa legge ammette la compensatio lucri cum damno rispetto ad ipotesi in cui la perdita e il vantaggio traggono origine da atti o fatti eterogenei (cfr. artt. 1149 cc, 1479, 1592, art.1.bis L. 20/94); c) l’indirizzo tradizionale sconta un vizio dogmatico, poiché richiede la “medesimezza della fonte”, sebben la dottrina che aveva elaborato la compensatio lucri cum damno pretendesse la “medesimezza della condotta” (es. l’autore del fatto illecito non può ridurre la sua responsabilità regolando un viaggio al danneggiato); d) la giurisprudenza prevalente cade in un errore sistematico, perché interpreta l’art. 1223 cc in modo asimmetrico, ritenendo che il rapporto tra fatto illecito ed evento può anche non essere diretto ed immediato quando accerta il danno, ma esigendo al contrario che lo sia quando accerta il vantaggio provocato dallo stesso fatto illecito; e) inoltre, in fattispecie analoghe, perviene inspiegabilmente all’opposta conclusione della compensabllità [la giurisprudenza nega il cumulo tra risarcimento del danno da emotrasfusioni e indennizzo ex art. 1 L. 210/92 (C. 991/2014) o tra risarcimento del danno alla salute sofferto da pubblici impiegati per causa di servizio e pensione privilegiata (si veda C. 9094/04) o comunque consente di scomputare il cd. aliunde perceptum del danno patito dal lavoratore ingiustamente licenziato (C. 5676/12) o l’indennità espropriativa dal risarcimento del danno per accessione invertita (C. 11041/90); non c’è un danno patrimoniale risarcibile se il lavoratore ha continuato a conseguire la retribuzione nel periodo di tempo in cui è stato inabile al lavoro a causa del fatto illecito del terzo (C. 3507/78)]; f) tale orientamento, inoltre, determina un’abrogazione tacita dell’azione di surrogazione spettante all’assicuratore (ex artt. 1203, 1916 cc), in violazione di tali disposizioni e di evidenti ragioni di giustizia (impoverisce la collettività, attraverso la fiscalità generale, onerandola del pagamento di una somma che serve non a ristorare la vittima ma ad arricchirla); g) nel nostro ordinamento (cfrr. artt. 1233, 1224.1, 1909 e 1910 cc), il risarcimento non deve né arricchire, né impoverire la vittima (principio d’indifferenza), con la conseguenza che la vittima ha diritto a ricevere solo la differenza patrimoniale negativa indotta dall’illecito; h) la pensione di reversibilità ex art. 13 r.d.l. 636/39 ha una funzione indennitaria, mirando a preservare i congiunti dalle conseguenze patrimoniali negative derivanti dal venir meno della fonte principale di reddito del nucleo familiare (es. spetta solo a chi non ha redditi propri); di conseguenza, ripara il medesimo danno causato dal responsabile, riducendolo corrispondentemente. Sulla scorta del suesposto ragionamento, la Corte di Cassazione formula il seguente principio di diritto: “Dal risarcimento del danno patrimoniale patito dal familiare di persona deceduta per colpa altrui deve essere detratto il valore capitale della pensione di reversibilità percepita dal superstite in conseguenza della morte del congiunto”. TM
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Inserito in data 17/06/2014 CONSIGLIO DI STATO SEZ. V, 16 giugno 2014, n. 3033 Al potere di autentica non si applica anche il criterio di pertinenzialità I Giudici di Palazzo Spada, chiamati a decidere sulla corretta interpretazione dell’art 14 l. 53/90 e sugli esatti confini del potere di autenticazione disciplinato dal d.p.r. 445/00, contraddicendo il precedente orientamento espresso dalla medesima Sezione con sent. 2501/13 (nella quale era stata affermata la necessita di applicare, per i consiglieri comunali e provinciali, sia il limite territoriale che quello della pertinenza della competizione elettorale, rigetta il ricorso presentato dagli appellanti. Con la sentenza in commento, infatti, si sostiene che il potere di autentica degli orfani politici non riguardi solo le elezioni dell’Ente di appartenenza (nello stesso senso C.d.S. Sez. V, 716/14;1885/14). Dirimente ai fini della risoluzione della controversia appare la pronuncia dell’Adunanza Plenaria (sentenza n. 22/2013), la quale ha chiarito che “I pubblici ufficiali menzionati nell'art. 14 L. 21 marzo 1990 n. 53 (e nella specie nell'art. 18 L. reg. Trentino Alto Adige 8 agosto 1983 n. 7) compreso il giudice di pace, sono titolari del potere di autenticare le sottoscrizioni delle liste di candidati esclusivamente all'interno del territorio di competenza dell'ufficio di cui sono titolari o ai quali appartengono”. Tanto sul presupposto di un necessario collegamento tra pubblico ufficiale e territorio che faciliti, pur nel rispetto dell’esigenza di certezza e trasparenza, la presentazione delle liste elettorali. La stessa Adunanza Plenaria, dunque, nulla dice sul criterio di pertinenzialità. Si sottolinea, inoltre, che “il potere di autenticazione si risolve nell'attestazione del compimento di un'attività materiale, con cui viene certificata l'apposizione della sottoscrizione in presenza del pubblico ufficiale, con immediata trasposizione del risultato di tale percezione in un documento rappresentativo dell'accaduto munito di fede privilegiata, come avviene per gli atti pubblici”. Ne consegue, dal momento che il consigliere provinciale svolge le proprie funzioni all’interno dell’intero territorio della provincia, l’impossibilità, nel silenzio della legge, di affermare l’illegittimità dell’autenticazione operata all’interno del procedimento elettorale relativo ad un Comune che ricada nella Provincia nella quale il Consigliere provinciale esercita le proprie funzioni. Né possono invocarsi, a sostegno della tesi opposta, esigenze di incertezza giuridica dell’attività di autentica, trattandosi di attività meramente certificativa, priva di qualsiasi finalità di controllo. Pertanto “una simile limitazione che comporterebbe una significativa deroga alle funzioni del Consigliere provinciale, che, una volta eletto, assume funzioni esercitabili sull’intero territorio provinciale, necessiterebbe, infatti, di una esplicita limitazione legislativa, che nella fattispecie non risulta sussistere”. VA |
Inserito in data 17/06/2014 CORTE DI CASSAZIONE, TERZA SEZIONE PENALE, SENTENZA 12 giugno 2014, n. 24874 Natura dell’autorizzazione all’accesso e alle ispezioni ex art. 52 D.p.r. n. 633/72 La Suprema Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato avverso l’ordinanza che aveva autorizzato la perquisizione ed il sequestro, presso una società cooperativa ed uno dei soci di cose, necessarie all’accertamento delle violazioni tributarie previste dall’art. 75 d.p.r. 633/72 e 70 d.P.R. 600/1973 emesso in mancanza dell’accertamento dei presupposti richiesti dall’art. 52 d.p.e. 633/72. Ai sensi del citato articolo, infatti, “L'accesso in locali diversi da quelli indicati nel precedente comma puo' essere eseguito, previa autorizzazione del procuratore della Repubblica, soltanto in caso di gravi indizi di violazioni delle norme del presente decreto, allo scopo di reperire libri, registri, documenti, scritture ed altre prove delle violazioni. E' in ogni caso necessaria l'autorizzazione del procuratore della Repubblica o dell'autorita' giudiziaria piu' vicina per procedere durante l'accesso a perquisizioni personali e all'apertura coattiva di pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili, ripostigli e simili e per l'esame di documenti e la richiesta di notizie relativamente ai quali e' eccepito il segreto professionale ferma restando la norma di cui all'articolo 103 del codice di procedura penale”, tuttavia l’ordinanza non motivava in merito all’esistenza dei suddetti “gravi indizi”. Peraltro il Collegio, nell’argomentare la propria decisione, sottolinea come il ricorsa, in realtà, abbia ad oggetto un provvedimento non sottoponibile a riesame (istituto relativo alle misure probatorie e cautelari) e, conseguentemente non ricorribile per Cassazione ex art. 325 c.p.p. “Nella specie, infatti, (…) semplicemente di una autorizzazione rilasciata dal PM alla GdF per accedere, nel corso delle normali attività ispettive di natura amministrativa, a locali adibiti anche ad abitazione o a locali diversi da quelli indicati dal primo comma dell'art. 52 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633”. Pertanto l’attività posta in essere aveva natura amministrativa e non rientrava affatto tra quelle compiute dalla polizia giudiziaria. La stessa giurisprudenza ha più volte ribadito che “in materia di illeciti tributari gli elementi raccolti durante gli accessi, le ispezioni e le verifiche compiute dalla Guardia di Finanza per l'accertamento dell'imposta sul valore aggiunto e delle imposte dirette sono sempre utilizzabili quale "notitia criminis ", in quanto a tali attività non è applicabile la disciplina prevista dal codice di rito per l'operato della polizia giudiziaria, sicché la mancanza o l'irregolarità formale dell'autorizzazione, se è causa di invalidità dell'accertamento fiscale, non riverbera i suoi effetti sull'accertamento penale» (cass. 12017/07;1668/97;11307/95). L'autorizzazione del procuratore della Repubblica, pertanto, opera solo sul piano amministrativo e non si risolve in un provvedimento con cui venga disposta o autorizzata una misura cautelare o probatoria ai fini penali”. È lo stesso art. 52 cit. che, al comma 7, prevede il sequestro solo come mezzo eventuale, cui fare ricorso laddove non sia possibile riprodurre i documenti o riportarne il contenuto nel verbale, o in altre ipotesi eccezionali. Ne consegue l’impossibilità di proporre ricorso per cassazione ex art. 325 c.p.p. avverso un provvedimento che opera solo sul piano amministrativo. VA
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Inserito in data 16/06/2014 TAR CAMPANIA - NAPOLI, SEZ. IV, 12 giugno 2014, n. 3334 Sulla sanatoria del DURC Con la sentenza in epigrafe, il Collegio napoletano sostiene che la regolarità contributiva è “requisito indispensabile non solo per la partecipazione alla gara ma anche per la stipulazione del contratto (cfr. T.A.R. Umbria 12 aprile 2006, n. 221, Cons. Sato., Sez. IV, 27 dicembre 2004, n. 8215),sì che, l'impresa deve essere in regola con i relativi obblighi fin dalla presentazione della domanda e conservare tale regolarità per tutto lo svolgimento della procedura di gara”. Pertanto, non può condividersi la tesi “suggestiva e di recente avallata da una pronuncia in giurisprudenza (cfr TAR Veneto n. 486/2014)”. In particolare, quest’ultima ricostruzione si fonda sulla disposizione di cui al DM 24.10.2007, poi trasfusa nell'art. 31.8 del DL n. 69/2013, recante “semplificazioni” alla disciplina del rilascio del DURC, la quale dispone espressamente che in caso di mancanza dei requisiti per il rilascio del DURC “gli Enti preposti al rilascio, prima dell'emissione del DURC….invitano l'interessato……a regolarizzare la propria posizione entro un termine non superiore a quindici giorni, indicando analiticamente le cause della irregolarità”. In sostanza, la novella prevede “che gli enti previdenziali preposti al rilascio del DURC sono tenuti ad attivare un procedimento di regolarizzazione attraverso il quale le imprese siano messe in grado di sanare la propria posizione prima della “certificazione” di una loro situazione di irregolarità”. Tuttavia, tale normativa, ad avviso del Consesso, “deve ritenersi operante per il solo DURC cd. interno, ossia quello confezionato dall’INPS per il riconoscimento di benefici o sgravi contributivi alla ditta (e che ha una validità temporale inferiore o pari a 30 giorni) e non anche per il documento relativo alla verifica requisiti per partecipazione alle gare di appalto”. Opinare diversamente, infatti, determinerebbe “una rilevante modifica – peraltro in maniera tacita per incompatibilità sopravvenuta – alla disposizione sostanziale dell’art. 38 del Codice dei Contratti (D. Lgs. n. 163/2006) per il quale è pacificamente acclarato che il requisito della regolarità contributiva necessario per la partecipazione alle gare pubbliche debba essere posseduto dai concorrenti sin dalla data di presentazione della domanda di ammissione alla procedura”. Non solo. Sarebbe, altresì, incompatibile “con i principi di tutela dell’interesse pubblico alla scelta di un contraente affidabile e della par condicio tra le imprese concorrenti, in quanto comporterebbe la possibilità di partecipare in ogni caso alle gare per le imprese in stato di irregolarità contributiva, potendo poi fidare sulla possibilità di sanare la propria posizione dopo il preavviso di DURC negativo da parte dell’INPS, con evidente violazione della ratio della disposizione, che nella regolarità contributiva dell’impresa vuole apprezzare non solo un dato formale, ma un dato di affidabilità complessiva della ditta partecipante alla gara”. D’altronde, anche la Corte di giustizia UE con la pronuncia del 9 febbraio 1996, in cause riunite C-226/04 e C-228/04) ha affermato che “la sussistenza del requisito della regolarità fiscale e contributiva (che, pure, può essere regolarizzato in base a disposizioni nazionali di concordato, condono o sanatoria) deve comunque essere riguardata con riferimento insuperabile al momento ultimo per la presentazione delle offerte, a nulla rilevando una regolarizzazione successiva la quale, pertanto, non potrà in alcun modo incidere sul dato dell’irregolarità ai fini della singola gara [Cons. St., sez. VI, 5 luglio 2010, n. 4243]”. EMF |
Inserito in data 16/06/2014 CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 12 giugno 2014, n. 174 Sulla q.l.c. dell’art. 135, co. 1, lettera q-quater), del D. Lgs. 104/2010 Con la pronuncia in esame, il Giudice delle Leggi “dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 135, comma 1, lettera q-quater), del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recente delega al governo per il riordino del processo amministrativo), nella parte in cui prevede la devoluzione alla competenza inderogabile del Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sede di Roma, delle controversie aventi ad oggetto i provvedimenti emessi dall’autorità di polizia relativi al rilascio di autorizzazioni in materia di giochi pubblici con vincita in denaro”, per contrasto “con il principio dell’articolazione territoriale della giustizia amministrativa, di cui all’art. 125 Cost.”. Infatti, “le deroghe alla ripartizione ordinaria della competenza territoriale devono essere valutate secondo un «criterio rigoroso» (sentenza n. 237 del 2007, punto 5.3.1. del Considerato in diritto), essendo di tutta evidenza che − laddove la previsione di ipotesi di competenza funzionale inderogabile del TAR Lazio, sede di Roma, non incontrasse alcun limite − il principio del decentramento della giustizia amministrativa e dell’individuazione del giudice di primo grado sulla base del criterio territoriale, a livello regionale, sarebbe esposto al rischio di essere svuotato di concreto significato”. Ne discende la necessità di “accertare che ogni deroga al suddetto principio sia disposta in vista di uno scopo legittimo, giustificato da un idoneo interesse pubblico (che non si esaurisca nella sola esigenza di assicurare l’uniformità della giurisprudenza sin dal primo grado, astrattamente configurabile rispetto ad ogni categoria di controversie); che la medesima deroga sia contraddistinta da una connessione razionale rispetto al fine perseguito; e che, infine, essa risulti necessaria rispetto allo scopo, in modo da non imporre un irragionevole stravolgimento degli ordinari criteri di riparto della competenza in materia di giustizia amministrativa” (sentenza n. 159 del 2014). Trattasi, invero, di criteri non riscontrabili nelle controversie previste dalla disposizione impugnata, che attengono “a provvedimenti emessi non già da un’autorità centrale, ma da un’autorità periferica, e segnatamente dalla questura, competente al rilascio di autorizzazioni ex art. 88 del r.d. n. 773 del 1931”. Del resto, il carattere squisitamente locale degli interessi coinvolti nel provvedimento non va escluso per il sol fatto che le controversie relative ai provvedimenti de quibus possano “presentare profili di connessione con atti di autorità centrali (e in particolare con quelli emessi dall’Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato, previsti dalla prima parte della stessa lettera q-quater dell’art. 135, comma 1)”. D’altra parte, l’accentramento di competenza operato dall’art. 135, co. 1, lettera q-quater), del D. Lgs. 104/2010 “non appare giustificato neppure in ragione delle altre finalità, parimenti dotate di rilievo costituzionale, che questa Corte ha individuato nella «straordinarietà delle situazioni di emergenza (e nella eccezionalità dei poteri occorrenti per farvi fronte)» (sentenza n. 237 del 2007). Al contrario, l’attività oggetto delle autorizzazioni previste dall’art. 88 del r.d. 18 giugno 1931, n. 773, e la natura degli accertamenti che le Questure sono chiamate a svolgere ai fini del rilascio di dette autorizzazioni, non sono qualificate dal carattere della straordinarietà, né dall’esigenza di fronteggiare situazioni di emergenza; va inoltre escluso che la disciplina derogatoria introdotta dalla disposizione censurata si giustifichi in funzione di un peculiare status dei destinatari dei provvedimenti, come tale meritevole di un diverso trattamento”. EMF |
Inserito in data 14/06/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 12 giugno 2014, n. 2999 Conferenza di servizi in materia di impianti eolici e superamento del dissenso La realizzazione di impianti eolici è soggetta alla procedura semplificata di cui all’art. 12 d. lgs. 387/2003. Essa prevede che la costruzione di tali impianti sia sottoposta ad autorizzazione unica emessa all’esito di conferenza di servizi, alla quale partecipano tutte la amministrazioni interessate. I lavori sono indetti dalla PA procedente, che, valutate le posizioni prevalenti, adotta la determinazione conclusiva del procedimento. Tale schema ordinario è derogato quando sia manifestato un dissenso da parte di un’amministrazione preposta alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute e della pubblica incolumità. In questi casi, ex art. 14 quater l. 241/1990, il dissenso può essere superato tramite rimessione della questione al Consiglio dei Ministri, che adotta il provvedimento finale nel rispetto dei principio di leale collaborazione previsto dall’art. 120 Cost, previa intesa con le Regioni o le Province autonome interessate. Tuttavia, nel caso in cui non si raggiunga tale intesa, il Consiglio dei Ministri può superare la mancata intesa, concludendo definitivamente il procedimento autorizzativo. Ciò svolge una funzione semplificatoria volta a superare gli arresti procedimentali per il rilascio dell’autorizzazione unica. Il Consiglio dei Ministri, infatti, si sostituisce completamente alle amministrazioni interessate, previa acquisizione delle loro posizioni, nel rispetto del principio di leale collaborazione: al Consiglio dei Ministri, pertanto, è conferito un ampio potere discrezionale volto ad effettuare una valutazione degli interessi in giuoco. Come affermato in giurisprudenza, “la decisione è devoluta ad un altro e superiore livello di governo e con altre modalità procedimentali. L’effetto di un tale dissenso qualificato espresso a tutela di un interesse sensibile (cioè di particolare eco generale, di incidenza non riparabile o facilmente riparabile, e per di più qui riferito a un valore costituzionale primario) è dunque di spogliare in toto la conferenza di servizi della capacità di ulteriormente procedere […] e di rendere senz’altro dovuta […] la sua rimessione degli atti a diversa autorità, vale a dire al menzionato livello, a differenza del precedente impegnativo di responsabilità di ordine costituzionale. In questi casi dunque la manifestazione del dissenso qualificato in conferenza di servizi provoca senz’altro la sostituzione della formula e del livello del confronto degli interessi, fa cessare il titolo dell’amministrazione procedente a trattare nella sostanza il procedimento salvo, in conformità al dissenso, rinunciare essa stessa allo sviluppo procedimentale e disporre negativamente sull’iniziativa che gli ha dato origine” (Cons. Stato, 23 maggio 2012, n. 3039). CDC |
Inserito in data 13/06/2014 CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 11 giugno 2014, n. 170 Rettificazione di sesso: può restare in vita un rapporto giuridicamente regolato La questione di legittimità costituzionale affrontata è se la soluzione di collegare alla sentenza di rettificazione di sesso del coniuge l’effetto automatico di scioglimento del matrimonio realizzi un bilanciamento adeguato tra l’interesse dello Stato a tenere fermo il modello del matrimonio eterosessuale ed i diritti maturati dai coniugi nella precedente vita di coppia. Secondo la Corte, la situazione dei coniugi che in tal caso intendano non interrompere la loro vita di coppia si pone fuori dal matrimonio (necessariamente eterosessuale), ma non è semplicisticamente equiparabile ad un’unione di soggetti dello stesso. Infatti, ciò equivarrebbe a cancellare, sul piano giuridico, un pregresso vissuto, in cui la coppia ha maturato reciproci diritti e doveri. La questione di legittimità costituzionale deve allora essere esaminata alla luce dell’art. 2 Cost. Infatti, come affermato con la sentenza n. 138 del 2010, nella nozione di formazione sociale è da annoverare l’unione omosessuale, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone il riconoscimento giuridico, con i connessi diritti e doveri. Spetta al Parlamento individuare le forme di garanzia e di riconoscimento delle suddette unioni, ma spetta altresì alla Corte costituzionale la possibilità di intervenire a tutela di specifiche situazioni. Secondo la pronuncia, la condizione dei coniugi che intendono proseguire nella loro vita di coppia è riconducibile proprio alle situazioni “specifiche” e “particolari” che consentono l’intervento della Corte. Essa, infatti, coinvolge l’interesse dello Stato a non modificare il modello del matrimonio eterosessuale e l’interesse della coppia ad evitare il sacrificio integrale della dimensione giuridica del preesistente rapporto. La normativa risolve il contrasto fra tali interessi in termini di tutela esclusiva di quello statuale, restando chiusa ad un bilanciamento con gli interessi della coppia, che reclama di essere tutelata come stabile convivenza tra due persone idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della personalità. Pertanto, si dichiara l’illegittimità costituzionale degli artt. 2 e 4 della l. 164/1982, nella parte in cui non prevedono che la sentenza di rettificazione dell’attribuzione di sesso di uno dei coniugi, che comporta lo scioglimento del matrimonio, consenta comunque, ove entrambi lo richiedano, di mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente regolato con un’altra forma di convivenza registrata che tuteli adeguatamente i diritti ed obblighi della coppia medesima. La disciplina di tale convivenza rimane demandata alla discrezionalità di scelta del legislatore. CDC |
Inserito in data 12/06/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 11 giugno 2014, n. 2982 Sul procedimento di verifica di anomalia Secondo quanto affermato dal Consiglio di Stato con la sentenza in oggetto, “il procedimento di verifica di anomalia è avulso da ogni formalismo, essendo improntato alla massima collaborazione tra l’amministrazione appaltante e l’offerente, quale mezzo indispensabile per l’effettiva instaurazione del contraddittorio ed il concreto apprezzamento dell’adeguatezza dell’offerta” ed ancora “ il procedimento di verifica dell’anomalia non ha carattere sanzionatorio (al fine di eliminare l’offerta sospettata di anomalia) e non ha per oggetto la ricerca di specifiche e singole inesattezze dell'offerta economica, mirando piuttosto ad accertare se in concreto l'offerta, nel suo complesso, sia attendibile ed affidabile in relazione alla corretta esecuzione dell'appalto: esso è pertanto finalizzato a garantire e tutelare l’interesse pubblico concretamente perseguito dall’amministrazione attraverso la procedura di gara per la effettiva scelta del miglior contraente possibile ai fini dell’esecuzione dell’appalto” (ex multis, C.d.S., sez. III, 14 dicembre 2012, n. 6442; sez. IV, 30 maggio 2013, n. 2956; sez. V, 18 febbraio 2013, n. 973, 15 aprile 2013, n. 2063), ponendosi, l’esclusione dalla gara dell’offerente per l’anomalia della sua offerta, soltanto come effetto della valutazione (operata dall’amministrazione appaltante) di complessiva inadeguatezza della stessa rispetto al fine da raggiungere. Pacificamente, la giurisprudenza ha più volte sottolineato che il corretto svolgimento del procedimento di verifica presupponga l’effettività del contraddittorio (tra amministrazione appaltante ed offerente), di cui costituiscono necessari corollari “l’assenza di preclusioni alla presentazione di giustificazioni ancorate al momento della scadenza del termine di presentazione delle offerte; la immodificabilità dell'offerta, ma la sicura modificabilità delle giustificazioni, nonché l’ammissibilità di giustificazioni sopravvenute e di compensazioni tra sottostime e sovrastime, purché l'offerta risulti nel suo complesso affidabile al momento dell'aggiudicazione e a tale momento dia garanzia di una seria esecuzione del contratto”. GMC |
Inserito in data 12/06/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 11 giugno 2014, n. 2980 Sui poteri di autotutela in materia di DIA o SCIA Il Centro di Aggregazione in questione, la cui attività è oggetto di contestazione nel giudizio, è stato creato sulla base di finanziamenti regionali strumentali alla realizzazione di uno specifico progetto, la cui gestione è stata affidata ad una cooperativa. Secondo quanto si evince, tale progetto, rivolto a giovani in particolari situazioni di disagio, prevede “l’attivazione di uno sportello informatico, di numerosi laboratori e corsi di formazione, strumentali alla realizzazione di percorsi di crescita culturale, sociale e umana, finalizzati anche a favorire l’inserimento dei giovani nel mercato del lavoro”. Il progetto in questione, tuttavia, appare “totalmente incompatibile” con l’esercizio sic et simpliciter di un bar – ristorante aperto al pubblico, all’interno della struttura di proprietà comunale. Il Consiglio di Stato, sottolinea che tale ultima attività non rientra neanche tra quelle elencate nel capitolato speciale di appalto e nel progetto di gestione, i quali si limitano semplicemente all’indicazione di una “mera sala di ristoro”, attività assolutamente non sovrapponibile con quella oggetto delle due SCIA. Nel caso ivi esaminato, i giudici di Palazzo Spada puntualizzano che “la Cooperativa appellata ha presentato due SCIA per comunicare l’attivazione di un pubblico esercizio di somministrazione di cui alla legge n. 287 del 1991 e di cui all’art. 64 del d.lgs. n. 59-2010, senza prevedere alcuna limitazione né con riferimento alla clientela (soci o non soci), né con riferimento a particolari eventi ricollegabili all’attività del Centro di aggregazione”. Per effetto di tali SCIA, la Cooperativa potrebbe gestire un bar aperto al pubblico e non destinato esclusivamente ai tesserati del centro, in una struttura di proprietà comunale, ristrutturata con finanziamenti pubblici, che avrebbe dovuto essere utilizzata per le attività elencate nel progetto suindicato, di competenza del Settore Sociale del Comune, in quanto volto al recupero sociale di giovani in situazione di disagio; di conseguenza del tutto legittimamente, dunque, gli effetti di tali SCIA sono stati inibiti dall’Amministrazione. Peraltro, secondo quanto ancora precisato “le SCIA in controversia non contengono alcuna limitazione o specificazione da cui si evinca che l’attività di somministrazione sia collegata al laboratorio di gastronomia e pasticceria, né risulta attivato in concreto alcun laboratorio di gastronomia e pasticceria”. Sotto il profilo giuridico, l’apertura di un bar all’interno della struttura comunale, destinato alla fruizione dei tesserati frequentatori del medesimo Centro, avrebbe comunque richiesto la presentazione della SCIA ai sensi degli artt. 2 e 3 del d.P.R. 4 aprile 2001, n. 235 e la SCIA relativa alle attività commerciali del tutto liberalizzate ex art. 64 del d.lgs. n. 59-2010 che è relativa ai pubblici esercizi. Concludendo, con riguardo ai motivi assorbiti dal TAR, si deve osservare che “l’Amministrazione ha a disposizione i poteri di autotutela in materia di DIA o SCIA ex art. 19 l. 241-90; tali poteri costituiscono una forma peculiare di autotutela, maggiormente accostabile all’autotutela cd. esecutiva, piuttosto che a quella di cui all’art. 21-nonies della medesima legge, poiché non ha per oggetto un atto amministrativo ed è mirata alla rimozione materiale degli effetti della DIA o SCIA medesima, in connessione con l’avvenuta illegittimità e non con una ragione ulteriore di interesse pubblico che connota invece l’autotutela cd. decisoria e che deve, in quel caso, essere oggetto, almeno in via generale, di specifica motivazione”. Dunque, aldilà dell’inosservanza dei termini procedimentali decadenziali per far valere la riscontrata illegittimità con l’esercizio di poteri inibitori a tutela degli interessi pubblici, l’atto impugnato ha valore di autotutela nel senso sopra precisato, con conseguente legittimità dell’intervento operato dal Comune. GMC |
Inserito in data 11/06/2014 CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 10 giugno 2014, n. 162 Motivi d’incostituzionalità del divieto di PMA eterologa (artt. 32; 2, 3 e 31; 3) Con la decisione in esame, la Corte costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità del divieto di fecondazione eterologa previsto dalla L. n. 40/2004. Preliminarmente, si osserva come la questione concerna un tema eticamente sensibile, che spetta al legislatore regolamentare per individuare il punto di equilibrio tra le contrapposte esigenze, salvo il sindacato del Giudice delle Leggi ove il bilanciamento operato sia irragionevole. Si sottolinea, inoltre, come tale divieto non sia espressione di una regola granitica, essendo stato introdotto solo nel 2004, né sia imposto da obblighi derivanti da atti internazionali. Ciò detto, a giudizio della Corte Costituzionale, la disciplina in esame lede il diritto alla salute ex art. 32 Cost., inteso dalla Corte costituzionale come diritto all’integrità psichica oltre che fisica: “è, infatti, certo che l’impossibilità di formare una famiglia con figli insieme al proprio partner, mediante il ricorso alla PMA di tipo eterologo, possa incidere negativamente, in misura anche rilevante, sulla salute della coppia”. Inoltre, tale disciplina lede il diritto alla vita privata e familiare ex artt. 2, 3 e 31 Cost. delle coppie affette da patologie curabili solo accedendo alle tecniche di fecondazione eterologa. Infatti, il loro diritto di diventare genitori e di formare una famiglia che abbia anche dei figli è compresso in modo irragionevole, perché non giustificato dall’impossibilità di tutelare altrimenti interessi di pari rango. In effetti, si evidenzia come l’unico interesse che si contrappone a tale diritto è quello della persona nata da PMA di tipo eterologo, che vedrebbe messa in pericolo la propria salute psichica da tale genitorialità non naturale e che vedrebbe violato il proprio diritto a conoscere la propria identità genetica. Sotto entrambi i profili, si evidenzia come si tratti di questioni già considerate non dirimenti al fine di escludere l’adozione; anzi, la Corte sottolinea come in tale ambito sia stato “già infranto il dogma della segretezza dell’identità dei genitori biologici quale garanzia insuperabile della coesione della famiglia adottiva, nella consapevolezza dell’esigenza di una valutazione dialettica dei relativi rapporti”. Da ultimo, secondo la Corte costituzionale, il divieto di fecondazione eterologa è irragionevole ex art. 3 Cost., ossia in contrasto coi valori di giustizia e di equità, di coerenza logica, teleologica e storico-cronologica. Infatti, tale legge, pur essendo finalizzata a favorire la cura dell’infertilità e della sterilità, vieta di accedere alla PMA alle coppie affette dalle patologie più gravi. Inoltre, attraverso il divieto di PMA eterologa, la L. n. 40/04 opera un “diverso trattamento delle coppie affette dalla più grave patologia, in base alla capacità economica delle stesse, che assurge intollerabilmente a requisito dell’esercizio di un diritto fondamentale, negato solo a quelle prive delle risorse finanziarie necessarie per potere fare ricorso a tale tecnica recandosi in altri Paesi”. Infine, si evidenzia come la dichiarazione d’incostituzionalità non determini una carenza di regolamentazione, poiché continueranno ad applicarsi le norme della L. 40/04, che si rivolgono ad ogni tipo di PMA (Es. art. 5 prescrive che l’infertilità legittimante l’accesso alla PMA deve essere documentata con atto medico). Anzi, dovranno applicarsi anche le norme pensate dal legislatore per le PMA di tipo eterologo eseguite all’estero nonostante il divieto di legge (Es. art. 9, che afferma l’inammissibilità dell’azione di disconoscimento della paternità ed esclude il formarsi di relazioni giuridiche tra il donatore di gameti e il nato). Poi, con riguardo agli ulteriori profili non regolamentati espressamente, dovranno applicarsi i principi generali ricavabili dalla normativa in tema di donazione di organi e tessuti (Es. gratuità e volontarietà della donazione). “Deve essere quindi dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 3, della legge n. 40 del 2004, nella parte in cui stabilisce il divieto del ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, qualora sia stata diagnosticata una patologia che sia causa di sterilità o infertilità assolute ed irreversibili, nonché dell’art. 9, commi 1 e 3, limitatamente alle parole «in violazione del divieto di cui all’articolo 4, comma 3», e dell’art. 12, comma 1, di detta legge”. TM |
Inserito in data 11/06/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 10 giugno 2014, n. 2963 Le spese processuali seguono il principio di sinteticità degli atti ex artt. 3 e 26 CPA Il Consiglio di Stato applica il principio di sinteticità degli atti processuali (art. 3 e art. 26 co. 1 c.p.a.) al fine d’individuare la parte gravata dalle spese processuali, considerata la “estrema prolissità e ripetitività dell’appello in esame (di 109 pagine)”. Secondo la giurisprudenza, tale principio è connesso al principio della ragionevole durata del processo (art. 2, comma 2, c.p.a.), a sua volta corollario del giusto processo, ed assume una valenza peculiare nel giudizio amministrativo caratterizzato dal rilievo dell'interesse pubblico in occasione del controllo sull'esercizio della funzione pubblica. Infatti, “La sinteticità degli atti costituisce uno dei modi - e forse tra i più importanti - per arrivare ad una giustizia rapida ed efficace …sulla stessa scia si muovono gli articoli 40, co. 1, lett. c) e d), e 101, co. 1, c.p.a. (in relazione al contenuto del ricorso introduttivo in primo grado e in appello)”. Tale principio opera anche nel giudizio di Cassazione, atteso che l'art. 366, co. 1, n. 3 c.p.c., recita che il ricorso deve contenere "L'esposizione sommaria dei fatti della causa". In particolare, secondo le indicazioni della Corte di giustizia dell'UE, gli scritti delle parti non dovrebbero superare di norma una lunghezza variabile da 5 a 15 pagine (in base alla tipologia della causa e dello scritto difensivo). TM |
Inserito in data 10/06/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, DECRETO CAUTELARE MONOCRATICO - 9 giugno 2014, n. 2435 Sospesa ordinanza del Collegio laziale: il concorso si svolgerà regolarmente
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Inserito in data 10/06/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 9 giugno 2014, n. 2933 Non è ammesso il rinnovo tacito della concessione demaniale Il Collegio, dopo aver affermato che “Il rilascio di concessione demaniale è atto rimesso a valutazioni discrezionali dell’Amministrazione, circa l’opportunità e la convenienza sottostanti all’instaurazione del rapporto, che può scaturire solo da formale rilascio di titolo abilitativo per il godimento di un bene di proprietà pubblica. Il rinnovo tacito del titolo in questione, se non testualmente previsto nell’atto di concessione, non può in linea di principio essere riconosciuto dopo la scadenza dello stesso, anche se sussiste un obbligo dell’Amministrazione di emettere provvedimento motivato, in presenza di istanze di proroga o di rinnovo, ovvero di rilascio di nuova concessione (C.d.S. 1566/10; 626/13)” e che “Il mero pagamento dei canoni, dopo l’intervenuta scadenza del titolo, non può considerarsi di per sé rinnovo tacito della concessione (C.d.S. 4098/13)” ricorda come l’indizio e di una pubblica gara per la concessione di utilizzo di un manufatto di pertinenza demaniale risulta essere la procedura che meglio risponde ai principi comunitari che tutelano la libera circolazione di servizi, la par condicio nonché l’imparzialità e la trasparenza dell’agere amministrativo. Pertanto la tutela dell’aspettativa del concessionario e del diritto di insistenza risulta recessiva rispetto alle esigenze sottostanti la scelta dell’indizione della gara da parte della pubblica amministrazione. Il caso sottoposto al vaglio del Supremo Consesso, peraltro, presentava delle peculiarità con riferimento ad determinato arco temporale laddove, vista l’esistenza di una determinata nota dell’Amministrazione concedente attestante l’assenza di motivi ostativi al rinnovo della concessione, degli ordini di pagamento emessi e del principio di libertà delle forme, avrebbe potuto ipotizzarsi (solo per quel determinato periodo) un rinnovo per facta concludentia. VA |
Inserito in data 10/06/2014 CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 6 giugno 2014, n. 159 Agenzia nazionale per l’amministrazione dei beni confiscati e competenza inderogabile La Corte Costituzionale, dopo aver dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale relativa agli artt. 13, 14,15, e 16 del d.lgs. 104/2010 per contrasto con l’art. 76 cost., ha respinto nel merito quella sugli artt. 14 e 135 cooma 1 lett. p) d. lgs. 104/10 sollevata con riferimento agli artt. 3, 24, 25,111 e 125 cost. In particolar modo era stata messa in dubbio la legittimità costituzionale dei suddetti articoli nella parte in cui prevedono la competenza funzionale inderogabile del Tar Lazio per le controversie relative all’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata. A parere del giudice rimettente, infatti, le norme in questione violerebbero, sotto il profilo della ragionevolezza, il principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 cost. derogando i criteri ordinari di individuazione della competenza caratterizzati da un collegamento territoriale; vanificherebbero l’articolazione su base regionale della Pubblica amministrazione e violerebbero il diritto alla difesa e ad un giusto processo, rendendoli maggiormente onerosi. Ai sensi dell’art. 14 c.p.a. «sono devolute funzionalmente alla competenza inderogabile del Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sede di Roma, le controversie indicate dall’articolo 135 e dalla legge». A sua volta il richiamato art. 135 c.p.a. enumera le controversie attribuite alla competenza funzionale inderogabile del TAR Lazio, tra le quali figrano anche quelle relative ai provvedimenti dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata. Si rileva, peraltro, che la competenza funzionale del TAR Lazio in materia era già stata prevista sin dall’istituzione dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata (d. legge 4/10). Si ricorda, inoltre, che la disciplina processuale (all’interno della quale rientra anche il riparto di giurisdizione) è rimessa alla valutazione discrezionale del legislatore, col solo limite della “razionalità” (c.cost. 341/06). Nel risolvere la questione sottoposta alla sua attenzione la Corte Costituzionale rileva la necessita di adottare maggiore cautela ed applicare un criterio rigoroso visti i problemi che il caso in esame pone in relazione all’articolazione su base regionale sancita dall’art. 125 cost. del sistema di giustizia amministrativa (sent. 237 del 2007 – par. 5.3.1). Tuttavia, nel caso di specie, non sembra possibile rinvenire un contrasto con la normativa costituzionale in quanto “l’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata si configura come una articolazione dell’amministrazione centrale, la quale si avvale, per l’assolvimento dei suoi compiti, di altre amministrazioni dello Stato (…). La sua competenza non è delimitata dal punto di vista territoriale, essendo chiamata a svolgere compiti relativi ai beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, anche a supporto dell’autorità giudiziaria, su tutto il territorio nazionale. […] Pertanto, i provvedimenti dell’Agenzia (…) possono qualificarsi come «atti dell’amministrazione centrale dello Stato (in quanto emessi da organi che operano come longa manus del Governo) finalizzati a soddisfare interessi che trascendono quelli delle comunità locali» (c.cost. 23707), i quali attengono alla materia dell’ordine pubblico e della sicurezza (sent. 34/12)!. Alla luce di quanto detto, la Suprema Corte ha affermato che la scelta derogatoria effettuata dal legislatore supera lo scrutinio di proporzionalità e, pertanto, risulta costituzionalmente legittima, essendo, anzi, funzionale ad un trattamento omogeneo delle fattispecie concrete che possono verificarsi nelle diverse realtà territoriali. VA |
Inserito in data 09/06/2014 TAR ABRUZZO - L’AQUILA, SEZ. I, 5 giugno 2014, n. 523 Sulla clausola di esclusione dalla gara Per il Collegio aquilano, l'inserimento nel bando di gara “di clausole che prevedono la sanzione dell'esclusione, deve essere giustificata da un particolare interesse pubblico, al fine di evitare un mero formalismo, che finirebbe per pretendere dai concorrenti un comportamento accuratamente diligente per finalità non degne di nota o di rilievo ( C.d.S., sez. V, 5289/2007). Di conseguenza le clausole che comminano l'esclusione devono rispondere al canone di ragionevolezza ( C.d.S. IV, 308/2006) ”. “Ne deriva che la verifica della regolarità della documentazione va condotta tenendo conto della tendenza alla semplificazione e del divieto di aggravamento degli oneri burocratici ove non sia ravvisabile la lesione di un interesse pubblico effettivo e rilevante, va accordata la preferenza al favor partecipationis con applicazione del principio di sanabilità delle situazioni di irregolarità formali delle procedure concorsuali”. Ciò posto, “è illegittima, per violazione del principio di ragionevolezza e proporzionalità dell'azione amministrativa, la previsione dell’Avviso pubblico che, nel disciplinare i requisiti formali previsti per la presentazione delle proposte per l’ammissione al finanziamento, imponga, a pena di esclusione, di indicare l'oggetto della procedura sulla busta, riportante già, obbligatoriamente, l’esatta indicazione dell’ufficio competente a riceverle all’interno dell’organizzazione amministrativa regionale”. La clausola del bando, infatti, “mirava a realizzare ovvero facilitare il recapito delle buste presso l’ufficio competente a riceverle, evitando così gli aggravi procedimentali derivanti dalla eventuale dispersione delle buste”. EMF
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Inserito in data 08/06/2014 TAR LAZIO - ROMA, SEZ. I QUATER, ORDINANZA 6 giugno 2014, n. 2563 Il disabile ha diritto a speciali modalità di svolgimento delle prove di esame Con la pronuncia in esame, il Collegio romano, in accoglimento di domanda cautelare proposta da un concorrente disabile, dispone la sospensione del decreto ministeriale del 7 marzo 2014 nella parte in cui fissa lo svolgimento delle prove scritte del concorso per magistrato ordinario in tre giorni consecutivi, “ordinando all’amministrazione resistente l’individuazione di una diversa articolazione temporale delle prove secondo le esigenze rappresentate dal ricorrente”. L’art. 16 della legge 12.3.1999 n. 68, infatti, garantisce “ai disabili la possibilità di partecipazione a tutti i concorsi per il pubblico impiego, da qualsiasi amministrazione pubblica siano banditi, in parità di condizioni con tutti gli altri concorrenti, mediante la previsione di speciali modalità di svolgimento delle prove di esame”. In particolare, ai sensi dell’art. 20 della legge n. 104/1992, il disabile ammesso alla partecipazione a concorsi pubblici ha diritto “di chiedere l’ausilio necessario in relazione al proprio handicap , nonché la concessione di tempi aggiuntivi”. Tuttavia, il predetto articolo 16 “non può valere a legittimare l’introduzione di modalità di svolgimento delle prove concorsuali incompatibili con quelle espressamente previste dalla legge in relazione ad esigenze generali parimenti rilevanti, come quelle finalizzate a garanzia dell’anonimato o del buon andamento della procedura”. Ciò posto, i Giudici romani ritengono che “la domanda del ricorrente di articolazione dello svolgimento delle prove scritte in tre giorni non consecutivi non contrasta con nessuna disposizione precettiva di legge , considerato che il r.d. 1860/1925 e successive modificazioni e integrazioni non impone che le prove scritte si svolgano in tre giorni consecutivi; e ciò a differenza della subordinata richiesta di svolgimento di una sola prova scritta e di differimento delle ulteriori prove all’esito della correzione della prima, che contrasta con la regolamentazione normativa generale di cui alle disposizioni di legge richiamate”. Pertanto, contemperando gli interessi evocati in giudizio, il Collegio laziale ritiene che sia l’efficacia del decreto di fissazione del concorso a dover essere sospesa «nella parte in cui fissa lo svolgimento delle prove scritte in tre giorni consecutivi». Si reputa primaria, infatti, l’esigenza di garantire l’accesso alle prove del ricorrente disabile «in parità di condizioni con gli altri concorrenti». EMF |
Inserito in data 07/06/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III., 6 giugno 2014, n. 2887 In merito all’azione di liberalizzazione I Giudici di Palazzo Spada puntualizzano che l’azione di liberalizzazione, intrapresa dalle istituzioni comunitarie in vari settori di attività di interesse economico, a lungo contrassegnate da situazioni di monopolio legale, tra i quali il servizio pubblico postale, si è accompagnata alla definizione della nozione di servizio universale corrispondente, alla luce del diritto europeo, all’insieme di tutte quelle prestazioni che devono essere rese disponibili sull’intero territorio, a condizioni di prezzo accessibili a tutti, secondo caratteristiche da armonizzarsi negli ordinamenti interni dei diversi Stati membri. Il Consiglio di Stato, trattando del caso di specie concernente le Poste, precisa che in virtù dell’articolo 3 del d.lgs n. 261 del 1999, con il quale si è attuata la direttiva 97/67/CE, successivamente modificata dalla direttiva 2008/6/CE, “ponendo le basi per un mercato postale completamente liberalizzato, il servizio postale universale ricomprende attualmente la raccolta, il trasporto, lo smistamento e il recapito degli invii postali fino a 2 kg, compresi gli invii raccomandati e assicurati, e dei pacchi fino a 20 kg; con la precisazione che la parte del servizio universale riservata “in via esclusiva” a Poste italiane s.p.a. è ora limitata alle sole notificazioni e comunicazioni a mezzo posta degli atti giudiziari e dei verbali delle violazioni del codice della strada, mentre su tutto il resto, anche nell’ambito dello stesso servizio universale, è possibile il confronto concorrenziale di altri operatori titolari di licenza individuale o di autorizzazione generale”. Inoltre, anche la direttiva emanata nel 2008, ha conservato il servizio universale, da intendersi quale servizio che gli Stati sono tenuti ad offrire alle rispettive collettività, ribadendone ed accentuandone la funzione di “coesione sociale e territoriale”, specie con particolare riferimento alla “capillarità della rete postale”. La disciplina nazionale, modificata dal d.lgs. 58/2011, prescrive, conseguentemente, che la fornitura del servizio postale sia assicurata su tutto il territorio nazionale, incluse le situazioni particolari delle isole minori e delle zone rurali e montane, in via continuativa per tutta la durata dell’anno, nonché che l’Autorità di regolamentazione del settore postale (divenuta grazie all’art. 21, comma 14, del d.l. 201/2011, l’Autorità per le garanzie nelle comunicazione) sia “competente ad adottare i provvedimenti regolatori in materia di qualità e caratteristiche del servizio postale universale, anche con riferimento alla determinazione dei criteri di ragionevolezza funzionali alla individuale dei punti del territorio nazionale necessari a garantire una regolare ed omogenea fornitura del servizio.” Si ribadisce che: “in questo contesto, il citato d.lgs. 58/2011 ha previsto che il servizio universale sia affidato a Poste italiane s.p.a. (che è, come noto, una società ad oggi totalmente partecipata dal Ministero dell’Economia e della Finanze) per un periodo di quindici anni, con scadenza quindi fino al 2016, fatta salva la possibilità di revoca qualora la verifica dello stato del rispetto degli obblighi del contratto di programma dia esito negativo” ed inoltre che “il decreto legislativo ha poi confermato l'obbligo per il fornitore del servizio universale di istituire la separazione contabile distinguendo, fra singoli servizi, i prodotti rientranti nel servizio universale, per i quali è previsto un finanziamento statale, e quelli esclusi da tale ambito ed offerti in condizioni di piena concorrenza con gli altri operatori.” Quanto ai rapporti tra lo Stato e il fornitore del servizio universale, questi sono disciplinati dal “contratto di programma”. Il Contratto di programma tra il Ministero dello sviluppo economico e Poste Italiane (per il triennio 2009-2011), è stato approvato con l. n. 183/2011, fatti salvi gli adempimenti previsti dalla normativa comunitaria; l'efficacia del contratto è stata, quindi, perfezionata con la decisione della Commissione europea del 20 novembre 2012, che ha autorizzato i trasferimenti statali verso Poste Italiane a parziale copertura degli oneri connessi con lo svolgimento degli obblighi di servizio postale universale. Trattando dei profili concernenti eminentemente la giurisdizione, se, da una parte, è stata negata la giurisdizione del giudice amministrativo, sul duplice rilievo della natura formalmente privatistica di Poste italiane, la quale eserciterebbe la propria libertà di impresa piuttosto che un potere amministrativo propriamente inteso e della necessità, per gli utenti o per gli enti (anche locali) che li rappresentano, di rivolgersi in prima battuta all’Autorità di regolamentazione, fatta salva la possibilità di impugnarne, in un secondo momento, i relativi atti dinanzi al giudice amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva, dall’altra parte, invece, si è riconosciuta la giurisdizione del giudice amministrativo, sulla base di una lettura ampia ed in chiave oggettiva della nozione di servizio pubblico (è il caso della sentenza qui impugnata e di quella, ancora più recente, del Tar Lazio, III ter, n. 1117/2014), e facendo leva, per analogia, sull’art. 1 del d.lgs. 198/2009. Oltre a ciò “l’attribuzione della giurisdizione anche su determinati profili inerenti la stessa erogazione del servizio (ad esempio la violazione di standard qualitativi o degli obblighi contenuti nelle carte di servizi) e che investono diritti soggettivi degli utenti (cd. class action pubblica) non potrebbe, a maggior ragione, non attrarre nella giurisdizione amministrativa anche gli atti prodromici aventi natura organizzativa posti in essere dal concessionario del servizio (Tar Campania, Salerno, n. 533/2013).” In conclusione, il Collegio precisa che reputa che il secondo degli orientamenti richiamati sia di certo il più persuasivo. GMC
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Inserito in data 06/06/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 5 giugno 2014, n. 2867 Responsabilità civile della PA e accertamento della colpa In base agli artt. 2043 e 2697 cc, l’onere di provare la colpa della PA grava sul privato, il quale può peraltro servirsi delle presunzioni semplici di cui agli artt. 2727 e 2729 cc. Tali presunzioni, insieme ai caratteri del processo amministrativo ed al principio dispositivo con onere acquisitivo, fanno sì che il privato debba esclusivamente introdurre nel processo elementi di prova, consistenti anche nella semplice prova dell'illegittimità dell'atto amministrativo. Spetterà, di contro, alla PA dimostrare che vi è stato un errore scusabile, configurabile, ad esempio, “in caso di contrasti giurisprudenziali sull'interpretazione di una norma, di formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore, di rilevante complessità del fatto, di influenza determinante di comportamenti di altri soggetti, di illegittimità derivante da una successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata” (Cons. Stato n. 3981/06 e 14/12). In altre parole, il giudice amministrativo può affermare la responsabilità della PA quando la violazione risulti grave e commessa in un contesto di circostanze di fatto e in un quadro di riferimenti normativi e giuridici tali da palesare la negligenza e l'imperizia dell'organo nell'assunzione del provvedimento viziato; può, invece, negarla quando l'indagine conduce al riconoscimento dell'errore scusabile. CDC |
Inserito in data 06/06/2014 CORTE DI CASSAZIONE, TERZA SEZIONE CIVILE, sentenza 30 maggio 2014, n. 12264 Danno da nascita indesiderata: l’onere della prova grava sulla madre Nel giudizio intentato dai genitori per il risarcimento del danno da nascita indesiderata conseguente al mancato rilievo, da parte del medico, di malformazioni congenite del feto, è onere della parte attrice allegare e dimostrare che, se fosse stata informata delle malformazioni del concepito, avrebbe interrotto la gravidanza, poiché tale prova non può essere desunta dal solo fatto della richiesta di sottoporsi ad esami volti ad accertare l'esistenza di eventuali anomalie del feto. Infatti, quando manchi una espressa manifestazione di volontà della gestante di interrompere la gravidanza, la mera richiesta di accertamento diagnostico integra un semplice elemento indiziario dell'esistenza di una volontà che si presume orientata verso l'esercizio della facoltà di abortire. Del resto, sono innumerevoli le ragioni che possono spingere una donna e una madre, anche se soltanto futura, ad esigere quegli accertamenti, a partire dalla volontà di gestire al meglio la gravidanza indirizzandola verso un parto che, per le condizioni, i tempi ed il tipo, risulti il più consono alla nascita del figlio, ancorché malformato. Ne segue che la parte attrice è tenuta ad integrare il contenuto della presunzione con elementi probatori ulteriori. Invece, non incombe sul medico l'onere di provare che, in presenza di una tempestiva informazione, la gestante non avrebbe potuto o voluto abortire. Una diversa distribuzione degli oneri probatori equivarrebbe, del resto, a trasformare il giudizio risarcitorio in una vicenda para-assicurativa, indebitamente collegata al solo verificarsi dell'evento di danno conseguente all'inadempimento del sanitario. Tale soluzione, infine, appare più rispettosa delle regole probatorie stabilite ex lege in seno al processo civile, oltre che più consapevole della estrema delicatezza della questione, che non può prescindere da una precisa assunzione di responsabilità delle proprie dichiarazioni da parte della donna, unico soggetto cui la legge (e non solo) riconosce il diritto di decidere, sia pur a precise condizioni, della prosecuzione o meno di una gravidanza. CDC
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Inserito in data 05/06/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 4 giugno 2014, n. 2855 Inserire un’area tra le zone per l’istruzione dell’obbligo integra vincolo conformativo I Giudici di Palazzo Spada si soffermano sulla complessa distinzione tra vincoli conformativi e vincoli espropriativi. In particolare, nell’inserire un’area tra le zone pubbliche di interesse generale e, in particolare, tra le zone per l’istruzione dell’obbligo, il PRG avrebbe posto un vincolo conformativo. “Risulta, del resto, di questo stesso avviso anche la Corte di Cassazione, che nell’affermare il carattere non edificabile della destinazione ad edilizia scolastica, ha sostenuto che essa ha “l'effetto di configurare un tipico vincolo conformativo, come destinazione ad un servizio che trascende le necessità di zone circoscritte, ed è concepibile solo nella complessiva sistemazione del territorio, nel quadro della ripartizione zonale in base a criteri generali ed astratti” (cfr., da ultimo, Cass.civ., sez. I, 26 maggio 2010, n. 12862)”. Del resto, nel caso di specie, le stesse NTA consentivano la realizzazione e la gestione delle attrezzature scolastiche ad opera del privato proprietario del suolo. Né tale prerogativa poteva dirsi elisa per il fatto che l’area sia limitrofa ad un polo scolastico già esistente, di proprietà pubblica. Pertanto, non trattandosi di un vincolo espropriativo, la sua reitera non necessitava di una particolare motivazione. TM |
Inserito in data 05/06/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 4 giugno 2014, n. 2856 Recepimento della teoria della duplice chance (piuttosto che quella del cd. one shot) Il Consiglio di Stato esamina i rapporti tra giudicato di annullamento e successivo riesercizio del potere. “Come è noto e come lucidamente affermato da qualificata dottrina, il principio di continuità dell’azione amministrativa e la tendenziale “inesauribilità” del potere esercitato comporterebbe, in teoria, che l’Amministrazione possa (e debba) riprovvedere in relazione alla “res” attinta da un giudicato annullatorio”. “E soprattutto comporterebbe che ciò possa avvenire un numero non predeterminato di volte”. Perciò, “Ogni controversia sarebbe destinata, in potenza, a non concludersi mai, con un definitivo accertamento sulla spettanza – o meno - del “bene della vita””. “Interrogandosi su come conciliare dette –opposte – esigenze […], il punto di equilibrio è stato individuato in via empirica dalla giurisprudenza imponendo all'Amministrazione - dopo un giudicato di annullamento da cui derivi il dovere o la facoltà di provvedere di nuovo - di esaminare l'affare nella sua interezza, sollevando, una volta per sempre, tutte le questioni che ritenga rilevanti, dopo di ciò non potendo tornare a decidere sfavorevolmente neppure in relazione a profili prima non esaminati”. “Questo principio costituisce jus receptum in giurisprudenza”. “Esso appare equo contemperamento (o quantomeno il migliore che sia stato sinora individuato) tra esigenze all’apparenza inconciliabili: la “forza”della res iudicata e la stessa funzione ed utilità di quest’ultima, la continuità del potere amministrativo ex art. 97 della Costituzione ed il principio di ragionevole durata del processo ex art. 111 della Costituzione medesima”. “Nell’ ordinamento italiano, quindi, per costante elaborazione pretoria, non trova riconoscimento la teoria c.d. del "one shot" (viceversa ammessa in altri ordinamenti)”. “Detta regola prevede che l’Amministrazione possa pronunciarsi negativamente una sola volta, facendo in detta occasione emergere tutte le possibili motivazioni che si oppongono all’accoglimento della istanza del privato”. “Nel sistema italiano il principio è stato “temperato”, accordandosi all’Amministrazione due chance: si è, infatti, costantemente affermato che l'annullamento di un provvedimento amministrativo a carattere discrezionale, che abbia negato la soddisfazione di un interesse legittimo pretensivo, non determina la sicura soddisfazione del bene della vita, ma obbliga semplicemente l'amministrazione a rinnovare il procedimento tenendo conto della portata conformativa della sentenza”. Pertanto, nel compiere il giudizio sulla spettanza del bene della vita a fini risarcitori, il giudice può considerare gli ulteriori motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza, quantunque non esplicitati dalla PA col provvedimento di rigetto, poi annullato. TM |
Inserito in data 04/06/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 3 giugno 2014, n. 2833 Privatizzazione di enti previdenziali e permanente pubblicità dell’attività svolta I giudici di Palazzo Spada, con la sentenza in commento, hanno accolto il ricorso presentato avverso la decisione che aveva declinato la giurisdizione del giudice amministrativo per la risoluzione del ricorso avente ad oggetto il rinnovo del consiglio di amministrazione di una fondazione avente ad oggetto il trattamento previdenziale ed assistenziale per gli agenti e rappresentanti di commercio (privatizzato con l’art. 1 comma 3 d.lgs. 509/94). Più precisamente il ricorso in esame verteva sul mancato esercizio dell’attività istruttoria che deve essere effettuata da parte del Ministero del lavoro e delle politiche sociali concernete l’individuazione delle associazioni nazionali maggiormente rappresentative. Ad avviso del Supremo Consesso la privatizzazione degli enti gestori di forme di previdenza amministrativa non ha inciso sulla pubblicità dei fini da questi perseguiti né, conseguentemente, sulla pubblicità dell’attività svolta (si veda CdS 6014/12; C.Cost., ord.za 214/99). L’art. 8 dello statuto della Fondazione prevede: “Sei mesi prima della scadenza dell’Organo, il Presidente chiede al Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale l’individuazione delle associazioni maggiormente rappresentative su base nazionale di cui al comma precedente, lettera a) e lettera b); ricevuta la comunicazione del Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale, il Presidente invita le associazioni maggiormente rappresentative, come sopra individuate, a designare i membri di propria competenza nel termine di sessanta giorni dal ricevimento di tale richiesta..”. Il punto dirimente della controversia, dunque, risulta essere l’individuazione dell’esatta natura dell’attività ministeriale: se l’attività ministeriale di “individuazione” abbia natura provvedimentale (in quanto espressione di un potere pubblicistico), ovvero se debba essere ricondotta nell’alveo degli atti privatistici (svolgendo solo una funzione strumentale ed endoprocedimentale). più precisamente ci si chiede se la scelta sia libera ovvero limitatamente vincolata a parametri di discrezionalità obiettivi. Sul punto, si osserva come “In ragione del principio di legalità, la causa di una manifestazione di volontà o di giudizio nell’azione amministrativa mai può essere libera come nelle attività negoziali dei privati: ma è sempre vincolata al fine pubblico in funzione del quale l’attività è dall’ordinamento data, sia essa di amministrazione diretta o di controllo […] consegue da questo che, nel percorso procedurale delineato dallo statuto in discorso, la funzione “istruttoria”, e comunque esterna all’ente, del ministero […] non è attratta nel fascio delle attività private inerenti l’attività propria della Fondazione e dei suoi organi. Essa, viceversa, resta espressione pubblicistica, propria di una separata e indipendente attività autoritativa ministeriale, intesa alla ricognizione e alla valutazione degli elementi rilevanti per la finale decisione, che è di esclusiva spettanza ministeriale ed è ordinata all’individuazione delle categorie datoriali preponenti”. VA |
Inserito in data 04/06/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 3 giugno 2014, n. 2842 Natura di una struttura ad uso stagionale e rilascio permesso di costruire Il Supremo Consesso ha accolto il ricorso presentato avverso la sentenza che aveva respinto il precedente appello avverso la decisione del Tar con la quale si autorizzava l’ampliamento di un chiosco-bar. Si sottolinea come la destinazione della struttura al soddisfacimento di esigenze stagionali, destinate a ripetersi nel tempo, e l’imponenza strutturale della stessa contrastino con la nozione di “struttura precaria”. Si evidenza, inoltre, che non si sarebbe potuto rilasciare un permesso di costruire in considerazione nei numerosi vincoli di inedificabilità sussistenti in loco, a nulla rilevando l’art. 56 del Regolamento edilizio comunale che riconosce sempre un carattere ontologicamente precario ai chioschi. A tale disposizione, infatti, non potrebbe riconoscersi un significato concreto contrastante con le previsioni del d.P.R. 380/01 (T.U. delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di edilizia)”. Sull’esatta natura della struttura oggetto di controversia, rappresentante il fulcro del problema, il Collegio richiama l’orientamento secondo cui “i manufatti non precari, ma funzionali a soddisfare esigenze permanenti, vanno considerati come idonei ad alterare lo stato dei luoghi, con un sicuro incremento del carico urbanistico, a nulla rilevando la precarietà strutturale del manufatto, la rimovibilità della struttura e l'assenza di opere murarie, posto che il manufatto non precario (es.: gazebo o chiosco) non è deputato ad un suo uso per fini contingenti, ma è destinato ad un utilizzo destinato ad essere reiterato nel tempo in quanto stagionale. […] la ‘precarietà’ dell'opera, che esonera dall'obbligo del possesso del permesso di costruire, postula un uso specifico e temporalmente limitato del bene e non la sua stagionalità la quale non esclude la destinazione del manufatto al soddisfacimento di esigenze non eccezionali e contingenti, ma permanenti nel tempo (C.d.S. 6615/07). Ai fini di un’esatta classificazione, dunque, è necessario procedere ad una valutazione case by case: peraltro, a seguito di un attento esame delle caratteristiche del caso concreto il Consiglio di stato ha ricondotto il manufatto all’interno della categoria di cui all’art. 3 comma 1 lett. e) d.p.r. 380/01 (struttura di nuova costruzione). Parimenti priva di merito appare la presentazione di un’istanza di variazione dello strumento urbanistico (ex art. 5 d.p.r. 447/98) la quale, di contro, testimonia la consapevolezza del contrasto tra il manufatto e la disciplina del piano. VA |
Inserito in data 03/06/2014 CORTE COSTITUZIONALE, ORDINANZA 28 maggio 2014, n. 146 Sulla q.l.c. della nomina dei giornalisti preposti all’ufficio stampa senza concorso Con l’ordinanza in epigrafe, la Consulta “dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 11, comma 3, della legge della Regione siciliana 6 luglio 1976, n. 79 (Provvedimenti intesi a favorire la più ampia informazione democratica sull’attività della Regione)”, nella parte in cui prevede che “la nomina dei giornalisti preposti all’Ufficio stampa e documentazione presso la Presidenza della Regione siciliana avvenga prescindendo da qualsiasi procedura concorsuale o comunque selettiva, senza che ricorrano esigenze pubbliche che giustifichino tale scelta”, sollevata in riferimento agli artt. 3 e 97, terzo comma, della Costituzione. Carente risulta, infatti, la motivazione sulla rilevanza della questione, omettendo il Giudice a quo di evidenziare le ragioni per cui ritiene di dover applicare la disposizione censurata al ricorso posto al suo esame ed avente ad oggetto la richiesta di applicazione della tutela reintegratoria. A ciò si aggiunga che il rimettente non fornisce “nessuna indicazione in ordine alle modalità con cui si è atteggiato, in concreto, il rapporto di lavoro dei ricorrenti”. Non solo. Il Giudice del lavoro bypassa anche di esaminare “cosa sia accaduto al rapporto in occasione della elezione dei diversi Presidenti succedutisi dal 1991 al 2012, e neppure quali fossero la tipologia e le caratteristiche delle prestazioni richieste ai giornalisti”. In conclusione, “l’argomentazione appare evidentemente incongrua e contraddittoria atteso che, da un lato, il rimettente chiede che sia dichiarata l’illegittimità costituzionale della disposizione censurata in quanto essa configurerebbe un rapporto di lavoro subordinato senza prevedere l’accesso tramite concorso, mentre, dall’altro lato, afferma che la dichiarazione di illegittimità costituzionale- la quale…discenderebbe proprio dalla natura subordinata del rapporto - comporterebbe la qualificazione dello stesso in termini di lavoro autonomo”. EMF |
Inserito in data 03/06/2014 CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE SESTA PENALE, SENTENZA 28 maggio 2014, n. 21890 Sulla configurabilità dell’aggravante del travisamento nel delitto di rapina Con la pronuncia in esame, gli Ermellini ritengono che ai “fini della sussistenza della circostanza aggravante del travisamento nel delitto di rapina è sufficiente una lieve alterazione dell'aspetto esteriore della persona, conseguita con qualsiasi mezzo anche rudimentale, purché idoneo a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona stessa” (v. Sez. 2, n. 18858 del 27/04/2011, Di Camillo, Rv. 250114; Sez. 1, n. 5053 del 02/04/1979, Passalacqua, Rv. 142128). EMF
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Inserito in data 31/05/2014 CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE PENALI, INFORMAZIONE PROVVISORIA 29 maggio 2014, n. 12 Droghe leggere, riduzione delle pene per piccolo spaccio Saranno rideterminate al ribasso le condanne definitive per spaccio di droghe leggere, inflitte nel periodo in cui era in vigore la Legge Fini – Giovanardi, dichiarata incostituzionale lo scorso 12 febbraio. I Supremi Giudici, nel caso di specie, hanno accolto un ricorso della Procura di Napoli contro la decisione del Tribunale, la quale aveva negato, ad un condannato recidivo per piccolo spaccio, di ottenere il ricalcolo della pena a seguito della sentenza della Consulta del 2012, che aveva dichiarato incostituzionale la norma della Legge Fini – Giovanardi che vietava la concessione delle circostanze attenuanti prevalenti nel caso in cui si trattasse di soggetti recidivi. Invero, secondo la Corte Costituzionale, la normativa delineatasi sulle tossicodipendenze era illegittima, dovendo tornare in vigore, in tal modo, la Legge Jervolino – Vassalli, per tutti quei reati legati alle droghe leggere, ed applicandosi, dunque, il principio del “favor rei” laddove i processi fossero ancora in corso. Ricostruendo brevemente il quadro tracciato, La Consulta, in quella occasione, ha bocciato la Legge che – dal 2006 sino al 2014 – ha equiparato le droghe leggere a quelle pesanti. La normativa precedente richiamata (e da applicare) è la Legge Jervolino – Vassalli, risalente al 1990, la quale, considerata, in un certo qual senso, “criminogena”, fu abrogata parzialmente mediante un referendum nel 1993, alleggerendo in tal modo le pene per i consumatori di droghe leggere. La Legge Fini – Giovanardi, sostanzialmente, ha quindi equiparato le droghe pesanti con quelle leggere, introducendo, come spartiacque tra detenzione e spaccio, la dose massima consentita, un “quid di illecito” oltre il quale, per la legge, si diventata – in modo pressoché automatico – dei pusher, sebbene in realtà si sia soltanto consumatori di sostanze stupefacenti. Oltre a ciò, si inasprivano le condanne, prevedendo una pena massima fino a 20 anni anche per il solo possesso di hashish e marijuana. Con la nota informativa in epigrafe, le Sezioni Unite penali della Suprema Corte, affermando che occorrerà “rideterminare al ribasso” le condanne definitive per spaccio di droghe leggere, nel periodo in cui era in vigore la Legge già citata, hanno chiarito le ricadute della pronuncia della Corte Costituzionale. Anzitutto, i giudici della Suprema Corte, erano chiamati a pronunciarsi su una questione più generale rispetto alle norme in materia di stupefacenti; occorreva, difatti, chiarire se “la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma penale diversa dalla norma incriminatrice, ma che incide sul trattamento sanzionatorio comporti una rideterminazione della pena in sede di esecuzione, vincendo la preclusione del giudicato”. A tale domanda, i Giudici di legittimità hanno dato soluzione positiva: invero, tale principio generale, secondo il quale l'illegittimità di una norma travolge anche le condanne già divenute definitive, riveste una particolare importanza in relazione agli effetti della bocciatura della Legge Fini – Giovanardi sulle condanne passate in giudicato. Oltre a ciò, gli Ermellini, puntualizzano altresì che la rideterminazione della pena sarà possibile altresì per i recidivi, nel caso in cui venga ritenuta prevalente la circostanza attenuante della lieve entità del fatto. Specificamente, “la questione riguardava gli effetti della sentenza n. 251 del 2012, che ha dichiarato l'incostituzionalità dell'art. 69, comma quarto, Codice penale, nella parte in cui vietava di valutare prevalentemente la circostanza attenuante di cui all'art. 73, comma cinque, del Dpr n. 309 del 1990 sulla recidiva di cui all'art. 99, comma quarto, Codice penale.” Ed ancora, la nota informativa emessa dalle Sezioni Unite penali della Suprema Corte aggiunge altresì che “[...] nella specie il giudice dell'esecuzione, ferme le vincolanti valutazioni di merito espressa dal giudice della cognizione nella sentenza della cui esecuzione si tratta, ove ritenga prevalente sulla recidiva la circostanza attenuante di cui all'art. 73, comma cinque, Dpr n. 309 del 1990, ai fini della rideterminazione della pena dovrà tenere conto del testo di tale disposizione, come ripristinato a seguito della sentenza Corte costituzionale n. 32 del 2014, senza tenere conto di successive modifiche legislative.” A ben vedere, dunque, coloro i quali siano stati condannati definitivamente con recidiva per “piccolo spaccio”, avranno diritto di ottenere il ricalcolo della pena per l'incostituzionalità della norma che gli vietava il riconoscimento delle circostanze attenuanti. Chiaro è, altresì, che il giudice dell'esecuzione – il quale sarà tenuto al ricalcolo – dovrà necessariamente tener conto della abolizione della Legge Fini – Giovanardi, proprio in quella parte in cui non si faceva distinzione, come premesso, tra droghe leggere e pesanti, con effetti di aggravio di pena, dunque, anche per le ipotesi più lievi. GMC
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Inserito in data 31/05/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 27 maggio 2014, n. 2753 Sulle offerte migliorative nelle gare di appalto I Giudici di Palazzo Spada si soffermano in merito alle offerte migliorative nelle gare di appalto da aggiudicare con il “criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa”. Nel caso ivi in questione, il Consiglio di Stato ha puntualizzato che “Il disciplinare di gara, al punto 3 della seconda parte (“Presentazione dell’offerta”), descrivendo il contenuto della seconda busta interna “B – offerta tecnica”, ha stabilito, al secondo capoverso, che il progetto definitivo avrebbe dovuto determinare in ogni dettaglio i lavori da realizzarsi e si sarebbe dovuto sviluppare ad un livello di definizione tale da consentire che ogni elemento fosse identificato in forma, tipologia, qualità e dimensione”, rilevando altresì che “Non sono ammesse, pena esclusione, variazioni planimetriche rispetto ai tracciati delle infrastrutture viarie previste dal progetto preliminare approvato posto a base di gara. Le modifiche che verranno apportate con il progetto definitivo offerto dovranno comunque essere effettuate senza aumento di spesa rispetto a quanto previsto dal progetto preliminare posto a base di gara dalla stazione appaltante”. Da tali disposizioni, emerge chiaramente che non era vietata la possibilità di apportare “variazioni migliorative” al progetto preliminare posto a base di gara, purché fossero, tuttavia, rispettate le previsioni planimetriche rispetto ai tracciati delle infrastrutture viarie. Invero, essi “secondo l’intenzione dell’amministrazione appaltante, costituivano punti cardini, significativi e caratterizzanti dell’intervento da realizzare, contribuendo pertanto a realizzare l’interesse pubblico effettivamente perseguito.” Sul tema, il consolidato indirizzo giurisprudenziale, afferma che “con riguardo alle gare di appalto da aggiudicare con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, come nel caso in esame, ammette che l’offerta presentata possa contenere soluzione migliorative, a condizione che non siano alterati i caratteri essenziali ovvero lo stesso oggetto dell’appalto (Cons. St., sez. 8, marzo 2011, n. 1460), anche per non ledere la par condicio dei concorrenti (Cons. Stato, sez. V, 7 giugno 2012, n. 3358). In tal senso, la sentenza richiama anche la sentenza del 23 gennaio 2012, n. 285, la quale, relativamente ad un appalto integrato, ex art. 54, comma 1, lett. B), del D. Lgs. n. 163 del 2006, ha distinto le varianti progettuali migliorative, consentite (incidenti sulla qualità dell’opera, sotto il profilo strutturale, prestazione e funzionali, quali schede progettuali, modalità esecutive, materiali, impianti), dalle modificazioni vietate in quanto “idonee ad alterare l’essenza strutturale e prestazioni dell’opera delineata nel progetto definitivo e come tali lesive, oltre che della par condicio dei concorrenti, anche dello stesso interesse della stazione appaltante al conseguimento delle specifiche funzionalità perseguite, secondo il progetto definitivo posto a base di gara”. GMC |
Inserito in data 30/05/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 29 maggio 2014, n. 2792 Specialità della responsabilità della PA e conseguenze sul nesso di causalità La responsabilità della PA da provvedimento illegittimo ha natura speciale non riconducibile né alla responsabilità extracontrattuale né alla responsabilità contrattuale. Infatti, rispetto alla responsabilità extracontrattuale, presuppone che il comportamento illecito si inserisca nell’ambito di un procedimento amministrativo, nel quale la PA deve rispettare predefinite regole di azione, procedimentali e sostanziali. L’esistenza di un contatto tra le parti impedisce di ritenere che si sia in presenza della responsabilità di un soggetto non avente alcun rapporto con la parte danneggiata, come accade nella responsabilità extracontrattuale In secondo luogo, rispetto alla responsabilità contrattuale, sono diverse le posizioni soggettive che si confrontano: da un lato, dovere di prestazione o di protezione e diritto di credito, dall’altro, potere pubblico e interesse legittimo o, nelle materie di giurisdizione esclusiva, diritto soggettivo. Infine, rispetto ad entrambe le responsabilità civilistiche, la connessione tra sindacato di validità sul potere discrezionale e sindacato di responsabilità sul comportamento impone al giudice amministrativo di non sovrapporre, nell’accertare la sussistenza del fatto illecito, proprie valutazioni a quelle riservate alla PA. La specialità della responsabilità della PA incide, fra l’altro, sulla ricostruzione dell’elemento costitutivo del nesso di causalità, assegnandogli una valenza non del tutto riconducibile alla teorie elaborate in ambito civilistico. Infatti, la ricostruzione del nesso eziologico mira a valutare se la condotta della PA sia stata idonea a ledere la posizione soggettiva di interesse legittimo. L’accertamento della lesione dell’interesse legittimo – in ragione della stretta connessione con il potere pubblico – richiede l’effettuazione di un giudizio prognostico. Sul punto, occorre però distinguere due diverse fattispecie. La prima fattispecie ricorre nel caso in cui il privato abbia proposto sia l’azione di annullamento che l’azione di responsabilità e l’esito del giudizio di annullamento consente il riesercizio di poteri discrezionali. In quest’ipotesi, secondo giurisprudenza costante, il giudice amministrativo non può effettuare, per evitare di invadere sfere di valutazione che la Costituzione riserva alla PA, il predetto giudizio prognostico. Si ritiene, infatti, necessario attendere che la PA rinnovi il procedimento emendato dal vizio riscontrato in sede giudiziale e soltanto se all’esito di tale giudizio si accerta che il privato aveva “diritto” a quel determinato bene della vita sarà possibile ottenere, ricorrendo gli altri presupposti, il risarcimento del danno. In questo caso, pertanto, svolgendosi un giudizio di spettanza, la regola probatoria applicata è quella della “certezza”. La seconda fattispecie ricorre nel caso in cui la parte abbia proposto un’autonoma azione di responsabilità o l’attività amministrativa sia vincolata e pertanto la rinnovazione procedimentale si svolge nel solo rispetto di quanto stabilito dal giudice ovvero determinato, in tutti i suoi profili, dalla legge. In tal caso il giudice amministrativo, senza il rischio di sovrapporre il proprio giudizio alle valutazioni dell’autorità pubblica, può effettuare un giudizio prognostico. Occorre, pertanto, accertare se vi è stato danno ingiusto valutando se, in applicazione della teoria condizionalistica e della causalità adeguata, è “più probabile che non” che l’azione o l’omissione della pubblica amministrazione siano state idonee a cagionare l’evento lesivo. CDC
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Inserito in data 30/05/2014 CORTE DI CASSAZIONE, TERZA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 26 maggio 2014, n. 11698 Concorso colposo del danneggiato ed esposizione volontaria ad un rischio gratuito Il concorso colposo del danneggiato, che comporta ex art. 1227, primo comma, cc la conseguente e proporzionale riduzione della responsabilità del danneggiante, è configurabile non solo in caso di cooperazione attiva del danneggiato, ma in tutti i casi in cui il danneggiato si esponga volontariamente ad un rischio superiore alla norma, in violazione di norme giuridiche o di regole comportamentali di prudenza avvertite come vincolanti dalla coscienza sociale del suo tempo, con una condotta (attiva od omissiva) che si inserisca come antecedente causale che culmina nel danno subito. In tal caso, infatti, con l’accettazione consapevole del rischio il trasportato ha posto in essere un antecedente causale non del fatto dannoso complessivo, ma dell’evento verificatosi, il quale consiste nella lesione del bene giuridico tutelato. Ciò si basa, oltre che sull’art. 1227 cc, sull’art. 2 Cost, il quale fonda le scelte di politica sociale di allocazione del rischio, ma anche l’obbligo di ciascuno di essere responsabile e valutare le conseguenze dei propri atti. Occorre però individuare quale sia la soglia di rilevanza causale della volontaria esposizione al rischio. Infatti, non si può pretendere una sottrazione totale al rischio, la quale è impossibile, non essendo tutti i rischi prevedibili ed evitabili, ed inoltre contrasta con il vivere nella società e con l’esigenza di assolvere ai vari compiti imposti dalla società. Pertanto, è semplice individuare la condotta che comporta esposizione volontaria al rischio e sia fonte di responsabilità quando essa sia posta in essere in precisa violazione di norme giuridiche. Meno immediata è la collocazione della soglia di rilevanza di tale comportamento quando sia posta in essere una violazione di regole di prudenza. In tal caso, si può ritenere che il danneggiato realizzi una condotta causalmente rilevante quando accetti volontariamente di esporsi ad un rischio gratuito, cioè non necessitato e neppure giustificato dall’attività che egli debba svolgere e dovuto ad una scelta voluttuaria e gravemente imprudente. CDC
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Inserito in data 29/05/2014 CORTE DI CASSAZIONE - SECONDA SEZIONE CIVILE, ORDINANZA INTERLOCUTORIA, 23 maggio 2014, n. 11545 Il divieto di donazione di beni futuri ex art. 771 cc opera per i beni altrui? La Corte di Cassazione ha trasmesso gli atti al Primo Presidente affinché valuti la possibilità di rimettere alle Sezioni Unite la questione di particolare importanza consistente nello stabilire se l’art. 771 c.c. possa essere interpretato equiparando a tutti gli effetti la categoria dei “beni futuri” ai “beni altrui”. Com’è noto, l’art. 771 c.c. afferma la nullità della donazione avente ad oggetto beni futuri. I) Per un orientamento giurisprudenziale (C. 6544/85; 11311/96; 10356/09; C. 12872/13), tale norma si applica anche alla donazione avente ad oggetto beni totalmente o parzialmente altrui, in quanto beni futuri in senso soggettivo. In questo senso si allega un argomento letterale, ossia la circostanza che l’art. 769 c.c. definisce la donazione come il contratto con cui il donante dispone di un “suo diritto”. Inoltre, in questo senso depone un argomento sistematico: il codice civile ha assoggettato la donazione al principio consensualistico, ossia ha previsto che il diritto si trasferisca al momento stesso in cui si perfeziona l’accordo (fatta salva la donazione manuale ex art. 783 c.c., che costituisce un contratto reale). II) Per un orientamento minoritario (C. 1596/01, secondo cui la donazione di beni altrui è valida ma inefficace e, perciò, idonea a concorrere all’usucapione, purché sia concepita delle parti come donazione di cosa propria del donante), la donazione avente ad oggetto beni altrui è valida, in quanto qualificabile come donazione obbligatoria ossia che arricchisce il donatario attraverso l’assunzione nei suoi confronti di un’obbligazione (cfr. art. 769 c.c. seconda parte). A tale conclusione si perviene sottolineando che l’art. 771 cc è una norma eccezionale, non estensibile analogicamente. Inoltre, si evidenzia che la legittimazione a disporre è un elemento esterno alla struttura della fattispecie contrattuale; con la conseguenza che esso dovrebbe incidere sull’efficacia del negozio piuttosto che sulla sua validità. TM
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Inserito in data 29/05/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 27 maggio 2014, n. 2742 Il termine annuale previsto dall’art. 31 c. 2 CPA integra una mera sanzione processuale La sentenza in epigrafe desta interesse nella parte in cui si sofferma sulle conseguenze del decorso del termine annuale previsto dall’art. 31, c. 2, primo alinea, c.p.a., per la proposizione dell’azione avverso il silenzio (“L’azione può essere proposta fintanto che perdura l’inadempimento e, comunque, non oltre un anno dalla scadenza del termine di conclusione del procedimento”). Per la Quinta sezione, “alla stregua di consolidata giurisprudenza, si deve escludere che il termine annuale previsto dall’art. 31, co. 2, c.p.a., produca una decadenza sostanziale che colpisce la posizione soggettiva, atteggiandosi invece a mera sanzione processuale che non impedisce la proposizione di autonomo giudizio a seguito della presentazione di una nuova istanza volta al conseguimento del provvedimento amministrativo”. “Per espressa previsione di legge (art. 31, co. 2, c.p.a., secondo alinea: “è fatta salva la riproponibilità dell’istanza di avvio del procedimento ove ne ricorrano i presupposti”), infatti, la decorrenza del termine annuale incide soltanto sul piano processuale, senza che si produca nessuna vicenda estintiva dell’interesse legittimo pretensivo sotteso all’iniziativa procedimentale di parte: pertanto, se tale situazione giuridica soggettiva persiste in capo al cittadino anche dopo un anno dalla formazione del silenzio-rifiuto, sussiste pure la legittimazione a riproporre l’istanza di avvio del procedimento e, conseguentemente, a promuovere l’azione avverso il silenzio”. “Va soggiunto che, stante la natura del termine in una con la relativa ratio, la diffida a provvedere va equiparata ad una nuova istanza ai sensi dell'art. 31, comma 2, c.p.a.”. TM |
Inserito in data 28/05/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 26 maggio 2014, n. 2687 Violazione della regola dell’anonimato ed individuazione dei segni di riconoscimento I giudici di Palazzo Spada, con la presente sentenza, hanno confermato la decisione assunta dal giudice di prime cure in merito alla violazione della regola dell’anonimato vigente in ambito concorsuale. Dopo un breve esame della normativa che regola la materia (art. 13 del d.P.R. 487/94: “non è permesso ai candidati di comunicare tra loro verbalmente o per iscritto, ovvero di mettersi in relazione con altri salvo che con gli incaricati della vigilanza ed i membri della commissione”; art. 14 comma 2: secondo il quale lo svolgimento delle prove scritte “senza apporvi sottoscrizioni né altro contrassegno”) e la precisazione della ratio della suddetta disciplina, volta a garantire non solo il principio di uguaglianza tra i candidati, ma anche il buon andamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione (C.d.S. A.P. 26/2013) il Supremo Consesso ha esaminato le peculiarità del caso in questione. Il Consiglio di Stato ha precisato infatti che, a prescindere dalla mancanza di rilevanza delle anomalie redazionali (presenti nella c.d. brutta copia) ai fini del violazione dell’anonimato (valutazione sulla quale, peraltro, esprime parere difforme da quello espresso dal giudicie di primo grado), nel caso di specie il concorsista con il proprio comportamento, più precisamente attraverso l’esternazione delle modalità di compilazione della prova scritta, e la situazione di fatto in cui le prove si sono svolte (trattasi di concorso cui hanno partecipato solo cinque candidati), hanno concorso ad infrangere il presupposto dell’anonimato che permea le selezioni concorsuali. “La violazione dell’obbligo di garantire l’anonimato della prove viene dunque nel caso di specie a ricondursi non solo all’inosservanza della regola primaria che impone la redazione di un compito privo di segni di potenziale riconoscibilità dell’autore, ma anche all’aver il candidato esternato il criterio redazionale osservato con comunicazione verbale idonea a renderlo conoscibile da parte di terzi”, a nulla rilevando la mancanza di un effettivo riconoscimento, invero, “a fronte dell’esigenza di assicurare l’indipendenza di giudizio dell’organo valutatore non occorre accertare se il riconoscimento della prova di un candidato si sia effettivamente determinato, essendo sufficiente la mera, astratta possibilità dell’avverarsi di una tale evenienza.”. (c.d.s. 3747/13 del 2013); “la violazione dell’anonimato nei riguardi della Commissione nei pubblici concorsi comporta, insomma, un’illegittimità da pericolo c.d. astratto e cioè un vizio derivante da una violazione della presupposta norma d’azione irrimediabilmente sanzionato dall’ordinamento in via presuntiva, senza necessità di indagine sull’effettiva lesione della regola di imparzialità in sede di correzione” (A.P. 26/13). Viene di contro esclusa la rilevanza identificativa di alcuni contrassegni, quali l’indicazione dell’ora di inizio e termine delle prove o degli argomenti da sviluppare all’interno dell’elaborato, nonché di interventi correttivi dello stesso, sulla considerazione che “non si discosta, invero, dalle ordinarie modalità redazionali l’indicazione nella minuta dell’elaborato dell’ordine degli argomenti cui dare articolato sviluppo e l’apposizione dell’arco temporale di durata della prova, non essendo di norma consentito in tale sede l’utilizzo di fogli diversi da quelli messi a disposizione dalla commissione” (c.d.s 102/13). VA |
Inserito in data 28/05/2014 CORTE DI CASSAZIONE, TERZA SEZIONE PENALE - SENTENZA 15 maggio 2014, n. 20238 Sulla responsabilità penale dell’agente provocatore La Suprema Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi in merito alla configurabilità di una responsabilità penale, anche a titolo di concorso morale, dell’agente provocatore. Con la pronuncia in commento, infatti, dopo aver operato una prima distinzione tra “agente infiltrato”, cui si applica la disciplina speciale che ne regola l’operato, ed “agente provocatore”, ricorda che “perché l’agente provocatore non sia punibile, occorre che egli abbia assunto una posizione marginale rispetto alla realizzazione dell'illecito, nel senso di non essersi spinto al punto da cagionare, con rilevanza causale, l'evento criminoso, il quale non deve essere da lui sollecitato, ma occorre che il fatto di reato, nell'ideazione e nella realizzazione, sia riconducibile alla volontà del provocato”. Nel caso di specie la problematica era stata sollevata con riferimento alla possibilità o meno di utilizzare ai fini probatori i risultati conseguiti in violazione dell’art. 191 c.p.c. (in mancanza dei presupposti richiesti dalla legge per la sussistenza dell’ipotesi di agente infiltrato). Gli Ermellini hanno osservato come “non si verte in tema di inutilizzabilità della prova allorquando l'intervento degli agenti si limiti a disvelare un'intenzione criminosa già esistente, anche se allo stato latente, senza averla determinata nell'imputato in modo essenziale”, in caso contrario, infatti, il giudizio di svolgerebbe in violazione dell’art. 6 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. Invero, “mentre non lede il diritto all'equo processo l'intervento della polizia giudiziaria (…) che si limiti a disvelare un'intenzione criminosa in fieri, contrasta con l'equa amministrazione della giustizia un intervento di agenti provocatori che sia essenziale per fare commettere un reato a chi non era intenzionato a porlo in essere” (Sez. 3, 09/05/2013 n. 37805, cit.). La Corte di legittimità, inoltre, ha ricordato come in tali ipotesi non possa trovare applicazione neanche l’art. 49 c.p. (sul reato impossibile) in quanto l’impossibilità del verificarsi dell’evento deve essere valutata con riferimento alla inidoneità dell’azione tramite un giudizio ex ante: così non è nel caso in cui il fatto sia stato impedito dal tempestivo intervento dell’agente “sicché l'attività dell'agente provocatore, essendo causa estrinseca per nulla incidente sull'attitudine della condotta del reo a raggiungere il risultato voluto, non esclude l'efficacia causale della condotta stessa “ (v. 39216/2013). VA
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Inserito in data 27/05/2014 CORTE DI CASSAZIONE, SECONDA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 20 maggio 2014, n. 11035 Sull’identificazione del bene oggetto di donazione indiretta Con la sentenza in esame, gli Ermellini affermano che “in tema di donazione indiretta, con riguardo alla vicenda dell'edificazione, con denaro del genitore, su terreno intestato a figli (a seguito di precedente donazione indiretta), il bene donato può ben essere identificato, non nel denaro, ma nello stesso edificio realizzato - senza che a ciò sia di ostacolo l'operatività dei principi sull'acquisto per accessione -, tutte le volte in cui, tenendo conto degli aspetti sostanziali della vicenda negoziale (nella specie alternativamente indicata dal giudice del merito come appalto o come contratto a favore di terzi) e dello scopo ultimo perseguito dal disponente, l'impiego del denaro a fini edificatori sia compreso nel programma negoziale perseguito dal genitore donante”. Si tratta, peraltro, di un orientamento in linea con la pronuncia del 5 agosto 1992, n. 9282, con cui le Sezioni Unite hanno enunciato il principio secondo cui “nell'ipotesi di acquisto di un immobile con denaro proprio del disponente ed intestazione ad altro soggetto, che il disponente medesimo intenda in tal modo beneficiare, con la sua adesione, la compravendita costituisce strumento formale per il trasferimento del bene ed il corrispondente arricchimento del patrimonio del destinatario, e, quindi, integra donazione indiretta del bene stesso, non del denaro, sicché, in caso di collazione, secondo le previsioni dell'art. 737 cod. civ., il conferimento deve avere ad oggetto l'immobile, non il denaro impiegato per il suo acquisto”. Invero, “alla base di questa soluzione - convalidata anche dalla giurisprudenza successiva (Sez. II, 29 maggio 1998, n. 5310; Sez. II, 22 settembre 2000, n. 12563; Sez. II, 6 novembre 2008, n. 26746; Sez. I, 12 maggio 2010, n. 11496) - vi è la sottolineatura che, nel caso del denaro corrisposto dal donante al donatario allo specifico scopo dell'acquisto del bene o mediante il versamento diretto dell'importo all'alienante o mediante la previsione della destinazione della somma donata al trasferimento immobiliare, c'è un collegamento tra l'elargizione del danaro e l'acquisto del bene da parte del beneficiario”. EMF
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Inserito in data 27/05/2014 CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 21 maggio 2014, n. 139 Sulla q.l.c. dell’omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali Con la sentenza in epigrafe, il Giudice delle Leggi dichiara non fondata, in riferimento all’art. 3, comma 1, della Costituzione, “la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1-bis, del decreto-legge 12 settembre 1983, n. 463 (Misure urgenti in materia previdenziale e sanitaria e per il contenimento della spesa pubblica, disposizioni per vari settori della pubblica amministrazione e proroga di taluni termini), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 11 novembre 1983, n. 638, il quale punisce con la sanzione penale della reclusione fino a tre anni e della multa fino a 1.032,00 euro il datore di lavoro che omette il versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali operate sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti”. In particolare, l’omessa previsione della soglia di non punibilità nella disciplina dell’omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali operate sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti non può essere comparata all’art. 10-bis del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, che punisce «con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituti, per un ammontare superiore a cinquantamila euro per ciascun periodo di imposta». Infatti, mentre la ratio della norma sospettata di illegittimità costituzionale “è quella di ovviare al fenomeno costituito dalla grave forma di evasione, quale quella contributiva, con un inasprimento delle sanzioni”; la previsione invocata dal Giudice rimettente (art. 10-bis del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74) a fondamento dell’irragionevolezza “è stata dettata in attuazione della «Delega al Governo per la depenalizzazione dei reati minori e modifiche al sistema penale e tributario», i cui principi e criteri direttivi indicano la diversa finalità perseguita dal legislatore penale nel prevedere «un ristretto numero di fattispecie […] caratterizzate da rilevante offensività per gli interessi dell’erario», con «soglie di punibilità idonee a limitare l’intervento penale ai soli illeciti economicamente significativi»”. L’obiettivo perseguito dalla normativa censurata è, altresì, rafforzato dalla previsione contenuta nell’art. 2116 del codice civile, secondo cui le prestazioni previdenziali e assistenziali «sono dovute al prestatore di lavoro, anche quando l’imprenditore non ha versato regolarmente i contributi dovuti alle istituzioni di previdenza e di assistenza», trattandosi di “logico corollario delle finalità di protezione sociale inerente ai sistemi di assicurazione obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti” (Corte Costituzionale, sentenza n. 347 del 1997). D’altra parte, “anche sul piano della tipizzazione della fattispecie penale emergono sostanziali differenze tra i reati posti a confronto”, atteso che “la norma censurata prevede un reato a consumazione istantanea con una speciale causa di estinzione collegata al versamento tardivo delle ritenute previdenziali entro tre mesi dalla contestazione”; mentre, di contro, “l’art. 10-bis del d.lgs. n. 74 del 2000 − in ossequio alla diversa finalità dell’opzione punitiva prescelta − introduce una condizione oggettiva di punibilità, che impedisce di configurare il disvalore penale delle condotte non ritenute di rilevante offensività”. EMF |
Inserito in data 26/05/2014 CORTE DI CASSAZIONE, SECONDA SEZIONE CIVILE - SENTENZA 19 maggio 2014, n.10965 Garanzia per vizi è diritto potestativo: a fini interruttivi occorre domanda giudiziale Gli Ermellini, intervenendo in un giudizio in tema di compravendita e garanzia per vizi del bene che ne costituisce oggetto, sottolineano la natura di diritto potestativo propria della posizione giuridica soggettiva dell’acquirente. Pertanto, per interrompere la prescrizione annuale – prevista ex articolo 1495 cod. civ. – ai fini dell’esercizio dell’azione edilizia, è necessario che l’acquirente provveda alla proposizione di domanda giudiziale e non solo ad un atto di costituzione in mora. Quest’ultimo adempimento, infatti, come ha già sottolineato copiosa giurisprudenza, per il disposto dell'art. 1219, primo comma, cod. civ., si attaglia ai diritti di credito e non anche ai diritti potestativi. (Cfr. S.C. 20332/07; e anche utilmente S.C. 25468/10), quindi non sarebbe sufficiente per la posizione in esame. CC
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Inserito in data 26/05/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 22 maggio 2014, n. 2649 Prolungamento di una via: è una mera variante semplificata allo strumento urbanistico I Giudici amministrativi, uniformandosi alla posizione del Collegio di primo grado, evidenziano come la scelta di prolungare una pubblica via – quale quella oggetto dell’odierna censura, costituisca una variante semplificata allo strumento urbanistico. Non si richiedono, pertanto, gli adempimenti procedimentali più complessi – previsti, invece, ad un livello più generale, ossia ove si incida sull’assetto generale del PRG. In seconda battuta, il Collegio ricorda l’impostazione giurisprudenziale, ormai pacifica, in tema di vaglio giurisdizionale in ambito urbanistico. Si tratta, infatti, di valutazioni di merito sottratte al sindacato giurisdizionale di legittimità, salvo che risultino inficiate da errori di fatto o abnormi illogicità ovvero che, per quanto riguarda la destinazione di specifiche aree, esse risultino confliggenti con particolari situazioni che abbiano ingenerato affidamenti e aspettative qualificate. Nel caso in esame, evidenziano i Giudici del gravame, non appare che l’operato amministrativo sia gravato di un tale rilievo di illegittimità – come lamentato dagli appellanti. Si conferma, pertanto, il rigetto delle doglianze – già espresso in primo grado. CC |
Inserito in data 24/05/2014 CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 21 maggio 2014, n. 137 Sull'attribuzione dei poteri all'autorità per l'energia elettrica e il gas Con la pronuncia in epigrafe, si evince che non spetta allo Stato e, per esso, al Presidente del Consiglio dei ministri attribuire, con proprio decreto, del 20 luglio 2012 – Individuazione delle funzioni dell'Autorità per l'energia elettrica ed il gas attinenti alla regolazione e al controllo dei servizi idrici, ai sensi dell'articolo 21, comma 19 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214 – poteri, compiti e funzioni all'Autorità per l'energia elettrica ed il gas, in relazione al servizio idrico, nei confronti delle Province autonome di Trento e di Bolzano e, per l'effetto, annulla le lettere e) ed o) dell'art. 3, c. 1, del predetto decreto, nella parte in cui si riferiscono anche alle Province autonome di Trento e di Bolzano. Specificamente, l'impugnato art. 3, al 1°comma, attribuisce alla sopracitata Autorità una serie di compiti e di funzioni che presuppongono un sistema territoriale ed organizzativo del servizio che non trova riscontro alcuno nella Provincia autonoma di Trento e che, altresì, rappresentano espressione di poteri regolatori anche in materia tariffaria, di vigilanza e sanzionatori che non possono ritenersi legittimamente esercitabili nei confronti delle Province autonome, in virtù delle competenze provinciali e di attuazione in tema di servizio idrico. Occorre sottolineare, inoltre, che è già stato rilevato – dalla sentenza n. 233 del 2013 della Corte Costituzionale – che in coerenza con detti principi, nel d.P.C.m. 20 luglio 2012, recante l'individuazione delle funzioni dell'Autorità per l'energia elettrica ed il gas attinenti alla regolazione e al controllo dei servizi idrici, all'art. 4, è stabilito che “sono in ogni caso fatte salve le competenze delle Regioni a statuto speciale e delle Province autonome di Trento e di Bolzano ai sensi dei rispettivi statuti speciali e delle relative norme di attuazione”. Da tale norma, la quale chiude il decreto in esame, è possibile pacificamente far discendere l'inapplicabilità, nella Provincia autonoma di Trento, delle richiamate previsioni contenute nell'impugnato art. 3, 1° comma.
Si sottolinea, che le clausole di salvaguardia, analoghe a quella contenuta nell'art. 4 del decreto in oggetto, rappresentano un limite all'applicazione delle norme statali incompatibili con gli statuti speciali e le relative norme di attuazione, escludendo il contrasto con il riparto costituzionale delle competenze, alla luce della sentenza n. 241 del 2012 della Corte Costituzionale. GMC |
Inserito in data 24/05/2014 CORTE DI CASSAZIONE - TERZA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 20 maggio 2014, n. 11090 Sull'opposizione all'esecuzione L'opposizione all'esecuzione trova il suo fondamento negli articoli 615 e 616 del c.p.c. Essa, ha ad oggetto la contestazione delle ragioni proprie dell'esecuzione medesima. Invero, il comma 1° dell'art. 615 del c.p.c., prevede che mediante l'opposizione si contesta il diritto del creditore di procedere con l'esecuzione forzata, diritto, il quale, condiziona la legittimità del processo esecutivo stesso. Quanto ai legittimati a proporla, questi sono tutti coloro i quali – in concreto – subiscono l'esecuzione anche quando la veste di debitore non risulti direttamente dal titolo esecutivo: essi saranno, il debitore, il terzo proprietario del bene pignorato ovvero un soggetto terzo espropriato. Quanto ai convenuti – ossia i c.d. legittimati passivi – questi saranno il creditore procedente e quelli intervenuti e dotati di titolo esecutivi. In generale, con l'opposizione all'esecuzione, sarà possibile negare l'esistenza stessa del titolo esecutivo ab origine, contestare la sua nullità sopravvenuta per caducazione, negare la sua idoneità a fondare l'esecuzione da parte o nei confronti di un soggetto determinato o, addirittura, a fondare l'esecuzione stessa ed infine negare la corrispondenza della misura richiesta con il contenuto del titolo. Nello specifico caso in cui, nel corso del giudizio di opposizione all'esecuzione, il diritto per cui si procede esecutivamente – fondato su un titolo esecutivo giudiziale ancora sub iudice – risulta negato parzialmente da una successiva sentenza di merito, pur non definitiva, emessa nel giudizio in cui se ne discute, o per riconoscimento della parziale inesistenza originaria o per riconoscimento di una parziale inesistenza in forza di fatto estintivo sopravvenuto fatto valere in quel giudizio, il giudice dell'esecuzione che decida l'opposizione, deve rigettarla per la parte di credito riconosciuta esistente ed accoglierla per la parte residua, dichiarando, a seconda dei casi, il momento al quale risale l'accertata inesistenza. Tale principio, si applica anche nel caso in cui l'esecuzione sia stata iniziata sulla base di un decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo e l'opposizione ad esso venga accolta parzialmente, così come emerge anche dall'art. 653 c.p.c., 2°comma, alla luce del quale “Se l'opposizione è accolta solo in parte, il titolo esecutivo è costituito esclusivamente dalla sentenza, ma gli atti di esecuzione già compiuti in base al decreto conservano i loro effetti nei limiti della somma o della quantità ridotta”. GMC
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Inserito in data 23/05/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 22 maggio 2014, n. 2651 Sull’esercizio del potere di acquisizione sanante ex art. 42-bis dpr 327/2001 Il potere di acquisizione sanante ex art. 42-bis dpr 327/2001 può essere esercitato anche quando vi sia stato un giudicato di condanna alla restituzione conseguente all’annullamento di un provvedimento di esproprio o all’annullamento di un provvedimento di acquisizione sanante emanato in vigenza del previgente art. 43 dpr 327/2001. Ciò si desume dal tenore letterale dello stesso art. 42 bis, comma 8: “le disposizioni del presente articolo trovano altresì applicazione ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore ed anche se vi è già stato un provvedimento di acquisizione successivamente ritirato o annullato”. Pertanto, il vecchio provvedimento di acquisizione sanante, emesso in base ad una legge dichiarata incostituzionale, non può essere sanato dal sopravvenire di una norma legittimante. Ciò è escluso anche dalla stessa dinamica del potere amministrativo, che, salvo espresse previsioni di legge o precise statuizione giudiziali in funzione satisfattiva del ricorrente, non può avere effetti sananti retroattivi. Ne segue che il giudicato di annullamento del provvedimento di acquisizione sanante e di restituzione del bene al privato cessa di avere efficacia in ragione dell’esercizio postumo dell’autonomo e nuovo potere conferito di cui all’art. 42-bis. CDC |
Inserito in data 23/05/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 22 maggio 2014, n. 2638 Danno da ritardo: differenza tra risarcimento e indennizzo L’art. 2-bis, comma 1, l. 241/1990 non collega il risarcimento del danno al mero superamento del termine di conclusione del procedimento amministrativo senza che sia intervenuta l’emanazione del provvedimento finale, ma pone l’inosservanza del termine previsto come presupposto del danno ingiusto cagionato “in conseguenza” dell’inosservanza dolosa o colposa di detto termine. Il successivo comma 1-bis, invece prevede non il risarcimento del danno, ma il riconoscimento di un indennizzo per il solo fatto del superamento del termine. Ambedue le ipotesi, nel considerare l’inosservanza di un termine per la conclusione di un procedimento, presuppongono che si verta nell’ambito di un procedimento amministrativo, non potendo le norme applicarsi a casi di attività della pubblica amministrazione diversa da quella procedimentalizzata. CDC |
Inserito in data 22/05/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 20 maggio 2014, n. 2526 Limitata sindacabilità delle valutazioni tecniche opinabili I Giudici di Palazzo Spada si sono pronunciati sulla legittimità della valutazione tecnica di una conferenza di servizi. Quest’ultima aveva assimilato il MTBE ad un idrocarburo a catena lineare a basso numero di atomi di carbonio, al fine d’individuarne il valore di concentrazione limite ammissibile nelle acque sotterranee delle aree interessate da un procedimento di bonifica ambientale. Tale operazione analogica trovava il suo fondamento normativo nell’art. 1, comma 5, dell’allegato 1 al citato d.m. n. 479 del 1999, secondo cui “per le sostanze non indicate in tabella si adottano i valori di concentrazione limite accettabili riferibili alla sostanza più affine tossicologicamente”. Poiché la valutazione di “affinità” presenta in sé un ineliminabile grado di fisiologica opinabilità, il Consiglio di Stato ha ritenuto di dovere circoscrivere il proprio potere di controllo. Infatti, “Come hanno recentemente affermato anche le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sentenza 20 gennaio 2014, n. 1103), il sindacato di legittimità del giudice amministrativo sui provvedimenti amministrativi comporta la verifica diretta dei fatti posti a fondamento del provvedimento impugnato e si estende anche ai profili tecnici, il cui esame sia necessario per giudicare della legittimità di tale provvedimento; ma quando in siffatti profili tecnici siano coinvolti valutazioni ed apprezzamenti che presentano un oggettivo margine di opinabilità - come nel caso in esame - detto sindacato, oltre che in un controllo di ragionevolezza, logicità e coerenza della motivazione del provvedimento impugnato, è limitato alla verifica che quel medesimo provvedimento non abbia esorbitato dai margini di opinabilità sopra richiamati, non potendo il giudice sostituire il proprio apprezzamento a quello Amministrazione ove questa si sia mantenuta entro i suddetti margini”. Nel caso di specie, la valutazione è stata considerata scientificamente plausibile e, poiché l’Amministrazione aveva indagato le caratteristiche della sostanza, ricostruito le difformi posizioni scientifiche sul punto e poi optato per una delle tesi in campo argomentando in modo ragionevole. TM |
Inserito in data 22/05/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 21 maggio 2014, n. 2610 La disciplina ante CPA dell’azione risarcitoria per danno da provvedimento illegittimo Riprendendo l’orientamento espresso dall’Adunanza Plenaria, con la sentenza n. 3 del 2011, il Consiglio di Stato ha riformato la sentenza del T.R.G.A. di Bolzano che aveva dichiarato inammissibile un ricorso giurisdizionale teso ad ottenere il risarcimento del danno da provvedimento amministrativo illegittimo, senza la previa impugnazione del provvedimento medesimo. Infatti, la Sesta sezione accede all’idea che, già prima dell’entrata in vigore del C.P.A., sussistesse un rapporto di pregiudizialità sostanziale e non di rito tra l’azione di annullamento e l’azione risarcitoria. Nel merito, però, rigetta la domanda risarcitoria, in quanto prescritta. Infatti, per un verso, si rileva che la responsabilità della P.A. ha natura extracontrattuale, con la conseguente applicazione del termine quinquennale. Per altro verso, abbandonata la tesi della pregiudizialità amministrativa e non essendo applicabile ratione temporis l’art. 30, c. 5, CPA, si afferma che la prescrizione decorreva dalla data di perfezionamento dell’illecito, ossia dalla data di adozione dell’atto illegittimo. Infine, si nega che la proposizione dell’azione di annullamento possa determinare un effetto interruttivo-sospensivo del termine di prescrizione dell’azione risarcitoria, ai sensi degli artt. 2943, c. 1, e 2945, c.2 c.c., stante la diversità di petitum e di causa petendi che connotano tali azioni e l’assenza di un rapporto di accessorietà. TM
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Inserito in data 21/05/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 20 maggio 2014, n. 2565 Nullità della riperimetrazione effettuata in carenza assoluta di potere Con la sentenza in commento il Consiglio di Stato si è pronunciato sulla competenza a decidere la riperimetrazione del vincolo paesaggistico e, conseguentemente, sulla natura del vizio che inficia il provvedimento emesso in violazione delle relativa disciplina. Nel caso di specie l’Ufficio legislativo del Ministero per i beni e le attività culturali aveva rilevato che “il potere di integrazione degli elenchi delle bellezze naturali di cui alla l. 1497/39 (potere di dichiarazione di interesse pubblico) spetta distintamente e autonomamente sia allo Stato, sia alla Regione, con la conseguenza della intangibilità in via unilaterale dei vincoli apposti da ciascuno di tali livelli di governo. Pertanto la Direzione regionale per i beni paesaggistici della Calabria ha sottolineato che “il provvedimento unilaterale di riperimetrazione del vincolo adottato in modo autonomo da uno solo dei richiamati livelli di governo sia da ritenersi nullo per difetto assoluto di incompetenza”. Il Supremo Consesso, avallando la decisione presa in primo grado, ha respinto il ricorso presentato contro il provvedimento che ha dichiarato la suddetta nullità. Invero, affermata la correttezza dell’assunto in merito alla distribuzione del potere di integrazione degli elenchi di bellezze naturali, ne consegue l’assoluta intangibilità unilaterale, da parte di ciascun livello di governo (Stato o Regione), delle determinazioni inizialmente adottate da ciascuno di essi nella materia in questione (v. C. Cost. 334/98). A riprova di quanto affermato i giudici di Palazzo Spada invocano il dettato letterale dell’art. 141-bis che, con l’avverbio “rispettivamente” sembra escludere la possibilità di intervenire con un’integrazione /riperimetrazione da parte di un livello di governo sulle decisioni prese dall’altro (imposizione originaria del vincolo). Posta, dunque, l’esistenza di una carenza di potere nel caso di specie, la sentenza ha statuito anche in merito alla natura della patologia che affigge il decreto regionale emesso in violazione dei principi sopra esposti. Anche in questo caso i giudici di Palazzo Spada hanno convenuto con quanto affermato dal tribunale di merito e, applicando l’art. 21-septies l. 241/90, affermato l’esistenza di un vizio radicale di nullità ricorrendosi in un’ipotesi di difetto assoluto di attribuzione la quale, come più volte dichiarato, “sussiste anche nel caso della c.d. incompetenza assoluta, ossia nelle ipotesi in cui l’amministrazione del cui operato si discute abbia adottato un provvedimento la cui adozione rientrava nella sfera di attribuzioni di un plesso amministrativo radicalmente diverso (CDS 4679/11; 739/05)”, a nulla rilevando la partecipazione degli organi periferici del ministero nella formazione del provvedimento (espressione del rispetto del principio di leale cooperazione). VA |
Inserito in data 21/05/2014 CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. LAVORO - ORDINANZA INTERLOCUTORIA, 20 maggio 2014, n. 11053 Art. 80 comma 19 l. 388/00 e dubbi di legittimità costituzionale La Sezione Lavoro della Suprema Corte di Cassazione ha sottoposto al vaglio della Corte Costituzionale l’art. 80 comma 19 l. 388/2000 sollevando questione di legittimità costituzionale della norma in questione nella parte in cui subordina al requisito della titolarità della carta di soggiorno la concessione della pensione e della indennità di accompagnamento per ciechi assoluti e dell’assegno sociale maggiorato, agli stranieri legalmente soggiornanti nel territorio dello Stato. La norma così formulata, infatti, si porrebbe in contrasto con alcuni principi fondamentali tutelati sia dalla nostra Costituzione che dalla normativa comunitaria (quali il principio di uguaglianza ed il diritto alla salute). Invero la Suprema Corte ritiene che i dubbi di legittimità costituzionali dell’art. 80 comma 19 non siano stati risolti dalle precedenti pronunce della Corte Costituzionale (intervenuta proprio sulla norma in esame. In particolare gli Ermellini osservano come la sentenza costituzionale 306/08 ha censurato la suddetta norma limitatamente alla parte in cui condizionava la concessione delle provvidenze economiche al possesso del permesso di soggiorno (il cui rilascio presupponeva il possesso di determinati requisiti reddituali). Nel far ciò la pronuncia sanciva implicitamente la legittimità del restante impianto normativo (nella parte che qui interessa il necessario presupposto della prolungata residenza nel territorio dello stato). Allo stesso modo non si può invocare la più recente pronuncia costituzionale (sent. 40/2013) che, pur avallando i dubbi di legittimità costituzionale del testo normativo in quanto contrastante, ex art. 117 cost., con i principi di uguaglianza e non discriminazione sanciti dalla CEDU e dalla Carta di Nizza, vertendosi in materia di diritti fondamentali della persona (non potendo considerarsi ragionevole una differenziazione di trattamento che, ignorando il carattere concretamente non episodico e di non breve durata del regolare soggiorno nel territorio, si fondi sulla mera mancanza della carta di soggiorno) è intervenuta in modo settoriale. Pertanto il Collegio precisato che “avuto riguardo al tenore letterale delle norme sospettate di incostituzionalità, non è possibile fornire una interpretazione costituzionalmente orientata delle stesse né ritenere che siano ormai espunte dall’ordinamento sulla base delle pronunce già emesse dal Giudice delle Leggi, aventi efficacia limitata alle prestazi9oni di volta involta necessari” ha ritenuto opportuno sollecitare un nuovo intervento della Corte Costituzionale, non essendo neanche possibile procedere alla disapplicazione delle norme in contrasto con l’art. 14 CEDU per il carattere di “norma di principio”, non self executing, di quest’ultima. VA
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Inserito in data 20/05/2014 CORTE DI CASSAZIONE, SECONDA SEZIONE CIVILE - SENTENZA 14 maggio 2014, n.10607 Condominio: persistenza e continuità dei poteri dell’amministratore Il Collegio di piazza Cavour, specificando – con riguardo al caso concreto – l’applicabilità ratione temporis dell’articolo 1129 cod. civ. ante modifica apportata dall'art. 9 della legge n. 220/12, sottolinea la persistenza dei poteri dell’amministratore di condominio, fin quando non venga sostituito da altro successore, nominato dal Giudice o dai membri dello stesso stabile. Infatti, considerata la delicatezza del ruolo, oltrechè delle mansioni affidate all’amministratore, gli Ermellini evidenziano il carattere perenne e necessario dell'ufficio che questi ricopre, tale da non ammettere soluzioni di continuità, né consentire interruzioni nel relativo esercizio. Pertanto, respingendo il ricorso proposto da taluni condòmini che lamentavano la validità di determinate delibere adottate nelle more di una nuova nomina, e richiamando giurisprudenza ormai certa (Cfr. S.C. nn. 7619/06, 739/88 e 572/76; conforme, n. 740/07), la Corte Suprema ribadisce il ruolo dell’amministratore di condominio, unitamente alla conseguente validità dell’assemblea da questi retta. Questa, infatti, è regolarmente riunita nella pienezza dei suoi poteri indipendentemente dagli eventuali vizi della precedente delibera di nomina dell'amministratore che l'ha convocata. CC
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Inserito in data 20/05/2014 CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA, SEZIONE QUARTA, SENTENZA 30 aprile 2014, causa C-26/13 Cambio di valuta, abusività e poteri del Giudice nazionale La Corte di Giustizia europea compie un ulteriore passo avanti in tema di tutela dei consumatori ed abusività di eventuali clausole inserite nei contratti tra questi ed i professionisti. In particolare, la vicenda in esame riguarda l’opportunità che all’atto del conferimento di un prestito, erogato in valuta estera, il consumatore possa adeguatamente vagliare le conseguenze economiche derivanti dall'applicazione, al rimborso del prestito, di un corso diverso da quello che avrebbe avuto se fosse stata mantenuta la moneta nazionale e se il contratto fosse stato concluso nell’ambito dei nostri confini. In caso di abusività conclamata, quindi, il Collegio del Lussemburgo – confermando posizioni già espresse in merito – riconosce come ammissibile l’intervento del Giudice nazionale. Questi, infatti, potrà sostituire ad una clausola abusiva una disposizione di diritto nazionale al fine di ristabilire un equilibrio tra le parti del contratto e mantenere la validità di quest'ultimo. CC
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Inserito in data 20/05/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 6 maggio 2014, n. 2312 Provvedimento di inibitoria della detenzione armi: ininfluente il rapporto di affinità Il Collegio di Palazzo Spada ricorda che, per quanto ampia possa essere la sfera di discrezionalità di cui gode l’Amministrazione nel governo della disponibilità di armi da parte dei privati cittadini, incontra, pur sempre, il limite della ragionevolezza e postula un’adeguata ponderazione. D’altra parte, l’eventuale provvedimento di inibitoria della detenzione di armi, quale quello qui censurato, costituisce pur sempre una statuizione limitativa della sfera giuridica del destinatario e, come tale, deve essere congruamente motivata. Pertanto, non può fondarsi su un rapporto di affinità con soggetti socialmente pericolosi, quale quello presuntivamente imputato all’odierno appellante. Del resto, in fattispecie analoghe, il Collegio si è già pronunciato in tal senso; tanto più, come nel caso in esame, laddove non siano emersi rilievi ed inadempienze quanto al corretto assolvimento degli obblighi di custodia delle armi detenute. L’appello, pertanto, viene accolto ma non preclude, evidenziano i Giudici, che l’autorità di pubblica sicurezza possa dedicarsi all’esercizio dei poteri di controllo e di riesame, specie ove emergano elementi di fatto tali da arrecare un vulnus alle condizioni di sicurezza, ordine pubblico ed incolumità delle persone. CC |
Inserito in data 19/05/2014 TAR LAZIO – ROMA, SEZ. III BIS, 14 maggio 2014, n. 5011 Nei concorsi pubblici, il servizio pre-ruolo deve essere valutato come quello di ruolo La questione posta al vaglio del Collegio riguarda l’annullamento del bando di concorso emanato con D.D.G. del Ministero dell’Istruzione, della Università e della Ricerca 13 luglio 2011, avente ad oggetto l’indizione del concorso per esami e titoli per il reclutamento di dirigenti scolastici, “nella parte in cui, all’art. 3 – comma 1 – Requisiti di ammissione – prescrive (in applicazione dell’art. 3 comma 618 della legge 296/2006) che il requisito d’insegnamento effettivamente prestato di almeno cinque anni deve essere maturato dopo la nomina in ruolo, con esclusione, quindi, del complessivo servizio scolastico pre-ruolo”. Nell’accogliere le doglianze dei precari, invero, i Giudici romani sono consapevoli del fatto che la prescrizione contenuta in tale norma determini “una insanabile antinomia con il principio di non discriminazione di cui alla clausola 4 dell’Accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, allegato alla Direttiva del Consiglio dell’Unione Europea 28 giugno 1999/70/CEE”. D’altra parte, già la Corte di Giustizia Europea, con la sentenza nel procedimento C-177/10, pubblicata in data 8.9.2011, ha sancito il principio secondo il quale, “nei concorsi pubblici, il servizio pre-ruolo deve essere valutato come quello di ruolo”. Peraltro, tali principi, “con specifico riferimento alla richiesta dell’integrale valutazione del servizio pre ruolo, sono stati ribaditi dalla successiva sentenza della Corte di Giustizia (Sesta Sezione) del 18 ottobre 2012 nei procedimenti Rosanna Valenza (C-302/11 e altri) contro Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato”. EMF |
Inserito in data 19/05/2014 CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 15 maggio 2014, n. 125 Tutela della concorrenza e competenza legislativa esclusiva statale Per la giurisprudenza costituzionale è pacifico “che la nozione di concorrenza di cui al secondo comma, lettera e), dell’art. 117 Cost. riflette quella operante in ambito comunitario e comprende: a) sia gli interventi regolatori che a titolo principale incidono sulla concorrenza, quali le misure legislative di tutela in senso proprio, che contrastano gli atti ed i comportamenti delle imprese che incidono negativamente sull’assetto concorrenziale dei mercati e che ne disciplinano le modalità di controllo, eventualmente anche di sanzione; b) sia le misure legislative di promozione, che mirano ad aprire un mercato o a consolidarne l’apertura, eliminando barriere all’entrata, riducendo o eliminando vincoli al libero esplicarsi della capacità imprenditoriale e della competizione tra imprese, rimuovendo, cioè, in generale, i vincoli alle modalità di esercizio delle attività economiche (ex multis, sentenze n. 270 e n. 45 del 2010, n. 160 del 2009, n. 430 e n. 401 del 2007)”. Invero, in “questa seconda accezione, attraverso la «tutela della concorrenza», vengono perseguite finalità di ampliamento dell’area di libera scelta dei cittadini e delle imprese, queste ultime anche quali fruitrici, a loro volta, di beni e di servizi (sentenza n. 401 del 2007)”. In particolare, la Corte ha osservato che “Si tratta dell’aspetto più precisamente di promozione della concorrenza, che costituisce una delle leve della politica economica statale e, pertanto, non può essere intesa soltanto in senso statico, come garanzia di interventi di regolazione e ripristino di un equilibrio perduto, ma anche in quell’accezione dinamica, ben nota al diritto comunitario, che giustifica misure pubbliche volte a ridurre squilibri, a favorire le condizioni di un sufficiente sviluppo del mercato o ad instaurare assetti concorrenziali”(sentenze n. 299 del 2012, n. 80 del 2006, n. 242 e n. 175 del 2005, n. 272 e n. 14 del 2004). Tuttavia, “l’efficienza e la competitività del sistema economico risentono della qualità della regolazione, la quale condiziona l’agire degli operatori sul mercato: una regolazione delle attività economiche ingiustificatamente intrusiva – cioè non necessaria e sproporzionata rispetto alla tutela di beni costituzionalmente protetti (sentenze n. 247 e n. 152 del 2010, n. 167 del 2009) – genera inutili ostacoli alle dinamiche economiche, a detrimento degli interessi degli operatori economici, dei consumatori e degli stessi lavoratori e, dunque, in definitiva reca danno alla stessa utilità sociale”. Pertanto, “l’eliminazione degli inutili oneri regolamentari, mantenendo però quelli necessari alla tutela di superiori beni costituzionali, è funzionale alla tutela della concorrenza e rientra a questo titolo nelle competenze del legislatore statale” (sentenze n. 299 e n. 200 del 2012). Anche alla luce di tali rilievi, il Giudice delle Leggi dichiara l’illegittimità costituzionale degli artt. 9, 43 e 44 della legge della Regione Umbria 6 maggio 2013, n. 10 per contrasto con l’articolo 117, co. 2, lett. e), Cost.. L’art. 9 della legge regionale suddetta, infatti, nell’integrare “la disciplina dei «poli commerciali» di cui all’art. 10-bis della legge della Regione Umbria 3 agosto 1999, n. 24 (Disposizioni in materia di commercio in attuazione del D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 114), aggiungendovi i commi da 3-bis a 3-sexies”, introduce “nuovi vincoli all’apertura degli esercizi commerciali ponendosi in contrasto, tra l’altro, con i principi di liberalizzazione” (art. 31, comma 2, del d.l. n. 201 del 2011 e art. 1 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 24 marzo 2012, n. 27). Del pari, l’art. 43, nel sostituire l’art. 7 della legge della Regione Umbria 23 luglio 2003, n. 13 (Disciplina della rete distributiva dei carburanti per autotrazione), “introduce vincoli più restrittivi all’apertura di nuovi impianti di distribuzione di carburanti, prevedendo l’obbligo di erogare contestualmente gasolio e benzina in contrasto con quanto previsto dall’83-bis, comma 17, del d.l. n. 112 del 2008 che vieta restrizioni che prevedano obbligatoriamente la presenza contestuale di più tipologie di carburanti”. In conclusione, anche l’art. 44 della legge reg. n. 10 del 2013, nell’aggiungere l’art. 7-ter alla legge reg. n. 13 del 2003, viola la competenza legislativa esclusiva dello Stato nella materia della «tutela della concorrenza», in quanto il legislatore regionale “subordina l’installazione di un nuovo impianto dotato di apparecchiature self-service e pre-pagamento funzionanti senza la presenza del gestore alla condizione che esso sia l’unico del Comune o che quello più vicino sia ad almeno dieci chilometri di distanza anche se ubicato in un Comune limitrofo”. EMF |
Inserito in data 18/05/2014 CORTE DI CASSAZIONE - TERZA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 14 maggio 2014, n. 10542 Locazione ad uso diverso da quello abitativo Premettendo un inquadramento di carattere generale, la disciplina codicistica del contratto di locazione, è contenuta all'interno del Titolo III, Libro IV del codice civile del 1942, il quale provvede alla "tipizzazione" dei contratti che assumono maggior rilievo nell'ordinamento giuridico. Alla luce dell'art. 1571 del codice civile, la locazione rappresenta il contratto con il quale una parte, “locatore”, si obbliga a far godere all'altra, “locatario” o “conduttore”, un bene mobile o immobile per un determinato periodo di tempo, in modo continuativo e dietro il versamento di un corrispettivo, ovvero di un canone di locazione, da corrispondere allo scadere del periodo concordato. Il riferimento al "contratto", previsto all'art. 1571 c.c., assume un notevole significato, indicando che il rapporto di locazione è un rapporto contrattuale ed ha, dunque, come fonte esclusiva un contratto. In virtù del principio consensualistico, il contratto di locazione si perfeziona con il semplice accordo delle parti, laddove l'effettiva consegna del bene locato, o la privazione temporanea del godimento di esso da parte del locatore, non incidono nè sulla formazione del contratto nè tanto meno sulla durata di esso, che è determinata dalla volontà delle parti o dalla legge, potendo rilevare solo, la prima, come inadempimento o presupposto di legittimazione del conduttore al ricorso alla tutela possessoria e, la seconda, come fonte del diritto alla riduzione del canone o, eccezionalmente, causa di scioglimento del contratto su iniziativa del conduttore. Essendo la durata del rapporto elemento determinante, secondo la definizione dell'art. 1571 c.c., è ormai dalla legge quadro n. 392 del 1978 che il legislatore ha optato per la indicazione di quella minima, onde garantire stabilità al conduttore. La locazione costituisce, quindi, un contratto di durata in quanto il protrarsi "per un dato tempo" dell'adempimento dell'obbligo a carico del locatore di far godere il bene, è condizione essenziale affinchè il contratto possa realizzare la sua funzione. Se non previsto, la locazione non potrà eccedere i trent'anni, i contratti stipulati per un periodo superiore a quello stabilito dalla legge, subirebbero una riduzione di diritto della durata, qualificabile come limitazione di ordine pubblico ed applicabile, in quanto tale, anche d'ufficio. Tuttavia, ai sensi dell'art. 1607 del c.c., con riferimento alla locazione di immobili urbani ad uso abitativo, è prevista che questa sia convenuta per l'intera vita, nonchè sino a due anni successivi alla morte dell'inquilino. Nel caso in cui non sia previsto alcun termine, si fa riferimento all'art. 1574 del c.c., che prevede diversi termini a seconda della tipologia di bene locato, alla Legge n. 431 del 1998 che, all'art. 2, prevede una durata minima di quattro anni per le locazioni abitative e di tre anni per quelle a “canone controllato” nonchè alla Legge n. 392 del 1978 che stabilisce una durata di sei anni per le locazioni di tipo produttivo e di nove anni per quelle di tipo alberghiero. Con la sentenza in epigrafe, gli Ermellini puntualizzano che in tema di locazioni ad uso diverso da quello abitativo, qualora sia stata inviata disdetta immotivata alla scadenza del secondo sessennio di durata del contratto, la richiesta da parte del locatore di adeguamento del canone sebbene in prossimità della scadenza è, indipendentemente dalla circostanza che l'effetto della provocazione della cessazione del rapporto non può risolversi unilateralmente dal locatore, essendo esso risolvibile solo per effetto di accordo negoziale espresso o tacito di entrambe le parti, un atto “di per sé” pienamente compatibile con il perdurare dell'effetto di cessazione del rapporto, in quanto risulta diretto soltanto ad assicurare che, qualora il conduttore non rilasci alla scadenza, nella misura del canone dovuto ai sensi dell'art. 1591 c.c. sia compreso l'adeguamento. GMC
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Inserito in data 18/05/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 9 maggio 2014, n. 2376 Potere di “soccorso” della stazione appaltante alla luce del d.lgs. 163/2006
I Giudici di Palazzo Spada intervengono sul c.d. “potere di soccorso” della stazione appaltante, ex art. 46, c.1, del d.lgs 163/2006.
Nel settore delle gare pubbliche, essa rappresenta, un'espressione del più generale principio di cui all'art. 6, c.1, lett. b), della Legge n. 241 del 1990, alla luce del quale, il responsabile del procedimento adotta ogni misura per l'adeguato e sollecito svolgimento dell'istruttoria e può chiedere “il rilascio di dichiarazioni e la rettifica di dichiarazioni o istanze erronee o incomplete (...)”. Il principio ivi in questione, dunque, garantisce e tutela l'esigenza di consentire la massima partecipazione alla selezione, permettendo di correggere l'eccessivo rigore delle forme e tentando, altresì, di eliminare tutte quelle situazioni di esclusioni dalle gare anche per violazioni puramente formali. |
Inserito in data 16/05/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 14 maggio 2014, n. 2502 Ammissibilità delle leggi provvedimento e condizioni di compatibilità costituzionale Le leggi provvedimento si caratterizzano per l’incisione su un numero determinato di destinatari e per il contenuto particolare e concreto. Com’è noto, la Corte Costituzionale ha più volte ribadito che non è preclusa alla legge ordinaria la possibilità di attrarre nella propria sfera di disciplina materie normalmente affidate all’Autorità amministrativa, non sussistendo un divieto di adozione di leggi a contenuto particolare e concreto. Non esiste, infatti, una riserva di amministrazione (posto che la Costituzione non garantisce ai pubblici poteri l'esclusività delle pertinenti attribuzioni gestorie); inoltre, non vi sono per il legislatore limiti diversi da quelli – formali – dell’osservanza del procedimento di formazione delle leggi, atteso che la Costituzione omette di prescrivere il contenuto sostanziale ed i caratteri essenziali dei precetti legislativi. Tuttavia, tali leggi sono ammissibili entro limiti non solo specifici, quale quello del rispetto della funzione giurisdizionale in ordine alla decisione delle cause in corso, ma anche generali, ossia il rispetto del principio di ragionevolezza e di non arbitrarietà. Pertanto, la legittimità costituzionale delle leggi-provvedimento deve essere valutata in relazione al loro specifico contenuto ed è soggetta ad uno scrutinio rigoroso di costituzionalità sotto i profili della non arbitrarietà e della non irragionevolezza della scelta legislativa. CDC |
Inserito in data 16/05/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 14 maggio 2014, n. 2495 Conferimento di incarichi dirigenziali pubblici e riparto di giurisdizione Secondo l’art. 63 del d.lgs. 165/2001, gli atti di conferimento e revoca degli incarichi dirigenziali sono di competenza del giudice ordinario del lavoro, in quanto costituiscono determinazioni negoziali assunte dalla PA con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro. Fa eccezione il solo caso in cui la contestazione non investa direttamente il corretto esercizio del potere amministrativo mediante la deduzione della non conformità a legge degli atti “organizzativi” con i quali le Amministrazioni pubbliche definiscono le linee fondamentali di organizzazione degli uffici e i modi di conferimento della titolarità degli stessi. CDC |
Inserito in data 15/05/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 14 maggio 2014, n. 2472 Diritto di accesso ai documenti fiscali del coniuge per difendersi nel giudizio di separazione Questa pronuncia accede all’indirizzo giurisprudenziale che “riconosce il diritto del coniuge, anche in pendenza del giudizio di separazione o divorzio, di accedere alla documentazione fiscale, reddituale e patrimoniale del coniuge, al fine di difendere il proprio interesse giuridico, attuale e concreto, la cui necessità di tutela è reale ed effettiva e non semplicemente ipotizzata”. In particolare, si evidenzia come le comunicazioni aventi ad oggetto i dati contenuti nell’Archivio dei rapporti finanziari dell’Agenzia delle Entrate rientrano nella nozione di documento amministrativo ex art. 22, L. n. 241/90. Secondariamente, si precisa che né la legge, né il d.m. 29 ottobre 1996, nr. 603 (di attuazione dell’art. 24, c.2, L. 241/90) hanno escluso l’ostensibilità delle comunicazioni inviate dagli operatori finanziari all’Anagrafe tributaria, come sostenuto dagli appellanti. Inoltre, si aggiunge che nel caso di specie ricorre l’ipotesi dell’accesso difensivo (ossia l’accesso è funzionale al proficuo esercizio del diritto di difesa in giudizio): di conseguenza, l’istanza di accesso è destinata a prevalere sul diritto alla riservatezza relativamente ai dati sensibili del terzo (id est del coniuge). Infine, si precisa che il regolamento predetto autorizza in questo caso l’accesso nella sola forma della “visione”. TM |
Inserito in data 15/05/2014 CORTE DI CASSAZIONE - TERZA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 5 maggio 2014, n. 10253 Irresponsabilità per violazione del diritto UE di organismi pubblici diversi dallo Stato La Corte di Cassazione afferma che l’azione risarcitoria per l’omesso tempestivo recepimento della Direttiva 96/82/CE, in materia di controllo dei rischi di incidenti rilevanti connessi con determinate sostanze pericolose, va proposta nei confronti del Presidente del Consiglio dei Ministri. In questo senso depone: a) l’art. 10 del Trattato, che obbliga gli “Stati membri” all’esecuzione degli obblighi derivanti dal Trattato; b) l’art. 1, della L. n. 86/89, secondo cui il Parlamento, con la legge comunitaria, delega al Governo l’adozione delle norme di recepimento delle direttive comunitarie; c) l’art. 5 della L. n. 400/88, che attribuisce al Presidente del Consiglio il compito di coordinare e promuovere l’azione del Governo nell’attuazione delle politiche comunitarie; d) il d.lgs. n. 334/99, secondo cui, in caso d’inerzia del Ministro dei Lavori Pubblici, spetterà alla Presidenza del Consiglio adottare le norme di recepimento; e) la necessità di interpretare la giurisprudenza comunitaria (che afferma la possibilità che sia chiamato a rispondere per il mancato recepimento delle direttive comunitarie anche uno Stato federale o altro organismo pubblico), nel senso che i soggetti diversi dallo Stato rispondono solo se l’ordinamento interno ne afferma la responsabilità, in luogo o in concorso con lo Stato (circostanza non ravvisabile nel caso di specie). TM
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Inserito in data 14/05/2014 CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE PENALI - SENTENZA 7 maggio 2014, n.18821 Riflessi positivi della successione di leggi nel tempo ex art. 7 CEDU Le Sezioni Unite della corte di Cassazione sono state chiamate a stabilire “Se il giudice dell'esecuzione, in attuazione dei principi dettati dalla Corte EDU con la sentenza 17/09/2009, Scoppola e. Italia, possa sostituire la pena dell'ergastolo, inflitta all'esito del giudizio abbreviato, con la pena di anni trenta di reclusione, in tal modo modificando il giudicato con l'applicazione, nella successione di leggi intervenute in materia, di quella più favorevole”. La nota sentenza, richiamata nel caso in esame, si era pronunciata in merito all’effettiva portata del principio di irretroattività della legge penale sancito dall’art. 7 CEDU innovando l’orientamento giurisprudenziale da tempo concorde sul carattere assoluto della predetto principio con esclusione, pertanto, di un diritto a beneficiare dell’applicazione della legge penale meno severa intervenuta in un tempo successivo alla commissione del fatto di reato. In particolare, la sentenza della Corte di Giustizia europea afferma che “la detta norma non soltanto garantisce il principio di non retroattività delle leggi penali più severe, ma impone anche che, nel caso in cui la legge penale in vigore al momento della commissione del reato e quelle successive adottate prima della condanna definitiva siano differenti, il giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, con l'effetto che, nell'ipotesi di successione di leggi penali nel tempo, costituisce violazione del principio di legalità convenzionale l'applicazione della pena più sfavorevole al reo”. Ancora più incisivo l’assunto secondo il quale, per la giurisprudenza della Corte EDU, “il principio di retroattività in mitius è un corollario di quello di legalità, consacrato dall'art. 7 della CEDU, che concerne le sole disposizioni che definiscono i reati e le pene che li reprimono e ha, quindi, un campo di operatività meno esteso di quello che il nostro ordinamento riserva all'art. 2, comma quarto, cod. pen.” che richiama indistintamente tutte le norme penali successive alla commissione del fatto e più favorevole al reo, in quanto incidente sul complessivo trattamento riservato al medesimo. Inoltre, la sentenza in questione, al fine di non tradire i principi sanciti dagli artt. 2 e 3 della Costituzione, eleva il proprio dictat a principio generale, imponendo all’ordinamento di porre rimedio a tutte le violazioni compiute, a prescindere dalla proposizione di un ricorso individuale ex art. 34 CEDU. Si sostiene, infatti, che l’intangibilità del giudicato, pur se volta a garantire la certezza dei rapporti giuridici e l’efficacia della sanzione penale, non può estendersi sino a prevalere sullo stesso principio di legalità, su cui si fonda il nostro ordinamento, e sulla funzione rieducativa della pena (artt. 13, 25 e 27 Cost). Ne consegue che la legalità del provvedimento sanzionatorio deve permanere anche nella fase esecutiva dello stesso. Il Supremo Consesso, pertanto, dopo aver ricostruito l’iter legislativo del giudizio abbreviato con particolare riferimento ai reati puniti con la pena dell’ergastolo, ha fatto applicazione delle regole sulla successione di leggi nel tempo (trattandosi di norme che involgono questioni di diritto sostanziale), mettendo in evidenza il carattere innovativo, e non meramente interpretativo, dell’art. 7 comma 1 d.l. 341/90. Ne consegue che, a seguito della dichiarazione di incostituzionalità dell’art. art. 442 comma 2 c.p.p., ed avendo il ricorrente azionato il proprio diritto alla rimessione in termini per la richiesta di giudizio abbreviato, questi aveva diritto all’applicazione della norma più favorevole (il momento in cui individuare la normativa applicabile, infatti, è quello della presentazione della richiesta del giudizio abbreviato). Sulla base di tali argomentazioni gli Ermellini hanno affermato che“La pena dell'ergastolo inflitta all'esito del giudizio abbreviato, richiesto dall'interessato in base all'art. 30, comma 1, lett. b), legge n. 479 del 1999, ma conclusosi nel vigore della successiva e più rigorosa disciplina dettata dall'art. 7, comma 1, d.l. n. 341 del 2000 e in concreto applicata, non può essere ulteriormente eseguita, essendo stata quest'ultima norma ritenuta, successivamente al giudicato, non conforme al principio di legalità convenzionale di cui all'art. 7, p. 1, CEDU, come interpretato dalla Corte EDU, e dichiarata incostituzionale per contrasto con l'art. 117, comma primo, Cost.”. Inoltre, il giudice dell’esecuzione potrò provvedere direttamente alla sostituzione della pena da eseguire “avvalendosi dei suoi poteri di controllo sulla permanente legittimità della pena in esecuzione”. VA
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Inserito in data 14/05/2014 CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA – GRANDE SEZIONE, SENTENZA 13 maggio 2014, C-131/12 Sulla responsabilità dei motori di ricerca per il trattamento dei dati personali Con la sentenza in commento la Corte di Giustizia europea ha fortemente ampliato gli spazi di tutela nei confronti del trattamento dei dati personali da parte dei motori di ricerca. Invero, dopo un’attenta analisi della Direttiva 95/46/CE, condotta anche verso l’esatta delimitazione dell’ambito di applicazione della suddetta normativa, i giudici hanno ordinato ad un noto motore di ricerca di procedere alla rimozione dei link relativi a dati personali non più pertinenti alle pagine dei risultati. Con riferimento all’ambito territoriale di applicazione della direttiva sopra citata, i giudici hanno chiarito che, al fine di evitare comportamenti elusivi, questa trova applicazione anche se la "casa madre" è straniera, in quanto l'attività esercitata rientra comunque nel concetto di «stabilimento» nel territorio di uno Stato membro “qualora il gestore apra una succursale o una filiale destinata alla promozione e alla vendita degli spazi pubblicitari e l'attività si diriga agli abitanti dello Stato membro”. Più precisamente la Suprema Corte di giustizia, dopo aver ricondotto nell’alveo del “trattamento” anche la semplice indicizzazione di articoli già pubblicati da altri medita, in quanto attività che si aggiunge a quella della pagina web contenente, anche legittimamente, informazioni personali, e che consente il reperimento di queste anche attraverso una semplice ricerca effettata sul nome, ha affermato l’esistenza di un diritto alla cancellazione del link dall’elenco dei risultato. A ben vedere, infatti, “l'attività di un motore di ricerca consistente nel trovare informazioni pubblicate o inserite da terzi su Internet, nell'indicizzarle in modo automatico, nel memorizzarle temporaneamente e, infine, nel metterle a disposizione degli utenti di Internet secondo un determinato ordine di preferenza, deve essere qualificata come "trattamento di dati personali", e che il gestore di detto motore di ricerca deve essere considerato come il "responsabile" del trattamento”. Ne consegue che la domanda può essere rivolta direttamente al gestore del motore di ricerca, il quale, ove ne riscontri la fondatezza, dovrà provvedere in tal senso, anche a prescindere dalla previa cancellazione delle informazioni dalla pagina web che le riporta, in caso contrario l’interessato potrà adire l'autorità di controllo o l'autorità giudiziaria affinché queste effettuino le verifiche necessarie e ordinino a detto responsabile l'adozione di misure precise conseguenti. Quanto affermato sino ad ora trova il proprio fondamento nel diritto all'«oblio» secondo cui anche un trattamento originariamente lecito può divenire, con il tempo, incompatibile con la direttiva nel caso in cui venga meno l’interesse alla pubblicità della notizia o dei dati, ovvero questi risultino sproporzionati rispetto alle finalità per cui sono stati trattati. Ciò è quanto avvenuto nel caso di specie ove si contro verteva sulla visualizzazione di link contenenti il nome del ricorrente con riferimento ad aste giudiziari predisposte a seguito di un pignoramento per la riscossione coattiva di crediti, tenuto conto della sensibilità di tali dati, del tempo intercorso e della conclusione positiva del concordato fallimentare. Pertanto, a giudizio della Corte di Giustizia europea la persona può chiedere “a norma degli articoli 12, lettera b), e 14, primo comma, lettera a), della direttiva 95/46, la soppressione dei link suddetti da tale elenco di risultati”. VA |
Inserito in data 13/05/2014 CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA, SEZ. V, SENTENZA 8 maggio 2014, C-15/13 L’affidamento “in house” presuppone il c.d. “controllo analogo” Secondo la giurisprudenza della Corte del Lussemburgo, “ai fini dell’applicazione delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici previste dalla direttiva 2004/18, basta, in linea di principio, ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 2, lettera a), di tale direttiva, che un contratto a titolo oneroso sia stato stipulato, da una parte, da un’amministrazione aggiudicatrice e, dall’altra, da una persona giuridicamente distinta da quest’ultima” (v., in tal senso, sentenza Teckal). Tale principio incontra un’eccezione per gli affidamenti di appalti cosiddetti “in house”, in quanto l’autorità pubblica, “che sia un’amministrazione aggiudicatrice, ha la possibilità di adempiere ai compiti di interesse pubblico ad essa incombenti mediante propri strumenti, amministrativi, tecnici e di altro tipo, senza essere obbligata a far ricorso ad entità esterne non appartenenti ai propri servizi, e che tale deroga può essere estesa alle situazioni in cui la controparte contrattuale è un’entità giuridicamente distinta dall’amministrazione aggiudicatrice, qualora quest’ultima eserciti sull’affidatario un controllo analogo a quello che essa esercita sui propri servizi e tale entità realizzi la parte più importante della propria attività con l’amministrazione o con le amministrazioni aggiudicatrici che la controllano” (v., in tal senso, sentenze Teckal, nonché Stadt Halle e RPL Lochau,). In ordine alla nozione di «controllo analogo», la Corte ha rilevato “che deve trattarsi della possibilità per l’amministrazione aggiudicatrice di esercitare un’influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni importanti dell’entità affidataria e che il controllo esercitato dall’amministrazione aggiudicatrice deve essere effettivo, strutturale e funzionale” (v., in tal senso, sentenza Econord, C-182/11 e C-183/11). Per tali ragioni, i Giudici della Corte escludono che sussista il suddetto controllo nelle ipotesi in cui l’Amministrazione aggiudicatrice non detenga alcuna partecipazione nel capitale dell’entità affidataria e non abbia alcun rappresentante legale negli organi direttivi di quest’ultima. Ne discende, dunque, l’irrilevanza della questione relativa all’estensione dell’”in house” anche alle operazioni cosiddette “in house orizzontali”, “vale a dire una situazione in cui la stessa o le stesse amministrazione/i aggiudicatrice/i eserciti(no) un «controllo analogo» su due operatori economici distinti di cui uno affida un appalto all’altro”. EMF
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Inserito in data 13/05/2014 CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 9 maggio 2014, n. 120 Autodichia del Parlamento e conflitto di attribuzione tra poteri Con la sentenza in epigrafe, il Giudice delle Leggi dichiara inammissibile, in riferimento agli artt. 3, 24, 102, secondo comma, 111, primo, secondo e settimo comma, e 113, primo comma, della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 12 del regolamento del Senato della Repubblica, approvato il 17 febbraio 1971, e successive modifiche, “nella parte in cui attribuisce al Senato il potere di giudicare in via esclusiva e definitiva i ricorsi avverso gli atti e i provvedimenti adottati dall’amministrazione di quel ramo del Parlamento nei confronti dei propri dipendenti”. I regolamenti parlamentari, infatti, non rientrano espressamente tra le fonti-atto indicate nell’art. 134, primo alinea, Cost. (le «leggi» e «gli atti aventi forza di legge»), che possono costituire oggetto del sindacato di legittimità dinanzi alla Corte Costituzionale. Invero, l’art. 64 Cost. considera il regolamento parlamentare “come fonte dotata di una sfera di competenza riservata e distinta rispetto a quella della legge ordinaria e nella quale, pertanto, neppure questa è abilitata ad intervenire”. Deve, dunque, confermarsi quanto stabilito dalla consolidata giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 154 del 1985 e nelle successive ordinanze n. 444 e n. 445 del 1993), la quale ha escluso che i regolamenti parlamentari “possano essere annoverati fra gli atti aventi forza di legge”. Tuttavia, deve essere disattesa la concezione, accreditata in passato, che attribuisce ai regolamenti in questione la natura di “fonti puramente interne”: l’insindacabilità degli stessi, preordinata a garantire l’indipendenza delle Camere da ogni altro potere, difatti, li nobilita a “fonti dell’ordinamento generale della Repubblica”. E’ in questo contesto che s’innesta il tema “dell’estensione dell’autodichia e conseguentemente della sua legittimità”. A tal proposito, gli “artt. 64 e 72 Cost. assolvono alla funzione di definire e, al tempo stesso, di delimitare «lo statuto di garanzia delle Assemblee parlamentari» (sentenza n. 379 del 1996)”. Pertanto, “le vicende e i rapporti che ineriscono alle funzioni primarie delle Camere sicuramente ricadono nella competenza dei regolamenti e l’interpretazione delle relative norme regolamentari e sub-regolamentari non può che essere affidata in via esclusiva alle Camere stesse (sentenza n. 78 del 1984). Né la protezione dell’area di indipendenza e libertà parlamentare attiene soltanto all’autonomia normativa, ma si estende al momento applicativo delle stesse norme regolamentari «e comporta, di necessità, la sottrazione a qualsiasi giurisdizione degli strumenti intesi a garantire il rispetto del diritto parlamentare» (sentenze n. 379 del 1996 e n. 129 del 1981)”. Dubbi sorgono, invece, per i rapporti di lavoro dei dipendenti e per i rapporti con i terzi, atteso che l’indipendenza delle Camere non può “compromettere diritti fondamentali, né pregiudicare l’attuazione di principi inderogabili”. Sul punto, la stessa Consulta, con la sentenza n. 379 del 1996, ha affermato che davanti a ciò che «[…] esuli dalla capacità classificatoria del regolamento parlamentare e non sia per intero sussumibile sotto la disciplina di questo (perché coinvolga beni personali di altri membri delle Camere o beni che comunque appartengano a terzi), deve prevalere la “grande regola” dello Stato di diritto ed il conseguente regime giurisdizionale al quale sono normalmente sottoposti, nel nostro sistema costituzionale, tutti i beni giuridici e tutti i diritti (artt. 24, 112 e 113 della Costituzione)». Parallelamente, la Corte Costituzionale e della Corte di Strasburgo hanno assoggettato “a stretta interpretazione la stessa immunità parlamentare prevista dal primo comma dell’art. 68 Cost., riconosciuta soltanto quando sia dimostrato, secondo criteri rigorosi, il nesso funzionale fra l’opinione espressa e l’attività parlamentare, proprio per limitare l’impedimento all’accesso al giudice da parte di chi si ritenga danneggiato” (ex plurimis, sentenze n. 313 del 2013, n. 98 del 2011, n. 137 del 2001, n. 11 e n. 10 del 2000). In conclusione, il confine tra i due distinti valori (autonomia delle Camere, da un lato, e legalità-giurisdizione, dall’altro) è posto sotto la tutela della Corte Costituzionale, “che può essere investita, in sede di conflitto di attribuzione, dal potere che si ritenga leso o menomato dall’attività dell’altro” (sentenza n. 379 del 1996). EMF |
Inserito in data 12/05/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 12 maggio 2014, n. 2422 Diritto di accesso: precisazioni sull’actio ad exhibendum da parte dei concessionari Il Collegio di Palazzo Spada fornisce significative precisazioni in ordine alla ostensibilità delle cartelle di pagamento ed in merito alle relative incombenze gravanti sugli Enti concessionari. Nella specie, a dispetto di quanto addotto dal Giudice di primo grado, si condivide la posizione dell’appellante che, ottenuto un iniziale diniego alla propria istanza di accesso, riceveva dal concessionario, in seguito, solo una copia dell’avvenuta notifica della cartella censurata. Ne contestava, quindi, la legittimità. I Giudici del gravame, uniformandosi a giurisprudenza ormai costante, ricordano come sussista sui concessionari un obbligo di ostensione delle cartelle di pagamento. Trattandosi di un’imposizione ex lege, essa non è suscettibile di limitazioni, né sul piano soggettivo, né sotto l’ambito oggettivo. Riguardo al primo aspetto, il concessionario non ha alcun margine discrezionale, in quanto “la copia della cartella di pagamento ex se costituisce strumento utile alla tutela giurisdizionale delle ragioni del ricorrente e la concessionaria non ha quindi alcuna legittimazione a sindacare le scelte difensive eventualmente operate dal privato.” Parimenti, riguardo al contenuto dell’actio ad exhibendum, il concessionario non può scegliere l’oggetto della ostensione, come avvenuto nel caso in esame. Infatti, "il diritto degli interessati è un diritto di acquisizione di quegli stessi documenti o delle loro copie e non di succedanei; non sussiste, peraltro, la possibilità per l’Amministrazione appellata di esimersi richiamando impedimenti tecnici o materiali. Né, allo stesso modo, si può ritenere che l’interesse all’accesso venga meno per effetto dell’avvenuta ostensione di copia dell’avvenuta notifica della cartella – come qui accaduto: non basta, infatti, l’estratto del ruolo nominativo ad esaurire la conoscenza finalizzata ad un’eventuale contestazione della pretesa impositiva. Occorre, piuttosto, dare contezza del ruolo integrale che, quale documento amministrativo è regolarmente accessibile ex lege 241/90 e ss. mm.; un eventuale, relativo diniego, infatti, finirebbe con il porre l’Amministrazione nelle condizioni di un rifiuto continuo, apodittico e pertanto difficilmente censurabile. Sulla base di tali coordinate, pertanto, il Collegio del gravame riforma la pronuncia del Giudice territoriale, imponendo al concessionario appellato l’ostensione integrale della cartella di pagamento richiesta, della relata di notifica, unitamente al ruolo integrale. CC |
Inserito in data 11/05/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 5 maggio 2014, n. 2290 Sull'interdittiva antimafia
In generale, alla luce della più recente giurisprudenza, ai fini della c.d. interdittiva antimafia “tipica”, anche se occorre che siano individuati, nonché indicati, idonei e specifici elementi di fatto, obiettivamente sintomatici di concrete connessioni o possibili collegamenti con le organizzazioni malavitose, che sconsigliano l’instaurazione di un rapporto dell’impresa con la Pubblica Amministrazione, non è necessario un grado di dimostrazione probatoria analogo a quello richiesto per dimostrare l’appartenenza di un soggetto ad associazioni di tipo camorristico o mafioso, potendo, l’interdittiva medesima, fondarsi su fatti e vicende aventi un “valore sintomatico e indiziario” e con l’ausilio di indagini che possono risalire anche ad eventi verificatisi a distanza di tempo. Negli anni, la giurisprudenza amministrativa ha stabilito: che l'interdittiva prefettizia antimafia costituisce una misura preventiva volta a colpire l'azione della criminalità organizzata impedendole di avere rapporti contrattuali con la pubblica amministrazione; che trattandosi di una misura a carattere preventivo, l’interdittiva prescinde dall'accertamento di singole responsabilità penali nei confronti dei soggetti che, nell’esercizio di attività imprenditoriali, hanno rapporti con la pubblica amministrazione e si fonda sugli accertamenti compiuti dai diversi organi di polizia valutati, per la loro rilevanza, dal Prefetto territorialmente competente; che tale valutazione costituisce espressione di ampia discrezionalità che può essere assoggettata al sindacato del giudice amministrativo solo sotto il profilo della sua logicità in relazione alla rilevanza dei fatti accertati; che, essendo il potere esercitato espressione della logica di anticipazione della soglia di difesa sociale, finalizzata ad assicurare una tutela avanzata nel campo del contrasto alle attività della criminalità organizzata, la misura interdittiva non deve necessariamente collegarsi ad accertamenti in sede penale di carattere definitivo e certi sull'esistenza della contiguità dell’impresa con organizzazione malavitose, e quindi del condizionamento in atto dell'attività di impresa, ma può essere sorretta da elementi sintomatici e indiziari da cui emergano sufficienti elementi del pericolo che possa verificarsi il tentativo di ingerenza nell’attività imprenditoriale della criminalità organizzata. Specificamente, i Giudici di Palazzo Spada, con la sentenza ivi trattata, hanno ribadito che è oramai pacifico che: “l'interdittiva antimafia non si collega a fatti e attività oggetto di approfondimento d'ordine penale, essendo diversi i parametri di valutazione sul piano amministrativo, bensì alle stesse emergenze giudiziarie, indizi, collegamenti societari e intrecci imprenditoriali ed economici, contatti e frequentazioni e in definitiva a un quadro che, nel complesso di tutti gli elementi e prescindendo dalle singole circostanze, rende plausibile e giustifica l'adozione dell'interdittiva quale specifica misura di tutela anticipata volta a prevenire e/o stroncare ogni possibile "inquinamento" delle aziende, degli appalti pubblici e quindi dell'attività della P.A., posto in essere notoriamente anche attraverso operazioni apparentemente legittime ma fittizie tipiche delle organizzazioni mafiose”. GMC |
Inserito in data 11/05/2014 CORTE DI CASSAZIONE - PRIMA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 7 maggio 2014, n. 9846 La Suprema Corte su patti parasociali e contratto a favore del terzo I patti parasociali, conosciuti già da lungo tempo nella prassi e, ad oggi, riconosciuti pacificamente dalla giurisprudenza e dal Legislatore italiano, seppur, tuttavia, dopo un iniziale sfavore presto superato, consistono in delle convenzioni che rimangono fuori dall’atto costitutivo. La forma di questi, è totalmente libera, per cui, la forma scritta, la scrittura privata autenticata o l’atto pubblico, saranno richiesti soltanto nel caso in cui l’accordo si sostanzi in un negozio giuridico che la richieda ad substantiam ovvero per adempiere agli obblighi di comunicazione e pubblicità previsti dalla legge. All’atto della formale costituzione del vincolo associativo o, tuttavia, anche durante il corso della vita della società, tali convenzioni vengono stipulate tra i soci, al fine di regolare, tra loro – o solamente tra alcuni di loro – uno o più profili concernenti gli aspetti fondamentali dei propri diritti e doveri all’interno della società medesima. Essi, presentano l’aspetto di veri e propri contratti nei quali vengono stabiliti diritti e doveri di coloro i quali aderiscono al patto, oltre alle sanzioni per l’inosservanza di quanto prescritto e sono, in genere, formulati in maniera ben precisa. Mediante il patto parasociale, gli aderenti perseguono l'obiettivo di fornire un indirizzo all’organizzazione e alla gestione delle società, per assicurare la stabilità degli assetti proprietari, nonché l’incidenza sulla contendibilità del controllo societario, in modo sicuramente più agile rispetto al prescritto modello legale. Come premesso, il Legislatore ne ha sancito la loro legittimità mediante il D.lgs. n. 58 del 1998 TUF (artt. 122 e ss.), il quale, detta la disciplina specifica dei patti parasociali per le società “aperte” quotate e gli artt. 2341-bis e 2341-ter c.c. che disciplinano i patti parasociali per le società azionarie in generale. Contrariamente a quanto avviene per lo statuto sociale, il quale ha efficacia reale, e, in quanto tale, è vincolante per tutti i soci, attuali e futuri, i patti parasociali hanno, invece, un’efficacia meramente obbligatoria, per cui vincolano solo i soci contraenti e risultano non opponibili agli eventuali altri soci non aderenti, alla società ed ai terzi in genere (alla luce di uno dei principi cardine presenti nel codice civile, ossia l'art. 1372 del c.c.). Quanto all’esistenza dei patti parasociali, questa può essere provata, anche ai fine dell’esercizio di azioni negoziali, con qualsiasi mezzo, salvo il limite di valore previsto dall’art. 2721 del codice civile. Con la sentenza in epigrafe, la Suprema Corte statuisce che, alla luce della considerazione secondo la quale i patti parasociali rappresentano delle “convenzioni atipiche”, concernenti i rapporti personali tra soci ed altresì operanti sul piano organizzativo e gestionale, in cui taluni soci si prestano e si impegnano ad eseguire prestazioni a beneficio della società, essi sembrano integrare perfettamente la fattispecie del “contratto a favore di terzo”. Di questo, poi, sono legittimati a pretendere l'adempimento sia la società (quale terzo beneficiario), che i soci stipulanti, moralmente ed economicamente interessati che l'obbligazione sia adempiuta nei confronti della società di cui fanno parte.
Nello specifico, ed alla luce della disciplina generale prevista dal codice civile, è bene rilevare che il contratto a favore di terzi, ricorre allorquando una parte, ossia lo stipulante, designa un terzo come avente diritto alla prestazione alla quale è obbligato il promittente.
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Inserito in data 09/05/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 8 maggio 2014, n. 2367 Revoca di agevolazioni finanziarie per inadempimento: giurisdizione del g.o. La parziale revoca di agevolazioni finanziarie per mancato utilizzo temporale dei beni agevolati è riconducibile all’inadempimento per inosservanza del vincolo di legge, non già ad attività discrezionale. Pertanto, si ha un credito vantato dalla PA su un diritto radicato in capo al soggetto finanziato a seguito dell’incasso percepito, entrato ormai nella sua disponibilità e della quale è richiesta in restituzione una parte. Ne segue che la controversia sul punto è devoluta al giudice ordinario, non essendo riconducibile ad esercizio di potere pubblico discrezionale ma a rivendicazione civilistica della PA per l’indebito pagamento avvenuto. CDC |
Inserito in data 09/05/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 8 maggio 2014, n. 2362 Società ad oggetto non esclusivo ed applicabilità dell’art. 13 d.l. 223/2006 Alle società in house l’art. 13, comma 1, del d.l. n. 223 del 2006 impone l’obbligo di “operare con gli enti partecipanti o affidanti” e la preclusione a “svolgere prestazioni a favore di altri soggetti pubblici o privati, né in affidamento diretto né con gara”. Così si intende evitare la distorsione della concorrenza che si determinerebbe in caso di partecipazione alle gare, indette da altri soggetti pubblici o privati, di soggetti già affidatari diretti di servizi pubblici locali, che non entrerebbero nel mercato “ad armi pari”, rispetto ad altri comuni operatori del settore. Tali società sono quindi costituite per compiere a favore dell’ente socio, con affidamento diretto, attività strumentali a quelle di spettanza dell’ente stesso, che si avvale per tali attività di propri organismi, senza ricorrere al mercato. Tali società compiono un’attività amministrativa in forma privatistica, da non confondere con l’attività di impresa svolta da enti pubblici, in regime di concorrenza: si pone solo nel primo caso l’esigenza di non consentire che un soggetto che gode delle prerogative proprie di una PA possa svolgere al tempo stesso attività imprenditoriale. Inoltre, l’art. 13, comma 2, del d.l. n. 223 del 2006 dispone che le predette società sono ad oggetto sociale esclusivo e non possono agire in violazione delle regole citate. Ciò non significa che le società multiutilities siano automaticamente escluse dal divieto in questione e siano dunque legittimate a partecipare a gare indette da terze amministrazioni. La locuzione va infatti riferita non alle attività enunciate nell’oggetto sociale, ma all’effettivo rapporto instaurato con gli enti locali di riferimento: tale rapporto, se esclusivo, non consente proiezioni extra ambito; anche le società di tal tipo, se integralmente partecipate da enti locali, essendo qualificabili come società strumentali, devono rivolgere la propria attività in via esclusiva a favore di tali enti, trattandosi di una derivazione, o una longa manus, dell’ente o degli enti pubblici controllanti, dato il rapporto di strumentalità fra le attività delle imprese in questione e le esigenze di interesse generale che detti enti sono tenuti a soddisfare. In altre parole, quando sia di fatto riscontrabile la presenza di affidamenti diretti – tali da porre le società interessate in condizioni di non parità con altri operatori del settore – l’eventuale non esclusività dell’oggetto sociale recede e deve essere disattesa rispetto alla limitazione legale di legittimazione: diversamente opinando, le società in house potrebbero facilmente aggirare ogni restrizione imposta, con vanificazione delle regole dettate a tutela della concorrenza. CDC |
Inserito in data 08/05/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 7 maggio 2014, n. 2343 Applicazione dei principi di ragionevolezza e favor partecipationis agli appalti pubblici Con la presente decisione, i Giudici di Palazzo Spada applicano in materia di contratti pubblici i principi del legittimo affidamento, di ragionevolezza e del favor partecipationis (cfr. art. 46, comma 1 bis, del codice dei contratti pubblici). In relazione ad una clausola della lex specialis della procedura che “imponeva, a pena di esclusione, la sottoscrizione, con firma per esteso e leggibile, almeno della prima e dell’ultima pagina dell’offerta tecnica”, si afferma che: a) per non incorrere nel vizio di eccesso di potere e di violazione dell’art. 46, c.1bis del codice dei contratti, tale clausola deve essere interpretata nel senso di imporre solo l’accertamento della chiara volontà del concorrente di appropriarsi della paternità dell’offerta; b) perciò, non merita l’esclusione l’ATI, la cui volontà è evincibile in termini certi “dall’apposizione su tutte le pagine dell’offerta tecnica delle sigle dei rappresentanti legali delle imprese raggruppate, identificati con i timbri e con i documenti di identità allegati, e dall’inserimento dell’offerta in plichi sigillati e controfirmati inclusi in contenitori parimenti sigillati e controfirmati”. TM |
Inserito in data 08/05/2014 CORTE DI CASSAZIONE - TERZA SEZIONE PENALE, SENTENZA 5 maggio 2014, n. 18311 Confisca per equivalente dei beni dell’ente in caso di reato fiscale dell’organo Con la sentenza in epigrafe, si procede ad una delle primissime applicazioni della sentenza n. 10561/2014 delle Sezioni Unite. Ci si chiedeva se potesse disporsi il sequestro preventivo finalizzato alla confisca, diretta o per equivalente, rispetto ai beni di una persona giuridica per le violazioni tributarie commesse dal legale rappresentante. A) Un primo orientamento della Cassazione dava risposta affermativa, nonostante la persona giuridica non fosse responsabile ai sensi del d.lgs. n. 231/01 e purché non si dimostrasse la rottura del rapporto organico. Ciò in quanto la società otteneva comunque dei vantaggi economici dal reato. B) Un secondo indirizzo dava risposta negativa, perché i reati fiscali non erano contemplati dal d.lgs. n. 231/01, tra quelli rispetto ai quali poteva configurarsi la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche. Faceva eccezione il caso in cui si fosse dimostrato che si era in presenza di una società “schermo” (creata apposta per farvi confluire i profitti degli illeciti fiscali). Le Sezioni Unite hanno aderito a questo secondo indirizzo, con alcune precisazioni. Resta ferma la possibilità di procedere al sequestro teso alla confisca diretta dei beni della persona giuridica, ove il profitto del reato sia rimasto nella disponibilità dell’ente. Però, nel caso di reato di omesso versamento delle ritenute certificate, il profitto coincide con l’importo delle ritenute non versate, in un mero risparmio di spesa. Perciò, è particolarmente difficile dimostrare che i beni dell’ente sono direttamente riconducibili al reato: tale prova potrebbe dirsi raggiunta ove si accerti che somme equivalenti a quelle sottratte all’erario sono state usate dalla società contestualmente o immediatamente dopo. Ove la confisca diretta sia, anche temporaneamente, impossibile, si potranno confiscare per equivalente i beni del rappresentante legale. Infine, è consentito il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente del profitto non reperito, quando si dimostra che la società è uno schermo fittizio. Difatti, in questo caso “la trasmigrazione del profitto del reato in capo all’ente non si atteggia alla stregua di trasferimento effettivo di valori, ma si configura come un espediente fraudolento, non dissimile dalla figura dell’interposizione fittizia”. Fuori da quest’ipotesi la confisca per equivalente dei beni della persona giuridica non è ammissibile, atteso che: a) la confisca per equivalente deve basarsi su specifiche disposizioni di legge; b) spesso la persona giuridica è danneggiata dal reato; c) i reati tributari non sono compresi nell’elenco di cui al d.lgs. n. 231/01, idonei a fondare la responsabilità amministrativa da reato degli enti (cfr. artt. 19 e 24); d) rispetto ai reati tributari, perciò, si ammette la confisca per equivalente solo con riguardo ai beni dell’autore o concorrente nel reato, mentre la persona giuridica non può assumere tale qualifica atteso che il nostro ordinamento non ammette una responsabilità penale degli enti; e) la disponibilità dei beni societari da parte dell’amministratore è fisiologica e, da sola, insufficiente a provare lo schermo fittizio; f) l’art. 1, c. 143, L. n. 244/07 ha previsto i reati tributari tra quelli idonei a legittimare la confisca per equivalente di cui all’art. 322ter c.p., ossia limitata ai beni dell’autore del reato. TM
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Inserito in data 07/05/2014 CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 5 maggio 2014, n. 13 La Convenzione di Bruxelles non si applica solo quando la PA svolge attività d’imperio L’Adunanza Plenaria, al fine di verificare la giurisdizione del giudice inglese (giudice ordinario individuato dalle parti con espressa pattuizione), si è soffermata sull’analisi della natura negoziale o pubblicistica del rapporto controverso (nel caso di specie recesso unilaterale da parte della PA da alcuni contratti di finanza derivata finalizzati all’emissione di titoli obbligazionari). Il Supremo Consesso, infatti, a dispetto del percorso argomentativo prospettato dalle parti, ha osservato che “La prevalenza della fonte comunitaria sulla normativa interna, anche di fonte legislativa, infatti, non esplica nella specie alcun effetto concreto, posto che, anche ammesso, in ipotesi, il superamento dell’art. 4 della legge n. 218 del 1995 ad opera del Regolamento n. 44 del 2001, la invalidità del patto sulla deroga alla giurisdizione italiana sulla presente controversia, ove risultasse fondata la tesi della Regione appellante, discenderebbe comunque dall’art. 1 del Regolamento nella parte in cui menziona, tra quelle escluse dall’efficacia del medesimo, la materia amministrativa”. Pertanto, considerato quanto affermato dalla Corte di Giustizia (C-167/00 Henkel), secondo cui, “…esulano dall’ambito di applicazione della Convenzione di Bruxelles solamente le cause tra una pubblica amministrazione e un soggetto di diritto privato, in quanto detta autorità agisca nell’esercizio della sua potestà di imperio”, il punto dirimete della controversa attiene all’esatta individuazione della natura del provvedimento (nello stesso senso Convenzione di Lugano 3’/1’/2007). L’Adunanza Plenaria, peraltro, ha rigettato la tesi della natura di atti di imperio sostenuta dall’appellante che, qualificando come atto provvedimentale prodromico la determinazione all’emissione obbligazionaria, da concludersi con la stipula dei contratti derivati, sollevava il contrasto della dichiarazione del difetto di giurisdizione da parte del TAR con gli artt. 7, 120, 122 e 133 comma 1, lett. e) n.1 c.p.a., facendo riferimento alla precedente sentenza del Consiglio di stato 5032/2011. A sostegno della propria decisione i giudici di Palazzo Spada hanno messo in evidenza le differenze esistenti sul piano fattuale tre il caso sottoposto al suo esame e quello deciso dalla sentenza sopra citata. Invero, “sebbene possa definirsi non del tutto precisa l’espressione, che figura nella sentenza impugnata, che la deliberazione non conteneva alcuno specifico riferimento alla sottoscrizione dei contratti derivati qui in esame, non può negarsi che la menzione dei contratti derivati, quale risulta dai testi trascritti, è assolutamente generica e riferita a mere eventualità di cui si sarebbe valutata la convenienza e l’opportunità nel successivo percorso attuativo dell’operazione riguardante il prestito obbligazionario”. Né sono state considerate valide ed oggettive le prove sull’esistenza di un criterio di scelta per la gara che tenesse conto della capacità dei concorrenti di gestire contratti derivati. Parimenti destituita di ogni fondamento è stata considerata anche la censura con la quale l’appellante, a dispetto della riconducibilità della stipulazione dei contratti alla gara, ritiene ugualmente espressiva di un potere di autotutela l’iniziativa di riesame dell’Amministrazione in quanto “gli atti prodromici alla conclusione di un contratto da parte dell’Amministrazione avrebbero natura pubblicistica, perché il procedimento di formazione della volontà contrattuale della p.a. non si svolge integralmente ed esclusivamente sul piano del diritto privato. E ciò in ragione del fatto che nell’attività contrattuale delle pubbliche Amministrazioni vengono inevitabilmente in giuoco interessi patrimoniali pubblici, oltre che imprescindibili esigenze di imparzialità negli affidamenti”. Il Supremo Consesso, infatti, ha osservato che, affinché possano trovare applicazione i principi sanciti dall’Adunanza Plenaria 10/2011 (secondo cui gli atti prodromici attengono al processo decisionale che, a dispetto di quello proprio di un soggetto privato, dove resta relegato nella sfera interna del soggetto, rilevando solo il negozio giuridico finale, per un ente pubblico assume carattere di procedimento amministrativo) la determinazione amministrativa deve assumere la natura propria di atto prodromico, occorrendo “che sia individuabile nell’atto stesso il compimento di un processo decisionale ossia la formazione della volontà di compiere un atto di diritto privato, di cui l’ente abbia valutato ed approvato il contenuto, e che ciò risulti verificabile in base al procedimento seguito”. Ma, come già rilevato, è stata esclusa l’esistenza di una prova di tale determinazione, essendo stata prospettata la stipula di contratti finanziari derivati solo come mera possibilità. Pertanto deve rigettarsi l’appello del ricorrente in quanto, “nonostante l’atto di annullamento impugnato rechi l’imputazione dei vizi dei contratti alla deliberazione, si tratta di un mero artificio che non impedisce di riconoscere che la materia del contendere nella presente controversia è costituita, non dal sindacato sulla legittimità di un atto di imperio, ma dal giudizio sulla fondatezza dei vizi addebitati ai contratti, che, secondo il fondamentale principio affermato dalla Corte costituzionale con la sent. n. 204 del 2004, esula dalla giurisdizione amministrativa”. VA
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Inserito in data 07/05/2014 CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 5 maggio 2014, n. 111 Art. 117 co 2. lett. e) ed m) Cost. ed abbattimento delle barriere architettoniche La Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 26, comma 1, della legge reg. n. 8 del 2013, introduce il comma 7-bis nell’art. 8 della legge regionale 3 gennaio 2006, n. 1 (Disciplina delle attività di somministrazione di alimenti e bevande. Abrogazione della legge regionale 10 luglio 1996, n. 13), secondo cui «Agli esercizi di somministrazione di alimenti e bevande non raggiungibili con strade destinate alla circolazione di veicoli a motore non si applicano le disposizioni vigenti in materia di abbattimento delle barriere architettoniche» per violazione dell’art. 117 comma 2 lett. e) ed m) della Costituzione sul riparto di giurisdizione. Dovendosi guardare, infatti, alla ratio della disciplina al fine di identificare l’interesse tutelato (v. C.Cost. 207/2010) “l’art. 26, comma 1, della legge reg. n. 8 del 2013 esula dalle materie «strade e lavori pubblici di interesse regionale» ed «urbanistica, piani regolatori per zone di particolare importanza turistica», che l’art. 2, lettere f) e g), della legge cost. n. 4 del 1948 rimette alla competenza primaria della Regione. La norma impugnata, pur inserendosi in un più ampio contesto normativo riconducibile al governo del territorio, attiene invece ai livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost. VA |
Inserito in data 06/05/2014 CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL'UOMO, SECONDA SEZIONE, Requête n. 73869/10 - SENTENZA G.C./Italia - del 22 aprile 2014 Ritardo nelle cure mediche ai detenuti: Italia sanzionata La Corte di Strasburgo, intervenendo ancora una volta riguardo alle condizioni del nostro sistema penitenziario, ha sanzionato l’Italia. In particolare, ordina di risarcire i danni morali patiti dal detenuto ricorrente che, afflitto da una grave patologia, non ha ricevuto le cure adeguate o, quanto meno, non nei tempi in cui le stesse sarebbero state maggiormente efficaci e necessarie. Una simile condizione di attesa, procurando uno stato di ansia continua, di prostrazione e di vergogna, ha inevitabilmente inciso sulla qualità della vita dell’odierno istante, al punto da spingerlo a tentare per ben due volte il suicidio. Allo stato dei fatti, dunque, l’Italia cade nuovamente in una violazione dell’articolo 3 della CEDU, perché non in grado di assicurare ai carcerati condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana. Infatti, l’inosservanza dei parametri predisposti da Strasburgo riguardo alle cure mediche da somministrare ai detenuti ed i ritardi dell’Amministrazione penitenziaria, tali da non fronteggiare tempestivamente l’aggravarsi delle condizioni di vita del ricorrente, già più volte lamentate, espongono lo Stato italiano a forti critiche e alle relative conseguenze in sede sanzionatoria. CC
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Inserito in data 06/05/2014 CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 5 maggio 2014, n. 112 Legittima la destituzione ex lege dell’agente di p.s. sottoposto a misura di sicurezza Con la sentenza in epigrafe, il Giudice delle Leggi dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 8, primo comma, lettera c), del d.P.R. 25 ottobre 1981, n. 737 (Sanzioni disciplinari per il personale dell’Amministrazione di pubblica sicurezza e regolamentazione dei relativi procedimenti), nella parte in cui prevede la destituzione di diritto per gli appartenenti ai ruoli dell’Amministrazione della pubblica sicurezza sottoposti a misura di sicurezza personale, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione. In particolare, la normativa introdotta dal D.P.R. 25 ottobre 1981, n. 737, prevedendo che la prestazione del servizio da parte del personale summenzionato “è necessariamente condizionata al permanere di specifici requisiti di idoneità, previsti ai fini dello svolgimento delle funzioni relative”, si pone “in termini di specialità nell’ambito dell’ordinamento del pubblico impiego”. Sulla scorta di tale rilievo, pertanto, deve escludersi che dalla norma censurata derivi una irragionevole disparità di trattamento rispetto alla sentenza n. 971 del 1988, “che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 85, primo comma, lettera a), del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato), nella parte in cui non prevede, in luogo del provvedimento di destituzione di diritto, l’apertura e lo svolgimento del procedimento disciplinare”. In conclusione, “appare compatibile con i principi costituzionali, una disciplina che valuti in termini rigorosi le conseguenze che discendono, sul piano del rapporto di impiego, dalla accertata pericolosità del pubblico dipendente”: essa “trasparentemente riflette la preminenza attribuita dal legislatore all’interesse della collettività ad essere difesa dalla pericolosità sociale di un suo membro … rispetto all’interesse del singolo alla graduazione della sanzione disciplinare che gli deve essere applicata”. EMF
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Inserito in data 06/05/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 5 maggio 2014 n. 2289 Esclusione dalla gara per omessa dichiarazione di pregresse risoluzioni contrattuali L’art. 38, c. 1, lett. f) del D.Lgs. n. 136/2006 impone, a pena di esclusione dalla, “la dichiarazione di pregresse risoluzioni contrattuali anche da parte di stazioni appaltanti diverse da quella che bandisce l’appalto”. Si tratta, invero, “di dichiarazione/prescrizione essenziale che prescinde dalla stazione appaltante, la stessa o altra, perché attiene ai principi di lealtà e affidabilità contrattuale e professionale che presiedono agli appalti e ai rapporti con la stazione stessa, né si rilevano validi motivi per non effettuare tale dichiarazione, posto che spetta comunque all’Amministrazione la valutazione dell’errore grave che può essere accertato con qualsiasi mezzo di prova.” Né può farsi ricorso al cd. soccorso istruttorio, che, volto a chiarire e completare dichiarazioni o documenti comunque esistenti (cfr. anche Ad. Plen. N. 9/2014), non può estendersi alla dichiarazione omessa in violazione dei c.d. “adempimenti doverosi” imposti dall’art. 38, c. 1, lett. f) summenzionato. In sostanza, il Consiglio di Stato osserva che “le procedure concorsuali perseguono il rispetto rigoroso delle regole poste ad assicurare l’imparzialità e la parità di trattamento in tutte le loro fasi, per cui spetta al concorrente il dovere della diligenza nella osservanza delle disposizioni concorsuali proprio ai fini della tutela dell’interesse al concorso; né tale onere può essere posto a carico dell’Amministrazione, che altrimenti verrebbe a violare proprio quella par condicio, che invece nella fattispecie prevale sul diverso principio del favor partecipationis, dovendosi assicurare certezza agli elementi dell’offerta.” Per tali ragioni, le “valutazioni che incidono sulla moralità professionale spettano alla stazione appaltante e non di certo al concorrente, che non può quindi operare alcun proprio “filtro” in sede di domanda di partecipazione e quindi di dichiarazione in proposito.” EMF |
Inserito in data 05/05/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL'ADUNANZA PLENARIA 29 aprile 2014, n. 2214 Chiamata la Plenaria: lettura sostanziale o formale art. 38 DLgs. 163/06? Con la pronuncia in esame è chiamata l’Adunanza Plenaria – nell’esercizio della propria funzione nomofilattica - ex art. 99 -1’ c. Cp.A. – a risolvere un quesito alquanto lineare, ma dai risvolti pratici significativi. La terza Sezione del Consiglio di Stato, recependo contrasti interni allo stesso Organo, unitamente alle recenti impostazioni emergenti dalla giurisprudenza comunitaria, si interroga sulla necessità che le dichiarazioni da rendere in sede di gara pubblica, all’atto della proposizione di un’offerta – ex articolo 38 D. Lgs. 163/06, debbano riferirsi personalmente a ciascun singolo membro o, come accaduto nel caso in esame, possano essere presentate da parte di un solo rappresentante legale dell’impresa aggiudicataria con riferimento a tutti i soggetti interessati, ma senza indicazione di ciascun singolo nominativo. Il contrasto, in sostanza, riguarda la possibilità che, dell’articolo 38 oggi censurato, si debba dare una lettura in senso formale o, come sembrerebbe propendere la Sezione remittente, in maniera più sostanziale. Il primo filone, avallato dalla prevalente giurisprudenza in materia (Cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 6053 del 16 novembre 2011; n. 3862 del 27 giugno 2011, Sez. V, n. 7578 del 20 ottobre 2010) ritiene, in pratica, che l’indicazione analitica circa l’insussistenza di cause ostative – con riferimento a ciascun singolo membro della ditta aggiudicataria – sia più fedele all’intenzione del Legislatore, teso ad epurare l’ambito soggettivo dei partecipanti alle gare pubbliche. E non solo. Un’indicazione compiuta ad personam consentirebbe, altresì, all’Amministrazione di essere resa edotta tempestivamente di possibili cause di esclusione, con inutile, eventuale aggravio di attività amministrativa. Invece, il percorso argomentativo opposto, seguito dal Collegio in sede di rimessione ed intriso di influenze comunitarie, propende per un’impostazione sostanziale – in forza della quale parrebbe sufficiente che l’indicazione – ex articolo 38 DLgs. 163/06 – sia compiuta dai soli rappresentanti legali della ditta, cumulativamente con riguardo agli altri membri della stessa. Tale chiave di lettura, ritengono i Giudici della terza Sezione, non solo è più aderente allo spirito di semplificazione dell’attività amministrativa – ex lege 241/90 e ss. mm.; ma, altresì, appare in linea con lo spirito del Legislatore dei Contratti pubblici che tende, esclusivamente, a riscontrare l’insussistenza di requisiti di dubbia moralità – all’atto dell’aggiudicazione di un’offerta. A sostegno di questa impostazione, infine, il Collegio remittente richiama l’esperienza giuridica comunitaria. Si ricorda, infatti, che la recente nuova Direttiva in materia di appalti n. 2014/24/UE del 26 febbraio 2014, proprio nell’ottica di una generale semplificazione del sistema, ha previsto la presentazione di un unico documento per la partecipazione alle gare, consistente in una unica autodichiarazione come prova documentale preliminare del possesso dei requisiti necessari per la partecipazione di una impresa ad una gara. Peraltro, richiamando propri precedenti (Cfr. decisioni n. 4370 del 2013, n. 1487 e n. 1744 del 2014), questa Sezione ha già evidenziato come la partecipazione agli appalti pubblici, siano essi per forniture o servizi o forniture, sia ormai disciplinata da puntuali disposizioni normative comunitarie che sono volte «alla chiarezza e trasparenza delle procedure, alla par condicio, alla tutela della concorrenza, al favor partecipationis, alla tassatività delle cause di esclusione, al soccorso istruttorio laddove non si tramuti nell’integrazione sostanziale o nella modifica dell’offerta, all’inammissibilità di clausole ultra legem che in pratica si risolvono in meri appesantimenti formali e burocratici, all’approccio interpretativo rivolto a valorizzare il contenuto effettivo dell’offerta», e ad «assicurare che l’esito della gara venga a premiare in effetti la migliore offerta economica e tecnica, alla luce della corrispondenza degli aspetti formali con quelli sostanziali, dei requisiti di partecipazione con la verifica dei documenti prodotti a supporto, e quindi salve le dichiarazioni non corrispondenti al vero». Delineata l’oscillazione giurisprudenziale unitamente alle articolazioni argomentative finora compiute, il Collegio della terza Sezione conclude evidenziando l’utilità ed il pregio di un’impostazione sostanzialistica dell’articolo 38. Ne discenderebbe, infatti, un assottigliamento anche dell’eventuale contenzioso in sede di aggiudicazione. Un eventuale ricorso di altri concorrenti contro l’ammissione dell’aggiudicatario (e conseguentemente contro l’aggiudicazione), per l’appunto, sarebbe ammesso solo in quanto si deduca positivamente l’esistenza delle cause ostative. E’ evidente che tutto risulterebbe più snello e, in considerazione di ciò, si reputa decisivo l’apporto chiesto e rimesso al massimo Consesso amministrativo. CC |
Inserito in data 04/05/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 30 aprile 2014, n. 2273 Sull'art. 68 del d.lgs. 163 del 2006
I Giudici di Palazzo Spada si soffermano in merito alla circostanza secondo la quale le stazioni appaltanti non possono respingere un'offerta per il motivo che i prodotti ed i servizi offerti non sono conformi alle specifiche di riferimento, nel caso in cui, nell'offerta stessa, è data prova che le soluzioni proposte corrispondano in maniera equivalente. Quanto al rigetto del ricorso principale, si evince che “l’appellante osserva in primo luogo che la valutazione espressa dall’Area farmaceutica concerne la mera conformità del prodotto alla specifica tecnica di cui al capitolato tecnico, ma non tiene conto del fatto che - alla stregua dei chiarimenti forniti dalla stessa stazione appaltante nonché ai sensi di precise disposizioni dell’art. 68 del D.Lgs. n. 163/2006 - è ammessa la fornitura di prodotti equivalenti ancorché non conformi, quale il prodotto offerto dalla medesima appellante” ed ancora che “tale giudizio di equivalenza non è stato a suo dire svolto dall’Area farmaceutica, che si è limitata ad una pedissequa valutazione di non conformità”. Dunque, di fronte all’evidente omissione del giudizio di equivalenza da parte dell’Area farmaceutica, che “si era limitata assolutamente al vero il fatto che la provetta con le caratteristiche in questione è prodotta da altri, oltre che dall’odierna appellata”, come ammette l’azienda nel foglio illustrativo della provetta stessa; la disciplina di gara, pertanto, risulta essere palesemente anticoncorrenziale, se interpretata nel senso di ammettere prodotti fabbricati esclusivamente da un solo operatore economico. Non è rilevante e non è neppure verosimile, poi, che, come sostenuto dalla appellante in base ad un dato meramente letterale (in quanto è utilizzata solo la espressione “non conforme”), che l’Area farmaceutica si sarebbe limitata a valutare la non conformità del prodotto e non abbia proceduto all’esame di equivalenza; è invece da presumere che, nelle circostanze date, il giudizio di non conformità comprenda necessariamente il giudizio di non equivalenza, se non viene altrimenti specificato. In ogni caso, se è del tutto pacifico che, ai sensi dell'art. 68, comma 4, del d.lgs. n. 163 del 2006, non è consentito alle stazioni appaltanti respingere un'offerta per il motivo che i prodotti ed i servizi offerti non sono conformi alle specifiche di riferimento, se nell'offerta stessa è data prova, con qualsiasi mezzo appropriato, che le soluzioni proposte corrispondano in maniera equivalente ai requisiti richiesti dalle specifiche tecniche, ciò significa che, “in caso di prodotto non conforme e di mancanza della citata prova in sede di offerta (il che, come s’è detto, non è contestato nella fattispecie all’esame ), ne deriva l’automaticità dell’esclusione, senza che possa ravvisarsi in capo alla stazione appaltante un onere di attività di indagine circa l’eventuale equivalenza.” GMC |
Inserito in data 04/05/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 30 aprile 2014, n. 2271 Sull'azione di dissociazione in tema di gare d'appalto Pur non essendo un istituto giuridico codificato, la dissociazione può aver luogo mediante forme diversificate, ma deve tuttavia risultare “esistente, univoca e completa.” Infatti, alla luce della odierna giurisprudenza del Consiglio di Stato e della CGA, la dichiarazione di dissociazione, deve richiamare misure “concretamente adottate” e deve altresì correlarsi a “specifiche condotte penalmente rilevanti.” Nel caso ivi esaminato, l'azione di dissociazione intrapresa dalla società non è sufficiente a realizzare un'effettiva dissociazione dalla condotta dell'ex amministratore; come premesso, per rilevare in senso esimente la dissociazione, infatti, deve, da un lato, correlarsi ad una specifica condotta penalmente sanzionata e deve richiamare soprattutto atti o misure concretamente adottate (ad es. azione di responsabilità) dall’impresa nei confronti dell’amministratore medesimo. A ciò ne consegue, dunque, che la mera dichiarazione in via ipotetica ed eventuale prodotta dall’appellante, non comporta quella dissociazione esistente, univoca e completa richiesta dalla giurisprudenza (si confronti altresì la sent. n. 4804 del 2007) e quindi non vale a sopperire alle carenze sostanziali della originaria autocertificazione. Risulta chiaro che, se non si richiedesse un' “effettività” della dissociazione, la norma che vieta la partecipazione delle imprese alle gare d'appalto i cui amministratori siano incorsi in reati incidenti sulla moralità professionale, si presterebbe a delle facili elusioni e le attività di dissociazione rivestirebbero la qualità di mere “operazioni di facciata'”, consentendo in tal senso il perpetrarsi di illeciti ed il rischio che si assuma, quale contraente con la Pubblica Amministrazione, un soggetto non affidabile, rischio che, alla luce dell'art. 38, del d.lgs. n. 163/2006, il quale prevede i “Requisiti di ordine generale” ai fini della partecipazione alle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti di lavori, servizi e forniture, il Legislatore tenta di fronteggiare. GMC |
Inserito in data 04/05/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 30 aprile 2014, n. 2271 Sull'azione di dissociazione in tema di gare d'appalto Pur non essendo un istituto giuridico codificato, la dissociazione può aver luogo mediante forme diversificate, ma deve tuttavia risultare “esistente, univoca e completa.” Infatti, alla luce della odierna giurisprudenza del Consiglio di Stato e della CGA, la dichiarazione di dissociazione, deve richiamare misure “concretamente adottate” e deve altresì correlarsi a “specifiche condotte penalmente rilevanti.” Nel caso ivi esaminato, l'azione di dissociazione intrapresa dalla società non è sufficiente a realizzare un'effettiva dissociazione dalla condotta dell'ex amministratore; come premesso, per rilevare in senso esimente la dissociazione, infatti, deve, da un lato, correlarsi ad una specifica condotta penalmente sanzionata e deve richiamare soprattutto atti o misure concretamente adottate (ad es. azione di responsabilità) dall’impresa nei confronti dell’amministratore medesimo. A ciò ne consegue, dunque, che la mera dichiarazione in via ipotetica ed eventuale prodotta dall’appellante, non comporta quella dissociazione esistente, univoca e completa richiesta dalla giurisprudenza (si confronti altresì la sent. n. 4804 del 2007) e quindi non vale a sopperire alle carenze sostanziali della originaria autocertificazione. Risulta chiaro che, se non si richiedesse un' “effettività” della dissociazione, la norma che vieta la partecipazione delle imprese alle gare d'appalto i cui amministratori siano incorsi in reati incidenti sulla moralità professionale, si presterebbe a delle facili elusioni e le attività di dissociazione rivestirebbero la qualità di mere “operazioni di facciata'”, consentendo in tal senso il perpetrarsi di illeciti ed il rischio che si assuma, quale contraente con la Pubblica Amministrazione, un soggetto non affidabile, rischio che, alla luce dell'art. 38, del d.lgs. n. 163/2006, il quale prevede i “Requisiti di ordine generale” ai fini della partecipazione alle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti di lavori, servizi e forniture, il Legislatore tenta di fronteggiare. GMC
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Inserito in data 03/05/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 30 aprile 2014, n. 2252 Nomina della commissione giudicatrice e onere di impugnazione Il provvedimento di nomina della Commissione giudicatrice di una gara d'appalto può essere impugnato dal partecipante alla selezione che si ritenga leso nei suoi interessi non in via autonoma, ma solo quando, con l'approvazione delle operazioni concorsuali e la nomina dell'aggiudicatario, si esaurisce il procedimento amministrativo e diviene compiutamente riscontrabile la lesione della sfera giuridica dell'interessato. Anche in caso di concorso pubblico, si riconosce che il termine per l'impugnazione degli atti del procedimento diversi dall'esclusione dalla partecipazione o dai giudizi negativi formulati dalla Commissione sulle prove di esame decorre dalla data di conoscenza del relativo esito, coincidente col provvedimento di approvazione della graduatoria. Infatti, solo da tale atto può scaturire la lesione attuale della posizione degli interessati e la sua conoscenza reca in sé tutti gli elementi che consentono all'interessato di percepirne la portata lesiva. Solo nel caso in cui evidenzi la presenza di una causa di astensione fondate su ragioni di opportunità, l’interessato è tenuto a farle emergere nel corso del procedimento amministrativo, a pena di preclusione della censura in un successivo contenzioso giurisdizionale. Sicché nel caso in cui l’amministrazione opponga un diniego alla sostituzione, l’interessato è tenuto ad impugnarlo, non potendo attendere di reagire avverso il provvedimento di aggiudicazione dell’appalto. CDC
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Inserito in data 03/05/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 30 aprile 2014, n. 2280 Sul riparto di giurisdizione in tema di pubblico impiego La sentenza conferma che la tutela giurisdizionale inerente al rapporto di lavoro di un pubblico dipendente può avvenire davanti al giudice amministrativo quando venga impugnato direttamente un atto di macro-organizzazione che si assume autonomamente lesivo e davanti al giudice ordinario quando il dipendente contesti l'atto di gestione, applicativo o consequenziale rispetto a quello organizzativo. Dunque, come costantemente affermato in giurisprudenza, spetta alla giurisdizione del giudice amministrativo la diretta cognizione degli atti recanti le linee fondamentali di organizzazione degli uffici, adottati dalle amministrazioni quali atti presupposti, nei confronti dei quali sono configurabili situazioni di interesse legittimo derivando gli effetti pregiudizievoli direttamente dall'atto presupposto, mentre la cognizione spetta al giudice ordinario quando il giudizio investe direttamente atti di gestione del rapporto in relazione ai quali i suddetti provvedimenti di autoregolamentazione costituiscono solamente atti presupposti. CDC
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Inserito in data 02/05/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 30 aprile 2014, n. 2247 L’art. 21octies L. n. 241/90 non legittima la motivazione postuma del provvedimento Con la pronuncia in commento, il Consiglio di Stato interviene sulla vexata quaestio dell’ammissibilità dell’integrazione postuma della motivazione provvedimento amministrativo alla stregua dell’art. 21octies L. n. 241/90. Ad avviso del Giudice di primo grado, l’art. 21 octies, comma 2, prima parte, avrebbe introdotto la regola del regola del raggiungimento dello scopo, così trasformando il processo amministrativo relativo agli atti vincolati da giudizio sull’atto a giudizio sul rapporto e superando il tradizionale principio del divieto di motivazione postuma. Diversamente, per la Terza Sezione del Consiglio di Stato, “la motivazione del provvedimento costituisce l’essenza e il contenuto insostituibile della decisione amministrativa, anche in ipotesi di attività vincolata, e non può certo essere emendata o integrata, quasi fosse una formula vuota o una pagina bianca, da una successiva motivazione postuma, prospettata ad hoc dall’Amministrazione resistente nel corso del giudizio”. Segnatamente, “il difetto di motivazione nel provvedimento impugnato non può essere in alcun modo assimilato alla violazione di norme procedimentali o ai vizi di forma, costituendo la motivazione del provvedimento il presupposto, il fondamento, il baricentro e l’essenza stessa del legittimo esercizio del potere amministrativo (art. 3 della l. 241/1990) e, per questo, un presidio di legalità sostanziale insostituibile, nemmeno mediante il ragionamento ipotetico che fa salvo, ai sensi dell’art. 21-octies, comma 2, della l. 241/1990, il provvedimento affetto dai c.d. vizi non invalidanti”. TM |
Inserito in data 02/05/2014 CORTE DI CASSAZIONE - PRIMA SEZIONE PENALE, SENTENZA 16 aprile 2014, n. 16711 Compatibilità tra l’aggravante della premeditazione e il dolo alternativo La Prima Sezione della Corte di Cassazione riconosce la compatibilità tra l’aggravante della premeditazione e il dolo alternativo. “Va premesso che il riconoscimento della premeditazione, configurata come circostanza aggravante nei delitti di omicidio volontario e di lesioni personali, è condizionato dal positivo accertamento di due presupposti, uno cronologico, altro soggettivo: il primo è rappresentato da un apprezzabile, ma non preventivamente individuato dalla norma di legge, lasso di tempo intercorso tra l’insorgenza del proposito criminoso e la sua attuazione concreta, tale comunque da consentire la possibilità di riflessione circa la possibilità e l’opportunità del recesso, il secondo dalla perdurante determinazione criminosa nell’agente senza soluzioni di continuità e senza ripensamenti dal momento del concepimento dell’azione antigiuridica fino alla sua realizzazione. Il legislatore ritiene dunque meritevole di una punizione più severa colui che, rispetto alla situazione di ideazione e normale ponderazione che usualmente precede l’agire umano, si distingue per la particolare fermezza e costanza nel tempo dell’intenzione criminosa […] perché dimostra la maggiore intensità del dolo e quindi una più spiccata capacità a delinquere”. “Si è altresì affermato che l’elemento cronologico non si presta in sé ad una quantificazione minima, valevole in astratto per ogni caso, ma richiede comunque un’estensione temporale tale da consentire all’agente la riconsiderazione della decisione assunta e da far prevalere la spinta al crimine rispetto ai freni inibitori”. “Inoltre, […] la ricostruzione probatoria della premeditazione non può esaurirsi nel mero accertamento della preventiva acquisizione dei mezzi, dei luoghi e degli strumenti materiali con cui tradurre in pratica il proposito criminoso […]. E’ piuttosto necessario fare ricorso ad elementi estrinseci e sintomatici, individuati a livello esemplificativo nella causale dell’azione, nell’anticipata manifestazione dell’intento poi attuato, non contraddetto da condotte opposte, nella ricerca dell’occasione propizia, nella meticolosa organizzazione e nell’accurato studio preventivo delle modalità esecutive, nella violenza e reiterazione dei colpi inferti”. “Deve poi tenersi conto che per integrare l’aggravante, di natura soggettiva, non è sufficiente un generico proposito di fare ricorso alla violenza. Seppure, come è pacifico, il dolo quale rappresentazione del fatto reato tipizzato, non include l’identità personale della prefigurata vittima, in quanto elemento esterno al fatto […], ciò nonostante i caratteri di fermezza ed irrevocabilità della risoluzione, necessari per individuare la premeditazione, assumono rilievo se posti in relazione ad un bersaglio specifico, già previamente individuato e contro il quale sia diretta l’azione”: per cui l’aggravante non è ravvisabile quando, per l’interferenza di fattori e circostanze non preventivati, l’agente impulsivamente decida di offendere un soggetto diverso da quello premeditato; mentre, la premeditazione si configura in caso di aberratio ictus, ossia quando l’agente offende un soggetto diverso da quello programmato per un errore esecutivo, atteso che l’aggravante de qua non riguarda le condizioni o qualità della persona offesa o i rapporti tra offeso e colpevole (che, ai sensi dell’art. 60 c.p., non sono posti a carico dell’agente in caso di errore sulla persona offesa). Nel caso del dolo alternativo, “l’agente si prefigura e vuole sin da un momento anticipato rispetto a quello della realizzazione del suo intento in modo indifferente e alternativo che si verifichi l’uno o l’altro degli eventi causalmente ricollegabili alla sua condotta cosciente e volontaria, sicché, posto l’atteggiamento psicologico di sostanziale equivalenza rispetto agli effetti conseguibili, egli risponde per quello in concreto determinato”. Premesso ciò, per la Suprema Corte, “Questa equivalenza di conseguenze dell’azione, previste e perseguite con indifferenza da parte dell’autore del reato, per poter essere compatibile con la premeditazione deve risalire al momento dell’ideazione del progetto criminoso ed essere mantenuta costante per uno spazio temporale apprezzabile e tale da consentire una differente determinazione senza che mai nel frattempo la volontà del soggetto attivo abbia risolto l’alternativa con una risoluzione definitiva per l’evento meno grave”. TM
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Inserito in data 30/04/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 29 aprile 2014, n. 2208 La tutela della situazione familiare prevale sugli automatismi delle condanne ostative Il Supremo Consesso ha accolto il ricorso promosso da un cittadino albanese avverso il diniego di rinnovo di permesso di soggiorno motivato sulla base della mera esistenza di una condanna in materia di stupefacenti. Ai sensi dell’art. 4 del TU n. 286/1998, come modificato dall’art. 4 della legge n. 189/2002, infatti, questa tipologia di reato rientrerebbe tra quelli che comportano automaticamente l’ostatività al rinnovo del permesso di soggiorno. L’appellante, tuttavia, ha osservato che la norma in questione, laddove fosse interpretata nel senso di escludere in modo assoluto la possibilità per il giudice amministrativo di valutare eventuali elementi sopravvenuti o la situazione lavorativa e soprattutto familiare meritevole di tutela, e di alcun accertare l’effettiva pericolosità sociale del richiedente, si porrebbe in contrasto con le disposizioni dell’art. 5, comma 5, del D.Lgs n. 286/1998, come modificate dal D.Lgs. n. 5/2007 e successivamente interpretate dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato e da quella della Corte di Cassazione. La stessa Corte Costituzionale, con sent. 172/2012, con riguardo alle procedure di emersione, “ha escluso che sia costituzionalmente legittima la equiparazione degli effetti delle condanne ostative per i reati rientranti nell’art. 380 c.p.p. a quelle per i reati di minore gravità di cui all’art. 381 c.p.p., in relazione alle quali occorre una specifica verifica di effettiva pericolosità sociale”. Più precisamente si rileva la necessità di tenere in debita considerazione alcuni elementi concomitanti quali la durata del soggiorno dello straniero, la situazione familiare dello stesso e l’attualità della pericolosità sociale. Si veda sul punto la sentenza della Corte costituzionale n. 202/2013, che” ha esteso tale tutela alla situazioni familiari costituitesi in Italia, assimilabili al ricongiungimento familiare stesso” il cui effetto è stato quello di dare prevalenza alla tutela della situazione familiare ed in particolare all’esistenza di effettivi legami familiari con figli pienamente radicati nel nostro paese “rispetto ai meccanismi automatici di valutazione della pericolosità sociale in base alle cosiddette condanne ostative”. Secondo i giudici di Palazzo Spada, dunque, anche in questo caso dovrà trovare applicazione l’art. 4, comma 3, ultimo periodo, del D.Lgs. n. 286/1998 secondo cui “Lo straniero per il quale e' richiesto il ricongiungimento familiare, ai sensi dell'articolo 29, non e' ammesso in Italia quando rappresenti una minaccia concreta e attuale per l'ordine pubblico o la sicurezza dello Stato o di uno dei Paesi con i quali l'Italia abbia sottoscritto accordi per la soppressione dei controlli alle frontiere interne e la libera circolazione delle persone”. VA |
Inserito in data 30/04/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 29 aprile 2014, n. 2213 I maggiori costi espropriativi vanno addebitati solo al soggetto che vi ha dato causa Il Consiglio di Stato, chiamato a pronunziarsi in merito alla legittimità del provvedimento amministrativo con il quale è stata richiesta, a titolo di conguaglio, l’integrazione del corrispettivo per le concessioni del diritto di superficie assegnate giusta convenzioni stipulate ex art. 35 della legge 22 ottobre 1971 n.86, ha confermato la decisione del giudice di primo grado che ha affermato: “che il diritto al conguaglio esiste unicamente con riferimento ai costi relativi all’acquisizione dell’area oggetto di ciascuna specifica convenzione e non in relazione a quelli sopportati per tutte le aree dei vari comparti; che l’integrazione del corrispettivo di acquisizione per ciascuna area deve essere collegata ai costi effettivamente sostenuti per la singola area. […] Vero è che l’art.35 della legge n.865/1971 prevede l’esatta corrispondenza tra i costi effettivamente sostenuti dal Comune per l’acquisizione delle aree e il corrispettivo del diritto di superficie ( Cons. Stato Se. IV 22/3/2011 n.1751), ma tale regola deve essere fatta valere con riferimento al singolo intervento, cioè a ciascun area , oggetto di singola convenzione”. Il Supremo Consesso, inoltre, ha precisato che le disposizioni di cui all’art. 5 bis del d.l. n.333/92 convertito nella legge n.359/92 recante un nuovo criterio di stima dell’indennità di esproprio delle aree edificabili (con riferimento alle quali era stata richiesta la revisione del prezzo), ai sensi del comma 6 dello stesso articolo, si applicano “ in tutti i casi in cui non sono stati ancora determinati in via definitiva il prezzo, l’entità dell’indennizzo e/o del risarcimento del danno”. Nel caso di specie, tuttavia, non risultavano contestazioni giudiziali aperte, presumendosi, dunque, la già avvenuta definizione dei costi e la loro consolidazione, sicché non si sarebbe potuto parlare di maggiori oneri espropriativi, anche a seguito della sopravvenienza di nuovi criteri di calcolo delle indennità. “Se così è, la clausola di “salvo conguaglio” di cui all’art.3 delle convenzioni stipulate tra le parti qui in controversia non può essere fatta valere dall’Amministrazione giacché la richiesta di integrazione si pone in contrasto con l’assetto normativo sopra illustrato che consente il pareggio economico unicamente per ogni singolo intervento oltreché rivelarsi irrazionale ed ingiusta, non potendo il preteso conguaglio operare per un rapporto giuridico ormai definito ed intangibile (…), laddove i maggiori costi espropriativi riguardano aree diverse da quelle della concessionaria appellata e non possono essere “spalmati” indistintamente, anche su chi, per così dire, come la Società appellata, risulti incolpevole”. VA |
Inserito in data 29/04/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 11 aprile 2014 n. 1793 La proroga delle convenzioni Consip ex D.L. 95/12 viola il diritto comunitario Con la sentenza in esame i Giudici di Palazzo Spada, conformemente all’insegnamento della Corte di Giustizia e della Corte Costituzionale, ritengono che vada disapplicato l’art. 1 del D. L. 95/2012 per contrasto con il diritto comunitario. La disposizione suddetta, infatti, prevedendo che «le quantità ovvero gli importi massimi complessivi» delle Convenzioni CONSIP «sono incrementati in misura pari alla quantità ovvero all’importo originario, a decorrere dalla data di esaurimento della convenzione stessa, ove questa intervenga prima del 31 dicembre 2012» e che «la durata delle convenzioni di cui al precedente comma 15 è prorogata fino al 30 giugno 2013, a decorrere dalla data di esaurimento della convenzione originaria», viola “gli artt. 28 e 31, Dir 2004/18 CE, che precludono la possibilità di affidare contratti pubblici di servizi e forniture senza procedure di gara a evidenza pubblica”. Invero, dal combinato disposto delle norme comunitarie, si deduce che gli Stati membri possono aggiudicare gli “appalti pubblici facendo ricorso vuoi alla procedura aperta o ristretta, vuoi, nelle circostanze specifiche espressamente previste all’art. 29 della direttiva 2004/18, al dialogo competitivo, vuoi ancora, nelle circostanze specifiche espressamente elencate agli artt. 30 e 31 della medesima direttiva, ad una procedura negoziata. L’aggiudicazione di appalti pubblici mediante altre procedure non è autorizzata dalla detta direttiva” (Corte di Giustizia CE, sez. III, 10 dicembre 2009, causa C-299/08, punto 29). In particolare, l’art. 31, comma 1, n. 4, lett. b) “consente il rinnovo dell’affidamento ricorrendo alla procedura negoziata solo quando ricorrono le condizioni ivi indicate tra le quali rileva che la possibilità del rinnovo sia indicato “sin dall’avvio del confronto competitivo” e l’importo totale previsto per la prosecuzione sia individuato nel bando”. D’altra parte, la violazione della normativa comunitaria non può essere confutata dalla “natura transitoria della norma”, né tanto meno dalla “finalità di risparmio per le Finanze pubbliche in periodo di necessaria “spending review” ”. EMF |
Inserito in data 29/04/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 23 aprile 2014 n. 2063 Esclusione dalla gara pubblica e regime della doppia impugnazione La giurisprudenza è concorde nel ritenere che “l'interesse finale che un soggetto escluso da una gara pubblica fa valere è quello di assicurarsi il bene della vita cui mira, ossia l'aggiudicazione, atteso che la rimozione dell'esclusione costituisce un passaggio solo strumentale. Data la relazione intercorrente fra esclusione ed aggiudicazione, di conseguenza, anche quest'ultima deve essere necessariamente impugnata (eventualmente insieme alla prima), poiché il difetto d'impugnazione dell'aggiudicazione avrebbe come conseguenza l’inutilità di un’eventuale decisione di annullamento dell'esclusione. Tale decisione, infatti, non varrebbe a rimuovere anche l'aggiudicazione (che sarebbe affetta da un’invalidità ad effetto solo viziante, e non caducante : cfr. C.d.S., V, 14 dicembre 2011, n. 6539), e perciò non permetterebbe un reinserimento dell'escluso nel flusso della procedura, ormai esaurita ed inoppugnabile (C.d.S., III, 16 marzo 2012, n. 1091; V, 14 dicembre 2011, n. 6544; 17 maggio 2012, n. 2826)”. In sostanza, il ricorso avverso l'esclusione da una gara diventa “improcedibile tutte le volte in cui l'aggiudicazione finale intervenga, e sia conosciuta, prima della pronunzia sul relativo gravame, senza che l'impugnazione sia stata estesa anche al nuovo atto (C.d.S., V, 19 luglio 2013, n. 3940; 15 maggio 2013, n. 2626; 14 dicembre 2011, n. 6539; 18 febbraio 2009, n. 950; 11 luglio 2008, n. 3433; III, 25 gennaio 2013, n. 481)”. Ciò può desumersi anche dal disposto “dell’art. 79, comma 5, lett. a), d.lgs. n. 163 del 2006, che impone all'Amministrazione di comunicare il provvedimento di aggiudicazione anche ai concorrenti esclusi che abbiano proposto -o siano in termini per proporre- ricorso avverso l'esclusione (C.d.S., II, 26 novembre 2008, n. 3921)”. Né la parte può “ritenersi esonerata dalla necessaria impugnativa per il fatto di avere già gravato la precedente aggiudicazione provvisoria. Questa, infatti, ha natura di atto endoprocedimentale (la cui autonoma impugnabilità si riconnette ad una mera facoltà, e giammai ad un onere, del concorrente non aggiudicatario), ad effetti ancora instabili e del tutto interinali, sicché è inidonea a produrre la definitiva lesione del soggetto non risultato aggiudicatario, che si verifica solo con l'aggiudicazione definitiva (C.d.S., V, 20 giugno 2011, n. 3671; 11 gennaio 2011, n. 80; III, 11 marzo 2011, n. 1581; VI, 20 ottobre 2010, n. 7586; Ad.Pl., n. 31 del 31 luglio 2012; V, 13 maggio 2013, n. 2578; 27 marzo 2013, n. 1828; III, 11 febbraio 2013, n. 763)”. Sul tema, peraltro, l’Adunanza Plenaria n. 31 del 31 luglio 2012 “ha chiarito che l’onere di agire in giudizio contro l’aggiudicazione definitiva di cui si sia venuti a conoscenza è immediato, e la sua insorgenza non può essere differita all’esito del successivo controllo sul possesso dei requisiti di gara in capo all’aggiudicataria ai sensi dell’art. 11, comma 8, del d.lgs. n. 163/2006”. La figura dell’atto ad efficacia subordinata a controllo successivo, infatti, non è in linea con le caratteristiche peculiari dell’aggiudicazione definitiva: quest’ultima “da un lato fa sorgere in capo all’aggiudicatario un’aspettativa alla stipulazione del contratto di appalto” e, dall’altro, “produce nei confronti degli altri partecipanti alla gara un effetto immediato consistente nella privazione definitiva, salvo interventi in autotutela della stazione appaltante o altre vicende non prevedibili né controllabili, del “bene della vita” costituito dall’aggiudicazione”. Sotto il profilo risarcitorio, invece, viene in rilievo la previsione dell’art. 34, comma 3, C.P.A., secondo la quale “Quando, nel corso del giudizio, l'annullamento del provvedimento impugnato non risulta più utile per il ricorrente, il giudice accerta l'illegittimità dell'atto se sussiste l'interesse ai fini risarcitori”. A tal proposito, è stato osservato che “l'applicazione di tale norma presuppone un’espressa istanza dell'interessato (V, 6 dicembre 2010, n. 8550; 14 dicembre 2011, n. 6539)”, il quale è tenuto a dimostrare “la concreta possibilità, attraverso il rinnovo delle operazioni di gara, di poter quantomeno avere in astratto titolo all'aggiudicazione. In tal senso la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha avuto modo di affermare come "la domanda di risarcimento del danno non può essere valutata in presenza della sola illegittimità dell'esclusione , non rilevando al momento un " danno risarcibile" connesso direttamente a tale illegittimità." (Consiglio Stato, sez. IV, 28 febbraio 2005 , n. 751)” (così C.d.S., V, 18 febbraio 2009, n. 950). EMF |
Inserito in data 28/04/2014 CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 22 aprile 2014, n. 12 Traslatio iudicii in appello, consumazione del potere di impugnare e giudicato Il massimo Consesso amministrativo risolve la diatriba riguardo alle conseguenze derivanti dalla dichiarazione di inammissibilità – a seguito della erronea devoluzione al Consiglio di Stato anzichè al Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana - dell’appello avverso pronunce emesse dal TAR Sicilia. Si pronuncia, frattanto, sul quesito relativo alla esperibilità della traslatio iudicii in sede di gravame; nella specie, avendo riguardo alla peculiarità del caso, invero prospettabile dinanzi al Collegio siciliano. La questione controversa vede il confronto tra due orientamenti: il primo, prevalente, a tenore del quale dall’inammissibilità deriva il passaggio in giudicato della sentenza, poiché si è consumato il potere di impugnazione (ex plurimis Cons. St., sez. IV, 21.10.1993, n. 898; Cons. St., sez. IV, 19.2.1990, n. 103). Invece, secondo altra tesi, minoritaria, la dichiarazione di inammissibilità non preclude la riassunzione, poiché non produce la consumazione del potere di impugnare (Cons. St., sez. III, 16.4.2011, n. 2340). A sostegno di tale assunto, peraltro, si sosteneva l'estensibilità – al giudizio di secondo grado – dell’art. 50 c.p.c. – che statuisce la riassunzione dinanzi al Giudice ritenuto realmente competente. Il sommo Consesso amministrativo, richiamando ed applicando principi ormai saldi nell’esperienza processual – civilistica, aderisce al primo orientamento. Evidenzia, infatti, come l’individuazione del giudice di appello, ex art. 341 c.p.c., attiene ad una “competenza” territoriale del tutto sui generis: dipende indefettibilmente dalla sede del giudice a quo, sicché è dotata di un carattere prettamente funzionale che impedisce il definitivo suo radicamento presso un giudice diverso, per il fatto che la questione non sia stata posta in limine litis (Sezioni Unite civili, 22.11.2010, n. 23594). Pertanto, considerando la peculiare natura del Giudice d’appello – come appena descritta – si ritiene errata l’applicabilità della traslatio iudicii in sede di gravame – come paventata dal secondo filone giurisprudenziale: si tratta, infatti, di un Organo giudiziario che risponde a logiche peculiari, al punto da poter parlarsi di “competenza funzionale”. Tanto più, sottolineano i Giudici della Plenaria, con riferimento al caso di specie, ove è espressamente prevista dalla legge (Cfr. Decreto legislativo presidenziale 6 maggio 1948 n. 654 attuativo dell’art. 23 dello Statuto della Regione Siciliana - R.D.L. 15 maggio 1946, n. 455 e ss. mm.) la competenza del CGA – in sede di appello – avverso le pronunce emesse dai TAR siciliani. E’ una competenza funzionale, dunque inderogabile; come tale, non si ammette la “tollerabilità” propria dei difetti legati alla territorialità. Dunque, applicando tali coordinate al rito amministrativo, va esclusa la possibilità di estendere le norme che, in primo grado, disciplinano la riassunzione del processo dinanzi al Giudice competente. Il Collegio della Plenaria, consacrando la ratio della competenza dei Giudici d’appello siciliani, così conclude: l’appello ad un giudice diverso da quello individuato dalla legge determina la consumazione del potere di impugnare, ove siano decorsi i termini per il gravame, con conseguente passaggio in giudicato della sentenza impugnata. CC
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Inserito in data 28/04/2014 CORTE DI CASSAZIONE - PRIMA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 24 aprile 2014, n. 9276 Perimetri boschivi: non può essere illimitata la responsabilità civile dell’Ente Con un arresto di indubbia importanza ed intervenendo riguardo ad una vicenda “singolare”, gli Ermellini tracciano nuovamente i confini della responsabilità civile. Il caso in esame, emerso a seguito di uno scontro tra un’autovettura ed un cinghiale improvvisamente sbucato fuori da un bosco, consente, infatti, una delimitazione della responsabilità da parte dell’Ente titolare del fondo. Nella specie, si è ritenuto sostanzialmente ingiusto addebitare il carico della vicenda alla Regione: è impensabile, dicono i Giudici, pretendere che vengano recintate tutte le strade e che vengano segnalati tutti i perimetri boschivi. Si tratta di un’area in cui la responsabilità civile recede dinanzi alla struttura territoriale ed alla conseguente difficoltà, oggettivamente sussistente, di prevedere e delimitare i rischi potenziali. In forza di ciò, dunque, viene disposto l’esonero da ogni forma di responsabilità presuntivamente imputata all’Ente e, per l’effetto, annullata ogni pretesa risarcitoria avanzata nei riguardi di quest’ultimo. CC
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Inserito in data 27/04/2014 CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 22 aprile 2014, n. 11 Conflitto di competenza e coinvolgimento TAR Sicilia: disciplina applicabile La pronuncia è significativa perché traccia un principio di diritto, nell’interesse della legge – ex art. 99, 5’ c. C.p.A. – in materia di conflitti di competenza in cui sia interessato il TAR Sicilia. Il sommo Consesso, riecheggiando quanto già affermato dalla Plenaria 2/11, sostiene l’inapplicabilità – nel caso di specie - della norma di cui all'articolo 10, comma 5’ del decreto Legislativo 24 dicembre 2003, n. 373 recante "Norme di attuazione dello Statuto speciale della Regione siciliana concernenti l'esercizio nella regione delle funzioni spettanti al Consiglio di Stato". Tale disposizione, infatti, attribuisce all'Adunanza plenaria, integrata da due magistrati della Sezione giurisdizionale del Consiglio di Stato, la cognizione della diversa fattispecie dei conflitti di competenza, in sede giurisdizionale, “tra il Consiglio di giustizia amministrativa ed il Consiglio di Stato”. In questo modo, infatti, estendendo la composizione del massimo Collegio, diventa possibile garantire un maggiore equilibrio nel giudizio sui conflitti di competenza in cui sia coinvolto il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione siciliana. Ove, invece, il conflitto di competenza coinvolga un TAR siciliano – come nella vicenda in esame – la conoscibilità della questione è disciplinata dalle previsioni ordinariamente previste dal Codice del processo amministrativo. E' in questo senso, infatti, il tenore letterale del citato art. 10, co. 5’, d.lgs 273/2003 – come pocanzi richiamato – limitato solo agli Organi giurisdizionali di appello. CC |
Inserito in data 27/04/2014 CORTE DI CASSAZIONE - SECONDA SEZIONE CIVILE - SENTENZA 23 aprile 2014, n. 9219 Forma scritta ad substantiam anche per i contratti delle Aziende comunali Il Collegio di piazza Cavour sottolinea l’importanza della forma scritta nella stipula dei contratti, ricordandone l’applicabilità anche in sede di esercizio dell’autonomia negoziale degli Enti Locali che - ex art. 114 L. 267/2000 TUEL - agiscono iure privatorum. La forma scritta, infatti, ancor di più nell’ambito delle pratiche contrattuali destinate al pubblico interesse, è requisito imprescindibile che, ai sensi degli artt. 16 e 17 del R.D. n. 2440/1923, è dettato a salvaguardia del regolare svolgimento dell'attività amministrativa nell'interesse del cittadino e della collettività. Il rispetto di un simile parametro, infatti, costituisce remora ad arbìtri e, agevolando l'espletamento della funzione di controllo, consente il perseguimento dei principi di imparzialità e buon andamento della Pubblica Amministrazione, siglati dall’articolo 97 della Costituzione. In guisa di ciò, i Giudici, evidenziando – nella vicenda in esame - la carenza della forma scritta, respingono il ricorso di un’Azienda municipale – intenta a richiedere alla ditta appaltatrice il riconoscimento di una somma di denaro, presuntivamente dovuta ma, purtroppo, non desumibile da alcun contratto. CC
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Inserito in data 26/04/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 24 aprile 2014, n. 2064 Sul potere di qualificazione della domanda giudiziale Il Consiglio di Stato, con la decisione n. 8010 del 2003, rigettava l’appello proposto dal Comune di Castellammare di Stabia avverso la sentenza del TAR Campania, la quale aveva riconosciuto ai ricorrenti, dipendenti assunti ai sensi della legge 1° giugno 1977, n. 285, il diritto al pagamento di n. 582 ore lavorative non retribuite poiché erroneamente considerate come “attività di formazione”. Dunque, l’interessato, deducendo l’erroneità dei conteggi effettuati, nonché la conseguente insufficienza della somma liquidata dall’amministrazione nel 2004, adiva il Tribunale di Torre Annunziata, in funzione di giudice del lavoro, per ottenere il pagamento delle somme già riconosciute in sede di giurisdizione amministrativa con condanna generica, oltre al risarcimento dei danni, il quale declinava la propria giurisdizione in favore del g.a. Il TAR, dichiarando che l’amministrazione non aveva ancora eseguito il predetto giudicato e, perdurando l’ingiustificato inadempimento, ha nominato quale commissario ad acta il Prefetto di Napoli, respingendo la domanda volta ad ottenere un distinto risarcimento del danno, mancando i presupposti della responsabilità dell’amministrazione. Il Comune di Castellamare di Stabia ha chiesto la riforma della predetta sentenza, deducendone l’erroneità e l’ingiustizia alla stregua di cinque motivi di gravame; l’interessato ha resistito al gravame, deducendone l’inammissibilità e l’infondatezza. I giudici di Palazzo Spada hanno precisato che alla luce di “un consolidato indirizzo giurisprudenziale dal quale non vi è ragione per discostarsi, spetta al giudice la qualificazione giuridica dell’azione, potendo egli anche attribuire al rapporto giuridico dedotto in giudizio un nomen juris diverso da quello indicato dalle parti, purché non venga sostituita la domanda giudiziale, modificandone i fatti o fondandosi su una realtà fattuale diversa da quella allegata in giudizio (Cass. civ., sez. III, 3 agosto 2012, n. 13945; sez. I, 14 novembre 2011, n. 23794; sez. II. 10 febbraio 2010, n. 3012); ciò trova applicazione anche nel processo amministrativo, con la precisazione che in tale sede il potere del giudice deve esercitato nell’ambito e nei limiti dei motivi di censura sollevati dal ricorrente (principale ed eventualmente di quello incidentale).” Inoltre “è stato anche precisato che il potere di qualificazione della domanda giudiziale è consentito solo al giudice di primo grado (Cass. civ., sez. III, 14 maggio 2013, n. 11542), così che l’impugnazione di un provvedimento giurisdizionale deve essere proposta nelle forme previste dalla legge per la domanda così come è stata qualificata dal giudice, a prescindere dalla correttezza o meno di tale qualificazione, e non come le parti ritengano che debba essere qualificata (fermo restando poi il potere delle parti di censurare l’errore di giudizio relativo alla qualificazione della domanda con apposito motivo di gravame)”. Ciò posto, nel caso in oggetto, avendo la sentenza impugnata qualificato la domanda giudiziale come ottemperanza al giudicato formatosi sulla precedente sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Campania, sez. V, n. 463 del 6 febbraio 1998, anche il giudizio di appello deve seguire quel rito. GMC |
Inserito in data 26/04/2014 CORTE DI CASSAZIONE – SECONDA SEZIONE CIVILE - SENTENZA 15 aprile 2014, n. 8727 Litisconsorzio necessario per le cause sull'impianto di riscaldamento La Suprema Corte torna sul dibattuto tema del litisconsorzio necessario e, in tale specifico caso, si occupa delle cause concernenti l'impianto di riscaldamento all'interno di un condominio. Alla luce di quanto da ultimo affermato dalla giurisprudenza di legittimità, “sussiste litisconsorzio necessario processuale nei confronti del condomino dissenziente” per quanto concerne l'impianto di riscaldamento centralizzato in un condominio. La questione trattata in tal sede, ha avuto inizio già nel 2000 allorquando, due condomini, separatamente, adivano il Tribunale, successivamente ad una delibera condominiale che decideva la cessazione del servizio centralizzato di riscaldamento del “supercondominio”, senza indicazione alcuna con specifico riferimento alle modalità di trasformazione in impianti unifamiliari. Successivamente, l'assemblea condominiale, accoglieva la richiesta di un condomino di procedere alla cessazione del servizio centralizzato di riscaldamento, tuttavia, in una successiva delibera, il condominio stabilisce di voler continuare ad usufruire dell'impianto centralizzato. Dopo una riunione degli amministratori del condominio medesimo, si decise di negare gli stacchi unilaterali dall'impianto e, al condomino che già aveva proceduto a distaccarsene, si chiedeva, dunque, il pagamento delle quote ai fini dell'erogazione dell'elettricità. Considerando, tuttavia, la volontà contraria del condomino di pagare, l'assemblea rinunciava al rimborso, statuendo però il divieto di ulteriori distacchi dell'impianto centralizzato, stabilendo che anche i condomini distaccatisi “avrebbero dovuto contribuire alle spese di manutenzione e di esercizio”. Successivamente ad una vasta serie di ricorsi, la Suprema Corte ha sostenuto, nel caso di specie, che “sussiste litisconsorzio necessario processuale nei confronti del condomino dissenziente, che aveva impugnato la delibera assembleare, partecipato al giudizio di primo grado e non aveva appellato nel grado successivo. All'integrazione la Corte territoriale avrebbe dovuto provvedere d'ufficio e comunque la questione era stata sollevata dalle parti. Né al riguardo appare utile procedere all'interpretazione della presunta volontà di acquiescenza della parte pretermessa, con riguardo agli effetti che la pronuncia, adottata in assenza del contraddittorio necessario, potrebbe determinare. Infatti, deve rilevarsi che “se la decisione viene resa nei confronti di più condomini, che abbiano agito in uno stesso processo, tutti sono parti necessarie nei successivi giudizi di impugnazione, poiché per tutti deve potere fare stato soltanto la pronuncia finale, dandosi altrimenti luogo all'eventualità di giudicati contrastanti, con l'affermazione della legittimità della deliberazione per alcuni e della sua invalidità per altri” (Cass. n. 13331 del 2000, e n. 2471 del 1985). GMC
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Inserito in data 25/04/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 23 aprile 2014, n. 2063 Ricorso avverso esclusione da una gara: occorre impugnare anche l’aggiudicazione Il soggetto escluso da una gara pubblica fa l’interesse ad assicurarsi il bene della vita cui mira, cioè l'aggiudicazione, atteso che la rimozione dell'esclusione costituisce un passaggio solo strumentale. Dunque, anche l’aggiudicazione deve essere impugnata (eventualmente insieme all’esclusione), poiché il difetto d'impugnazione dell'aggiudicazione avrebbe come conseguenza l’inutilità di un’eventuale decisione di annullamento dell'esclusione. Tale decisione, infatti, non varrebbe a rimuovere anche l'aggiudicazione (affetta da un’invalidità ad effetto solo viziante, e non caducante), e perciò non permetterebbe un reinserimento dell'escluso nel flusso della procedura, ormai esaurita ed inoppugnabile. Pertanto, è improcedibile il ricorso avverso l'esclusione quando l'aggiudicazione finale intervenga, e sia conosciuta, prima della pronunzia sul relativo gravame, senza che l'impugnazione sia stata estesa anche al nuovo atto. Ciò si fonda anche sull’art. 79, comma 5, cod. appalti, che impone all'Amministrazione di comunicare il provvedimento di aggiudicazione anche ai concorrenti esclusi che abbiano proposto -o siano in termini per proporre - ricorso avverso l'esclusione. Né la parte può ritenersi esonerata dalla necessaria impugnativa per il fatto di avere già gravato la precedente aggiudicazione provvisoria. Questa, infatti, ha natura di atto endoprocedimentale (la cui autonoma impugnabilità si riconnette ad una mera facoltà, e giammai ad un onere, del concorrente non aggiudicatario), ad effetti ancora instabili e del tutto interinali, sicché è inidonea a produrre la definitiva lesione del soggetto non risultato aggiudicatario, che si verifica solo con l'aggiudicazione definitiva. CDC |
Inserito in data 25/04/2014 CORTE DI CASSAZIONE, SECONDA SEZIONE PENALE, SENTENZA 9 aprile 2014, n. 15829 Presunzione di trasferimento fittizio: confisca allargata e misure di prevenzione La sentenza affronta il tema del sequestro (funzionale alla confisca allargata ex art. 12-sexies d.l. 306/1992) di beni appartenenti ad un terzo. In tal caso, l’accusa è gravata da un duplice onere probatorio. Anzitutto, deve provare che il bene appartiene di fatto all’indagato, in quanto l’intestazione a favore di un terzo è fittizia. A tal fine, rilevano presunzioni, quali la parentela e la convivenza fra il dante causa e l’avente causa, nonché rapporti di amicizia o di lavoro, la gratuità dell’atto, la circostanza che il soggetto ha continuato ad avere la disponibilità di fatto del bene trasferito a terzi. Una volta che sia dimostrato che il bene è intestato fittiziamente al terzo, essendo, in realtà, di proprietà dell’indagato, scatta una nuova e diversa fase processuale nella quale l’accusa è gravata della prova vertente sull’esistenza di una sproporzione fra reddito dichiarato o proventi dell’attività economica dell’interessato e valore economico dei beni, nonché sulla mancanza di una giustificazione credibile circa la loro provenienza. Una volta che i suddetti fatti risultino provati, scatta una presunzione (iuris tantum) di illiceità dei beni appartenenti all’indagato, sicché deve ritenersi ingiustificato un acquisto effettuato in un tempo in cui l’indagato (o il condannato) non aveva adeguate disponibilità economiche. Queste norme sono diverse da quelle previste dall’art. 26 del d.lgs. 159/2011 per il procedimento di prevenzione. Tale disposizione prevede due presunzioni a favore dell’accusa, che riguardano i trasferimenti a favore di una determinata cerchie di persone (coniuge, parenti e affini) e gli atti a titolo gratuito avvenuti in un determinato arco temporale. Secondo la giurisprudenza, si tratta di norme dettate in un preciso ambito settoriale e non applicabili, in via analogica, nel normale processo penale, proprio perché si tratta di norme speciali. Peraltro, come si è detto, anche nel processo penale in cui si discute di un sequestro finalizzato alla confisca su beni di un terzo, l’accusa può addurre come prova presuntiva della simulazione sia il rapporto di parentela, sia la gratuità del’atto. Tuttavia, “mentre nel processo penale questi indizi rimangono tali non determinando alcuna inversione dell’onere probatorio (salva, ovviamente, la facoltà del terzo di difendersi allegando e provando il contrario), nel processo di prevenzione fanno automaticamente presumere la fittizi età del trasferimento invertendo, illico et immediate, l’onere probatorio a carico del terzo”. CDC
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Inserito in data 24/04/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 18 aprile 2014, n. 1998 G.O. sull’escussione di una fideiussione, il cui rapporto garantito ha natura pubblicistica “La Corte regolatrice della giurisdizione, ha avuto modo di chiarire, anche di recente, che è devoluta alla giurisdizione del Giudice Ordinario e non a quella del Giudice Amministrativo la controversia avente a oggetto l'escussione, da parte di un Comune, della polizza fideiussoria concessa a garanzia degli impegni assunti nell'ambito di una convenzione urbanistica relativa all'esecuzione di una costruzione edilizia, attesa l'autonomia tra i rapporti in questione e la circostanza che nella specie la P.A. agisce nell'ambito di un rapporto privatistico, senza esercitare, neppure mediatamente, pubblici poteri (Cfr. Cassazione civile, sez. un. 06/12/2012 n. 21912)”. “Non vale ad inficiare la validità del principio, la circostanza, evidenziata dagli appellanti in via incidentale, che nel caso di specie si tratterebbe non di un contratto autonomo di garanzia ma di una comune garanzia fideiussoria talchè vi sarebbe una dipendenza del rapporto di garanzia (privatistico) rispetto a quello garantito, quest’ultimo di natura pubblicistica”. “Il collegamento infatti non è riferito al pubblico potere, quanto, piuttosto alle obbligazioni scaturenti dall’accordo amministrativo, come tali involgenti posizioni paritarie di diritto soggettivo, non a caso rimesse alla giurisdizione esclusiva del GA. Le ragioni che hanno consigliato di estendere quest’ultima anche alle controversie relative all’esecuzione dell’accordo, non possono, di per sé sole, giustificare l’ulteriore estensione anche ai rapporti accessori a quelli obbligatori citati. La dilatazione sarebbe troppo ampia e striderebbe con la natura squisitamente privatistica del rapporto di garanzia”. Del resto, “Le Sezioni Unite, nella loro veste di giudice del riparto, hanno in più occasioni disatteso la tesi dello spostamento della giurisdizione per motivi di connessione”. “D’altro canto, non può essere enfatizzata, per derogare a detto assetto, neanche la finalità “di assicurare la concentrazione delle tutele”, pur richiamata dall’art. 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69”. Difatti, tale principio di concentrazione delle tutele costituiva uno dei criteri direttivi cui doveva attenersi il legislatore delegato, mentre “non consente di attrarre, in via meramente interpretativa e senza base normativa, nell’ambito della giurisdizione amministrativa controversie relative a diritti soggettivi, pure a prescindere dall’individuazione di una disposizione legislativa fondante un’ipotesi di giurisdizione esclusiva (così, Ad. Plen. n. 6 del 29/01/2014)”. TM |
Inserito in data 24/04/2014 CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE PENALI, SENTENZA 14 aprile 2014, n. 16207 L’induzione del minore alla prostituzione operata dal cliente rileva ex art. 600bis.2 cp Le Sezioni Unite sono state chiamate a risolvere un contrasto interpretativo, stabilendo “se la condotta di promessa o dazione di denaro o altra utilità, attraverso cui si convinca una persona minore di età ad intrattenere rapporti sessuali esclusivamente con il soggetto agente, integri gli estremi della fattispecie di cui al comma primo o di cui al comma secondo dell’art. 600-bis del codice penale”. In particolare, la più grave ipotesi di cui al primo comma punisce coloro che inducono i minori alla prostituzione, mentre il secondo comma punisce i clienti, ossia i soggetti che compiono atti sessuali col minore dietro pagamento. Il dubbio ermeneutico si era posto perché, in alcune pronunce si era affermato che la promessa o la dazione di denaro o altra utilità sarebbe di per sé idonea a indurre il minore alla prostituzione, stante il mancato raggiungimento di un pieno livello di maturità e la conseguente impossibilità di compiere scelte davvero consapevoli. Pertanto, il comma secondo troverebbe applicazione solo rispetto al cliente di un minore “corrotto” (già dedito alla prostituzione). Secondo le Sezioni Unite, invece, “la basilare distinzione fra induttore e cliente deve muoversi fra attività rientranti nell’ambito dell’offerta di prostituzione e attività rientranti nell’ambito della domanda”. Per cui, c’è induzione alla prostituzione quando un soggetto convince il minore a intrattenere rapporti sessuali con terzi, anche identificabili in un solo soggetto, a patto che questo non s’identifichi nell’induttore. Infatti, dagli stessi lavori preparatori della l. n. 269/98, emerge che solo con l’introduzione del secondo comma dell’art. 600bis c.p. si è inteso incriminare il “cliente”. Questa ricostruzione non compromette le esigenze di maggior tutela del minore sostenute a livello internazionale: infatti, tali esigenze hanno portato ad incriminare lo stesso pagamento del minore per ottenere una prestazione sessuale, mentre tale condotta non è punita se la prestazione sessuale acquistata è resa da un adulto. Inoltre, tale interpretazione è conforme al principio di offensività: in effetti, il quadro edittale più rigoroso previsto dal comma primo dell’art. 600-bis c.p. rispetto a quello del primo comma si giustifica solo per condotte più offensive della mera fruizione della prestazione sessuale. Infine, poiché la giurisprudenza ripudia l’idea di un minore “corrotto”, questa ricostruzione è l’unica che consente di evitare la tacita abrogazione dell’art. 600-bis c. 2°. Pertanto, “La condotta di promessa o dazione di denaro o altra utilità, attraverso cui si convinca una persona minore di età ad intrattenere rapporti sessuali esclusivamente con il soggetto agente, integra gli estremi della fattispecie di cui al comma secondo e non al comma primo dell’art. 600-bis del codice penale”. TM
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Inserito in data 23/04/2014 CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 18 aprile 2014, n. 105 Art. 69 – 4’ co. c.p., come sostituito dall’art. 3 L. 5 dicembre 2005, n. 251: questione di legittimità costituzionale La Corte Costituzionale, pronunciandosi sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. 69 comma 4 c.p., come sostituito dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251, nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante dell’art. 648 comma 2 c.p. sulla recidiva dell’art. 99 comma 4 c.p., ne ha sancito l’illegittimità per contrasto con gli artt. 3, 25 e 27 Cost. La Suprema Corte, invero, partendo dall’analisi della ratio che ha ispirato la formulazione dell’art. 69 c.p., ed in particolare del comma 4, consistente nella volontà di riequilibrare gli effetti della penalizzazione, anche attraverso la modifica delle cornici edittali di alcune ipotesi circostanziali, sostanzialmente diverse dai reati base, attraverso la comparazione delle stesse, (v. corte cost. 251/2012), ha analizzato gli effetti che la norma produrrebbe nel caso di specie. Se è vero, infatti, che sono ammesse delle deroghe al bilanciamento delle circostanza, la cui scelta introduttiva è rimessa al legislatore, queste sono “sindacabili da questa Corte « ove trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio» (sentenza n. 68 del 2012), ma in ogni caso «non possono giungere a determinare un’alterazione degli equilibri costituzionalmente imposti nella strutturazione della responsabilità penale» (sentenza n. 251 del 2012)”. Analizzando la divaricazione tra i livelli minimi di pena si osserva che, sì come accaduto con riferimento all’art. 73 comma 5 del d.p.r. 309/90, si avrebbe un aumento eccessivo rispetto a quello prodotto dall’art. 99 comma 4 c.p. Inoltre, “le differenti comminatorie edittali del primo e del secondo comma dell’art. 648 c.p. rispecchiano le diverse caratteristiche oggettive delle due fattispecie, sul piano dell’offensività e alla luce delle stesse valutazioni del legislatore”, ma laddove si applicasse l’art. 69 c.p. i due fatti verrebbero ricondotti nella medesima cornice edittale (con violazione dell’art. 25 cost.). “La recidiva reiterata, invece, riflette i due aspetti della colpevolezza e della pericolosità, pertanto questi, pur essendo pertinenti al reato, non possano assumere, nel processo di individualizzazione della pena, una rilevanza tale da renderli comparativamente prevalenti rispetto al fatto oggettivo”. Inoltre “la norma censurata, oltre che irragionevole, sarebbe in contrasto con il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., perché condurrebbe, in determinati casi, ad applicare pene identiche a violazioni di rilievo penale molto diverso”. Infine, osserva la Corte Costituzionale, la legittimità della previsione di trattamenti differenziati per i recidivi non esclude la possibilità di sottoporre al vaglio di legittimità costituzionale le singole previsioni laddove, come nel caso di specie, il trattamento sanzionatorio conseguente alla loro applicazione appaia sproporzionato rispetto alla gravità del fatto e, dunque, si ponga in contrasto anche con la finalità rieducativa della pena sancita a livello costituzionale (v. Corte Cost. 341/1994). In conclusione è stata dichiarata l’illegittimità dell’art. 69 comma 4 c.p. nella misura in cui, impedendo la prevalenza della circostanza attenuante prevista dall’art. 648 comma 2 c.p. sulla recidiva reiterata, comporta un trattamento sanzionatorio più grave per il soggetto che abbia compiuto un reato oggettivamente più lieve rispetto a colui che, pur avendo posto in essere una condotta maggiormente offensiva per l’ordine sociale, si veda riconosciuta la prevalenza delle circostanze attenuanti generiche. VA |
Inserito in data 23/04/2014 CORTE DI CASSAZIONE - PRIMA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 17 aprile 2014, n. 8965 Decorrenza del termine di prescrizione del danno da occupazione appropriativa La Corte di Cassazione, a seguito delle numerose condanne da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per il meccanismo di decorrenza della prescrizione concernente le ipotesi di espropriazione indiretta, ha rivisto il proprio orientamento giurisprudenziale. Con la pronuncia in questione, infatti, a dispetto delle precedenti pronunce nelle quali aveva individuato il dies a quo del decorso del termine prescrizionale nel momento in cui avviene l’irreversibile trasformazione del bene, la Suprema Corta ha affermato che “ai fini del decorso della prescrizione del diritto al risarcimento del danno da occupazione appropriativa, non è sufficiente la mera consapevolezza di avere subito un’occupazione e/o una manipolazione dell’immobile senza titolo, bensì occorre che il danneggiato si trovi nella possibilità di apprezzare la gravità delle conseguenze lesive per il suo diritto dominicale anche con riferimento alla loro rilevanza giuridica e, quindi, in particolare, al verificarsi dell’effetto estintivo-acquisitivo definitivo perseguito dall’amministrazione espropriante. L’onere di provare la ricorrenza del presupposto richiesto dall’art. 2947 c.c., coincidente con il momento in cui il trasferimento della proprietà con la sua rilevanza giuridica viene percepito o può essere percepito dal proprietario quale danno ingiusto ed irreversibile, grava sull’amministrazione, dovendosi ritenere, in mancanza, che tale momento coincida con quello della citazione introduttiva del giudizio, analogamente a quanto ritenuto dalla Corte europea”. Invero, a parere del Supremo Consesso, opinando diversamente, rimarrebbe troppo incerta l’esatta individuazione del suddetto momento, quanto meno per gli atti compiuti prima dell’entrata in vigore della l. 458/88, e verebbe leso il principio di effettività della tutela giurisdizionale in quanto si correrebbe il rischio che la proposizione del giudizio risarcitorio possa avvenire successivamente al decorso del termine prescrizionale. A parere della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, infatti, anche questo settore necessita di norme di diritto interno che siano accessibili, precise e prevedibili. VA
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Inserito in data 22/04/2014 CORTE DI CASSAZIONE, PRIMA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 17 aprile 2014, n. 8957 Vendita con patto di riscatto e divieto di patto commissorio La giurisprudenza è unanime nel ritenere che “il divieto del patto commissorio si estende a qualsiasi negozio che venga impiegato per conseguire il risultato concreto, vietato dall'ordinamento, dell'illecita coercizione del debitore a sottostare alla volontà del creditore, accettando preventivamente il trasferimento di proprietà di un suo bene come conseguenza della mancata estinzione del debito” (cfr. Cass., Sez. II, 20 febbraio 2013, n. 4262; 12 gennaio 2009, n. 437; Cass., Sez. III, 2 febbraio 2006, n. 2285). In particolare, ai fini dell'operatività del divieto, assume rilievo il profilo funzionale dell'operazione, “nel senso che l'assetto d'interessi risultante dalle pattuizioni intervenute tra le parti dev'essere tale da far ritenere che il meccanismo negoziale attraverso il quale deve compiersi il trasferimento del bene al creditore sia effettivamente collegato, piuttosto che alla funzione di scambio, ad uno scopo di garanzia, restando invece irrilevanti la natura obbligatoria, traslativa o reale del contratto attraverso il quale si realizza il predetto intento, il momento in cui l'effetto traslativo è destinato a realizzarsi, lo strumento negoziale destinato alla sua attuazione e la stessa identità delle parti che abbiano posto in essere i negozi preordinati al conseguimento del predetto risultato: al di fuori dell'ipotesi tipica contemplata dall'art. 2744 cod. civ., caratterizzata dalla costituzione in garanzia di un bene di cui il creditore è destinato ad acquistare automaticamente la proprietà in caso d'inadempimento, l'operatività del divieto è infatti subordinata alla configurabilità del negozio come mezzo per eludere tale norma imperativa, e quindi all'accertamento di una causa illecita, tale da rendere applicabile la sanzione di cui all'art. 1344 cod. civ. (cfr. Cass., Sez. II, 10 marzo 2011, n. 5740; 5 marzo 2010, n. 5426; 19 maggio 2004, n. 9466)”. Ne consegue che “pur non integrando direttamente un patto commissorio, anche la vendita con patto di riscatto o di retrovendita può rappresentare un mezzo per sottrarsi all'applicazione del relativo divieto, ogni qualvolta il versamento del prezzo da parte del compratore non si configuri come corrispettivo dovuto per l'acquisto della proprietà, ma come erogazione di un mutuo, rispetto al quale il trasferimento del bene risponda alla sola finalità di costituire una posizione di garanzia provvisoria, capace di evolversi in maniera diversa a seconda che il debitore adempia o meno l'obbligo di restituire le somme ricevute” (cfr. Cass., Sez. II, 8 febbraio 2007, n. 2725; 20 luglio 2001, n. 9900; Cass., Sez. I, 4 agosto 2006, n. 17705). EMF
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Inserito in data 22/04/2014 CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 18 aprile 2014, n. 104 Illegittima la disciplina regionale sul commercio lesiva della concorrenza Con la pronuncia in epigrafe, il Giudice delle Leggi dichiara l’illegittimità costituzionale degli articoli 2, 4, 7, 11 e 18 della legge della Regione autonoma Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste 25 febbraio 2013, n. 5. In particolare, l’art. 2 della legge reg. n. 5 del 2013, inserendo l’art. 1-bis nella legge reg. n. 12 del 1999, “conferisce alla Giunta regionale un potere di indirizzo volto alla determinazione di obiettivi di equilibrio della rete distributiva in rapporto alle diverse categorie e alla dimensione degli esercizi”. L’attribuzione di tale potere alla Regione incide sulla materia della «tutela della concorrenza» spettante, ex art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., alla competenza esclusiva del legislatore statale. Pertanto, “il titolo competenziale delle Regioni a statuto speciale in materia di commercio” non è idoneo ad impedire il pieno esercizio della competenza statale in materia di concorrenza, costituendo quest’ultima “un limite alla disciplina che le medesime Regioni possono adottare in altre materie di loro competenza” (C. Cost., sentenze n. 38 del 2013 e n. 299 del 2012). Tale declaratoria di illegittimità costituzionale si riverbera anche sull’art. 7 della L. reg. n. 5 del 2013, che “fa dipendere il rilascio dell’autorizzazione alla apertura delle indicate strutture di vendita dall’attestazione della conformità agli indirizzi definiti dalla Giunta regionale”. E’, altresì, illegittimo l’art. 4 della legge reg. n. 5 del 2013, che, “pur eliminando i vincoli alla apertura degli esercizi commerciali, eccettua espressamente dal suo ambito di applicazione le attività di commercio su area pubblica”. La disposizione, infatti, ripropone “limiti e vincoli in contrasto con la normativa statale di liberalizzazione, così invadendo la potestà legislativa esclusiva dello Stato in materia di tutela della concorrenza e violando, quindi, l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost.”. L’articolo 11 della L. Reg. summenzionata, invece, inserendo nell’art. 9 della legge reg. n. 12 del 1999 il comma 2-bis, introduce un divieto assoluto tanto all’apertura quanto al trasferimento delle grandi strutture di vendita nei centri storici. Tale divieto, incidendo direttamente sull’accesso degli operatori economici al mercato, “si risolve in un vincolo per la libertà di iniziativa di coloro che svolgono o intendano svolgere attività di vendita” (sentenza n. 38 del 2013); con la conseguenza che esso deve essere subordinato al “rigoroso rispetto dei principi di stretta necessità e proporzionalità della limitazione, oltre che del principio di non discriminazione” (parere reso dall’Autorità garante della concorrenza in data 11 dicembre 2013, sull’art. 31, comma 2, del d.l. n. 201 del 2011). La Corte Costituzionale dichiara, altresì, fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 18 L. Reg. Valle d’Aosta n. 5 del 2013 per violazione dell’art. 25 Cost., “il quale – data l’ampiezza della sua formulazione («Nessuno può essere punito […]») – può essere interpretato nel senso che ogni intervento sanzionatorio, il quale non abbia prevalentemente la funzione di prevenzione criminale (e quindi non sia riconducibile – in senso stretto – a vere e proprie misure di sicurezza), è applicabile soltanto se la legge che lo prevede risulti già vigente al momento della commissione del fatto sanzionato” (C. Cost. n. 196 del 2010). Più in generale, la Consulta ha affermato che dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo sugli artt. 6 e 7 della CEDU si ricava “il principio secondo il quale tutte le misure di carattere punitivo-afflittivo devono essere soggette alla medesima disciplina della sanzione penale in senso stretto” (C. Cost. n. 196 del 2010). EMF |
Inserito in data 19/04/2014 CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 16 aprile 2014, n. 99 Infondatezza della questione di legittimità costituzionale art. 5, c. 5 d.l. n. 78/2010 La Corte Costituzionale ritorna sull'infondatezza della questione di legittimità dell'art. 5, comma 5, del d.l. n. 78/2010 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, dalla Legge 30 luglio 2010, n. 122.
Il decreto in oggetto, ha introdotto il principio di gratuità di tutti gli incarichi conferiti dalle Pubbliche Amministrazioni ai titolari di cariche elettive inclusa la partecipazione ad organi collegiali La norma ivi in questione, è già stata espressamente qualificata, con sentenza n. 151 del 2012 della Corte Costituzionale, come principio fondamentale di “coordinamento della finanza pubblica”, riconducibile alla competenza legislativa dello Stato, ai sensi dell'art. 117, comma 3, della Costituzione. Si afferma, altresì, che “il comma denunciato introduce il principio di gratuità di tutti gli incarichi conferiti dalle indicate pubbliche amministrazioni ai titolari di cariche elettive (inclusa la partecipazione ad organi collegiali di qualsiasi tipo), in forza del quale i soggetti che svolgono detti incarichi hanno diritto esclusivamente al rimborso delle spese sostenute”. Secondo la giurisprudenza della Corte Costituzionale, a tale principio risponde anche la previsione che gli “eventuali gettoni di presenza non possono superare l'importo di 30 euro a seduta”. Dalla qualificazione della norma censurata come principio fondamentale di “coordinamento della finanza pubblica”, segue, dunque, l'infondatezza delle censure prospettate in riferimento agli art. 117, comma 3, e 119 della Costituzione. GMC |
Inserito in data 19/04/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 15 aprile 2014, n. 1828 In merito alla delibera di istituzione di nuove farmacie ex art. 11 del D.L. n. 1/2012 Il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, con sentenza n. 6615 del 19 giugno 2013, ha accolto il ricorso proposto dai due titolari di farmacie in Roma avverso la deliberazione della Giunta comunale di Roma n. 157 del 30 maggio 2012, recante revisione straordinaria per il 2012 della pianta organica delle farmacie di Roma Capitale con l’istituzione di 119 nuove sedi farmaceutiche, ai sensi dell’art. 11 del D.L. n. 1/2012 convertito in legge n. 27/2012, e in particolare delle nuove farmacie nn. 758 e 760. In primo grado, Il T.A.R. ha dapprima disatteso la eccezione di incostituzionalità di quella normativa che ha attribuito ai Comuni, e non più alle Regioni, il compito di individuare, sentiti l’A.S.L. e l’Ordine provinciale dei farmacisti, le nuove sedi farmaceutiche in base al nuovo parametro di una ogni 3.300 abitanti residenti (anziché 4.000, come in precedenza) sulla base dei dati I.S.T.A.T. al 31 dicembre 2010, non ritenendo sussistente nel caso in esame alcun concreto conflitto di interesse con la posizione imprenditoriale dei Comuni, titolari di farmacie comunali, e comunque irrilevante ai fini del decidere il caso all’esame. Ha quindi ritenuto fondata la censura di incompetenza della Giunta Comunale in materia, ritenendo che l’atto di istituzione e localizzazione di nuove farmacie costituisce esercizio di un potere del Comune di tipo “programmatico”, con riflessi sulla pianificazione e organizzazione del servizio farmaceutico nel territorio comunale Il Consiglio di Stato afferma che non può non uniformarsi all’ormai prevalente orientamento espresso in particolare proprio nelle ultime pronunce (da ultimo, n. 4669/2013 e la n. 4257/2013), che individua invece nella Giunta l’organo comunale deputato all’adozione del provvedimento de quo. Il Consiglio precisa che: “Dagli atti depositati, emerge che il Comune ha operato in corretta applicazione della nuova normativa, espletando la prescritta istruttoria con l’acquisizione dei pareri favorevoli dell’A.S.L. e dell’Ordine provinciale dei Farmacisti – che ha notoriamente la funzione di tutelare i propri iscritti quindi di interessi legittimi ma particolari assicurata proprio con la partecipazione al procedimento – nonché dei dati necessari per l’istituzione e l’ubicazione delle nuove farmacie, comprese quelle qui in contestazione, tenendo conto della specificità e delle caratteristiche del servizio pubblico da erogare e delle diverse aree del territorio comunale. Il Comune ha in proposito esercitato un’attività tecnico-discrezionale allo stesso spettante con scelte insindacabili in quanto immuni da manifesta irrazionalità o illogicità. A ben vedere, dunque, è la Giunta comunale ad esser competente ad adottare la delibera di istituzione di nuove farmacie, alla luce dell'art. 11 (Potenziamento del servizio di distribuzione farmaceutica, accesso alla titolarità delle farmacie, modifica alla disciplina delle somministrazione dei farmaci) del Decreto Legge n. 1/2012 cui s'è fatto riferimento. GMC
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Inserito in data 18/04/2014 CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE CIVILI, sentenza 11 aprile 2014, n. 8510 Conversione della domanda di adempimento in risoluzione e risarcimento del danno La questione affrontata dalle Sezioni Unite con la sentenza in esame è se il contraente fedele possa introdurre nel corso del giudizio la domanda di risarcimento del danno, ex novo e contestualmente al mutamento, consentito dall’art. 1453, secondo comma, cc, della originaria domanda di adempimento del contratto in quella di risoluzione del contratto inadempiuto. Le Sezioni Unite accolgono l’orientamento estensivo, per le seguenti ragioni. Anzitutto, secondo un argomento letterale, il secondo comma dell’art. 1453 cc nel fare “salvo, in ogni caso, il risarcimento del danno”, configura come possibile il cumulo tra la domanda rivolta ad ottenere lo scioglimento del contratto e l’azione risarcitoria. Dunque, non esclude che, in occasione dell’esercizio dello ius variandi, vi si affianchino pretese che hanno funzione complementare rispetto al rimedio base. Nello stesso senso depone l’interpretazione sistematica. Infatti, quando domanda la risoluzione, il contraente deluso ha interesse non solo allo scioglimento del vincolo, ma anche alla restituzione della propria prestazione e alla riparazione del pregiudizio sofferto. Precludere a chi abbia chiesto prima l’adempimento e poi la risoluzione di ottenere la tutela complementare restitutoria e risarcitoria vanificherebbe le finalità di concentrazione della tutela. Infatti, la vittima dell’inadempimento sarebbe costretta ad intraprendere un nuovo e separato processo per ottenere restituzione e risarcimento del danno. A ciò non sono di ostacolo né la circostanza che l’art. 1453, secondo comma, cc dovrebbe formare oggetto di stretta interpretazione, in quanto deroga al generale divieto di nova (che non consente l’ampliamento successivo del thema decidendum) né il fatto che la pretesa risarcitoria sia non solo nuova per petitum e causa petendi, ma anche non consequenziale a quella di risoluzione del contratto. Infatti, già nel passaggio, consentito dal codice, dall’adempimento dalla risoluzione l’indagine si allarga, dovendo essere diretta all’acquisizione di dati ulteriori (in particolare, la gravità dell’inadempimento). Ed inoltre, anche la tutela restitutoria (sicuramente consentita) può esigere l’acquisizione di dati che non sono disponibili nel giudizio. Pertanto, secondo il principio di diritto affermato, “la parte che, ai sensi dell’art. 1453, secondo comma, cc, chieda la risoluzione del contratto per inadempimento nel corso del giudizio dalla stessa promosso per ottenere l’adempimento, può domandare, contestualmente all’esercizio dello ius variandi, oltre alla restituzione della prestazione eseguita, anche il risarcimento dei danni derivanti dalla cessazione degli effetti del regolamento negoziale”. CDC
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Inserito in data 18/04/2014 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 16 aprile 2014, n. 1946 Giudicato di annullamento e sopravvenienze normative o di fatto La sentenza riguarda il tema, già affrontato dalle Sezioni Unite della Cassazione in sede di ricorso per eccesso di potere giurisdizionale del giudice amministrativo in sede di ottemperanza, dell’attuazione di un giudicato di annullamento di una procedura per il conferimento di un incarico direttivo, nel corso del cui giudizio l’istante sia stato collocato in quiescenza. In questi casi, la rinnovazione dell’attività amministrativa è inevitabilmente sottoposta alle sopravvenienze normative o di fatto, di cui il giudicato non ha potuto tenere conto. |